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  • Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

    Il Venerdì nero e il miracolo di Taurianova

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    «Mio fratello aveva vinto un viaggio-premio con la Findus, disse: vieni, mia moglie rinuncia, dobbiamo tirarci su. Andammo dunque a Rio de Janeiro: stavamo salendo verso il Cristo del Corcovado quando sentimmo alla radio la parola “Taurianova” E io mi sentii piccolo così».
    Negli anni ’90 la frase «Tanto si ammazzano fra loro» non prevedeva la presenza di innocenti.

    Il paese di don Ciccio Macrì detto Mazzetta, della sua Mercedes e dell’ospedale che sistemava tutti. Pertini che lo caccia via con un provvedimento senza precedenti, il consiglio comunale sciolto per mafia. E poi la faida, la Calabria buia, perduta, tribale. Oltre trent’anni dopo, è successo che alcuni parenti delle vittime – delle une e delle altre famiglie – hanno ideato e partecipato a un docufilm, presentato nella chiesa del Rosario. Persone da ascoltare – gente come noi, con gli occhiali, con i figli, ma bollati a vita – perché questo è un piccolo miracolo. Un segno di futuro, che va oltre la paura e il risentimento.

    Così hanno salvato i bambini delle faide 

    C’è una storia di quegli anni, rivenuta fuori da poco e raccontata anche da don Luigi Ciotti: a quel tempo, i bambini delle faide calabresi furono nascosti a casa di famiglie che si offrirono di crescerli, a rischio della vita. Quei bambini oggi sono uomini e donne salvate, magari hanno un altro nome, uno fa il musicista. Il male ha un appeal commerciale, il bene stufa: chi ha mai raccontato questa storia? Del resto viviamo in un paese in cui i libri noir sono più degli omicidi.

    Quel romanzo e la distruzione di una comunità

    Patria di Fernando Aramburu non è un noir ma una storia vera: letta, riletta, regalata. Parla del terrorismo dell’Eta nei Paesi Baschi, di innocenti ammazzati, di esistenze al buio e morti che camminano, di un sentimento che non è mai perdono, forse rimorso. Di posti chiusi, silenzi e omertà. Aramburu racconta la distruzione di una comunità, che è poi quello che accadde a Taurianova e ad altri paesi della Calabria. Con una rinascita che arriva all’ultima riga.
    Quindi, ecco il docufilm Il Venerdì nero: dopo trent’anni di silenzio che non sono passati invano. Insolita la location per la presentazione, ma girando per la Calabria, scoprirete che moltissime esperienze di riscatto, di lavoro e di resistenza partono da una molla, la fede. Non ci sono state solo processioni fermate sotto il balcone del boss, ma preti e, meno spesso, vescovi che si sono ribellati.

    Fu una faida feroce, i particolari macabri stanno dentro la letteratura della ‘ndrangheta e ne parlarono anche a Rio, come racconta il figlio e nipote di due vittime, oggi assessore. Ci furono decine di morti, fu colpita una ragazzina. La vendetta doveva arrivare ai figli dei figli, ai padri dei padri. Taurianova è più grande di Locri, ha il colore delle campagne. In certe strade senza nome ci si perde, ogni tanto il cippo di una Madonna e fiori finti, confini invisibili, e una varietà incredibile di case: esagerate, non-finite, dignitose. Ci sono tornato di recente per Agrifest, su invito di un gruppo di ragazzi conosciuti in un centro civico dove si fa formazione e accoglienza: lavorano per la buona e sostenibile agricoltura, prezzo giusto, salario giusto.
    Ma quanti anni sono passati, Taurianova? Nel ’91 per la mattanza scattò il coprifuoco.

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    L’articolo della Gazzetta del Sud sulla terribile strage di Taurianova, nota come il “Venerdì nero”

    Tutto quello che è rimosso, prima o poi riaffiora

    Il sociologo Mimmo Petullà, figlio di una vittima, dice nel film: tutto ciò che è rimosso, prima o poi riaffiora. «E non bisogna scadere nella commemorazione, lo scopo è quello di ricostruire una memoria collettiva. La ‘ndrangheta ha paura della memoria, ha bisogno di persone che non pensano». Dietro di lui, la foto del padre. I ragazzi del Pci appena diventato Pds scesero allora in piazza per dire basta, Giovanni Accardi dice: «Volevamo occupare il nostro spazio di giovani, non potevamo mettere la testa sotto la sabbia». Il Partito comunista aveva già i suoi martiri: Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Giannino Losardo.

    «Noi non ci vendicheremo»

    Il Venerdì Nero, un anno di lavoro, è firmato da Nadia Macrì, che è direttrice di Taurianova Talk, e dal cugino Filippo Andreacchio. Il loro nonno si chiamava Antonio Alampi e fu colpito alle spalle, nella campagna verso Polistena. «La sua storia ha segnato la nostra famiglia: era tornato a piedi a casa dalla guerra, aveva visto l’orrore. Non sopportava le armi. Due settimane dopo uccisero nello stesso luogo un’altra persona, ci è rimasta sempre in testa l’ipotesi che nonno Antonio fosse stato colpito per sbaglio». In chiesa, Vincenzo “Cecé” Alampi, suo figlio, si alzò in piedi per dire che no, loro non avrebbero reagito. «Andiamo avanti, non ci vendichiamo» disse. Poi è diventato direttore della Caritas diocesana. Oggi aggiunge: «Non siamo rimasti intrappolati dalle ragioni del passato».

    Nadia Macrì era bimba a quei funerali e da allora le ronza in testa quella frase di Peppino Impastato: «La mafia è una montagna di merda». Forse questo film è una forma di perdono? «Nessuno ce lo ha mai chiesto. Più che perdonare, mi viene in mente il verbo ricominciare».
    La voce della cronaca nera è di un carabiniere, il maresciallo maggiore Salvatore Barranco, che guida la caserma della cittadina. L’elenco dei morti è speculare a quello di chi è finito in carcere, di chi si è pentito. «Nessuno ci ha detto no» – commenta Nadia Macrì: «Si sono fidati tutti».
    Angela Napoli, parlamentare del centrodestra che finì sotto scorta per le sue denunce, ricorda che allora non si parlava di criminalità nelle scuole: la consapevolezza arrivò dopo le stragi del ’92. Ma Taurianova è stata più lenta di altri paesi.

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    Angela Napoli, ex parlamentare del centrodestra e membro della Commissione Antimafia

    Quel giorno mio padre doveva andare dai professori

    Massimo Grimaldi, assessore alla Legalità e allo spettacolo di una giunta in teoria leghista – per l’influenza dell’ex presidente regionale facente funzione Nino Spirlì – in pratica ormai civica, non trattiene le lacrime. «Fecero uscire mio padre e mio zio dal negozio, fu un’esecuzione. Quel giorno papà doveva andare al colloquio con i professori. Se sai che ha sbagliato, pensi: se l’è cercata. Non ho nemmeno questa consolazione».
    C’è il viceparroco di Rosarno, don Giovanni Rigoli, che ha fatto la tesi sullo scioglimento dei comuni per mafia. Ricorda l’arciprete Muscari-Tomaioli, che stampò un manifesto dirompente e coraggioso: «Fermatevi e siate maledetti da Dio. Io non vi conosco, ma con quale coraggio vi dichiarate fedeli della Madonna della Montagna, se non risparmiate nemmeno una bambina di tredici anni». La Madonna di Polsi, la devozione e “Il Crimine”, citata in mille ordinanze.

    Alla proiezione mancava il sindaco

    Alla proiezione non c’era proprio tutto il paese, ma quasi: mancava il sindaco, c’erano tutti gli assessori, maggioranza e opposizione, le associazioni, di sicuro qualcuno non è venuto perché ha già versato troppe lacrime, il vescovo ha mandato un messaggio. Ma la chiesa del Rosario era piena, Nadia è stata felice di vedere tanta gente. In molti non avranno dormito, una carrellata di facce sarebbe stata una bella scena per il film, che presto sarà disponibile su YouTube. Merita di finire in qualche Festival, non è solo la storia di Taurianova ma di anni dominati dalla paura e dal dolore, di certi nostri fantasmi. E di una nuova generazione che non ne vuole avere più.

