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  • Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Mike Porco, il calabrese che adottò Bob Dylan

    Nel primo volume della sua autobiografia, Chronicles (Feltrinelli, 2005), Bob Dylan ricorda con riconoscente affetto Mike Porco, colui che gli spianò la strada del debutto fino alle porte del successo. «Mike was the sicilian father – scrive – that I never had», Mike è stato il padre siciliano che non ho mai avuto. In realtà Michele “Mike” Porco, non era siciliano, come il senso comune americano definiva l’italiano meridionale. Era calabrese, cosentino di Domanico, figlio d’un emigrato in America, preso dal sogno del ricongiungimento della famiglia a New York, dove faceva il muratore.

    Dalle Serre cosentine a New York

    Quando cominciò a profilarsi la ripresa delle attività edilizie, che la Grande depressione del 1929 aveva bloccato, Michele s’imbarcò a Napoli per raggiungere il padre e aiutarlo a realizzare, prima possibile, la trepida aspirazione familiare. Dopo tre settimane di viaggio, l’approdo ad Ellis Island, nell’incanto della Statua della Libertà, all’accesso del nuovo mondo, aperto alla speranza di una nuova vita.

    Sulla banchina, ad attenderlo, c’era un gruppo di compaesani. Ma non il padre. La morte lo aveva stroncato, all’improvviso, qualche giorno prima. Mike, disperato, si sentì perso. Trovò per sua fortuna ospitalità da alcuni parenti, che lo avviarono al lavoro in uno dei loro ristoranti, il Gerde’s club, al centro del Greenwich Village, quartiere in crescita nel cuore della Grande Mela. Da lavapiatti a cameriere, a gestore di fiducia, Mike riuscì, gruzzolo su gruzzolo, ad acquistare il locale.

    Il Village e la Beat generation

    Il Village era un borgo di irresistibile richiamo per intellettuali e bohémien, un composito microcosmo di cultura alternativa, sintesi newyorchese tra Montmartre e Montparnasse, pullulante di pub e bistrot. Era la meta preferita dei folksinger, pionieri del movimento beat. Li ispiravano il romanzo autobiografico On the road di Jack Kerouac, le opere letterarie di Allen Ginsberg, che ne era il guru, e le canzoni di Woody Guthrie, mito del nuovo corso musicale, rivoluzionario cantore dell’Altra America, poeta della protesta sociale radicalizzato nel comunismo, un hobo solitario monumentato in vita dal suo popoloso seguito.

    Kerouac, nel suo girovagare, elesse il Village, come luogo congeniale alla sua filosofia e al proprio coerente modo di vivere. Qui conobbe Neal Cassady, scrittore, che, come lui, in sregolatezza esistenziale, ispirò la figura del coprotagonista del suo romanzo autobiografico per la comune vana ricerca di un indistinto padre perduto, patiti com’erano, il primo, per la morte del genitore naturale, l’altro, per averlo avuto alcolizzato cronico, motivi questi, per loro, di squilibrio interiore e di crisi esistenziale. Qui, nel Village, Woody, anche lui orfano di padre, in fuga dalla sua sventurata adolescenza, trovò la destinazione ideale del suo inquieto nomadismo, l’atmosfera giusta per fissare il suo definitivo domicilio lungo la Hudson Street, un vialone alberato tra l’omonimo fiume e la centralissima Washington Square.

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    Woody Guthrie e un giovane Bob Dylan

    Sospinto dal coinvolgente messaggio di Kerouac, dagli impulsi poetici di Ginsberg e – di più, molto di più – dalla irrefrenabile voglia di incontrare il suo idolo Woody, Bob Dylan (nato nel 1941), non ancora ventenne, regolarmente squattrinato, chitarra in spalla – suo unico capitale disponibile con qualche brano da lui composto – abbandonò, in rotta col padre, la famiglia per raggiungere, on the road, il mitico Village, alla ricerca del padre della propria formazione artistica e della temperie adatta ai suoi versamenti culturali, affinati dai romanzi di Edgar Allan Poe e di Mark Twain, scrittori di rottura nei loro generi e messaggi letterari.

    Il Gerde’s Folk City

    Mike, oramai addestrato all’arte del ristoratore, fiutò l’emersione del genere folk nei gusti, sì, dei giovani, ma anche di quegli intellettuali, di quegli imprenditori e dei tanti newyorchesi, che, danarosi, si riversavano, in evasione dal tran tran metropolitano, nel quartiere per viverne il clima e, preferibilmente, la vita notturna. La sua intuizione lo portò a rinnovare il locale, dove allestì un palchetto al posto del vecchio pianobar per offrire alla clientela un tono musicale, d’accompagnamento alle cene, diverso dal solito.

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    L’ingresso del Gerde’s Folk City su 4th Street. Negli anni ’70 il locale si trasferirà al 130 West di 3rd Street, per poi chiudere nel 1987. Mike Porco lo aveva ceduto sette anni prima a Robbie Woliver, Marilyn Lash e Joseph Hillesum

    Il Gerde’s diventò Gerde’s Folk City. Egli stesso si convertì da ristoratore – ruolo che affidò al fratello Giovanni che, intanto, lo aveva raggiunto – a talent scout di band e cantanti solisti, che, per sbarcare il lunario, di giorno, si esibivano per strada, confidando nelle offerte dei passanti, e, a sera, facevano il giro dei locali che li sfruttavano, volta per volta, per un dollaro più una bevuta al bar. Lui prima li faceva provare, poi li selezionava sulla base del gradimento della clientela. Se funzionavano, li faceva ruotare a turno, raddoppiando la paga con consumazione e cena.

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    Il Gerde’s gremito durante un concerto

    Bob Dylan e Mike Porco

    Gli capitò Bob Dylan. Gli concesse la ribalta per una sera. Il pubblico applaudì. Lui, invece, fu sul punto di bocciarlo: «Ha la voce di una cornacchia», disse agli amici al suo tavolo – nientemeno che Ginsberg e Robert Shelton, primo critico musicale del New York Times – che, da habitué del locale, non gli risparmiavano giuste imbeccate. I due gli certificarono il talento del ragazzo. E dovettero insistere per convincerlo ad inserire Bob nel programma delle serate hootenanny del lunedì. Fu un boom.

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    Settembre 1961, Bob Dylan sul palco del Gerde’s nel concerto che lo consacrerà, ancora giovanissimo, lanciandolo verso un successo che lo porterà fino al Premio Nobel. Incollata alla chitarra, la scaletta delle canzoni di quella sera

    Bob Dylan diventò il pupillo di Mike Porco, che, a quel punto, gli propose un contratto. Essendo ancora minorenne, Bob avrebbe dovuto avere il nulla osta del sindacato. L’impiegato della Musicians Union, cui si rivolse, gli oppose la necessità della firma consensuale di uno dei genitori. Inutilmente, Bob, che non aveva più contatti con la sua famiglia in Minnesota, replicò d’essere orfano e solo al mondo. A risolvergli il problema fu Mike, che firmò come tutore.

    https://youtu.be/A8pqKnZshpw

    Alcuni spezzoni tratti da “Positively Porco”, docufilm su Mike e il suo locale: al minuto 4’05” è lui stesso a raccontare come abbia fatto da garante per Bob Dylan

    Da allora in poi, il rapporto tra i due fu quello di padre e figlio. Padre premuroso e figlio riconoscente, non più ribelle come lo era stato con il suo genitore vero. Bob trovò il padre che cercava, al contrario dei suoi idoli che, non rinvenendo il senso della vita nella umanità circostante, rincorsero la beatitudine consumandosi nella droga e nell’alcol. Bob Dylan non ne ebbe bisogno, sia pure dopo averne provato il rischio. Prese la sua strada, per farne tanta, come si era ripromesso in Song to Woody.

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    La recensione con cui Robert Shelton esalta il giovane Dylan sul prestigioso New York Times: è nata una stella

    Shelton gli dedicò una esaltante recensione. John Hammond, leggendario produttore discografico, se lo accaparrò alla Columbia Records. Di qui il volo verso la celebrità, dopo aver fatto la fortuna dell’emigrato calabrese. Che, negli ultimi anni della sua vita, era solito raccontare ai suoi figli come la sua tenacia fosse valsa a riunire la famiglia nel benessere del nuovo mondo e a coronare, così, il sogno paterno.