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    La proiezione del docufilm nella chiesa del Rosario a Taurianova
  • Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

    Cittadini fai da te: la Massa adotta il suo museo

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    «Io sono affidabile», risponde un personaggio del film premio Oscar La Grande bellezza, a chi si meraviglia del fatto che possiede le chiavi dei palazzi nobiliari. Nel rione Massa si racconta che anche la sede cosentina della Banca d’Italia di metà Novecento scelse un uomo probo per aprire la cassaforte. Proprio come il misterioso custode di Roma inventato da Paolo Sorrentino.
    Era un abitante della Massa, gran signore e proprietario di uno storico mulino ad acqua sulla sponda del fiume Crati. «Don Luigi Leonetti custodiva la seconda chiave del caveau», ricorda la gente del quartiere. «Apriva e chiudeva ogni giorno insieme con il direttore».

    Il museo seconda casa degli abitanti della Massa

    C’è un gran via vai al Museo dei Brettii e degli Enotri. È diventato una casa per gli abitanti del rione. Lo hanno inaugurato nel 2009, nel quattrocentesco complesso monumentale di Sant’Agostino. Una struttura restituita alla città e, negli anni, diventata polo culturale e sociale. Residenti e nativi si ritrovano nel chiostro arioso e mistico, in questo grande scrigno di reperti preistorici e dell’età dei metalli. «Tra il Museo e il quartiere c’è una bella alleanza», dice la direttrice, l’archeologa Marilena Cerzoso.

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    La direttrice Marilena Cerzoso mostra gli atti di morte dei fratelli Bandiera

    Gli abitanti collaborano alle iniziative, ricostruiscono il puzzle della memoria, masticano storie e radici. Nella notte dei musei hanno fatto da guida ai visitatori e spesso promuovono passeggiate nei vicoli. È tutto documentato sul gruppo Facebook Kiri da Massa, creato da Mario Zafferano, promoter di questo recupero d’identità.

    Hanno anche un presidente, l’ingegnere Franco Mauro che adesso abita nella città nuova, ma alle iniziative, ai convegni, alle inaugurazioni di mostre, partecipa con tutta la granitica memoria di piccole e grandi storie. Ricorda, ad esempio, il ritorno dei soldati dal secondo conflitto mondiale, perché il complesso di Sant’Agostino, tra le tante vite che ha avuto, è stato anche rifugio per gli sfollati. «Ero molto piccolo ma la scena mi è rimasta impressa: un giovane tornato a casa dal fronte, stanco, sporco. Si è levato la maglia e sul pavimento ho visto cadere un tappeto di pidocchi».

    Ritorno in Massa cercando le origini

    Fino a qualche anno fa arrivavano persone in cerca di un pezzo d’infanzia. Cercavano la stanza dove dormivano i genitori, l’angolo in cui si mangiava tutti insieme. Erano gli ex piccoli sfollati del complesso di Sant’Agostino.
    All’epoca era il rione dei pignatari (gli artigiani cosentini della terracotta). “Massa” perché nel ’700, spiega Paolo Veltri, ex preside della facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria che nel quartiere è cresciuto, «vennero erette delle barriere di protezione per limitare i rischi di inondazione derivanti dalle piene del Crati». Ecco l’origine del nome.

    Massa: il rione di Suor Elena Aiello

    Nei vicoli è rimasta l’eco delle sirene delle fabbriche, del vociare delle cantine, dei passi di frati, preti e suore. Dagli agostiniani, alle canossiane, a don Maletta, parroco di San Gaetano che ha costruito pezzetti di dna del rione.

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    A sinistra nella foto, la beata Elena Aiello

    Erano le strade percorse in lungo e in largo anche da Suor Elena Aiello, ‘a monaca santa, figura cult per il popolo bruzio, fondatrice della Congregazione delle Suore Minime della Passione, beatificata nel 2011.
    La storia della Massa è un romanzo dalla trama fitta, una saga di luoghi e persone à la Balzac .

    Cantine e patrioti

    «Ci ho vissuto dai 9 ai 21 anni. Sono andata via quando mi sono sposata e poi sono tornata per sempre. È l’unico luogo dove desideravo mettere radici. Ho ritrovato tanti amici». Rita Ritacco, badante, conosce ogni pietra e ogni famiglia. «Ho comprato una casa e se un giorno farò soldi – ride – ne comprerò un’altra per i miei figli».
    Ha fatto la stessa scelta Giancarlo Spinelli, imprenditore edile. «Sono tornato ad abitare nel mio quartiere d’origine, con mia moglie e i miei figli, quando ho ereditato casa dai miei nonni». Suo padre era una celebrità, tra la gente del posto: Natale Spinelli, proprietario di una cantina. Si beveva vino artigianale mixato alla gassosa prodotta nella vicina fabbrica di Giovannino Gallo.

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    Carte, vino e gassosa in una storica cantina della Massa

    Un’altra cantina mitica del passato era quello di Franchino Perrelli, oggi bar dei Fratelli Bandiera, dedicato a due figure storiche del cuore in questo lembo di città, per via del loro sacrificio in nome dell’Unità d’Italia. L’ara di Attilio ed Emilio Bandiera è nel Vallone di Rovito, dove furono fucilati, dopo un tradimento, il 25 luglio del 1844. Era meta di gite scolastiche, scenario di cori italici e manifestazioni, ma oggi vive lunghi periodi di abbandono. Sono stati gli stessi abitanti, insieme all’associazione Plastic Free, a ripulirlo recentemente, in 15 giorni. Gli atti di morte dei fratelli sono conservati nella sezione Risorgimento.

    Un forte senso di appartenenza

    Gli abitanti della Massa puliscono il Vallone dei fratelli Bandiera

    «Oggi il museo è il nostro gioiello e la direttrice è una persona speciale», dice Giancarlo Spinelli. Marilena Cerzoso è anche lei custode «affidabile», guida di un museo archeologico e inclusivo. «Ho un doppio legame con la Massa, personale e professionale. Sono tornata nei luoghi di cui ho sempre sentito raccontare dai miei genitori. – spiega. – Mia madre è cresciuta nel quartiere limitrofo della Garruba e insieme a mio padre ha vissuto la sua giovinezza nel gruppo scout di San Gaetano, sotto la guida del mitico don Luigi Maletta. Quindi essere tornata nei luoghi dei racconti della mia famiglia è per me motivo di grande gioia e commozione». Il fatto «di aver trovato un quartiere accogliente, che ha un forte senso di appartenenza – continua,- mi dà tanta forza e mi stimola nel fare sempre meglio per la valorizzazione del territorio».

    Remo Scigliano ha un bazaar. Fai un nome del passato e lui risponde con numeri: il civico, l’anno di nascita, date importanti della vita del personaggio citato. Ha lavorato «oltre trent’anni alle poste e telegrafo», anche lui è una risorsa preziosa per unire i fili del passato a quelli del presente. Il suo negozio è in fondo alla scalinata di Sant’Agostino.
    Davanti alla chiesa ci sono sempre gruppi di bambini che giocano a pallone. Hanno imparato. Appena vedono un visitatore in fondo alla scalinata fermano il Super Santos con un piede e aspettano che passi.

    Rita Ritacco e Giancarlo Spinelli

    «Anche io da piccolo giocavo sul sagrato, ma con le palle di pezza». L’ingegnere Mauro è nato nel palazzo accanto alla chiesa. «Una costruzione fatta da mio nonno nel 1910. Ecco – la indica, oltre un minuscolo davanzale con rose rosse rampicanti – quella era casa mia. Oggi si chiama via Viapiana, ma per noi rimane il Puzzillo». Accanto a lui il professore Veltri. Guardano verso l’ex Puzzillo e il piccolo davanzale sembra il colle dell’Infinito di Recanati.

    I confini

    La Massa confina con lo Spirito Santo, con Casali, con il vecchio tribunale di Colle Triglio, oggi Palazzo Arnone, che ospita la Galleria d’arte nazionale. Un itinerario breve e vertiginoso.
    «Sul lungo muretto di collegamento con lo Spirito Santo, fino alla metà degli Anni ’60, si giocava la tombola dei due quartieri ogni domenica, anche quando le giornate erano piovose», ricorda Veltri, che con Ugo Dattis ha scritto un libro, Sertorio a quattro mani, pubblicato dalla Pellegrini, dedicato alla città vecchia.

    Franco Mauro e Paolo Veltri

    Sono scanditi dai suoni i ricordi del passato. «L’orologio del vecchio tribunale, le campane della chiesa, – racconta Franco Mauro. – E poi suonava la sirena della fabbrica delle piastrelle in cemento Mancuso e Ferro, l’ingresso degli operai, alle sette, e l’uscita, alle quattro del pomeriggio».
    I nativi e gli abitanti della Massa sono raccoglitori di storie. «Se non ci fosse stato lo stimolo del Museo dei Brettii e degli Enotri. – conclude Paolo Veltri, – tutti i nostri ricordi si sarebbero dispersi nei vicoli».

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    Uno scorcio del rione Massa (foto Mario Magnelli)

    (Le foto nell’articolo sono di Concetta Guido e del gruppo Fb “Kiri da Massa”. Ringraziamo per l’autorizzazione all’uso delle immagini)

  • Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

    Rendano torna a casa: un festival per omaggiare la sua musica

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    Al via la seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano”, tre serate di musica che si svolgeranno a Cosenza, a Villa Rendano, dal 20 al 22 giugno.
    L’iniziativa, ideata e promossa dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani, è diretta da Daniela Roma, musicista calabrese residente negli Usa e massima interprete mondiale della musica di Rendano.

    Perchè un festival dedicato ad Alfonso Rendano

    Alfonso Rendano è stato il musicista calabrese più influente di tutti i tempi. Pianista di enorme talento e di grandi capacità tecniche, è il protagonista di una vicenda artistica di livello mondiale.

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    Alfonso Rendano

    Al riguardo, anche i non esperti di musica classica, legano il suo nome almeno a un’innovazione tecnica importantissima: il terzo pedale del pianoforte.
    L’avventura artistica di Rendano inizia precocemente a Carolei, il paese alle porte di Cosenza, dove nasce nel 1855.
    Nono di dodici figli, il piccolo Alfonso stupisce i compaesani coi primi brani suonati “a orecchio” sulla spinetta della chiesa. Da qui allo studio vero e proprio della musica, il passo è stato breve.

    Da Cosenza a Napoli

    A soli nove anni, il piccolo Alfonso sostiene brillantemente l’esame di ammissione al Regio collegio musicale di San Pietro A Maiella (Napoli).
    Lì si fa stimare dal direttore Saverio Mercadante e diventa allievo di Sigismund Thalberg, che lo presenta a uno dei massimi compositori europei dell’epoca: Gioacchino Rossini. Quest’ultimo gli fa ottenere una borsa di studio governativa, che apre al giovane pianista le porte dell’Europa che conta. A partire da Parigi.

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    Daniela Roma in azione al pianoforte

    Un virtuoso in giro per l’Europa

    Nella capitale francese il giovane pianista si specializza con Georges Mathias, allievo a sua volta di Fryderyk Chopin.
    Fa il pieno di successi e parte per una tournée in Inghilterra, dove resta per tutto il 1870.
    Poi torna nel Continente, per la precisione a Lipsia, dove continua a specializzarsi.
    Rientra in Italia nel 1874 e si dedica ai concerti. Fa frequenti puntate all’estero, soprattutto a Vienna, dove fa amicizia con Franz Listz. Proprio assieme a Listz, Rendano esegue alla Corte granducale di Weimar il suo Concerto per pianoforte.

    In Italia e poi in Calabria

    Nel 1880, Rendano sposa la pianista milanese Antonietta Trucco, da cui ha tre figli.
    Si dedica ai concerti e all’insegnamento. E, nel 1886, ottiene la cattedra al Conservatorio di Napoli, che abbandona poco dopo in polemica con l’estabilishment dell’epoca.
    Nel 1892 rientra a Cosenza per risolvere i problemi economici della sua famiglia e si dedica alla composizione. Risale a questo periodo Consuelo, la sua opera lirica tratta da un romanzo di George Sand su libretto di Francesco Cimmino.
    Poi, nel 1901 si sposta a Napoli e, da lì, nella Capitale, dove risiede stabilmente fino alla morte, avvenuta nel 1931.
    Tiene il suo ultimo concerto al Teatro Valle di Roma nel 1925.

    Festival Rendano: apre Leslie Howard

    La seconda edizione del Festival internazionale “Alfonso Rendano” inizia il 20 giugno alle 20 con il concerto di Leslie Howard, pianista, compositore e musicologo australiano.
    Howard è famoso per essere l’unico pianista ad aver inciso tutta la produzione di Franz Listz. Questo progetto musicale ha avuto finora trecento anteprime mondiali.

    Parla il pronipote, suona il Duo Resonance

    La serata del 21 giugno è dedicata ai compositori calabresi. Si inizia alle 19 con un dialogo tra Marco Ruffolo, giornalista di Repubblica e pronipote di Alfonso Rendano, e Daniela Roma, la quale suonerà alcuni brani del celebre artta.
    Seguirà, alle 20, il concerto del Duo Resonance, composto dal soprano Teresa Cardace e dalla pianista Angela Floccari.

    Festival Rendano: chiude il Trio Dmitrij

    Protagonista della serata conclusiva (22 giugno), il Trio Dmitrij, composto da Henry Domenico Durante (violino), Francesco Alessandro De Felice (violoncello) e Michele Sampaolesi (pianoforte).
    Tutti gli artisti eseguiranno, nei loro repertori, dei brani di Alfonso Rendano, in omaggio al padrone di casa.

    È possibile acquistare i biglietti presso Inprimafila o direttamente a Villa Rendano.

  • L’artista e il calciatore: la cultura che fa rete a Cosenza

    L’artista e il calciatore: la cultura che fa rete a Cosenza

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    L’artista e il calciatore. Potrebbe essere il titolo di una canzone di De Gregori ma lui ci avrebbe stracciati con la fantasia.
    La coppia mica tanto per caso è composta da Adele Ceraudo e Franco Florio. Lei performer che ha fatto del disegno con la Bic e dell’uso espressivo del corpo una cifra stilistica unica. Lui ex giocatore prima del Cosenza, poi del Monza e del Treviso, e ora allenatore e imprenditore.
    Entrambi cosentini, li ha fatti incontrare la passione per l’arte. Insieme hanno creato un nuovo spazio nella città dei bruzi: Ac, galleria e laboratorio dell’artista (unici nel Mezzogiorno) con l’ambizione di diventare anche centro culturale e punto di riferimento per artisti che vivono, operano o transitano all’ombra dell’elmo.

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    Opere di Adele Ceraudo in mostra nella galleria Ac

    Florio: allenatore e collezionista

    La loro amicizia è nata sulla scorta della bellezza. «Mi sono innamorato delle opere di Adele, sono davvero potenti», racconta Florio, che ha da poco concluso l’esperienza di coach del Miami United Fc.

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    Franco Florio (primo da sinistra) con la maglia del Cosenza sfida la Lazio di Pavel Nedved in Coppa Italia

    Ora è vice allenatore del Crotone e gestisce un’impresa di costruzioni. Così innamorato che è diventato un collezionista dell’artista che vive e lavora a Milano.
    Alcuni dei disegni di “Lady Bic” hanno arricchito la collezione privata dell’atleta, che ha ricavato una galleria-atelier nel magazzino di un palazzo di famiglia, su corso Umberto, parallelo a via Rivocati. «Fin da bambino adoro andare nei musei e alle mostre, vedere opere d’arte, conoscere artisti. Ho una passione per le cose belle. Mi piace conoscere gli artisti e parlare d’arte con loro. Questo ti dà la possibilità di vedere le cose dal suo punto di vista e questo mi emoziona».