    Un locale di culto

    Trent’anni fa, il 13 marzo 1992, dava l’addio al mondo Mike Porco, il calabrese che, negli anni Trenta, da Domanico, borgo rurale delle Serre cosentine, emigrò in America. E a New York fondò il Gerde’s Folk City – uno dei tre migliori locali musicali del mondo, secondo la rivista Rolling Stone, insieme al beatlesiano The Cavern di Liverpool e al newyorkese CBGB – e centro propulsore sempre all’avanguardia del folk, del rock, del folk rock e ritrovo degli intellettuali della controcultura in fermento nel Village.
    Alla sua scena si legano gli esordi e le carriere di innumerevoli celebrità: dal già citato Bob Dylan a Joan Baez, da Dave Van Ronk a Richie Havens, da John Lee Hooker a Jimi Hendrix, da Simon & Garfunkel a José Feliciano. Una vera e propria pista di lancio per tanti musicisti destinati ad entrare nella storia della musica.

    L’anniversario in mondovisione

    Sulla ribalta dei Newport Folk Festival, ciclicamente organizzati negli anniversari del locale, gli artisti promossi dal Gerde’s si esibivano in massa, in dichiarato omaggio al loro scopritore. In occasione del 25mo anniversario del Folk City, il concerto fu trasmesso in tutto il mondo dalla Pbs e dalla Bbc Tv. In quello del 1979, il sindaco di New York, Edward Koch, indirizzò al titolare del Gerde’s una lettera di calorose congratulazioni per la sua “benemerita attività”.

    Spesso, i media americani si occuparono di Mike Porco. Lui era pronto a narrare aneddoti inediti sulla sua singolare esperienza e sugli artisti di cui, pur senza capire un accidente di musica, aveva istintivamente colto il valore. Era diventato un personaggio gradito al grande pubblico, che lo aveva in simpatia anche per il suo inglese maccheronico. Gli stessi artisti parlavano di lui come una gran brava persona, una figura familiare, certo scaltrita dal fiuto per gli affari, ma sempre disponibile ad aiutare il prossimo.

    Non solo Bob Dylan: gli artisti come figli

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    Mike Porco insieme al cantautore Cisco Houston

    In un’intervista per il libro Conclusions on the wall: new essays on Bob Dylan della esperta musicale del New York Times Magazine, Elizabeth Thomson (Thin man, 1980), Mike Porco raccontò la sua vicenda di emigrato, di proprietario del Gerde’s, di paterno sostenitore di Bob Dylan, in modo speciale, ma anche degli artisti che egli incamminò sulla strada del successo. «Sento come se questi ragazzi siano stati tutti miei figli. Li ho visti crescere – disse – come persone e come artisti. Tanti di loro sono andati avanti sino a diventare delle vere e proprie star. Vorrei che potessero tornare quei tempi, con Bobby, Janis Joplin, Steve Goodman, Phil Ochs. In occasione del mio sessantunesimo compleanno, li vidi arrivare un po’ tutti, Bobby con Joan Baez, Allen Ginsberg, Phil, Bobby Neuwirth, Roger MacGuinn, tutta la mia vecchia gente».

    Mike Porco, un affabile calabrese

    Robert Shelton nel suo libro biografico su Bob Dylan descrisse così Mike Porco: «Un affabile calabrese, con baffetti sottili, lenti spesse e un accento ancora più spesso delle lenti. A malapena distingueva una ballata da una mortadella. Ammassava profitti sulle consumazioni. Si affidava alle reazioni del pubblico per scegliere i cantanti, spesso ascoltando non la musica, ma gli applausi. La simpatia che Mike suscitava era dovuta anche al fatto che non aveva mai imparato bene l’inglese.

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    Michele “Mike” Porco

    Chiamava il suo club “a Folk a City”. Una volta dettò al telefono un annuncio pubblicitario al Village Voice, che fu ripetuto per due settimane di fila, presentando Anita Sheer come una cantante di flamingo (l’equivalente inglese dell’italiano “fenicottero”, ndr), invece che di flamenco. Di un altro che cantava in diverse lingue disse che si trattava di un cantante linguistico. Era, però, molto ben disposto verso i nuovi talenti. “Diamogli una possibilità”, era il suo motto, mentre la sua politica gestionale si basava sul “più è nuovo e meno costa”».

    Un cappotto che non si dimentica

    José Feliciano dichiarò: «Mike fu per me come un secondo padre. Mi ha aiutato in ogni modo a superare i momenti di difficoltà, facendomi guadagnare. Da uomo buono e generoso qual era, visto che non lo avevo, mi regalò un cappotto nuovo, perché il freddo a New York si sente, eccome. Io non ne avevo uno che potesse definirsi tale. Sono cose che non potrò mai dimenticare». Dello stesso tono riconoscente, decine e decine di altre testimonianze su un uomo che, evidentemente, non dimenticò mai le sue origini e il senso dei suoi sacrifici.

    1962, Suze Rotolo e José Feliciano al Gerde’s Folk City

    All’America seppe restituire il capitale che gli aveva dato in banconote con il capitale invisibile, eppure concreto, del suo altruismo e della sua intelligenza intuitiva. Se New York non è stata la capitale dell’America, lo è diventata del mondo per quella ribalta musicale nata nel Village e ideata – chi l’avrebbe mai immaginato – da un calabrese.

  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

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    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

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    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

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    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

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    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?

  • Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    La Calabria ha bisogno di buoni esempi. Lo sentiamo dire nelle scuole, nei dibattiti, nei convegni. In tanti, però, si sono interrogati in questi anni sul un fenomeno dei cantanti neomelodici che strizzano l’occhio nei loro brani alle mafie e che spopolano tra i giovani e nei territori ad alta densità mafiosa. La Calabria non ne è esente: i neomelodici riempiono le piazze dei paesi e scatenano, giocoforza, un mare di polemiche.

    Il caso Merante

    Lo scorso, ha avuto grande eco la querelle sul concerto della nota cantante folk Teresa Merante a Melissa. Lo organizzava una associazione e aveva il patrocinio del Comune guidato dall’ex segretario della Cgil del Crotonese Raffaele Falbo. Il concerto ha ricevuto il niet della Questura per motivi di ordine pubblico. Le polemiche (e gli imbarazzi, soprattutto del sindaco) non sono mancate.

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    La cantante calabrese Teresa Merante, al centro delle polemiche nei mesi scorsi per la sua canzone “U Latitanti”

    Canti di malavita 4.0?

    Tra i titoli delle canzoni della Merante c’è Il Capo dei capi. Protagonista è Totò Riina, a cui la cantante dedica versi come «Tante persone lui ha ammazzato, dei pentiti non si è scordato. Anche Buscetta tra questi c’era, uomo d’onore lui non lo era (…) Due giudici gli erano contro ed arrivò per loro il giorno. Li fece uccidere senza pietà (…) l’uomo di tanto rispetto e onore rimane chiuso a S. Vittore». Ma tra i brani del repertorio della Merante figurano anche Malandrini cunfinati, L’omu d’onori, Pentiti e ‘nfamità e U latitanti.
    La canzone Bon Capudannu fa gli auguri per San Silvestro «ai carcerati, segregati in galera. Speriamo torniate in libertà, nelle vostre case gioia e serenità».

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    Raffaele Falbo, l sindaco di Melissa

    Reazioni contrastanti

    Falbo a Melissa si trincerava nel silenzio. A Botricello, invece, l’allora consigliere comunale (oggi sindaco) Saverio Puccio – insieme al consigliere comunale di San Luca e sindacalista della Polizia di Stato, Giuseppe Brugnano – proponeva un esposto alla Procura guidata da Nicola Gratteri. Chiedeva si valutasse il reato di istigazione a delinquere.
    le polemiche sono riesplose nell’aprile di quest’anno, A Casali del Manco, dove il concerto della Merante, patrocinato dal Comune, è saltato causa pioggia. La vicenda ha mandato su tutte le furie Francesco Sapia, deputato di Alternativa.

    Francesco Sapia

    Il parlamentare dichiarò: «Trovo incredibile che il Comune di Casali del Manco rinneghi la propria storia politica e culturale e patrocini il concerto di Teresa Merante, nel cui repertorio figurano brani di promozione della cultura mafiosa e di odio nei confronti degli uomini della polizia, con versi che addirittura incitano all’assassinio degli stessi tutori della legge. Sulla vicenda vorrò verificare, anche in sede ministeriale, se il patrocinio comunale possa considerarsi in questo caso legittimo e intoccabile». Tranchant la risposta del sindaco Nuccio Martire: «Non conosco la Merante».