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    Adele Ceraudo e Franco Florio

    I corpi femminili e la censura

    Il punto di vista di Adele Ceraudo è estremamente femminile. Modella di sé stessa, il suo corpo è la matrice su cui compone opere di grande espressività. «Il corpo è il luogo della memoria, delle nostre cicatrici. Per me è il vero specchio dell’anima, dice esattamente chi siamo. Credo che il corpo sia non solo un tempio ma anche una forma di racconto». Così prosegue Ceraudo, che è stata ambasciatrice dell’arte italiana a Melbourne e ha esposto all’estero, oltre che in Australia, in Turchia, Giappone e Spagna.
    Al centro della sua arte sono la bellezza, appunto, e la forza femminile, che approdano su diversi supporti partendo dalle foto (di cui Ceraudo è interprete), passando per il disegno a inchiostro e poi attraverso la stampa digitale.

    Un nudo di Adele Ceraudo

    I soggetti sono spesso reinterpretazioni in chiave femminile di opere famose, molte rinascimentali (La David o La Donna vitruviana), anche d’ispirazione biblica (La Crista).
    Corpi molto realistici e potenti, spesso incappati nelle maglie della censura. «A Roma ho dovuto rinunciare ad una mostra importante perché la Crista non era gradita. In una mostra a Napoli mi hanno censurato alcune opere di natura biblica, oltre alla Crista, la Pìetas. Poi la censura sui social network è abbastanza talebana: io faccio nudi e mi bloccano continuamente per i capezzoli. Devo sempre metterci sopra le crocine».

    Ceraudo: l’arte come medicina

    «La mia arte è un modo per dire che le donne sono forti, che i loro corpi sono sacri», spiega Ceraudo, che usa la sua arte non solo come mezzo di comunicazione ma soprattutto come terapia.
    Disegnare è stato il suo modo per trasformare il dolore. Abusata da bambina, bullizzata a scuola, ha fatto entrare la droga nella sua vita. Impugnare la Bic e diventare artista è stata la sua rivincita sulla vita. Adele non ha dubbi: «L’arte è stata la mia medicina». Ma anche un atto di fiducia verso sé stessa: «In comunità, dopo l’ennesima ricaduta, circondata da uno staff di medici molto bravi, mi sono detta: sono un’artista e sono brava».

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    Adele Ceraudo in azione con la sua Bic

    La fiducia si è nutrita dell’inchiostro più pop che esista. La scelta della Bic è avvenuta un po’ per caso, un po’ per necessità. «Ho iniziato a usarla perché era in casa. Ma anche perché l’inchiostro è sempre stata la mia passione, infatti adoro i fumetti. E poi la penna Bic è versatilissima: a seconda di come la inclini fa delle sfumature belle e delicate o dei segni incisivi, marcati e potenti». Poi è arrivato l’uso della fotografia: «Un giorno ho chiesto a una mia amica fotografa, Ivana Russo, di farmi delle foto. Mi piaceva l’idea di trarre un disegno da una foto, non mi piace avere il modello dal vivo, mi piace poter vedere le ciglia, i pori della pelle, dettagli che si possono vedere solo con una fotografia». Così, nel 2007 è nata la sua prima collezione: L’anima del corpo.

    Un centro culturale per i Rivocati

    Nello Spazio Ac di Cosenza campeggia un’enorme Paolina Borghese col corpo di Adele e altre opere celebri dell’artista, esposte nella sala mostre e acquistabili.
    Sul retro, il laboratorio dell’artista con tele in lavorazione (a luglio esporrà a Palermo alcune opere inedite nate durante il lockdown).
    Il centro, nel mese di giugno aprirà solo su appuntamento. In seguito (ancora non c’è un calendario definito) vi si svolgerà una serie di iniziative. «Una o due volte al mese organizzeremo eventi come presentazioni di libri, mostre fotografiche», spiega Florio, che ha già qualcosa e qualcuno in mente.

    La sede di Ac

    Il fotografo Francesco Bozzo, per esempio, cosentino che vive e lavora da 27 anni in Australia, sta per ultimare un libro fotografico sul centro storico di Cosenza. Ma i costi della stampa sono troppo gravosi e la casa editrice indipendente Coessenza (che ha da poco aperto una sede nello stesso quartiere dei Rivocati) a breve lancerà una campagna di crowdfunding. Poi si vedrà.

    In zona c’è anche l’artista Andrea Gallo, con la sua Officina Ovo, scuola d’arte e centro indipendente di promozione delle arti visive. Poco distante i gemelli Tucci, musicisti dei Lumpen, gestiscono un’osteria. «Vogliamo fare rete con altri artisti, vorremmo che Spazio Ac diventasse anche un punto di incontro». Sempre con un occhio al quartiere, che ospita anche l’atelier di un’altra artista, Luigia Granata e la sede di Tecne, studio musicale di Costantino Rizzuti. «È una zona bellissima, ormai considerata periferica eppure centralissima. Qui è cresciuto mio padre, ci sono molto legato», racconta Florio. Il quartiere dei Rivocati vuole rinascere. Bello che sia, anche, nel nome dell’arte e della cultura.

    Simona Negrelli

  • Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

    Calabria da cinema: Anita Ekberg e quel processo a Castrovillari

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    Negli anni Cinquanta si assiste in Calabria a un grande successo del cinema. Già durante il fascismo i calabresi andavano in massa a vedere i film che si proiettavano nelle piazze: gli operatori dell’Istituto Luce arrivavano con un furgone, sistemavano un telone bianco sulla facciata di una casa e proiettavano pellicole di propaganda del regime. Nel dopoguerra le sale cinematografiche erano sempre affollate e molti spettatori, a volte costretti a stare in piedi, visionavano una pellicola anche due o tre volte.

    Il cinema sbarca in Calabria

    Nell’inverno del 1949 a San Giovanni in Fiore fu girato Il lupo della Sila e per diversi giorni gli abitanti ebbero occasione di vedere attrici e attori famosi come Vittorio Gassman, Amedeo Nazzari e Jaques Sernas. La simpatia e le attenzioni dei giovani sangiovannesi era tuttavia rivolta alla bellissima Silvana Mangano, la star reduce dallo straordinario successo di Riso amaro. Il film, diretto da Coletti, su soggetto di Steno e Monicelli, voleva avere una impronta realista e una sensibilità etnografica. In realtà, però, si tratta di un cupo melodramma che ripropone l’immagine del calabrese geloso e vendicativo e tradizioni popolari inventate come la gara del taglio degli alberi.

    Dalla Sila all’Apromonte

    Il lungometraggio ebbe un discreto successo e l’anno seguente Ponti e De Laurentiis producono Il brigante Musolino. Dalla Sila si passa all’Aspromonte ma i temi che caratterizzano la nuova pellicola sono gli stessi della precedente. Il protagonista personifica i caratteri stereotipati del calabrese: forte, spietato, violento, vendicativo e sanguinario. I delitti del romantico giustiziere si susseguono, lo scenario sociale è assente e il brigante si pone al di fuori della sua comunità, vittima di stato, mafia e chiesa. Calabresella viene cantata sia al matrimonio che durante la vendemmia.

    I calabresi come barbari

    Il lupo della Sila e Il brigante Musolino fornivano un’immagine negativa dei calabresi: genitori che per interesse sacrificano le figlie, gente che tradisce per paura e interesse, giovani irruenti, passionali e pronti a prendere il fucile per qualsiasi controversia e difendere l’onore della famiglia. I film, tuttavia, non suscitarono proteste e solo alcuni cortometraggi come Calabria segreta di Vincenzo Nasso furono aspramente criticati. Giornalisti e intellettuali calabresi rimproverarono al regista di avere rappresentato una immagine falsa della regione.

    Miceli scriveva che, dopo aver visto il documentario prodotto dalla Rai, era rimasto molto deluso e amareggiato. Si trattava di un film di «pessimo gusto» che rivelava una spaventosa ignoranza della regione. Il regista «supercivile», con duelli feroci e balenio di coltelli, presentava i calabresi come barbari, ignorando che la Calabria non era stata patria del banditismo e che il popolo era buono e laborioso, semplice e onesto, amante della famiglia, della casa e della patria. Anche la “Baronessa scalza” criticava su un giornale cosentino il cortometraggio definendolo una produzione cinematografica «nauseante» per aver presentato i calabresi come feroci e primitivi.

    L’altro cinema in Calabria

    Non tutti i cineasti condivisero le scelte dei grandi produttori cinematografici. Negli anni Cinquanta alcuni registi realizzarono documentari sulla realtà economica, sociale e culturale della regione. I calabresi e la Calabria si prestavano bene a tradursi in forme artistiche e alla sperimentazione cinematografica. Pescatori che cacciavano il pescespada con tecniche millenarie in un mare azzurro e trasparente, fedeli che si flagellavano con pezzi di vetro spargendo sangue lungo i vicoli dei paesi e donne che raccoglievano olive ai piedi di alberi secolari avvolti dalla nebbia, erano soggetti e luoghi ideali per girare un film.

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    Roma, l’ingresso degli studios di Cinecittà

    I contadini segnati dalla fatica e ammantati con panni consumati dal tempo, apparivano più interessanti di attori del grande cinema dalle facce regolari e vestiti con abiti inamidati provenienti da atelier; i paesi e le case abbarbicati su luoghi aspri e inospitali, le campagne arse dal sole, le montagne coperte da boschi impenetrabili erano più avvincenti dei paesaggi freddi e irreali costruiti negli studios di Cinecittà.

    I documentari e la cura per le immagini

    Alcuni registi erano affascinati da quella regione che ai loro occhi appariva come un luogo mitico, dove la natura era incontaminata e dove gli uomini vivevano in maniera semplice. Erano attratti da quella terra arcaica e spesso eliminavano ogni riferimento al reale che potesse inquinare il pathos della pellicola. A volte ricostruivano i rituali con attori di strada per renderli più spettacolari e drammatici. Lo stesso De Seta, il più bravo e originale tra i documentaristi, nel cortometraggio I dimenticati, per riprendere la festa dell’albero ad Alessandria del Carretto, chiese ai paesani di ricostruire alcuni momenti del rito.

    Gli autori dei documentari filmavano la Calabria che avevano già in mente. Puntavano su immagini suggestive che suscitassero meraviglia e catturassero l’attenzione degli spettatori. Accompagnavano le sequenze con voci declamatorie. Utilizzavano colonne sonore per drammatizzare le scene. Davano al montaggio un senso di ansioso reportage. Eliminavano tutto ciò che era ritenuto scarsamente cinematografico. Erano particolarmente attenti alle inquadrature e alla cura della fotografia. Le immagini “dovevano parlare da sole”. In un fotogramma o in una sequenza dovevano essere rappresentati cultura, passioni e lavoro di un popolo.

    La Calabria onirica al cinema corto

    Spesso finivano per creare un’atmosfera onirica, fatta di volti e gesti antichi, sguardi immobili, luoghi irreali e selvaggi. Immagini belle sul piano filmico ma inventate e astoriche. I registi del “cinema corto” documentavano il reale ma al tempo stesso ne offrivano una visione lirica, cinematografica nel senso classico. Esigenze estetiche li spingevano a vedere solo la parte arcaica della Calabria e a ignorare quella che si stava trasformando per effetto della modernizzazione. Preoccupazioni stilistiche li spingevano a disinteressarsi dei forti cambiamenti che si verificavano nelle campagne, a non tenere conto del fatto che la logica del profitto stesse annullando le diversità culturali, a sottovalutare il senso di sradicamento presente in larghi strati della popolazione, a non vedere che la cultura dei calabresi si stava trasformando.

    Qualcuno criticò tali documentari ricordando che la Calabria non era una terra semplice in cui gli uomini si accontentavano di mangiare e dormire, dove vigeva la logica della sopravvivenza, dove non c’erano momenti in cui il superfluo vinceva sul necessario, dove c’era una cultura collettiva fissata nel tempo a cui tutti si omologavano.
    I registi di documentari e cortometraggi ebbero comunque il merito di rifiutare trionfalismo, conformismo ed etnocentrismo con cui i colleghi del grande cinema avevano ripreso e riprendevano la Calabria.

    Antico vs Moderno

    Nelle loro pellicole non si vedono i volti felici di contadini che mietono il grano dei cinegiornali, ma visi scavati dalla fatica e dal sole; non più campagne ridenti e fertili, ma terre spaccate dall’arsura e allagate dai fiumi; non più paesi pittoreschi abbarbicati su incantevoli paesaggi, ma centri urbani fatiscenti e abbandonati all’incuria del tempo. Contadini, pescatori, pastori e artigiani, nei loro filmati appartengono a un mondo millenario dove l’agire quotidiano è fatto di gesti uguali e ripetitivi, gente anonima che lavora silenziosamente nella lotta per l’esistenza in una natura straordinariamente bella, ma spesso aspra e violenta, amara e ingrata.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina Facebook “Calabria Fotografia Sociale”)

    Nei cortometraggi i registi riconoscevano alle classi subalterne una dignità culturale che veniva denigrata da un vecchio meridionalismo e ignorata da un modernismo imperante. Scarsamente attratti dalla religione del progresso, si schieravano con la gente povera del Sud che pagava più di ogni altro il processo di modernizzazione. Proponevano col loro cinema una lettura etica e umanista della Calabria e dei calabresi, una visione che si contrapponeva a quella di intellettuali e politici che pensavano ad una rinascita della regione attraverso la distruzione della mentalità arcaica e retriva dei suoi abitanti.

    Pasolini e le critiche

    Nel dopoguerra tra molti calabresi si avvertiva una forte insofferenza nei confronti di una parte dell’opinione pubblica italiana che tendeva a presentare la regione come una terra arretrata. Nel 1959, in occasione di alcune dichiarazioni di Pier Paolo Pasolini sui calabresi, molti insorsero con commenti durissimi. Un giornalista scriveva che avrebbe voluto «sputare» sul volto dello scrittore il più profondo rancore e risentimento per le «espressioni bassissime» da lui rivolte alla sua gente.

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    Pasolini a Crotone

    La sua «sfacciataggine» era odiosa e, più che una risposta polemica, avrebbe meritato quattro poderosi calci «con le scarpe chiodate» di quei robusti boscaioli della Sila che «stillavano sudore e sangue per la quotidiana lotta di un tozzo di pane nerissimo». Il popolo calabrese era il più educato e il più generoso dei popoli, «ma guai a chi avesse cercato di calpestargli i calli!». Un altro periodico pubblicava la lettera aperta di un lettore che accusava Pasolini di avere usato nei confronti della Calabria le solite frasi «trite e ritrite» di chi è prevenuto: gli uomini della regione erano sani e belli e le donne erano abbronzate, efebiche, belle e affascinanti! .

    Il Rally del cinema: la Calabria sulla stampa nazionale

    Nello stesso anno, un fatto accaduto a Castrovillari suscitò un vivace dibattito sul “carattere” dei calabresi. Il 25 giugno, in occasione del Rally del cinema (gara automobilistica definita Mille miglia delle stelle), il marchese Gerini, con a bordo Anita Ekberg, durante una sosta presso un distributore di benzina, infastidito dalla folla che faceva ressa per ammirare da vicino la “Venere di ghiaccio”, ripartiva a forte velocità travolgendo venti persone. Secondo la stampa nazionale, il marchese, impaurito dai giovani che avevano perso letteralmente la testa per la diva svedese, partì con la Lancia Flaminia cercando di farsi largo tra la folla e mettersi in salvo. In una corrispondenza di Paese Sera si legge che, in ogni paesino della Calabria, folle di giovani assalivano puntualmente le macchine del rally prendendo gli equipaggi «a pacche, pizzicotti e sganassoni».