    Trapper e parentele

    Dal folk alla trap. Niko Pandetta vanta 150mila followers su Facebook e oltre 646mila su Instagram. È nipote del boss catanese Salvatore Cappello, sottoposto al  41 bis dal 1993.

    Al parente aveva pure dedicato una canzone. Cappello era braccio destro di Salvatore Pillera detto “Turi càchiti” («fattela addosso», la frase che diceva alle sue vittime prima di sparare).

    «Zio Turi io ti ringrazio ancora per tutto quello che fai per me, sei stato tu la scuola di vita che mi ha insegnato a vivere con onore, per colpa di questi pentiti sei chiuso là dentro al 41 bis», si struggeva Pandetta. Tempo dopo, stando alle cronache, si sarebbe pentito lui di quella canzone. Sui giudici Falcone e Borsellino, invece, cantava: «Hanno fatto queste scelte di vita, le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro».

    Nel mirino degli inquirenti

    A ottobre 2021 il quotidiano La Sicilia dava la notizia di una indagine, poi archiviata, a carico Pandetta per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2019 il Tribunale di Catania ha condannato il trapper in primo grado con rito abbreviato a sei anni e otto mesi e a 30mila euro di multa per detenzione e spaccio di stupefacenti a seguito dell’operazione “Double Track”. In appello, è arrivata una riduzione della pena.
    Il suo disco Bella vita si è classificato al 53esimo posto  tra gli album più venduti del primo semestre 2022. terzo album italiano di Warner Music dopo quelli di Irama e Capo Plaza.

    A inizio mese Pandetta avrebbe dovuto esibirsi a Fuscaldo, in provincia di Cosenza, in un bar sulla Statale 18. Ma il concerto non è andato in porto. «Tumulti, gravi disordini ed abituale ritrovo di persone pregiudicate e pericolose»: con queste motivazioni la Questura ha chiuso il locale.
    Ora, il prossimo 5 agosto, si esibirà allo stadio di Altomonte nel Cosentino. Ed è molto probabile che le polemiche non mancheranno.

    Anzi, ci sono già: il nome del trapper è emerso in alcune intercettazioni a carico del presunto boss catanese Domenico Mazzeo. Questi, in favore di trojan o di cimice, si era fatto scappare alcune frasi sui suoi rapporti con Paolo Nirta, figlio di Giuseppe, lo storico boss di San Luca. Una frase in particolare riguarda Pandetta, che si è esibito al diciottesimo compleanno del fratello minore di Paolo Nirta.

    De Martino, il neomelodico più richiesto in Calabria

    Classe ’95 e fiumi di followers su tutti i social. Idolo delle ragazzine e non solo. Daniele De Martino ha pubblicato una canzone contro i pentiti di mafia, definiti «infami» e «la vergogna della gente». De Martino questa estate impazza in Calabria tra eventi privati ed altri pubblici patrocinati dalle amministrazioni locali.
    Il 14 giugno è stato in piazza a Cessaniti (Vv), il 25 alla festa della birra di San Benedetto Ullano (Cs), il 28 a San Pietro in Guarano (Cs), il 17 luglio a Spezzano Albanese (Cs); il 22 luglio in un bar di Paola (Cs), mentre il 27 sarà in piazza a Seminara (Rc) e il 20 agosto alla Festa di San Rocco di Bocchigliero (Cs).

    Daniele De Martino in concerto

    Hanno fatto discutere, soprattutto, gli eventi nel Crotonese. Il 5 agosto De Martino si esibirà in piazza a Verzino. La manifestazione è patrocinata dal Comune, che tuttavia è guidato da Pino Cozza, vittima di una intimidazione mafiosa che lui stesso ha denunciato lo scorso aprile.
    Il 18 agosto De Martino andrà in scena a Rocca Di Neto, nella kermesse Rocca estate 2022 voluta dall’Amministrazione guidata da Alfonso Dattolo di Coraggio Italia.

    Molto scalpore ha destato anche il concerto a Cirò Marina dello scorso 17 luglio in occasione della festa di Sant’Antonio. Come riportato da Margherita Esposito su Gazzetta Del Sud, il parroco di Cirò Marina, Peppe Pane, ha preso le difese del giovane cantante. «Sono solo dicerie e non fatti reali. La voce su una sua presunta vicinanza a certi ambienti è tutta da dimostrare», ha detto don Pane.

    Intanto De Martino la scorsa estate è stato “pizzicato” a Palmi alla festa di nozze della figlia di un presunto narcotrafficante, Filippo Iannì, condannato in primo grado a 18 anni di carcere per aver organizzato un traffico di hashish e cocaina fra Marsiglia e la Calabria.
    «Chi nasce libero non può morire prigioniero ci vuole solamente pazienza per affrontare tutto questo», cantava De Martino alla sposa. E ancora: «Se senti il vento sfiorare stasera è lui che con uno spiraglio esce dalla sua cella».

    L’avviso del questore

    Nel giugno 2021, il questore di Palermo Leopoldo Laricchia ha emesso un “avviso orale” nei confronti del cantante. Il motivo? «In tempi recenti, sfruttando la popolarità conseguente alla propria professione, in diverse occasioni ha manifestato vicinanza agli ambienti malavitosi». Di più: «La non estraneità del trentenne palermitano al mondo malavitoso è sottolineata anche da altri comportamenti resi espliciti dallo stesso che ha pubblicato alcuni selfie che lo immortalano in atteggiamenti confidenziali con persone pregiudicate esponenti di famiglie di Cosa Nostra. Il cantante con il suo comportamento ha messo in pericolo la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica. Ciò in ragione del fatto che gli espliciti messaggi consegnati in più occasioni ai moderni mezzi di comunicazione contengono gravi espressioni visive e verbali che implicano una istigazione alla violenza, un’esaltazione delle gravi azioni antigiuridiche connesse alla criminalità organizzata, un’accettazione e condivisione di comportamenti e azioni contrari ai valori morali della società civile e lesive delle Istituzioni dello Stato».

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    Un primo piano di Daniele De Martino

    Lo scorso mese, riporta una nota stampa di Libera, “in occasione dell’inaugurazione del Presidio Legalità a Potenza il procuratore a capo della Dda di Potenza Francesco Curcio ha ricordato il concerto del dicembre 2019 patrocinato dal comune di Scanzano Jonico (amministrazione poi sciolta per infiltrazioni mafiose) in cui si esibì proprio De Martino”. «È sintomatico di una società che non è basata sulla cultura della legalità non solo la presenza del cantante in questione, ma il fatto che sotto quel palco ci fossero migliaia di persone», disse Curcio.

    Il selfie col boss finisce in Parlamento

    Le canzoni di Daniele De Martino sono finite anche in Parlamento. La deputata emiliana del M5S Stefania Ascari, lo scorso maggio, ha presentato una interrogazione al Ministero della Giustizia.
    «Si è appreso della notizia di un cantante neomelodico De Martino, apparso su Facebook con i boss Spadaro e che canta contro un pentito; queste canzoni, così come scritte e interpretate, inneggiando alla peggiore forma di delinquenza, rappresentano un “pugno allo stomaco” per chi, come gli appartenenti alle forze dell’ordine, lavora ogni giorno rischiando la vita per estirpare dal Paese il cancro della criminalità organizzata. In tali testi, ci sono, infatti, alcune frasi che appaiono superare il limite della decenza e della semplice libertà di opinione o di espressione. I commenti che appaiono sotto i video e i post di questi presunti artisti della canzone destano perplessità e rischiano di fomentare un clima di illegalità e di ingiustizia. I messaggi che vengono diffusi attraverso questi testi non possono essere ricondotti a mere ricostruzioni artistiche e canore, ma equivalgono a espressioni di odio nei confronti delle forze dell’ordine e della magistratura e di esaltazione della criminalità organizzata e dei suoi componenti». Così si legge nell’interrogazione.

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    Stefania Ascari

    C’è chi dice no

    Il consigliere regionale della Campania di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, in riferimento alla canzone di De Martino contro i pentiti ha dichiarato: «Ennesima vergogna, nel testo tutti i codici camorristi che indicano come infami chi collabora con le forze dell’ordine e minacciano ritorsioni. Avanti con proposta di legge su apologia di mafia e camorra».
    Prima ancora, il sindaco di Bari Antonio De Caro, presidente dell’Anci, nel 2019, in riferimento al brano Samara di De Martino, il cui video, girato nel quartiere San Paolo di Bari, vedeva ragazzi che impugnavano pistole e kalashnikov, dichiarò: «Non mi piacciono le pistole impugnate da ragazzi» e «non mi piace che il messaggio sia di esaltazione approvazione della violenza criminale […] non piace che il signor De Martino abbia girato il video in un quartiere, il San Paolo, che da tempo sta lottando per affrancarsi da quegli stereotipi che gli hanno impedito di crescere».