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    Eleonora Ruffo in posa sul balcone della sua casa romana (foto Archivio Istituto Luce)

    Si trattava di gente analfabeta e ignorante che perdevano la ragione di fronte a bellissime bionde come Eleonora Ruffo, che per il caldo sollevava le gonne ad altezze vertiginose! In realtà, secondo alcuni giornali locali, i giovani avevano mostrato solo un eccessivo entusiasmo per la Ekberg e qualcuno di loro aveva sputato e urlato contro Gerini dopo che questi li aveva insultati con gesti volgari e parole offensive. I castrovillaresi non erano selvaggi assatanati ma gente civile e ospitale: ragazze in costume tradizionale avevano accolto gli equipaggi con fiori e sorrisi e l’amministrazione comunale aveva offerto un pranzo a base di pollo arrosto e ottimo vino.

    Anita Ekberg e il processo a Castrovillari

    L’anno seguente, il 12 maggio 1960, Anita Ekberg, la celebre diva del cinema «dai capelli biondo-cenere e dalla pelle madreperlacea» che «camminava quasi sempre a piedi nudi e usava il reggiseno solo quando andava a cavallo», giunse in Calabria per testimoniare al processo contro Gerini. Quando scese dalla macchina davanti al tribunale di Castrovillari una folla di gente, in attesa da ore, l’accolse con un forte applauso. L’attrice, vestita elegantemente nella sua princesse nera con stola di visone selvaggio scuro, fu circondata da decine di fotografi e giornalisti.

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    Anita Ekberg in aula nel Tribunale di Castrovillari

    In aula, alla richiesta del Presidente della Corte di dichiarare la sua età, l’attrice rispose che quella non era una domanda da rivolgere a una donna. E, nella deposizione, scagionò il marchese dichiarando che i giovani erano diventati così invadenti da sedersi sul cofano della macchina. Disse, inoltre, che alla sua camicetta non mancava alcun bottone e che quel giorno era vestita come una collegiale: gonna e camiciola a maniche lunghe. Durante il processo, il presidente della corte fu costretto a far sgomberare l’aula per il clima esagitato. La deposizione della Ekberg fu persino oggetto di una interrogazione dell’onorevole Migliori al ministro di Grazia e Giustizia nella quale si chiedeva se, come attestato da foto comparse su giornali e rotocalchi, l’attrice si fosse presentata con abiti e pose in contrasto col decoro delle aule giudiziarie: gambe accavallate, décolleté a vista e braccia scoperte!

  • Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Florindo Rubbettino è l’amministratore della più importante realtà editoriale del Sud.
    Fondata da suo padre Rosario nel 1973, la Rubbettino vanta un catalogo di oltre tremila titoli. Un catalogo decisamente onnivoro in cui passa di tutto purché di qualità. E, soprattutto, senza preconcetti culturali o, peggio, ideologici. Vi trova posto, ad esempio, Leonardo Sciascia, a fianco di filosofi come Dario Antiseri, Carlo Lottieri e Giuseppe Bedeschi.

    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER GUARDARE L’INTERVISTA

    I tipi di Rubbettino, inoltre, “macinano” politologi (Alessandro Campi, Rudolph J. Rummell), sociologi (Pino Arlacchi), storici (Christopher J. Duggan ma tantissimi altri di vaglia). E non mancano i politici, che hanno raccontato sé stessi e le loro visioni (Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Paolo Savona).
    Intenso anche lo scavo nella cultura regionale, operato con la riedizione degli autori calabresi più importanti o di grandi autori che si sono occupati della Calabria.

    Da Soveria Mannelli al Salone di Torino

    Quest’avventura continua, dopo quasi cinquant’anni, lì dov’è nata: a Soveria Mannelli, nel cuore della Sila Piccola.
    A dimostrazione che la marginalità del territorio non è sempre e necessariamente un ostacolo.
    Reduce dal Salone del Libro di Torino, Florindo Rubbettino, ha ripreso la sua polemica nei confronti della classe politica meridionale e calabrese in particolare: «Il livello, nell’ultimo ventennio, è sceso tantissimo e forse questo declino è lo specchio della società».

    Florindo Rubbettino e la politica

    La società civile deve liberarsi di certe catene, ha sostenuto l’editore. Anche se – ammette – in Calabria non è facile: «Siamo tra gli ultimi in Europa anche nella lettura, dove ci battono anche i Paesi dell’Est Europa e il nostro pubblico è soprattutto fuori regione».
    Questo primato negativo, sostiene sempre Rubbettino, si riflette anche sull’economia e sul livello della vita civile. Già: «I Paesi più ricchi sono quelli in cui si legge di più».
    Le ipotesi, ventilate in passato, di candidature alla Regione sono sfumate. E ora Florindo Rubbettino le rispedisce al mittente.
    Questo e altro nell’intervista rilasciata a I Calabresi.

     

  • Da Montanari a Uyangoda: viaggio nel Premio Sila 2022

    Da Montanari a Uyangoda: viaggio nel Premio Sila 2022

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    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una Lectio magistralis, la sera del 27 maggio, davanti al pubblico riunito sul sagrato della cattedrale di Cosenza per le manifestazioni del Premio Sila 49.
    Di solito le conferenze fanno parte di un repertorio del passato: non le si ritiene più uno strumento efficace di comunicazione, specie se ci si prefigge di coinvolgere i non addetti ai lavori, non specialisti ma persone curiose e interessate.

    Montanari racconta il Duomo

    Montanari ha parlato senza mezzi interattivi a disposizione, perché l’oggetto del suo intervento era dietro le sue spalle: la facciata della cattedrale consacrata 800 anni fa, ricostruita dopo un violento terremoto per l’impegno dell’arcivescovo Luca Campano, discepolo e scrivano di Gioacchino da Fiore.
    Ma lo storico dell’arte ha ragionato soprattutto di come le persone comuni percepiscono un luogo come quello in cui si trovava in quel momento.

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    Tommaso Montanari al Duomo di Cosenza

    Una piazza circondata da edifici, coi colori delle pietre che mutano col mutare della luce, e di sera diventano più dolci, ristorano le persone riunite dopo una giornata di lavoro, con l’armonia che trasmettono.
    E poi c’è la chiesa, un’altra piazza “coperta”. Le chiese, nella storia italiana ed europea, hanno sempre avuto una funzione sociale: sotto le loro volte si sono riuniti i cittadini per prendere decisioni vitali. E in tempo di guerra hanno dato rifugio a chi temeva le violenze degli invasori.

    Le chiese e le città

    Le chiese, insiste Montanari, raccontano la storia delle comunità che le hanno volute, finanziate, ricostruite. Inoltre, sono monumenti e custodiscono pregiate opere d’arte. Quindi vanno tutelate da interventi arbitrari, che fino al secolo scorso erano frequenti e a volte nascondevano l’edificio originario.
    Come è accaduto anche alla cattedrale di Cosenza, che un secolo fa venne liberata da sovrastrutture di gusto barocco e riportata, per quanto possibile, al suo stile romanico.

    Ma se non fosse stato possibile – a volte non si può tornare indietro – non importa. Infatti, ha osservato Montanari, questi segni  raccontano la storia di ogni comunità, il mutare dei gusti e il legame profondo con un edificio a cui ogni epoca desidera imprimere il proprio stile. A rischio di danneggiarlo.

    Brandi e Levi a Cosenza 

    Montanari ha documentato il suo discorso con testi di grandi studiosi come Cesare Brandi, di viaggiatori e artisti curiosi come Carlo Levi, e altri. E tra il pubblico sembrava proprio farsi strada quello stato d’animo accennato prima: gustare un luogo bello, assorbirne l’armonia, e mettere da parte per un po’ gli affanni della giornata. A questo servono le belle piazze e i monumenti così numerosi del nostro Paese.

    Carlo Levi

    Premio Sila: una storia accidentata

    Una parte del pubblico aveva seguito anche l’incontro precedente, alle 18,00, a piazza dei Follari, un angolo fascinoso del centro storico, per cui valgono le considerazioni fatte da Montanari sulla cattedrale. A dispetto del degrado percepito da chiunque attraversi le strade dissestate della città vecchia.
    Del resto la storia del Premio Sila è accidentata come quella dei monumenti cosentini, abbattuti e riedificati più volte. Il Premio esordì nel 1949, come giustamente ricorda l’intitolazione attuale. Dopo la prima edizione ci volle un decennio per vedere la seconda. E poi altre interruzioni, polemiche, contestazioni, fino agli ultimi anni del secolo scorso.

    Un libro dedicato al Premio

    Un volume di Tobia Cornacchioli e Maria Tolone, Il Premio Sila. Cultura e impegno civile nella storia di un premio letterario meridionale (Pellegrini editore, 1997) ricostruisce le vicende tormentate della manifestazione. Lo fa attraverso una documentazione di prima mano, comprendente i verbali dei lavori e le motivazioni.
    Il titolo lega cultura e impegno civile: i buoni libri fanno riflettere, anche quando divertono, richiamano alla realtà che subiamo senza lucidità, perché troppo presi dai nostri problemi personali e limitati.
    E l’impegno civile accomuna i libri e gli autori premiati nell’edizione 2022, di cui si è discusso lo stesso pomeriggio a piazza dei Follari.

    Nadeesha Uyangoda e gli altri vincitori del Premio Sila

    La ventottenne Nadeesha Uyangoda, autrice di L’unica persona nera nella stanza (edizioni 66thand2nd), è arrivata in Italia da bambina.
    Spero che una parte del merito vada anche al sistema scolastico e universitario italiano, se ha saputo accompagnare questa giovane a diventare colta, acuta, brillante e precisa.

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    Nedeesha Uyangoda durante la premiazione

    Lei è una delle vincitrici di questa edizione, assieme a Nicola Lagioia e Luciana Castellina.
    Commuove ascoltare una ragazza così: non capita spesso. Nadeesha lo ha spiegato: per quelli come lei, studiare e affermarsi è un modo per ripagare i genitori dei sacrifici affrontati in un Paese straniero. A volte è difficile, ha aggiunto, seguire le proprie inclinazioni creative: si rischia di deludere la famiglia o di insospettire quegli italiani che sembrano apprezzare gli immigrati solo se raccolgono pomodori e pesche sotto il sole.

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    L’intervento di Montanari davanti al Duomo di Cosenza

    Il Premio Sila meritava più pubblico

    Insomma, nel 2022 i premi letterari possono ancora rivelarsi interessanti. Dipende da come vengono pensati e gestiti. Certo l’uditorio non era sterminato, forse per il caldo, forse per qualche limite nella comunicazione (personalmente ho notato un unico manifesto sul corso). A volte nella nostra terra si nota un certo vezzo di muoversi separati per gruppi, circoli più o meno esclusivi. Questo modo di fare rischia di tradursi in un ostacolo alla riuscita delle iniziative più meritevoli. Perfino i licei allestiscono in proprio eventi teatrali, a volte di buon livello. Tuttavia, certe fatiche dovrebbero essere maggiormente “socializzate”, per usare un termine del passato. Oppure io sono particolarmente distratto (l’età), come i liceali e universitari cosentini, assidui animatori della movida notturna: giovani brillanti, ma impegnati in altro.

    Mario De Filippis

  • Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    Duomo di Cosenza: dalla nascita ad oggi in una mostra multimediale

    MMXXII 800 anni di storia e devozione è il nuovo progetto realizzato dalla Fondazione Attilio e Elena Giuliani in occasione degli 800 anni della consacrazione della Cattedrale dell’Assunta. La presentazione del percorso multimediale – che sarà inserito e fruibile all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano – si terrà venerdì 27 maggio 2022 alle ore 10:30 presso il duomo di Cosenza alla presenza di monsignor Nolè. Al termine, si proseguirà a Villa Rendano con l’apertura delle sale del museo.

    Il duomo di Cosenza dentro Villa Rendano

    Straordinariamente, per il Museo Consentia Itinera, si prevede una nuova Notte dei Musei al costo simbolico di 1 Euro per vivere la straordinaria emozione della costruzione e delle trasformazioni della nostra Cattedrale di Cosenza. Il museo che ha sede nella celebre dimora del musicista Alfonso Rendano – impegnato nella riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario – partecipa con orgoglio alle celebrazioni per gli 800 anni dalla consacrazione della Cattedrale, rafforzando la propria offerta culturale.

    Villa Rendano

    Sette sale sulla storia del Duomo

    La mostra digitale MMXXII 800 anni di storia e devozione è un viaggio immersivo nelle sette sale del museo che racconta la storia pluricentenaria della Cattedrale di Cosenza: si ripercorrono i momenti salienti in cui i fedeli e i religiosi hanno edificato, restaurato e abbellito il cuore pulsante della città; la donazione della Stauroteca da parte di Federico II e un’approfondita analisi e ricostruzione 3D come non si è mai stata vista; le funzioni devozionali e artistiche della Cappella della Madonna del Pilerio con una particolare attenzione all’icona della Madonna restituita alle sue origini duecentesche; i monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico II di Hohenstaufen e le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento; infine, le trasformazioni della facciata nel corso del XIX e XX secolo.

    Una mostra ma non solo

    La mostra multimediale sarà fruibile in maniera permanente nelle sale del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano e in alcune parti sarà scaricabile tramite Qr code presente nella Cappella della Madonna del Pilerio e nel Museo Diocesano in prossimità della Stauroteca. Così come gli altri percorsi multimediali, anche questo sulla cattedrale di Cosenza sarà corredato da uno specifico piano educativo comprendente attività rivolte a famiglie, scolaresche, pubblici con esigenze speciali e alla comunità intera.

  • Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Dimore storiche, il più grande museo diffuso della Calabria

    Scriveva George Gissing, romanziere vittoriano e viaggiatore in Calabria nel 1897: «È stato davvero un peccato non aver potuto portare con me nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case quasi come a Napoli».

    Le ricche dimore dei nobili e dei possidenti calabresi di un secolo fa erano per i viaggiatori colti mete ambite, almeno quanto musei e siti archeologici. E Gissing, impossibilitato a visitare le case più eleganti dei suoi ospiti crotonesi a causa di una febbre polmonare, chiede al dottor Riccardo Sculco, esponente della borghesia cittadina, di descrivergli le ville e le ricche dimore che le famiglie nobili crotonesi possedevano nei pressi delle rovine del Tempio di Hera Lacinia.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    «Il dottor Sculco – riporta il viaggiatore – fece del suo meglio per descrivermi il paesaggio del Capo Naù. Quelle piccole macchie bianche che avevo intravisto col binocolo all’estremità del promontorio erano eleganti ville e storiche dimore, occupate d’estate dai ricchi nobili e dalle famiglie agiate di Cotrone. Il Dottore stesso ne possedeva una lì sul promontorio. Una villa di campagna che era appartenuta a suo padre prima di lui. Alcuni dei primi ricordi della sua infanzia erano appunto legati a quel luogo sul Capo Naù: quando aveva nozioni importanti da imparare a memoria, era solito ripeterle camminando intorno alla grande colonna. Nel giardino della sua villa si divertiva a volte a scavare. Pochi colpi di vanga bastavano a tirare fuori qualche preziosa reliquia dell’antichità».

    Porte aperte per un tuffo nella storia

    Anche in Calabria il più grande museo diffuso d’Italia, quello delle dimore storiche, riapre in questi giorni le sue porte gratuitamente. Torna la Giornata Nazionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane, quest’anno alla sua XII edizione. Saranno visitabili gratuitamente centinaia di luoghi esclusivi come castelli, rocche, ville, parchi e giardini, in un’immersione nella storia che rende ancora oggi il nostro Paese identificabile nel mondo e che potrebbe costituirne il perno dello sviluppo sostenibile a lungo termine.

    Dopo questo lungo periodo di restrizioni, possiamo approfittare oggi di un’importante occasione di cultura e di conoscenza, e riscoprire grandi tesori, in luoghi a noi prossimi, città e paesi. Sarà possibile rivivere così l’emozione del Grand Tour e visitare, a distanza di secoli, custoditi e offerti per la prima volta al pubblico, i luoghi più segreti, affascinanti e meno noti della nostra regione, per ammirare più da vicino oltre a grandi bellezze architettoniche, la storia, i beni culturali e brani del paesaggio tra i più belli e significativi della Calabria.