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    Antonio De Caro

    Ma la Calabria tace

    E la politica calabrese? Silente. Nonostante Daniele De Martino svolga eventi patrocinati dalle amministrazioni comunali di tutta la regione e riempia le piazze veicolando messaggi come quelli contenuti nelle canzoni Comando io e Nu guaglione e quartier che inneggiano alla mafia, nessuno, ad oggi, ha preso alcuna posizione pubblica.

  • L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    L’Acquario a secco: quale futuro per il teatro cosentino? [VIDEO]

    Cambiare, certe volte, vuol dire beffare la morte. È la partita cui è impegnata la Cooperativa del Centro Rat, anima del teatro dell’Acquario. Da tempo il teatro di via Galluppi fa i conti con difficoltà economiche ormai non più eludibili. E oggi si prepara al cambiamento che potrebbe risultare necessario per non chiudere bottega.

    Cosenza, via Galluppi: l’ingresso del Teatro dell’Acquario

    «Abbiamo un credito presso la Regione di circa centomila euro e debiti verso il proprietario dello spazio che ospita il teatro per quarantamila», spiega Carlo Antonante, annunciando diverse e fin qui promettenti interlocuzioni per ridare fiato alla quarantennale storia dell’Acquario. Se il denaro atteso dalla regione arrivasse, non solo si salderebbero i debiti, ma si potrebbe anche guardare al futuro, sia pure in maniera differente. Infatti sostenere i costi del teatro rimarrebbe difficile e urge trovare soluzioni alternative.

    [CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER VEDERE L’INTERVISTA]

    Il teatro dell’Acquario trasloca: ma dove?

    E qui entra in gioco il Comune, che ha promesso la disponibilità di altri spazi, come per esempio la Casa delle culture. «Lì ovviamente manca un palco, ma quegli spazi potrebbero ospitare i nostri progetti formativi, molto importanti sul piano economico». Sempre dal sindaco di Cosenza è giunta un’altra ipotesi che riguarda l’uso del Cinema Italia-Tieri. Il Tieri già da un anno è gestito da Pino Citrigno, che aveva vinto un bando proposto dalla passata amministrazione, ma un incontro tra le parti avrebbe aperto alla possibilità di far convivere le due esperienze. Né manca l’interessamento di privati. Assai recente è l’incontro tra i membri del Centro Rat e Bianca Rende ed Enzo Paolini, mirato alla ricerca di una soluzione.

    La Casa delle Culture a corso Telesio, sede storica del municipio di Cosenza prima del trasferimento in piazza dei Bruzi

    L’eredità di Antonello Antonante

    Insomma si cambia per non morire, ma non è detto che questo sia un male, forse perfino una opportunità per rilanciare una storia antica, nata oltre quaranta anni fa nella città vecchia, partorita da un gruppo di intellettuali che già all’epoca animavano la scena culturale della città, tra cui ovviamente il compianto Antonello Antonante.
    Fu lui assieme ad altri a trasformare quella esperienza prima in un teatro sotto una tenda e successivamente ad aprire l’Acquario di via Galluppi. Oggi ai suoi compagni di avventura il compito di affrontare l’ulteriore cambiamento. Perché certe eredità non sono fardelli, ma semi da coltivare.

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    Antonello Antonante (foto Alfonso Bombini 2020)
  • Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

    Operazione Alarico: il flop dei nazisti e il bis dei cosentini

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    Negli anni passati, sindaci, assessori e operatori culturali di destra e di sinistra, per certificare un glorioso passato di Cosenza, hanno pensato di rievocare con cortei storici, convegni e statue le figure di condottieri, re e imperatori: Alarico e il suo mitico tesoro, Federico II di Svevia Stupor mundi e Carlo V sul cui impero non tramontava mai il sole. Hanno pensato che, soprattutto il nome di Alarico, avrebbe funzionato da attrattore per i turisti e portato lustro e benefici alla città e ai suoi abitanti. Il biondo guerriero sepolto nello spazio magico alla confluenza tra Crati e Busento, più di ogni altro ricordava la grandezza della gloriosa città.

    Alarico innamorato di Cosenza

    Alarico è stato sottoposto a un processo di revisione storica, presentato come un re che  voleva unire i popoli europei, che predicava la pace e la convivenza civile, che aveva amato profondamente Cosenza tanto da volerla capitale di un nuovo regno. La rielaborazione «positiva» del re barbaro è avvenuta in tutti i campi: letteratura, cinema, fumetti, teatro, arte e poesia. Le scuole cittadine di ogni ordine e grado, sono state coinvolte in progetti imperniati sulla vita di Alarico.

    Il funerale di Alarico

    Ricordo che in una pubblicazione alcune insegnanti scrivevano entusiaste che il capo dei Visigoti, considerato erroneamente un rozzo e spietato invasore, era in realtà un uomo colto, fautore di una società multietnica e amante della cooperazione tra i popoli. Un sindaco recentemente è arrivato addirittura a proporre la costruzione di un grande museo dedicato al re barbaro e ai Goti. Molti ancora si chiedono con quali reperti o documenti lo avrebbe riempito.

    E Von Platen sparisce dalle celebrazioni

    Un ritratto di August Von Platen

    Come sempre accade, nel processo d’invenzione della storia, molte cose finiscono nel dimenticatoio. È interessante notare, ad esempio, che durante le celebrazioni dedicate ad Alarico, il poeta August von Platen  è stato completamente ignorato. Eppure, se la leggenda del re visigoto è nota in  tutta Europa, lo si deve a una sua bellissima poesia. Von Platen non era un uomo molto amato. Widmann lo aveva rimproverato di aver composto quei versi senza mai essere stato a Cosenza, altrimenti avrebbe visto che il Busento non era un fiume dalle acque vorticose ma un misero fiumicello! Heine accusò il poeta di essere un «immondo omosessuale».

    Forse per questo motivo Von Platen lasciò la Germania, considerata più matrigna che madre, per vagare senza meta in Italia. La speranza che un giorno le sue opere sarebbero state apprezzate e il suo nome sarebbe divenuto immortale mitigava le umiliazioni che era costretto a subire. Mussolini, in un saggio giovanile sul poeta, ne ricordò il valore definendolo un tedesco mediterraneo che amava profondamente l’Italia e in un’ode aveva scritto che la «rozza schiatta tedesca» aveva un tempo annientato la civiltà italiana.

    L’invenzione della tradizione

    La rielaborazione storica di Alarico fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e tradizioni che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a narrare i fatti remoti, a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi, a far conoscere luoghi legati a eventi storici. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord. Il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Gli operatori dell’industria dello spettacolo, convinti che gli spettatori non abbiano alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a dare spiegazioni inverosimili.

    La passione bruzia per gli invasori

    Non sappiamo spiegare l’entusiasmo dei politici cosentini per popoli stranieri che in diverse epoche storiche hanno impoverito e umiliato la loro terra. Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno comunque parte di una fabbrica del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione della cultura che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma. L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni.

    Horkheimer e Adorno

    Il tentativo di restituire a Cosenza il primato che aveva un tempo ricorrendo all’invenzione della storia si è rivelato un insuccesso. Le celebrazioni dedicate a grandi personaggi come Alarico sono prive di valore sentimentale, prevale l’aspetto ludico e di consumo. I cittadini partecipano agli eventi culturali come ad una grande fiera. Non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli operatori culturali, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi. Per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione che consenta alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

    Operazione Alarico a Cosenza, la replica di un fallimento

    La statua equestre dedicata ad Alarico, alle spalle quel che resta dell’ex Hotel Jolly

    Richiamandosi all’invasione del re visigoto che nel 410 a. C. saccheggiò Roma, i nazisti hanno usato come nome in codice Unternehmen Alarich il piano militare elaborato per occupare l’Italia in caso di una resa agli Alleati. La Unternehmen Alarich degli amministratori cosentini si è rivelata un clamoroso fallimento. Il re visigoto che in una strana statua sta ritto sulla testa di un cavallo alla confluenza del Crati e del Busento, sembra tentenni a tuffarsi per ritornare sotto le acque putride dei fiumi coperti da una fitta boscaglia e pieni fino all’inverosimile di spazzatura. Alle sue spalle le macerie di un palazzo abbattuto e una città vecchia abbandonata che sta cadendo a pezzi.

     

     

     

     

     

     

     

  • IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

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    Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
    Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
    Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.

    La riva sotto il sole

    Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
    Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
    Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.

    La Tropea di Escher

    Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
    Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
    Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.

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    Tropea raffigurata da Escher

    La metamorfosi del turismo

    Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
    Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
    Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.

     

    Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.

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    Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”

    Nella penna di Berto

    Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
    Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
    Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
    Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.

    Tropea, Capo Vaticano e la sibilla

    La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
    Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
    La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
    Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.

    Il faro di Capo Vaticano

    Una casbah ’nduja e cipolla

    Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
    L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
    Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
    Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.

    Cosa resta di Berto

    Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
    Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.

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    Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto

    Il ricordo della barista

    Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
    Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.

    Berto, un reazionario illuminato a Tropea

    Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
    Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

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    Berto con il suo cane Cocai

    Il riposo

    Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
    Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
    Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».

    Abusivi e kitsch: i vivi come i morti

    Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
    Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
    Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.

    La tomba di Berto

    Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
    Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
    Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.

    Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
    Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.

    Un disegno infantile

    La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi

    Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
    Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
    Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.

    «Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.

  • Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

    Bisturi, cotone e chimica: il lifting del Duomo di Cosenza

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    La cattedrale di Cosenza è una signora di 800 anni, un poco austera ma accogliente. La storia scorre tra le sue pietre rosa di Mendicino, coi suoi inevitabili scompigli.
    Un terremoto distrusse nel 1184 l’antica chiesa paleocristiana e la cattedrale fu ricostruita sui resti della precedente. Al riguardo, non tutte le fonti coincidono: secondo alcune ipotesi, la cattedrale sarebbe stata spostata per un certo periodo ai piedi del castello svevo. Tuttavia, non si hanno notizie certe. Poi arrivarono i restauri e alcuni rifacimenti irrispettosi dello stile originario, romanico-cistercense con innesti gotici. Di tutto ciò la Signora porta i segni con orgoglio. Senza cicatrici nessuna vita può dirsi davvero tale. Con un bagaglio di memorie, identità e qualche mistero, la cattedrale di Cosenza quest’anno festeggia l’ottavo centenario e continua a vivere nelle storie che la abitano.

    Cotone e bisturi per recuperare gli affreschi

    Queste storie sono il prodotto di mani laboriose. Quelle di Isabella Valente cercano di riportare alla luce alcuni affreschi che un tempo abbellivano le pareti del Duomo e che poi furono ricoperti. Un lavoro delicato, con cui la studentessa si laureerà in Conservazione e restauro dei beni culturali all’Università della Calabria.
    Isabella, 27 anni, di Crotone, usa un bisturi per rimuovere l’intonaco, dopo averlo ammorbidito con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua. Già s’intravedono due figure di santi ma per identificarli servono tempo e pazienza. «È l’aspetto archeologico a rendere il lavoro interessante, e la pulitura permette di riconoscere le figure». Questo lavoro le è stato assegnato perché è precisa e minuta. Il cantiere, alla fine della navata sinistra, è piccolino.
    Isabella (una dei primi laureati del corso di laurea, istituito sei anni fa e coordinato dalla professoressa Donatella Barca) alterna giornate di lavoro in cantiere a momenti di studio all’università, quando c’è da attendere i risultati di laboratorio.

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    Angelo dell’Annunciazione, altro affresco recuperato grazie ai restauratori

    Lifiting a regola d’arte

    «Prima c’è la fase diagnostica: attraverso raggi X e infrarossi si cerca di capire com’è composto il dipinto. Poi si applicano i reagenti chimici. Innanzitutto per la pulitura, dove la pittura presenta strati che non consentono la lettura. E poi per il consolidamento dove la materia pittorica è indebolita dal passare del tempo», spiega Raffaella Greca, docente di Restauro, una dei relatori della tesi di laurea.
    «I reagenti chimici cambiano a seconda della composizione del colore, per bilanciarne il Ph. Si lavora affinché i materiali siano compatibili con quelli storici e per la reversibilità dei trattamenti». Le restauratrici spesso lavorano accompagnate dal suono dell’organo Mascioni. Anche l’organo, uno dei più grandi al Sud, è un’attrazione: gli studenti del conservatorio vanno spesso ad esercitarsi in cattedrale.

    Stile su stile

    Il ciclo pittorico risale probabilmente al 1300, ma la datazione è ancora incerta.
    Stesso discorso per gli altri due affreschi visibili su alcuni pilastri della navata destra: un Cristo e l’Angelo dell’Annunciazione.
    Furono ricoperti di intonaci e stucchi barocchi durante la più imponente trasformazione della cattedrale, avvenuta nel ’700 per volontà dell’arcivescovo Capece Galeota. «Quando si voleva rinnovare la diocesi, si modificava la cattedrale come segno di cambiamento», spiega suor Valentina.

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    Un affresco di Gesù recuperato grazie al restauro

    Di Milano, 40 anni, è a Cosenza quasi da due, dopo essere stata formata come educatrice. Lavora coi bambini e i ragazzi dei quartieri Santa Lucia e Spirito Santo, insieme alle associazioni S. Lucia e San Pancrazio, per contrastare l’abbandono scolastico.
    Con alcuni di loro porta avanti il progetto “Pietre vive”. Ai ragazzi insegna a fare le guide, dopo una formazione storico-artistica e degli aspetti liturgici legati all’architettura. «Per esempio, l’arco della navata centrale del duomo non è perfettamente centrato perché simboleggia il Cristo in croce con la testa reclinata da un lato. Un simbolismo proprio dell’architettura cistercense».

    Psicoterapia di gruppo in cattedrale

    Nella cattedrale di Cosenza si può imparare anche ad ascoltare sé stessi.
    Da novembre 2021 lo psicologo Domenico Mastroscusa incontra i genitori dei ragazzi impegnati col catechismo per un percorso (gratuito) di psicoterapia di gruppo.
    Una volta al mese si ritrovano nella sala capitolare, una sala riunioni realizzata nel 1950. «Molti genitori lamentano problemi nel rapporto coi figli, così è nata l’idea di fare questi incontri».
    Ma non è una passeggiata. «Siamo partiti con 5 papà e ora sono rimaste solo le mamme. C’è ancora un pregiudizio sull’educazione dei figli che si considera prerogativa femminile», dice lo psicologo.

    Lo psicologo Domenico Mastroscusa durante una seduta coi genitori

    Una mamma separata, che vuole restare anonima, ne sa qualcosa. «Con mio figlio di 13 anni siamo riusciti a creare un rapporto col padre solo grazie allo sport».
    Caterina Paletta, invece, grazie a questo percorso ha messo in discussione l’educazione che aveva ricevuto. «Ho avuto una madre rigida e mi comportavo allo stesso modo con mia figlia. Ora lei mi racconta il suo mondo».

    Il lavoro nei quartieri

    Don Luca Perri con i ragazzi del catechismo

    La cattedrale di Cosenza è anche un punto d’osservazione privilegiato del centro storico e dei suoi problemi sociali e strutturali.
    «Organizziamo la recita del rosario nei quartieri, ogni primo venerdì del mese portiamo la comunione a casa dei malati, poi c’è la benedizione delle case: questo è anche un modo per monitorare la situazione. Quando è critica, come nel quartiere di Santa Lucia, tentiamo di dialogare coi servizi sociali», racconta don Luca Perri, rettore della cattedrale dal 2016, dopo essere stato il vice del suo predecessore, don Giacomo Tuoto (a lui si deve una guida approfondita sulla cattedrale di Cosenza edita da Pellegrini e ristampata quest’anno).

    Aria d’Europa: da Isabella d’Aragona allo Stupor Mundi

    Don Luca è anche socio fondatore dell’associazione 8centoCosenza, che cura le celebrazioni per l’ottavo centenario della cattedrale.
    Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha tenuto una lectio magistralis sul Duomo di Cosenza, elogiandone il meticciato artistico-culturale, a cominciare dal monumento funebre a Isabella d’Aragona, del 1275 circa, di ignoto artista francese.

    Il mausoleo funebre di Isabella d’Aragona

    La spagnola regina di Francia era incinta di sei mesi quando cadde da cavallo attraversando il fiume Savuto, di rientro dall’ottava crociata. Secondo alcune ipotesi, le parti deteriorabili del suo corpo, compreso il feto, furono seppellite al Castello Svevo, mentre lo scheletro fu trasferito in Francia.
    Nel duomo rimane il mausoleo che per lo storico dell’arte Cesare Brandi vale da solo una visita a Cosenza. Il monumento fu nascosto nel ‘500, poi riposizionato dove doveva trovarsi in origine, nel transetto, sul lato sinistro. La storia della cattedrale s’intreccia con la storia della città e quella europea anche in altre occasioni. Quando l’imperatore Federico II venne a Cosenza per la consacrazione del duomo, il 30 gennaio 1222, probabilmente per la prima volta la città dei bruzi adottò il gonfalone coi sette colli.

    Piccole storie importanti

    Ma le piccole storie tengono in vita la cattedrale. Maria Anna Marrello ne custodisce le chiavi dal 1997, apre e chiude la chiesa tutti i giorni da allora. «All’inizio non volevo questa responsabilità, anche la famiglia era contraria». Poi la fede ha preso il sopravvento.
    La signora Annamaria, come la chiamano tutti, ha 73 anni ed è l’assistente del parroco. Dal suo mazzo di chiavi estrae quella che apre la grande porta di legno intagliato della sagrestia. Poi apre i bellissimi armadi all’interno (tutti opera di artigiani roglianesi del 1700, come il coro ligneo nell’abside), per mostrare le tende che ha cucito per il tabernacolo e le tovaglie con cui prepara l’altare prima delle funzioni religiose.

    Maria Anna Marrello e Giovanna Brescia, le “tutrici” della cattedrale

    La signora Giovanna Brescia, 80 anni, la aiuta di tanto in tanto con le pulizie, lavando a mano la biancheria più delicata.
    Ad esempio, i due corporali in lino, le tovaglie che si mettono sotto il calice, ricamati a punto a giorno, con le spighe e l’uva, da donna Rachele Andreotti Loria in occasione della visita del cardinale Parolin. La signora è una professoressa in pensione del liceo classico Telesio, discende da antica famiglia nobiliare della città ed ha ereditato il palazzo Giannuzzi Savelli.

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    L’ingresso della cappella dei nobili

    Il mistero della cappella dei nobili

    Proprio il barone Domenico Giannuzzi Savelli fece restaurare, alla fine del ’700, la cappella dei nobili.
    Quest’antica chiesetta del ’400 sorge nel giardino, sull’antico cimitero della cattedrale, ricoperto dopo che l’editto di Saint-Cloud nel 1804 vietò le sepolture entro le mura cittadine. Vi si accede dall’interno, dal corridoio della sagrestia del duomo, e versa in stato d’abbandono.

    Fossa funebre della Cappella dei nobili

    Sul pavimento della chiesa si vedono le fosse tombali in cui venivano sistemati i cadaveri in posizione seduta per far confluire gli umori della decomposizione in un canale di scolo sottostante. I corpi subivano così una mummificazione naturale. La congregazione dei nobili della città, cui era stata ceduta la chiesa, si occupava infatti di dare sepoltura ai condannati a morte.
    Chissà se i 2 milioni di euro stanziati dal ministero per la cattedrale si potranno usare, tra le altre cose, anche per restaurare la cappella dei nobili.

    Simona Negrelli

  • Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Federico, il Duomo e i carnefici di Cristo

    Le manifestazioni per gli ottocento anni della ricostruzione della cattedrale di Cosenza hanno offerto diverse occasioni per ripercorrere la storia della città e della sua vasta diocesi.
    Da qualche giorno è stata inaugurata una mostra presso le Sale espositive della Provincia di Cosenza, in corso Telesio: 1222-2022 Tam Antiqua, quam Nova. La Cattedrale si racconta.

    La Cattedrale perduta

    L’ingresso è gratuito e l’esposizione resterà aperta fino al 30 settembre. Nella sezione La cattedrale prima della Cattedrale sono esposti reperti emersi durante le campagne di scavo. E ci sono immagini relative alla Cattedrale perduta, cioè il rifacimento di epoca barocca rimosso con l’importante restauro di fine Ottocento, che ha ripristinato l’originario edificio romanico.
    Le cattedrali nel corso dei secoli rispecchiano gli orientamenti artistici dominanti e solo di recente si è affermato il principio di non snaturare gli edifici, di non alterarne le linee.

    Il monumento nascosto

    Torniamo al Duomo: sotto gli stucchi barocchi era occultato anche il monumento funebre alla regina Isabella d’Aragona, che oggi si mostra in tutta la sua eleganza.
    Una sala video consente di immaginare come fosse l’edifico barocco. Un percorso efficace, coinvolgente.
    Forse qualche pannello storico avrebbe agevolato l’approccio: sarebbe bastato un semplice elenco dei vescovi attestati dalla tradizione per evidenziare l’antichità delle vicende.

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    Il monumento funebre di Isabella d’Aragona

    La leggenda nera: i bruzi carnefici di Gesù

    La storia religiosa si intreccia con l’antropologia, con l’arte e la vita quotidiana. Un insieme di dati, devozioni, leggende che si possono essere avvicinate con rispetto o rifiutate in blocco, come un peso fastidioso di un passato ormai sepolto.
    Tra le leggende, quella che vuole i carnefici di Gesù sul Golgota reclutati tra gli antichi bruzi è antica e di complessa lettura.
    Il grande storico Augusto Placanica l’ha analizzata in profondità, a proposito dell’immagine della Calabria, degli stereotipi sui calabresi e sulla loro indole. È una leggenda che inizia a circolare nei primi secoli dell’era cristiana, poi rinvigorita durante la dominazione spagnola, che ha contribuito a creare un alone negativo sulla Calabria in epoca moderna.

    Arriva l’imperatore

    Difficile dire cosa ne pensasse il clero cosentino durante il Medioevo, data la scarsa documentazione. Gli ecclesiastici di allora erano diversi, per cultura e stile di vita. Solo alcuni compivano un corso di studi regolari e approfonditi.
    L’imperatore Federico II fece il suo ingresso solenne a Cosenza, il 30 gennaio 1222, accompagnato dai suoi cavalieri e dall’abituale seguito di dame, concubine, animali esotici, nani e ballerine, sapienti ebrei e arabi. La città, ancora raccolta sulle alture tra i due fiumi, lo accolse con entusiasmo. Proprio per l’occasione, i cosentini ricostruirono la cattedrale, distrutta dal terremoto del 1184, e la riconsacrarono alla presenza dell’imperatore.

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    Federico II di Svevia

    Il vescovo che ricostruì il Duomo

    Luca Campano, l’arcivescovo artefice della riedificazione, non poteva essere più soddisfatto. D’altronde, seguire per anni quel cantiere era faticoso: occorreva sorvegliare i conti e dare indicazioni precise alle maestranze affinché non travisassero i simboli e le proporzioni delle parti.
    Completata l’opera, già pregustava di poter tornare ai suoi amati studi. In particolare, alle opere del suo maestro, Gioacchino da Fiore, di cui era stato il fedele scrivano fino alla morte.
    Cercò forse di nascondere il suo turbamento quando, durante la messa, l’imperatore si fece avanti con il suo dono per la nuova cattedrale? Una preziosa croce reliquiario, raffinata, con diverse pietre preziose incastonate e smaltata a colori vivaci. Una croce. Perché non una coppa, una pisside, un prezioso bastone pastorale, una mitra riccamente decorata?

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    Luca Campano, il vescovo che ricostruì il Duomo di Cosenza

    Una croce in dono

    Perché proprio una croce, qui, nella terra dei bruzi, carnefici di Gesù?
    Il suo maestro Gioacchino amava i simboli, ne aveva immaginati e disegnati tanti, affidati poi ai miniatori più abili per i preziosi manoscritti delle sue visioni. Eppure anche lui aveva evitato di usare come simbolo la croce.
    A Luca Campano quella preziosa croce reliquiario ricordava certe visioni apocalittiche del suo maestro, che tanta inquietudine suscitavano nei lettori e nelle gerarchie ecclesiastiche? Dodici secoli erano trascorsi dai fatti del Golgota e i fedeli della sua grande diocesi non gli sembravano migliori o peggiori degli altri cristiani dei suoi tempi.
    Ignoranti, rissosi, ubriaconi, violenti e grossolani nel linguaggio e nei pensieri. Ma allo stesso modo dei Lombardi, dei Franchi e dei Germani. Allora, perché ricordargli quella colpa così lontana nel tempo?

    Ma Federico sapeva?

    La croce reliquiario venne riposta nel tesoro della Cattedrale, dove è tuttora custodita.
    Sono previste altre manifestazioni per gli 800 anni della ricostruzione che portò a Cosenza l’imperatore Federico II e il suo dono. L’imperatore era un uomo colto, cosa rara per un sovrano medievale. La sua corte contava numerosi intellettuali, di solida cultura. Federico aveva avuto notizia della leggenda? E Luca Campano aveva mostrato turbamento per quel richiamo implicito al supplizio?

    La stauroteca donata da Federico II

    Vescovi bruzi alle crociate

    O forse non ebbe alcun turbamento perché, come tutti i vescovi medievali, aveva altre gatte da pelare. Già: i presuli dell’epoca gestivano delle mansioni oggi inimmaginabili.
    Il grande scrittore cosentino Nicola Misasi racconta in un reportage sulla sua città che «i suoi presuli od arcivescovi, ebbero titolo di conte e giurisdizione sulle terre di San Lucido, e di Rende. Con Pietro, Presule e perciò conte di Rende e di San Lucido, mandò nella prima crociata mille soldati in Terrasanta, tutti cittadini di Cosenza che combatterono assai valorosamente».
    Poi aggiunge: «il Tasso ne fa menzione nel canto VII della Gerusalemme Liberata; … questo loco non è il terzo giorno/ Tolse ai pagani di Cosenza il Conte».

    Il supplizio di Gesù, fotogramma da “The Passion” di Mel Gibson (2004)

    Vescovi guerrieri

    Evidentemente, alcuni arcivescovi di Cosenza dovevano avere un certo piglio guerriero. Al riguardo, Misasi cita un altro episodio, avvenuto durante le lotte tra gli Svevi e la Chiesa. Nel 1260, durante la battaglia di Benevento, Manfredi, figlio naturale ed erede politico di Federico II, perse la vita e il regno. E l’arcivescovo Pignatelli, «pastor di Cosenza», gli negò la sepoltura cristiana, dato che era un nemico della Chiesa.
    L’episodio è citato da Dante nel Canto III del Purgatorio: «Se il pastor di Cosenza che alla caccia/ Di me fu messo per Clemente allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia».
    Altri tempi. Oggi non capita di vedere arcivescovi armati di tutto punto che dirigono operazioni militari o fanno disseppellire e abbandonare ai cani i resti di un principe caduto in battaglia.
    Siamo anche consapevoli della differenza tra leggenda e storia. Tuttavia, le leggende che pesano ancora sull’immagine di questa terra periferica sembrano non finire. Infatti, ci sono anche quelle sui calabresi ribelli per natura e incapaci di vivere secondo le regole. Briganti per vocazione.

    Mario De Filippis

  • Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Giufà, Grotowski e quel garage eretico: la buona compagnia di Antonante

    Ci sono ricordi che contano molto, perché diventano fatti, luoghi, cerchie di persone. Ci sono persone che in mezzo a un corteo di amici, spiccano perché raccontano molto non solo di te e del tuo mondo, ma anche di una città e di un certo tempo della vita. A volte anche di più. Dato che ci sono figure che diventano (e sono, persino senza saperlo o volerlo) storia: senza le quali mai si sarebbe avverato un cambiamento, e mai sarebbe accaduto un vissuto collettivo e individuale.

    Una persona unica

    E ci sono luoghi che per questa via diventano movimenti, istituzioni, posture, compagnie, modi di essere. E quelle persone speciali che hanno fatto tutto questo e sono lo spirito di quei luoghi, le vorresti sempre con te. Te ne accorgi col tempo, a distanza. A cose fatte. Quando mancano di più. Antonello Antonante era uno di queste persone indispensabili e uniche, e il teatro dell’Acquario – che era casa sua-, uno di quei luoghi speciali. L’involucro che ha dato forma alle mille metamorfosi che il teatro rende possibili. Abbiamo tutti la nostra prima memoria teatrale. La mia risale alla fine dei ‘70 e ai primissimi anni ‘80, e mi riporta a Cosenza, lì, al Teatro dell’Acquario. Io ero uno studente di provincia, nemmeno ventenne, appena iscritto al primo anno di filosofia all’Unical.

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    Il palcoscenico del teatro dell’Acquario

    Il garage metropolitano ed esistenzialistico

    L’Acquario–Centro Rat era uno di quei posti in cui nasceva il cambiamento di questa regione difficile. Era sorto in mezzo ai palazzoni anonimi di una via secondaria discosta dal centro cittadino, quasi a bocca di fabbrica del vecchio stadio in cui giocava la Morrone, nella zona di espansione anni ‘60 di Cosenza. Un luogo che a cominciare dal nome evocativo, tra l’avanspettacolo e la cantina esistenzialista, di quei tempi tra i benpensanti cosentini si usava definire “off”. Di fatto aveva l’aspetto un po’ losco, anarchico e complice di un garage metropolitano (e come deposito-garage fino a poco prima era servito) in cui succedevano cose importanti e un po’ strambe, per Cosenza, per noi che eravamo giovani, per la Calabria di allora.

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    Il manifesto del Living Theatre a Cosenza

    Grotowski a via degli Stadi

    Era già l’incubatoio di tante novità che stavano per prendere vita. Era un teatro nato dal basso del Centro Rat di Antonante, con azioni teatrali che erano concepite per il fondale della strada, in mezzo alla vita quotidiana dei quartieri popolari, sorti dai laboratori della sperimentazione del “teatro povero”, senza palcoscenico, portati in giro sugli sterrati in mezzo ai casermoni di periferia di via Caloprese, via degli Stadi, via Panebianco. Ma c’erano già stati gli spettacoli memorabili su testi di Grotowski e Genet, e i mitici happening teatrali degli anarchici del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina.

    Il garage diventa teatro dell’Acquario

    Poi venne il teatro degli spettacoli sotto un tendone da circo era il tendone del Circo Marius, che Antonello comprò a Roma, in una specie di trattativa-svendita che era già teatro. Quel tendone di fortuna ospitò gli spettacoli sull’utopia di Campanella e la riattualizzione critica dei canovacci di “Mascare e Diavuli” della commedia dell’arte, conGiangurgolo in commedia” (e Antonello era lui stesso Giangurgolo), fino a quando il 7 marzo del 1981 non fu inaugurato in quel mitico garage-capannone, ex palestra polisportiva ed ex deposito, ripulito e riadattato a sala con sedute ricavate da panconi di legno e sedie pieghevoli, di via Galluppi 15-19, il Teatro dell’Acquario.

    Un teatro con gente libera e anticonformista

    Il primo spettacolo messo in scena fu «un Woyzeck bellissimo di Buchner, di Libera Scena Ensamble, per la regia di Gennaro Vitiello», ricordava Antonello. Erano tempi buoni per la cultura e il teatro nella Cosenza di allora, quando assessore alla cultura era stato chiamato uno come Giorgio Manacorda. Da quel 1981 il Teatro dell’Acquario cominciò a programmare con regolarità le sue produzioni e quelle delle compagnie «provenienti da ogni parte, dall’Italia e dall’estero». Anch’io da quel momento in poi presi a frequentare assiduamente quel posto magico, anche fuori dagli orari degli spettacoli. Di quel posto mi piaceva l’atmosfera confidente e alternativa, l’aria chiusa che sapeva di polvere e fumo, i rumori delle macchine di scena, il buio in cui ci si poteva calare a tutte le ore. La gente che ci trafficava, che stava intorno e dentro quel garage fuori mano per fare teatro, aveva qualcosa di speciale. Era attraente, libera, anticonformista. Recitavano, avevano storie strane, vivevano su un palcoscenico, viaggiavano.

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    La locandina del “Woyzeck” di Buchner

    Un po’ circo un po’ santuario

    L’Acquario aveva qualcosa che mi ricordava sempre un misto di odore di circo e di santuario. Bastava quello per dargli l’alone improrogabile di un’urgenza, una calamita: in quegli anni di fermenti, lotte e utopie all’Acquario si doveva andare. Per il teatro, per l’arte, per la politica, per le ragazze. Per tutto il resto che poi è diventato importante, importantissimo almeno per me. E io ci andai, come tanti, e cosi divenni spettatore di teatro. E scoprì lì che il teatro mi piaceva e da allora continua a piacermi. Compravo l’abbonamento agli spettacoli quando potevo permettermelo. Ci andavo (e ci vado) ogni volta che posso e adesso sempre meno di quanto vorrei.

    È uno di quei luoghi che col tempo è diventato indispensabile: arrivare lì ed entrare in quel luogo (anche se oggi che per sopravvivere alla morìa culturale di questa città è diventato teatro-bistrot, è molto cambiato rispetto ad allora) mi emoziona sempre; mi intimidisce, mi affascina, mi diverte, mi ci sdoppio. Come succedeva la prima volta, allora, quasi quarant’anni fa. Forse anche per questi motivi l’Acquario e la sua gente, Antonello e Dora su tutti, divenuti col tempo amici da quegli anni, col tempo non l’ho più persa di vista.

    La legge per riconoscere il Centro Rat

    Da consulente dell’assessore regionale alla Cultura Augusto Di Marco, alla metà degli anni ’90 mi adoperai per il varo di una legge specifica per il riconoscimento del Centro Rat (LR 27/’95), che ne istituzionalizzava la funzione di teatro stabile di produzione e sperimentazione teatrale. Ma anche successivamente a quella legge, la «classe politica di questa regione, distratta, arrogante, sonnacchiosa», come scrive lo stesso Antonello Antonante in una intervista del 2011 alla storica del teatro Valentina Valentini, lasciò quella legge lettera morta, decretando di fatto il declino del centro Rat e la crisi, in cui ancora oggi si dibatte senza trovare sbocchi, l’insieme del vivacissimo movimento teatrale cresciuto nel frattempo intorno all’esperienza teatrale fondata a Cosenza da Antonante.

    Per noi poi vennero altre cose. Tanti incontri e una consuetudine durata fino agli ultimi anni, quando mi chiedeva di venire gratis agli spettacoli a patto che gli scrivessi una recensione, poi i tanti progetti scritti e tentati, collaborazioni che poi per qualche motivo diventavano impossibili, e il rapporto sempre difficile con la città e e le istituzioni di questa regione che non ama la cultura e il teatro.

    Antonello Antonante con l’immancabile basco

    Giufà e il mare

    Poi libri, per me importantissimi. Come il ricco volume-memoriale Centro Rat Teatro dell’Acquario – Trent’anni di differenza di cui Antonello e Dora mi affidarono la curatela, con testimonianze, che raccoglieva tra gli altri di Giorgio Barberio Corsetti, Gianfranco Berardi, Alessandro Bergonzoni, Toni Servillo, Valentina Valentini, Valeria Ottolenghi, Saverio La Ruina, Alfredo Pirri, che feci uscire per Abramo editore nel 2011, quando la parabola dell’Acquario, privo di aiuti e di attenzioni dovute, scendeva purtroppo dentro la crisi istituzionale che ancora avvolge tutto il teatro di ricerca calabrese.

    Infine ci fu il bellissimo Giufà e il mare, un testo divertente e profondo frutto di uno spettacolo-ricerca realizzato per il teatro di Antonello, che lui stesso aveva condotto sulle fonti mediterranee di questo personaggio universale e concorde emblema dell’animo e della narrativa popolare, che pubblicai ancora per Abramo nella collana “Teatro in tasca”.

    La tribù dei teatranti

    Per me resta il fatto che l’ambiente che girava intorno al teatro dell’Acquario e al centro Rat, negli anni, è diventato ed è rimasto anche in mezzo alle crisi convulse alle trasformazioni catastrofiche degli ultimi anni, un punto archimedico nella mia vita. Li sono nate conoscenze, amicizie e storie che per ragioni diverse hanno avuto la forza di cambiare anche il corso della mia età d’uomo. Come scrivono in molti in queste ore dopo la sua morte, Antonello con la sua meravigliosa tribù di teatranti è stato un faro colto e cosmopolita in una città che si è via via rassegnata a restare piccola e chiusa. Lui e suoi spettacoli, il suo teatro, finché sono rimasti accesi hanno tenuto viva una speranza in questa città scaltra e annoiata, che senza luoghi e persone come lui e l’Acquario si ritrova adesso è ancora più buia e spenta di idee e di cose belle.

    Il programma della stagione 1976/1977 della Tenda di Giangurgolo

    Un sorriso da vecchio marinaio

    Per molti della mia generazione il teatro non è stato il Rendano, con i suoi stucchi, le signore impellicciate ai galà delle prime, né le rappresentazioni classiche e paludate di autori noti e compagnie di grido. Ma la polvere, il buio, il fumo, le pensate astruse, i copioni stridenti, i commenti salaci e le risate oscene, le compagnie off e gli strani spettacoli dell’Acquario. Oggi di Antonello mi ritorna in mente la sua faccia da Giangiurgolo e il suo nasone a melanzana, il suo sorriso affabile e obliquo da vecchio marinaio d’avventure, sempre affabile, giocoso e arruffato come un vecchio Giufà. L’eredità che Antonello Antonante lascia a questa città immemore e a questa Calabria distratta è una eredità fragile e luminosissima.

    Ci dice che il teatro è una cosa viva, è un’azione costruita da persone che il teatro vivono. Esiste se lo fai esistere il teatro, insieme ad altri, se crei una comunità, e non puoi farlo mai vivere da solo. Ecco perché Antonante e l’Acquario sono stati (e restano) il primo teatro di questa regione e di questa città. Ma Antonello è però già adesso ben più di un ricordo in questo arido e terribile scorcio di estate.

  • Antonello Antonante: dal teatro tenda di Giangurgolo fino alla comunità dell’Acquario

    Antonello Antonante: dal teatro tenda di Giangurgolo fino alla comunità dell’Acquario

    Ci sono giorni duri, di quelli in cui non basta nascondersi. Ieri Cosenza ha perso due figure straordinarie della propria storia recente. Quasi contemporaneamente alla morte di Franco Dionesalvi, poeta e intellettuale immerso nell’azione politica, se n’è andato anche Antonello Antonante, attore, autore e regista teatrale.

    Antonello Antonante e la tenda di Giangurgolo

    In un colpo questa città ha perso due protagonisti di una stagione culturale e politica ormai decaduta e lontana. Ma i fermenti che ancora agitano le idee, le visioni e i progetti attuali sono i semi di quel tempo fertile. Dove oggi sorge una banca, una volta c’era un teatro sotto una tenda da circo, con le sedioline di legno scomode, gli spettacoli coraggiosi, il pubblico estasiato. Era la tenda di Giangurgolo, di cui Antonante era uno dei protagonisti. Le storie di quelle persone non sono fatte solo di recite, ma di battaglie vere, per tenere vivo un alito di cultura. Furono quelle persone e Antonello tra loro, a portare a Cosenza il Living Theatre, la recitazione della compagnia teatrale sperimentale di New York travolse corso Mazzini, stupì, scandalizzò, scosse i cosentini, li sedusse, li attrasse, li lasciò sgomenti.

    Ma la stagione della Tenda di Giangurgolo era al suo termine e Antonello Antonante cominciò a pensare a un teatro stabile. Trovarono un enorme magazzino su via Galluppi. Si trattava di un deposito di medicinali e per giorni il lavoro comportò lo sgombero di tutto quel materiale. Solo dopo e lentamente quello spazio prese le sembianze di un teatro. Era nato l’Acquario. Sulle tavole di legno di quello spazio salirono in tanti, esponenti nazionali e stranieri, piccole esperienze locali.

    Dario Fo e Antonello Antonante

    Dall’Acquario al Rendano

    In quel teatro risuonarono le voci di Dario Fo e Franca Rame, di Paolo Rossi e Paola Borboni, di Toni Servillo e Alessandro Bergonzoni. Ma anche la compagnia del centro Rat viaggiò molto, con tournée in Polonia, Armenia, Danimarca, Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, Malesia, Svizzera, Tunisia. Erano i tempi dei viaggi fatti a bordo di un furgone scassato, della battuta gridata passando davanti al Rendano che annunciava che un giorno o l’altro quel teatro sarebbe stato loro. E in parte fu davvero così, quando sotto la sindacatura di Salvatore Perugini, Antonello Antonante fu chiamato a fare il direttore artistico del teatro della città.

    Un cosentino alla guida del Rendano, quello che molti anni prima, durante la notte di Natale, per salvare il suo teatro sotto una tenda da circo era salito su una impalcatura attaccata ad un palazzo vicino per spiegare dalla finestra a uno scemo che non doveva buttare petardi, altrimenti sarebbe andato tutto a fuoco. Immaginate la scena: Antonello che bussa alla finestra di una famiglia per dire che certe cose non si fanno. Era teatro pure quello. Ed era magnifico.