    Anche in Calabria le dimore storiche dell’ADSI, veri e propri musei e case della memoria, rappresentano un patrimonio vasto ed diversificato, diffuso in quasi tutte le città e centri minori della nostra regione, tra dimore e palazzi nobiliari, castelli, fortificazioni, ma anche ville di campagna, giardini, tenute agricole, insediamenti storici e produttivi, costruzioni di particolare pregio architettonico e artistico. Esse caratterizzano da secoli con la loro presenza la fisionomia dei centri abitati piccoli e grandi della Calabria.

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    Il Castello Gallelli a Badolato (CZ)

    Le dimore storiche in Italia

    Quello delle dimore storiche è un patrimonio di immenso valore sociale, culturale ed economico, spesso oscurato a scapito delle nuove generazioni. Distribuito in tutto il Paese, le dimore storiche per quasi l’80% si trovano insediate in aree periferiche ai grandi centri urbani e in provincia. Secondo l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, esso costituisce ben il 17% del totale dei beni culturali in Italia. Il 54% di questi siti si colloca proprio nei centri con meno di 20.000 abitanti e, di questi, il 29% nei comuni sotto i 5.000 abitanti. Le oltre 9.000 dimore hanno generato, già prima della pandemia, ben 45 milioni di visitatori. Da qui può passare quindi la ripartenza culturale, sociale ed economica nei centri urbani e nelle aree interne più svantaggiate del Paese.

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    Trastevere (Roma), l’interno dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione

    In Calabria oltre 150 siti

    Ognuno di questi insediamenti ha infatti una sua precisa identità e caratteri di unicità, per via della sua storia, per il suo valore culturale, per lo stretto legame con l’ambiente antropologico, per la natura e il paesaggio che caratterizzano i diversi territori locali. Da qualche anno anche nella nostra regione, l’insieme di questo importante giacimento si identifica nella rete associativa dell’ADSI Calabria (sezione regionale dell’Associazione Dimore Storiche Italiane).

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    Palazzo Sanseverino a Marcellinara

    Nata nel 1977, l’ADSI conta circa 4.500 soci in tutta Italia. Già più di 150 i siti in Calabria rappresentativi della complessità storica, della cultura, delle tradizioni e del paesaggio che identificano nella nostra regione una preziosa memoria di beni architettonici, di storia, di arte, di conoscenze e saperi originali, con le innumerevoli rarità cultuali e naturalistiche che si nascondono da secoli tra le antiche mura di queste dimore e tra i viali del loro giardini.

    Le opportunità per il turismo e il lavoro

    La valorizzazione delle dimore storiche offre anche nuove opportunità ai mestieri antichi della cura e dell’arte, alle professioni artigiane, a restauratori e giardinieri. Figure che già affiancano di necessità i proprietari-custodi, senza i quali non sarebbe possibile la manutenzione delle dimore, degli oggetti d’arte, dei giardini, delle bellezze e delle rarità che rendono unici e irripetibili questi beni. I lavori di cura e restauro delle dimore contribuiscono inoltre al recupero e al decoro degli spazi pubblici, delle vie, delle piazze, delle contrade antiche nelle quali le dimore si trovano insediate da secoli.

    Aumentano così le capacità d’attrazione di un turismo sostenibile e la qualità di vita delle comunità locali e dei territori di cui questi complessi monumentali costituiscono spesso il principale elemento di interesse e di attrazione, alimentando la filiera delle attività legate al turismo e alle nuove professioni dei beni culturali, che già vantano un significativo numero di laureati formati all’interno delle nostre università e Accademie di Belle Arti.

    Dimore storiche, un progetto targato Calabria

    L’ADSI Calabria, con un proprio progetto pilota di interesse nazionale (a cui di recente ha fatto seguito anche l’adozione dello stesso da parte della Conferenza nazionale dei presidenti e dei direttori delle Accademie delle Belle arti d’Italia, hanno siglato un accordo proprio col fine di valorizzare il patrimonio culturale privato delle dimore storiche calabresi).

    «Il progetto Ritratto di Dimora, prevede di documentare e raccontare con immagini e restituzioni artistiche dal vero altrettanti “ritratti” delle dimore storiche calabresi associate all’ADSI, disvelando così un patrimonio di grande valore per tutta la collettività, che amplia la fruizione delle bellezze della nostra regione, stavolta prima in questa originale proposta culturale adottata nel nostro Paese, di cui le dimore e gli edifici storici calabresi costituiscono una parte fondamentale», ha dichiarato Gianludovico de Martino, vicepresidente di ADSI Nazionale e presidente di ADSI Calabria.

    Una stanza di Palazzo Carratelli

    Ritratto di Dimora consiste nell’esecuzione di immagini fotografiche e “ritratti” di interni realizzati con tecniche le tradizionali (acquarello, gouache e olio) dagli studenti dell’Accademia delle Belle arti di Catanzaro presso le principali dimore storiche della Sezione ADSI Calabria. Una scelta di queste immagini illustrerà il volume Dimore Storiche in Calabria, pubblicato da ADSI. Le foto e i dipinti formeranno i materiali di una mostra itinerante che ADSI e A.BB.AA. di Catanzaro allestiranno presso le dimore storiche e negli spazi di musei pubblici. Col patrocinio dell’ADSI la mostra infine verrà proposta, d’intesa con la Regione Calabria, presso la rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

    Ville e palazzi da (ri)scoprire

    Si parte in questi giorni con alcune tra le più prestigiose e rappresentative dimore storiche calabresi, che aprono le porte al pubblico. Come il Palazzo Amarelli, importante residenza d’epoca che a Rossano ospita il Museo della Liquirizia (uno dei musei d’impresa più visitato d’Italia); Palazzo Carratelli, storica residenza urbana eretta nella seconda metà del 1400, rimaneggiata e ampliata a seguito del terremoto del 1638, che nel centro storico di Amantea domina il panorama della città e il mare.

    Il museo della liquirizia all’interno di Palazzo Amarelli

    E poi, ancora, Villa Zerbi a Taurianova, costruita nel 1786 in stile barocco siciliano su progetto dell’architetto Filippo Frangipane, testimonianza delle abilità artigiane di scalpellini e decoratori calabresi impegnati dopo il terremoto del 1783, caratterizzata inoltre dalle essenze rare del suo prezioso giardino mediterraneo; Palazzo Stillo-Ferrara, nel cuore del centro storico di Paola; Villa Cefaly-Pandolphi ad Acconia di Curinga (Cz), elegante dimora adibita a casino di caccia, costruita alla fine del 1700 e circondata da piantagioni di agrumi pregiati. In questa villa la storia è trascorsa lasciando tracce sui bei pavimenti antichi ed i soffitti di legno con affreschi. Qui la famiglia Cefaly ha dato vita a pittori, prelati e uomini di Stato, come Antonio Cefaly che dal 1890 al 1920 è stato vice presidente del Senato e consigliere di Giolitti (l’epigrafe sulla sua tomba fu scritta da Benedetto Croce).

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    La biblioteca di Palazzo Stillo-Ferrara a Paola

    Degno di nota anche Palazzo Sanseverino a Marcellinara, dimora storica risalente al 1400, che conserva tra i suoi numerosi reperti anche uno dei pochi ritratti coevi di San Francesco di Paola, un dipinto devozionale del santo realizzato per mano di un pittore locale durante il suo soggiorno nella casa, custodito insieme ad un altare votivo e altre reliquie come il piatto e le posate utilizzate dal santo durante il soggiorno nel palazzo al tempo del suo viaggio in Sicilia.

    Non manchiamo dunque di visitare le dimore storiche per goderci le bellezze che insieme costituiscono il più grande museo diffuso della Calabria. E, dopo i selfie di rito, scattate anche voi un bel ritratto di dimora.

  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

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    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
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    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

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    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni