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  • Reggio, Rem e Paul McCartney: che musica per Francesco Villari

    Reggio, Rem e Paul McCartney: che musica per Francesco Villari

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    Francesco Villari è andato via molto presto da Reggio: subito dopo il liceo. Arrivato a Roma, già durante l’università,  ha messo a frutto quella che era sempre stata la sua passione: il giornalismo musicale. A ICalabresi racconta il suo cammino. Che lo ha portato a intervistare big del rock. E collaborare con mostri sacri della musica leggera italiana.

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    Francesco Villari, giornalista e scrittore di Reggio Calabria

     

    Dove è nato il fuoco sacro per il giornalismo?

    «Sono entrato nella prestigiosa Università della Musica, che era stata creata da due grandi maestri, Gino Castaldo ed Ernesto Assante. Lì si imparava concretamente a scrivere una recensione di un pezzo, di un disco o di un concerto. Il preside della facoltà era Gianfranco Salvatore, famoso etnomusicologo. Da subito, le opportunità erano tante: così ho cominciato con la rivista Tutti Frutti, che era la bibbia del giornalismo di cultura alternativa in quei primi anni Novanta. Da lì sono passato al Mucchio Selvaggio, Rumore e naturalmente anche la bellissima esperienza con Musica del quotidiano La Repubblica. Era un cammino a metà esatta tra il pratico e il teorico, al punto che dai nostri laboratori universitari è nata proprio la squadra che ha creato l’inserto del quotidiano, allora ancora guidato da Scalfari».

    Quanto è durato il percorso lì dentro?

    «Tre anni. Come un master post-universitario».

    Quando ancora eri a Reggio e hai capito che questa doveva essere la tua strada, come l’hanno presa in famiglia?

    «Io vengo da una famiglia che fortunatamente ha sempre avuto una maggiore apertura mentale, ma è chiaro che la “vena artistica” viene sempre vista con sospetto. La mia è una famiglia di storici, quindi ha vissuto di qualcosa di molto tangente all’arte. Rosario Villari si è occupato di storia moderna, Lucio di storia contemporanea, mio padre Nicola di storia del folklore. Quindi, come per discendenza spontanea, io mi occupo di storia della musica. Inizialmente mi hanno consigliato di approcciarmi a qualcosa di più concreto, già all’epoca si pensava che queste strade fossero un po’ complicate e nonostante questo io sono sempre stato un sognatore. Alla fine è andata anche bene».

    All’inizio dove vivevi a Roma?

    «All’inizio la classica vita del fuorisede calabrese a Roma: le prime case in comune con alcuni amici in zona Tiburtina e Prenestina, poi invece sono diventato pariolino».

    Com’è iniziata la collaborazione con “Tutti Frutti”?

    «È stata la mia prima esperienza. Cinquanta-sessanta recensioni di dischi a settimana. Poi anche tanti concerti. Erano gli anni del Palladium alla Garbatella, del Palaeur. All’epoca nascevano i Modena City Ramblers, i Bluvertigo, gli Almamegretta: la scena alternativa italiana era fiorente e io ero lì ad assistere. Poi l’intervista agli Oasis».

    Paul McCartney

    E sono arrivate anche le “trasferte”.

    «Sì, per il Mucchio. La mia prima trasferta importante a New York nel 1994, per intervistare i REM, che ancora non erano famosi, sarebbero esplosi più avanti con l’album Out of time, ma in Europa ancora non li conosceva nessuno. Poi a Londra con Paul Mc Cartney, una leggenda davanti ai miei occhi. Abbiamo parlato del suo album Off the ground, che era appena uscito. La mitologia vera».

    E i cantautori italiani?

    «Sono arrivate le occasioni per intervistare anche loro. De André, De Gregori, Dalla, Battiato. Con Franco ho addirittura realizzato un disco, in collaborazione con il Banco del Mutuo Soccorso. Si intitolava Imago Mundi».

    Hai continuato anche con “Rumore”. Esperienze di rilievo?

    «L’intervista con Roger Taylor, batterista dei Queen. Anche gli Spearhead di Michael Franti, un gruppo hip hop molto interessante, crossover tra i generi».

    Francesco Villari, quale è stato l’incontro più strano?

    «Senza dubbio quello con Fish dei Marillion. Lui era completamente sbronzo. Paolo Maiorino, un caro amico dirigente della Emi dell’epoca, mi chiese se avevo bisogno di un traduttore. Io mi piccai perché pensavo di non averne bisogno. Dopo capii il perché. Fish era un boscaiolo scozzese, era come se parlasse un sardo. Facevo finta di capire tutto. Così mi sono dovuto inventare l’intervista. Lo so che non si dovrebbe dire. Ma è quello che ho fatto, tanto ormai non mi possono più radiare. Però il giorno dopo mi chiamò l’ufficio stampa del cantante per farmi i complimenti».

    A un certo punto qualcosa cambiò nell’editoria musicale.

    «Musica ha cominciato a uscire autonomamente ma non ha funzionato. Le altre riviste e gli altri giornali stavano cambiando molto rapidamente, diventando le “fanzine” prezzolate dalle case discografiche. Non si scriveva più di un disco che piaceva davvero, ma lo si faceva per far piacere a loro. Ho cominciato a fare produzione, altre cose. Poi, per motivi sentimentali, sono tornato a Reggio nel 2012».

    E com’è iniziata la nuova avventura di “Cartoline Rock”?

    «Non potevo rinunciare alla musica e alla scrittura musicale. Così è nata la pagina Facebook (che oggi ha quasi settemila iscritti), mi serviva come sfogo per continuare a seguire la mia passione ma all’inizio non pensavo che il mezzo dei social media potesse avere così tante potenzialità di diffusione. Poi invece si è creata una bellissima rete, con Castaldo, Assante e anche con Carlo Massarini, poi Gegé Telesforo, Ellade Bandini e tanti altri. A un certo punto questa comunità spontanea è cresciuta un po’ anche per la dimensione “forzata” online (eravamo ancora in piena pandemia) con un megaevento alternativo il Primo Maggio del 2020, realizzato dagli studi di Radio Touring 104».

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    Vota Jim Morrison e Jimi Hendrix, la “campagna elettorale” di Cartoline rock

    E così hai capito che volevi uscire dal guscio virtuale?

    «Sì, ho capito che questa comunità voleva guardarsi in faccia, erano stati anni complicati. Così ho creato Cartoline Club. Una specie di hang out di Cartoline Rock: ho cominciato a organizzare eventi musicali, di letteratura, cinema, teatro, stand up comedy. Il locale, prima nella zona di via Aschenez (al centro di Reggio). D’estate abbiamo avuto la nostra appendice Cartoline beach club, su una terrazza sul mare in zona Pentimele e da poco abbiamo una nuova sede più grande, in via Friuli (zona Parco Caserta)».

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    Cartoline Club a Reggio Calabria

    Che oggi è un locale a tutto tondo.

    «Sì, facciamo musica live, di tutti i generi. 140 eventi ad oggi. Per iscriversi al circolo bastano 5 euro al mese e si può pagare con una o due annualità. Coinvolgiamo già una serie di artisti che vengono da un po’ tutta la Calabria. Facciamo anche serate di reading di poesia e letteratura, presentazioni di libri rassegne cinematografiche, la stand up comedy curata dal direttore artistico Rocco Barbaro. La rassegna jazz e quella blues. Poi c’è Rock Tales, curata da me con il chitarrista Salvatore Familiari e con la pittrice Luisa Malaspina che dipinge dal vivo. Ogni volta analizziamo un tema diverso affrontato dal rock, attraverso un filo conduttore di canzoni che ne hanno parlato. C’è un bar con piccola ristorazione all’interno, così ci si può anche fermare a consumare qualcosa. Non manca niente al Cartoline Club!».

    La pittrice Luisa Malaspina dipinge dal vivo al “Cartoline Club” di Reggio Calabria
  • Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Il Duomo di Cosenza e la sua storia in mostra a Villa Rendano

    Dalla Cattedrale a Villa Rendano è il titolo di un viaggio multimediale che unisce il fulcro simbolico della devozione cosentina allo storico palazzo che ospita la Fondazione Giuliani, la cattedrale come luogo sacro e l’antico edificio che fu dimora del celebre musicista come tempio laico e culturale. Un percorso virtuale, ovviamente, che si apre all’interno del Museo Multimediale Consentia Itinera di Villa Rendano. E la multimedialità che ne è la cifra caratterizzante non stempera le suggestioni anzi ne amplifica la portata.

    Identità oltre la fede

    Il percorso era stato già presentato in occasione dell’evento celebrativo degli ottocento anni della Cattedrale di Cosenza e inaugurato alla presenza del compianto monsignor Nolè, allora Vescovo della città. Adesso sarà nuovamente fruibile il 25 e 26 di Dicembre.
    Il museo è una delle tappe dell’impegno rivolto alla riscoperta e valorizzazione del centro storico di Cosenza attraverso percorsi immersivi che coniugano ricerche scientifiche e concettuali con il potenziamento del valore sociale e del senso identitario.
    Da questo punto di vista lo spazio dedicato al Duomo è potentemente significativo per il ruolo che il luogo rappresenta in termini di fede e di identità cittadina. Il Duomo, infatti, non è solo la chiesa principale del capoluogo, ma anche il centro, non solo simbolico ma quasi anche urbanistico, della città antica.

    Sette sale a Villa Rendano per raccontare il Duomo di Cosenza

    Nelle sette sale del Museo si troverà concentrata la storia pluricentenaria della Cattedrale e saranno raccontati gli sforzi compiuti per edificarla e nel tempo abbellirla, passando per tappe di straordinario significato come la donazione della Stauroteca da parte di Federico II, fino alla devozione speciale dedicata dalla popolazione cosentina all’icona duecentesca della Madonna del Pilerio, per arrivare ai monumenti funebri dedicati a Isabella d’Aragona e ad Enrico VII di Hohenstaufen, alle trasformazioni della facciata che l’edificio ha conosciuto nel corso del XIX e XX secolo, fino  le tombe dei martiri dei moti del 1843 presenti nella cappella del SS. Sacramento.

    Cosa fare per visitare la mostra

    In occasione del Natale questo viaggio nella storia e nella fede della città di Cosenza viene riproposto alla città dalla Fondazione Giuliani, a consolidare un impegno che lega quest’ultima al suo centro storico.
    Per informazioni e prenotazioni: prenotazionivillarendano@gmail.com

  • Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

    Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

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    Un signore distinto si aggirava nei mesi scorsi tra i vicoli del centro storico di Cosenza, incuriosito e affascinato dalle pietre antiche di Corso Telesio. Quel signore si chiama Giorgio Pala, è un architetto di fama nazionale, che recentemente ha lavorato al restauro del parco archeologico del Colosseo. Cosa ci facesse da queste parti è presto detto: il suo studio romano si è aggiudicato i lavori di riqualificazione di piazzetta Toscano e per qualche mese ha frequentato la parte vecchia della città in cerca dell’idea migliore per ripensare questo luogo.

    I soldi del Cis per piazzetta Toscano

    Una partita da un milione e duecentomila euro (soldi previsti dal Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della cultura) per mettere mano all’opera più controversa della città, con la sua spigolosa copertura di ferro e di vetro nata per “custodire” l’area archeologica sottostante (i resti di una domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale), ma da decenni oggetto di polemiche per lo stato di inesorabile degrado in cui versa. I fondi sono quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) al cui iter per la destinazione alla città dei Bruzi aveva dato un forte impulso la Cinquestelle Anna Laura Orrico, in veste di sottosegretaria nel governo Conte bis.

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    La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico

    Due giunte, altrettanti progetti

    La struttura attuale, progettata dall’architetto Marcello Guido e realizzata negli anni ’90, è danneggiata in più parti, la manutenzione è complicata e costosissima, i resti romani hanno finito per essere ricettacolo di sporcizia, coperti da erbaccia e buste di spazzatura. Nel 2018 l’allora sindaco Occhiuto annuncia un finanziamento per «una rivisitazione» dell’opera che – garantiva il primo cittadino – l’avrebbe resa «più funzionale, accessibile, visitabile anche nella parte archeologica». Nulla, però, è accaduto.

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    Le erbacce sotto la copertura che impedisce la piena fruizione dell’area

    A distanza di anni, con una nuova giunta in sella, riecco il Cis con un altro progetto. Anzi, due: Pala e il suo team, infatti, nell’aggiudicarsi i lavori hanno presentato due proposte (con una identica previsione di spesa) per la riqualificazione urbanistica e funzionale di piazzetta Toscano con la valorizzazione dei reperti. La prima opzione prevede di salvaguardare l’attuale copertura. La seconda, invece, propone di “smontare” l’opera realizzata in ferro e vetro e dare una nuova vita all’area lasciando la piazza aperta e il parco archeologico fruibile dai visitatori.

    La promessa di Alimena: lavori al via ai primi di gennaio

    Chi deciderà? A scegliere la migliore tra le due proposte presentate dal prestigioso studio romano dell’architetto Pala, aggiudicatario dell’appalto, sarà la Conferenza dei servizi che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo tutti gli enti che a vario titolo sono interessati al futuro di piazzetta Toscano. L’ultima parola sulla riqualificazione di quest’area dall’immenso valore storico e artistico, spetta però alla Sovrintendenza, che potrà porre il suo veto nel caso in cui non ritenga garantita la tutela dei reperti.

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    Il consigliere comunale con delega al centro storico Francesco Alimena (PD)

    Pare quindi che il 2023 sarà l’anno del restyling della vituperata piazzetta, l’apertura dei cantieri è prevista per i primi di gennaio, «la tempistica è chiara, già a metà del mese i lavori partiranno» garantisce Francesco Alimena, oggi consigliere comunale con delega alla città vecchia ma sostenitore dei Cis fin dalla prima ora. «Stiamo per cambiare il volto del centro storico – dice – e questa volta non si tratta di proclami ma di fatti».

  • Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

    Strina, presepe e comete: che fine ha fatto Natale?

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    Arrivano i giorni del Natale con i suoi preparativi, i giorni delle tradizioni popolari, delle riunioni di famiglia, del cibo cucinato con cura e consumato allegramente in comune. E c’è, o c’era, anche la preparazione del presepe, quello immortalato in commedia. Molti ricordano Natale in Casa Cupiello per quella domanda, un vero tormentone, Te piace ‘o presepe, che Luca ripete più volte al figlio (ad essere precisi, la domanda è Te piace ‘o Presebbio), che si ripete fino all’ultima scena, quando per l’ennesima e ultima volta, Luca Cupiello domanda -fiducioso e sconfortato- al figlio che non ne capisce il fascino: «Te piace ‘o presepe?».

    Il presepe al centro della casa era anche il fulcro delle celebrazioni della fede popolare del Natale calabrese. La sua realizzazione era un rito fondamentale, ora è calante. Il presepe era un vero e proprio atto di creazione, un tentativo di riproduzione figurata dell’ordine del mondo, in cui il paese e la casa, macrocosmo e microcosmo, coincidono e diventano spazio domestico e sacro. Le rappresentazioni tradizionali parlano così attraverso le figure del presepe e della sua geografia, naturale e celeste, mettendo al centro il trionfo dei simboli della luce che risorge e prepara l’avvento.

    L’angelo e Giampietru

    Il presepe, una volta ultimato, doveva essere illuminato dalla luce della stella cometa.
    La stella fissata sopra il cielo sulla capanna della nascita era il segno luminoso che avrebbe indicato ai magi il cammino che li avrebbe condotti la notte di Natale al cospetto della grotta e davanti alla nascita di Gesù, annunciata da un’altra creatura celeste, l’Arcangelo Gabriele, e da un’altra statuina, sempre presente tra le figurine dei pastori che popolavano il presepe, il Pastore delle Meraviglie, detto confidenzialmente Giamiupetru (Giovanni-Pietro). L’arcangelo e Giampietru, avvistatori di luce e stelle, contro le tenebre, annunciano l’avvento del il figlio di Dio, che adulto, nelle scritture rivelerà: «Io sono la luce del Mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Giov., 8,12), «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Giov. 9,5).

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    Da anni a Cosenza nel periodo di Natale un misterioso appassionato realizza un presepe all’interno di un albero

    Il Natale della tradizione popolare avvolgeva quindi con la sua luce ingenua e fidente un mondo naturale e storico che mutuava ed assorbiva dalla natura i suoi significati più profondi e le sue più oscure fragilità, miscelandoli con riti e culture provenienti da più lontane latitudini.

    Natale (e non solo) con le strine

    Erano anche, questi, i giorni del suono festoso e dei canti popolari della strina e degli zampognari. Nei paesi del cosentino la strina (dal latino arcaico strēna, “auspicio, omaggio di buon augurio”, coincidente con il periodo dell’anno in cui gli astri risalivano il cielo nel corso del periodo dicembre-gennaio) è un canto in versi e in rima accompagnato da strumenti popolari, spesso ricavati da oggetti e attrezzi di lavoro della tradizione contadina. È il caso dei sazeri” conosciuti anche come “murtari” o “ammaccasali. Si tratta dell’antico mortaio in legno o in metallo usato per “ammaccare” il sale grosso delle conserve. Spesso al suono di uno o più di questi strumenti improvvisati si accompagnava una semplice chitarra, un mandolino, un tamburello ed una fisarmonica, a seconda del numero dei “cantori”.

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    Tamburello e fisarmonica sono due classici strumenti utilizzati per la strina

    Il gruppo di suonatori e cantori si recava casa per casa a portare la “buona novella” della nascita del Cristo, ottenendo in cambio un donativo a ringraziamento della visita. Alimenti come uova, formaggio, olio, vino e salumi. La “strina” veniva solitamente cantata nel periodo dell’avvento, che nel calendario tradizionale iniziava con la festa della Immacolata Concezione l’8 dicembre, e durava sino alla sera dell’Epifania il 6 di gennaio. Questa bella e conviviale tradizione è andata via via scomparendo anche dai paesi, anche se i canti della Strina sono diventati nel frattempo oggetto di studio e di raccolta degli etno-musicologi.

    Canti a dispetto a chi rifiuta di aprire la porta

    Come si svolgeva la strina? I cantori iniziavano augurando a tutta la famiglia ospite gioie e benedizioni, per passare poi agli auguri singoli ad ogni componente del nucleo familiare che viene chiamato per nome nella cantata, e al nome si legava un particolare augurio in rima. Si passa alla richiesta dei doni, al “fammi la strina”. A chi non avesse voluto accogliere i cantori e aprire loro la porta di casa, rifiutando l’ospitalità (rara circostanza), i “cantaturi” avrebbero rivolto stornelli “a dispetto”, una sorta di apologo improntato allo sdegno e a profezie di malesorte, che pur di non fatale entità, non suonavano certo liete come ad esempio: “Ammienzu sta casa ci penda nu lazzu, quanno ti lavi mu ti ruppi nu vrazzu”.

    Senza essere chiamati

    Ma quasi sempre la musica era festosa e la “cantata”, accompagnata dalla musica festosa che annunciava per le strade dei paesi una richiesta d’accoglienza e di offerta, era solitamente bene accetta e accolta con fervore come una questua votiva e un dono fatto al Bambino Gesù: «Senza essere chiamati simu vinuti/ oi simu vinuti/ ari patruni avia i bonu truvati/ chini di gintilizza e curtisia; Sentu lu strusciu di lu tavulinu/ è u patruni ca pripara u vinu; Sento lu strusciu di la tavulata/ è a signora ca porta a suprissata/; Sento lu strusciu di la cascitella/ chisti su i guagliuni ca piglianu a custatella/; Nun è vrigogna si purtamu a’ strina/ a’ strina l’ha lassata nostru Signuri/ la strina l’ha lassata a nua nostru Signuri”.

    Natale era dunque la festa più grande della devozione popolare, il cuore di un mondo contadino calabrese che evocava nei simboli luminosi degli astri e delle stelle che comparivano nella geografia del cielo e nel piccolo mondo dei presepi con l’augurio del rinnovarsi divino della luce dell’avvento. Era la favola, il ricordo, l’incanto di un mistero di fede e di luce celeste. Vincenzo Padula, scrive nel 1864 ne La notte di Natale: “Pe’ lu cielu, a milli a milli/, a ‘na botta, s’appicciaru/, s’allumarunu li stilli/, cumu torci de ‘n ataru:/ e si ‘n acu ti cadia/, tu l’ajjavi mmienzu ‘a via/».

    Natale al Cancello

    Nella celebrazione domestica del Natale, il momento più bello era quando la “stella cometa” si tirava fuori dalla paglia, l’ultimo pezzo della cassetta dei pastori, per addobbarla come una corona luccicante sopra la grotta del presepe. Succedeva poco prima della notte di Natale. Le lustravamo col fiato incantato dei sogni le stelle del presepio. Comete dei sogni che restano ingenui.
    Andavo a dormire a casa di mia nonna in certe notti freddissime di inverni della fine degli anni Sessanta. Uscivamo imbacuccati e infreddoliti per andare verso casa sua, a piedi, dalla casa di Via Cancello dove abitavo, fino in cima alla Motta di Paola, vicino al castello, quasi fuori dal paese. Niente macchine in giro allora. La statale 18 non l’avevano ancora costruita. Mia nonna era una donna energica, allegra e dal passo svelto, mi portava in salita e mi reggeva per mano.

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    Quel che resta del Castello di Paola

    Mi ricordo il buio e il cielo immenso, nerissimo, come un velluto impuntato di stelle tremanti. Tremavo anch’io per il gelo, e alzavo il naso nella notte per guardarle, inciampando sui gradoni ripidi tra i vicoli che portavano a casa della nonna Maria, in cima al paese. Le costellazioni rilucevano e sfioccavano nel buio siderale di quelle notti lontane come lampadine in un presepio agitato dal vento. Ero attratto dal buio, dalla luna, dalla vastità siderale. Tentavo di fissarle quelle stelle, e piangevo. Ero già miope, e senza occhiali, tentando di metterle a fuoco, lo splendore di quelle lucine remote nel cielo limpidissimo e nero si allargava sotto un velo di lacrime fredde che mi bagnava gli occhi.

    Le stelle comete puzzano

    E oggi? Le stelle, le comete? Anche quelle, hanno perso il loro incanto sotto le luci sempre accese dei consumi. Poi c’è la scienza, che scruta il cielo e fa la sua parte per distoglierci definitivamente dai miti dell’infanzia. Le stelle comete puzzano, pare, di uova marce e di zolfo. Qualche anno fa ne hanno sondato una – la “67P/Churyumov-Gerasimenko” con un coso supertecnologico costruito dall’Ente Spaziale Europeo, che l’ha fotografata. Ci si è piantato sopra, l’ha sfriculiata in vario modo la cometa e se n’è persino ciucciata un po’. Un assaggio di eternità.

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    La cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko

    Il risultato è che queste schegge di universo primordiale sono impastate di ghiaccio puzzolente e di polvere gelata, guasta, freddissima e piena di gas fiammeggianti. Corpi celesti andati a male, freddi, desolati. Puzzolenti. E ruotano inutilmente nel buio tra le costellazioni, sino a consumarsi come un mozzicone di sigaretta gettato per strada e spento dalla pioggia di un acquazzone. E ancora non lo sapevamo. Così sin dai tempi della creazione. Una scoperta che ci mancava. Che sarà molto utile agli scienziati che studiano i misteri della cosmologia. Microcosmo e macrocosmo corrispondono, sempre. Sappiamo anche questo adesso. Che le comete, anche quelle dei presepi, altro non sono che secchi asteroidi di ghiaccio sporco e fetido come il fondo dei frigoriferi a pozzetto di una cucina maltenuta.

    Natale senza desideri

    E adesso che è caduto pure il cielo dei presepi che ci resta? Anche i desideri (dall’etimo latino del termine de, origine, e sidus, stella, letteralmente, “contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di trarne auspici e quindi bramare qualcosa-qualcuno), ormai non alludono più alla distanza tra il soggetto e l’oggetto di ogni desiderio, tra noi e le cose, al legame arcano tra l’anima e ciò che ci lega alla natura e agli oggetti stessi. Quello che una volta veniva dalle stelle oggi si compra o si scambia con il denaro e le merci della società turbocapitalista. E si scopre che le comete, quelle vere, sono pezzi di ghiaccio andati a male che girano a vuoto tra il buio delle galassie. A Natale pure le comete esplorate dagli scienziati non danno ali a nessuna fantasia, e sono imbrattate dal caos che avvolge i nostri giorni.

    E senza presepe

    Non ci piacciono più le stelle comete, e non ci piace più neanche il presepe. Il Natale è oggetto degli interdetti del politicamente corretto. E quel «Te piace ‘o Presepio?» di eduardiana memoria, suona oggi quasi come una domanda senza senso. La stella cometa, l’arcangelo Gabriele, i Re Magi, il pastore delle meraviglie. Le strine. Forse tra poco non sapremo più neanche cosa significano. Come nella commedia di Eduardo, Nennillo tace, si risente e alla fine sbotta: «No!».

    Pure la moglie Concetta ha da ridire sul presepe; dopo aver mandato “a quel paese” il presepio nel silenzio della primissima scena, Concetta punzecchia ripetutamente Luca: «Non capisco che lo fai a fare»; «pare che stai facendo la Cupola di San Pietro! Ma vuttace quattro pastori: Vedete se è possibile che un uomo alla sua età si mette a fare il presepio. S’juta pe’ le dicere:-Ma che ‘o ffaie a fa’?-Sapete che mi ha risposto: -O faccio pe’ me, ci voglio scherzare io!-». Eppure Marcel Mauss ha scritto suo tempo che «l’uomo è stato capace di costruire il proprio spirito con tutti i mezzi». E le stelle e il cielo di Natale sono ancora lì, se guardassimo meglio.

  • Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Luci e periferie: così Cauteruccio racconta Pasolini

    Siamo quasi giunti alla fine di questo lungo anno in cui, in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, si sono moltiplicate le più disparate iniziative per celebrarne la figura. Tra i maggiori intellettuali del secolo scorso, è stato capace con la sua opera di suscitare ampi dibattiti nell’Italia edonista del boom economico. Leonardo Sciascia lo definì «personaggio fuori dal tempo». E Rossana Rossanda scrisse, all’indomani della sua morte: «Detestato da tutti in vita quanto ipocritamente compianto da morto, pronto a essere strumentalizzato da più parti».

    È stato scoperto dalle nuove generazioni e riscoperto da chi, insieme con lui, aveva vissuto quegli anni di forti mutamenti antropologici, ma non era stato in grado di comprenderne completamente il messaggio.

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    Giancarlo Cauteruccio, attore e autore teatrale

    L’omaggio del regista, scenografo e attore Giancarlo Cauteruccio per Pasolini è qualcosa di veramente sconfinato, intendendo questo termine nella sua accezione letterale di “penetrazione nel territorio altrui”, perché le periferie nell’immaginario comune sono considerate spazio “altro” e separato dal resto della città.
    Cauteruccio, approda – traforando con effetti di luci, musica e parole – nei sobborghi, considerati corpi estranei rispetto ai più decorosi e curati centri urbani. Delle periferie, Cauteruccio, secondo una sua concezione artistica d’avanguardia, vuole evidenziare il cuore pulsante, spesso nascosto tra il degrado di un’edilizia che si allontana da ogni ideale di bellezza.

    Un Cauteruccio “de borgata”

    Pasolini ha saputo raccontare le periferie come nessun altro, trasformando i “borgatari” nei protagonisti dei sui racconti e dei suoi film. L’operazione di Giancarlo Cauteruccio si colloca da un punto di vista artistico-intellettuale in linea con il pensiero pasoliniano, con la differenza che il ruolo dei protagonisti è assegnato alle facciate fatiscenti dei caseggiati periferici, immagine di un sottoproletariato urbano che racconta sempre una storia di emarginazione. Il regista mette in scena un’operazione di teatro-architettura, un’estetica rappresentativa legata alle nuove tecnologie delle arti sceniche, capace di trovare nei luoghi urbani e naturali, quindi sconfinando rispetto agli spazi tradizionalmente intesi come aree delle rappresentazioni sceniche, i suoi palcoscenici ideali.

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    Cauteruccio, calabrese di Marano Marchesato, è uno dei registi più innovativi nell’area della seconda avanguardia teatrale italiana. Esplora nuove specificità linguistiche nella relazione con le moderne tecnologie, crea nuovi processi artistici in un confronto costante con lo spazio, il corpo e la parola. Quella di Cauteruccio è una poetica che si basa sulla commistione tra arte e tecnologie, riuscendo, grazie ai media digitali contemporanei, a intaccare l’esperienza della percezione sensibile. Si tratta di una sperimentazione avviata fin dagli anni ’70 del secolo scorso, con performance artistiche che hanno raggiunto New York e Mosca. E tuttora Cauteruccio mantiene un ruolo da protagonista nel campo del rinnovamento del teatro contemporaneo.

    Teatro Studio Krypton

    Per più di tre decenni ha diretto il Teatro Studio di Scandicci e nel 1982 a Firenze, con Pina Izzi, ha fondato Teatro Studio Krypton ancora oggi attivo e apprezzato a livello internazionale. Il regista è stato un pioniere del videomapping, attraverso il quale è riuscito a trasformare le superfici, sulle quali sono proiettate le immagini, in nuovi palcoscenici in cui nascono e si sviluppano nuove forme drammaturgiche, modificando la concezione dello spazio, rendendolo, grazie alla luce, plastico, una sorta di tela da dipingere con pennellate leggere.

    Cauteruccio e Pasolini eretico

    Dalla Calabria a Firenze, le facciate dei palazzi sono illuminate nel nome di Pasolini. Proiezioni di luci compongono parole che diventano “corpo gettato nella lotta” di nuove percezioni emotive. Una messinscena che non ha nulla a che fare con l’idea di teatro di Pasolini perché, come afferma lo stesso Cauteruccio, «Io non affronto Pasolini nella sua specificità teatrale, quanto nella sua condizione di “sconfinamento”. Pasolini sconfina nelle espressioni, nelle arti e nella sua visione complessiva della comunicazione. Affronta condizione estreme, radicalizzando il linguaggio. Dal cinema alla poesia, al suo rapporto con il dialetto, con la pittura, con la musica, con la politica, è tutto un rapporto di sconfinamento rispetto ai canoni tradizionali».

    Il non-teatro di Pasolini

    Sulla produzione teatrale pasoliniana Cauteruccio ha una visione in linea con una concezione di non rappresentabilità: «Il suo teatro, dal mio punto di vista, non si trasforma mai in una scrittura scenica, riuscendo a concretizzarsi, di fatto, solo da un punto di vista del puro esercizio di lettura. La scrittura rimane nel libro non riuscendo mai a confluire in quei nuovi concetti d’avanguardia degli anni ’60 e ’70». Il regista non porta in scena né Pasolini né le sue tragedie, ma “teatralizza” il suo concetto di Pasolini: «Affronto Pasolini dal punto di vista delle sue tematiche generali: lui ha una grande visione delle arti e della periferia e riesce a creare continue immagini, ma nel teatro la parola rimane ancorata a se stessa. Il suo modello è la tragedia antica, ma nel dialogo nega l’immagine ed io non mi riconosco in questo».

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    Cauteruccio proietta Pasolini sulla facciata del teatro Politeama a Catanzaro

    Luoghi sconfinati: da Catanzaro a Firenze

    Realizzare l’idea dello “sconfinamento” per Cauteruccio è un’azione artistica fatta di effetti luminosi proiettati, un omaggio che si concretizza attraverso un’estetica estrema e, proprio per questo, in grado di raccontare la visione poetica, ma anche quella più strettamente intellettuale di Pasolini. «L’operazione “Luoghi Sconfinati” – afferma il regista calabrese – è partita nel mese di settembre da Catanzaro, ed è stata fatta come omaggio estetico. Si tratta d’immagini proiettate sulla facciata del teatro Politeama, un progetto di teatro-architettura che vede scenari visuali ed elaborazioni video proiettate sulla facciata del principale teatro cittadino. Una performance che, insieme ai testi e alle musiche, trasforma ogni passante in uno spettatore di un’opera immersiva».

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    La locandina di “Luoghi sconfinati”

    Dopo Catanzaro il progetto si è trasferito a Firenze, sviluppandosi nei quartieri periferici della città. Le periferie vivono le contraddizioni dei luoghi estremi: gli assembramenti di una gioventù problematica e l’accavallamento di architetture prive di poesia. La criticità delle periferie risiede nell’assenza di bellezza, ma proprio grazie al teatro-architettura si può mettere in relazione l’aspetto materiale della periferia con quello visionario della poesia.

    Ragazzi di vita

    La periferia per Pasolini è un luogo poetico e, allo stesso modo, nelle nostre periferie possiamo riconoscere i “ragazzi di vita”, grazie alla multietnicità incontrare un qualche “Alì dagli occhi azzurri”. Lo stesso che Pasolini profetizzava nel 1962, anticipando gli sbarchi sulle spiagge di Palmi, Crotone e più in generale su tutte le coste che si affacciano sul Mediterraneo.
    A distanza di mezzo secolo dalla sua morte possiamo affermare che la più grande eredità lasciataci da Pasolini è la sua straordinaria attualità. Era un uomo che aveva piena coscienza dei processi sociali in atto, capace di una visione profetica sul futuro. Ed è proprio questo che ci consente di mantenere con lui un dibattito aperto, vivo e non privo di contraddizioni.

  • Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

    Daniel Cundari, quel “ragazzo dell’Europa” tra poesia e politica

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    Daniel Cundari si muove con la stessa disinvoltura tra i locali del Barrio Gotico a Barcellona oppure tra i vicoli della sua Cuti, contrada di Rogliano. E legge ad alta voce Jorge Luis Borges così come recita Duonnu Pantu, il monaco di Aprigliano autore di rime «controverse e lascive». Sopratutto «in privato», confessa, omettendo particolari da censura.

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    Daniel Cundari a Cuti, sotto il murales di Alice Pasquini in via Pietro Nicoletti (foto Alfonso Bombini 2022)

    Non solo Daniel Cundari: la strada degli artisti

    Poeta, performer, autore teatrale. È difficile inquadrare Daniel. Vive nella sua personale Macondo in Via Pietro Nicoletti proprio a Cuti, nota anche per il suo pane prelibato. Sulla destra abita e lavora Sandro Sottile, liutaio e polistrumentista. A due passi si sente il rumore degli attrezzi di Ferdinando Gatto, scultore di legno e pietra. Bastano poche centinaia di metri per raggiungere il ceramista Telemaco Tucci, la talentuosa artista del trucco Ilenia Tucci e la street artist Alice Pasquini. Daniel ci tiene a citarli tutti. Come parte di un’unica comunità.

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    Daniel Cundari tiene molto al progetto della Piccola biblioteca di Cuti (foto Alfonso Bombini 2022)

    La piccola biblioteca di Cuti

    È una comunità che adesso ha pure una casa dei libri. La piccola biblioteca di Cuti, esempio in controtendenza rispetto a una Calabria che legge pochissimo. Un progetto a cui tiene molto. Non una semplice collezioni di testi.

    Molte rarità letterarie (compresi grandi classici sudamericani in lingua originale e autografati) hanno messo radici tra le mensole di quella che è stata per lungo tempo pure una vineria.

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    Il celeberrimo vino Savuto “Succo di Pietra” bevuto dallo scrittore Mario Soldati (foto Alfonso Bombini 2022)

    E conserva una bottiglia di Succo di Pietra del 1973, una delle ultime rimaste di quel Savuto “Britto” bevuto e lodato dallo scrittore Mario Soldati nel suo celebre Vino al vino. Una targa ne ricorda il passaggio a Rogliano.

    Un paese, almeno per poterci restare

    Fa freschetto a 650 metri, ma il sole si fa sentire ancora. Daniel si ferma a parlare con un barbiere d’eccezione, Pino alias Pippos Orlandos. Una vecchia gloria dei concerti alternativi. Sui muri sciarpe e immagini di Bob Marley. Pino, però, ammette di essersi perso l’unica tappa italiana del re del Reggae a Milano. Correva l’anno 1980. In paese si dice che abbia persino tagliato i capelli a Vinicio Capossela mentre si esibiva sul palco. Di queste piccole mitologie si nutre una parte del suo immaginario.

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    Pino, alias Pippos Orlandos, barbiere “reggae” di Rogliano (foto Alfonso Bombini 2022)

    Repentismo cutise

    Nei sei anni trascorsi nel quartiere gitano di Granada, Daniel ha appreso le tecniche del flamenco. Da qui nasce l’amore per il repentismo. Che ha declinato in salsa cutise, colorandolo della sua cultura: con le sue contraddizioni, le sue ricchezze, i suoi personaggi. Un concentrato di differenze molto apprezzato anche fuori dal vecchio continente. Cuba in primis. Cundari è di casa in terra caraibica. E in Messico tra rime e Tequila y Mezcal.

    Daniel Cundari, ragazzo dell’Europa

    Ma la seconda patria di Daniel è la Spagna. Lì ha iniziato a collaborare con la prestigiosa rivista letteraria Quimera. Tra i fondatori c’è lo scrittore Mario Vargas Llosa. A Barcellona confessa di essere stato stregato dall’anarchismo catalano. E nella città blaugrana ha conosciuto Gianna Nannini. «Le serviva un tecnico del suono in tutta fretta, ha chiesto a un mio amico – ricorda Daniel – e io ho le ho risolto il problema». Nel suo studio di registrazione la rocker senese ha poi ascoltato per caso il poeta di Cuti impegnato a declamare qualche suo verso. Da lì è scattata la scintilla. Gianna capisce la forza dirompente di quel calabrese che poi si esibirà sul palco con la star italiana. Fino a gridargli, sottolinea sorridendo Cundari: «Daniel, ragazzo dell’Europa».

    Due raccolte di poesie di Daniel Cundari (foto Alfonso Bombini 2022)

    Il poeta pluripremiato

    Scrive in italiano, spagnolo e nella sua lingua d’infanzia, quella dei padri e dei nonni, il dialetto definito «strumento musicale». Grazie a Geografia Feroz Daniel ha vinto il Premio Genil de Literatura nel 2011. Nello stesso anno ha collezionato il prestigioso Lerici Pea. Tra gli ultimi riconoscimenti compare il Premio Ischitella. Autore di numerose pubblicazioni come Cacagliùsi (2006), Il dolore dell’acqua (2007), Istruzioni per distruggere il vento (2013), Poesie contro me stesso (2014), Nell’incendio e oltre (2016) ‘Ngilla orba (2017), Il silenzio dopo l’amore (2019).

    La Calabria di Daniel Cundari tra poesia e politica

    Nella Calabria di Daniel Cundari scrittura e impegno civile si danno appuntamento. Non è un caso se chiama in causa spesso Franco Costabile e il suo Canto dei nuovi migranti. Lo ha persino recitato alla sua maniera in un comizio durante le ultime elezioni regionali. Le ha affrontate da candidato con Luigi De Magistris. Buoni risultati nel suo territorio e tanta voglia di continuare la strada intrapresa.

    Oggi la luna di miele con l’ex sindaco di Napoli è finita. È tempo di guardare oltre. In cantiere un movimento politico con radici nel suo Savuto e la voglia di conquistare spazio e idee altrove. Si chiamerà Calabria giovane dentro. E promette pure di ripristinare le vecchie sezioni. Al suono di un suo vecchio mantra: la poesia è l’ultimo partito che rimane.

  • I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

    I cento anni di Luciano Bianciardi, Galluppi e la maestrina di Catanzaro

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    «Chi si firma è perduto» (sulle lusinghe del lavoro giornalistico)

    «Il successo è soltanto il passato remoto del verbo succedere»

    ALCOL

    «Sopportatemi, duro ancora poco»: la frase che Luciano Bianciardi (Grosseto, 14 dicembre 1922 – Milano, 14 novembre 1971) rivolgeva a chi gli stava vicino mentre l’autodistruzione da alcol stava per compiersi.

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    Luciano Bianciardi nel suo letto

    • AVANTI/1

    Di Bianciardi si citano sempre l’attualità, la “visione”. «Ha vissuto in un’epoca che non era la sua», come ha raccontato la figlia Luciana a Simonetta Fiori (Robinson n. 311): «Era contrario al divorzio perché prima ancora avremmo dovuto lottare per abolire il matrimonio. E nel giorno dell’allunaggio ci invitò a pensare alla luna di Leopardi, perché quella conquistata da Neil Armstrong non sarebbe servita a niente (…). Sapeva guardare molto lontano, ma non fu compreso dai suoi contemporanei. Era avanti di una cinquantina d’anni».

    • AVANTI/2

    In una lettera del 13 luglio 1970 alla figlia rivela di aver scritto «un racconto di fantasport, in cui immagino cosa sarebbe successo se l’Italia avesse vinto ai campionati mondiali» (accadrà 12 anni e 3 mondiali dopo).

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    Dino Zoff alza la coppa, L’Italia si è appena aggiudicata i Mondiali dell’82

    • AVANTI/3

    Giacomo Papi (la Repubblica, 18/11/2022) ha ricordato che in un pezzo del 28 luglio 1959 uscito sull’Avanti!, Bianciardi anticipò di due anni Umberto Eco e la sua “Fenomenologia di Mike Bongiorno” e di undici l’intuizione di Andy Warhol: ogni italiano aspetta il suo «quarto d’ora di celebrità e di fortuna» (bisogna aggiungere che, forse non per caso, “quartodorista” è un neologismo di incerta attribuzione – Gadda o Manganelli – per definire i frequentatori di case d’appuntamento).

     

    • BANCHE

    «Se vogliamo che le cose cambino, inutile occupare le università, occorre occupare le banche e far saltare le televisioni» (1968).

    • CALABRIA

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    Tropea, un particolare del monumento a Pasquale Galluppi

    Ha senza dubbio avuto meno fortuna della casalinga di Voghera di Alberto Arbasino, ma ha una sua dignità letteraria la «maestrina di Catanzaro» con cui Bianciardi identifica l’insegnante-tipo in viaggio d’istruzione in Svezia, dove “il Nostro Giovane Lettore”, protagonista di un suo articolo per il settimanale ABC, si è recato in vacanza; qualche rigo prima, il pensiero filosofico del tropeano Pasquale Galluppi è preso ad esempio come materia su cui sgobbano i «colleghi diligenti e secchioni» del giovane.

    • CALVINO

    «Son riuscito a scrivere un libro, che ritengo la mia cosa migliore. Calvino ne è entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare» (secondo alcuni la trama fu “rubata” da Bianciardi a un ignoto scrittore irlandese da lui stesso tradotto).

    • COMUNISMO

    Un giorno, mentre Giangiacomo Feltrinelli parlava di comunismo, si alzò e uscì, dopo avere preso dall’attaccapanni il cappotto di cammello del padrone (Papi, cit.).

    • CRITICA

    «Solitamente i critici da noi parlano poco del libro o spettacolo o dipinto che dovrebbero recensire. Più che altro parlano di sé» (da Non leggete i libri, fateveli raccontare, ed. Stampa Alternativa 2008, testo apparso in origine nel 1967 in 6 puntate su ABC).

    • DRAMMA

    «Il vero dramma di Luciano Bianciardi è di essere più commentato che letto. Ancora oggi molti conoscono La vita agra, ma ben pochi l’hanno letto davvero. (…) Conosceva bene, forse, l’origine della parola “applauso”: l’applauso era l’invenzione che gli antichi usavano per coprile le grida dei lapidati a morte. Bianciardi venne sepolto da decine di migliaia di applausi. Morì a 49 anni. Da solo. (…) Al suo funerale ci saranno soltanto quattro persone. Dimenticato da tutti. Rimosso. Anche dagli stessi che lo avevano incensato in vita» (Gian Paolo Serino, Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale, ed. Clichy, 2015).

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    Luciano Bianciardi e Ugo Tognazzi sul set del film tratto da La vita agra

    • ENDECASILLABI

    «Alcune pagine (de La vita agra, ndr) sono scritte in perfetti endecasillabi» (Luciana Bianciardi, traduttrice a sua volta, oggi editrice in ExCogita).

    • FELTRINELLI

    Dalla Feltrinelli fu licenziato «per scarso rendimento», lui commenterà: «Soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. (…) La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso».

    • GIORNALISMO/1

    Negli anni ’60 Indro Montanelli propose a Bianciardi una collaborazione al Corriere della Sera e uno stipendio di 300mila lire (circa 5mila euro di oggi) per due pezzi al mese, lui – a differenza di quanto fece Pasolini – rifiutò perché non si sarebbe sentito abbastanza libero come su Le Ore e Playmen, Kent ed Executive, ABC e il Guerin Sportivo ai tempi della direzione di Gianni Brera; però accettò di scrivere per il Giorno: «Sto lavorando, ma per la pagnotta (…) Tutta roba che non mi piace molto, ma che altro vuoi fare? Leggo parecchio, la sera, un po’ di tutto… E facciamoci coraggio».

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    Indro Montanelli

    • GIORNALISMO/2

    Prima di Michele Masneri (estate 2015 in Audi per il Foglio) e Michele Serra (per l’Unità su una Panda 4×4, trent’anni prima), a sperimentare il format del reportage in auto furono proprio Pasolini (periplo d’Italia in 1100, nel 1959) e Bianciardi; ma l’inventore assoluto del genere fu Luigi Barzini: Parigi-Pechino su una Itala con il principe Scipione Borghese (10 agosto 1907).

    • HOTEL

    No, Bianciardi era piuttosto tipo da pensione: una di quelle in cui abitò a Milano era in via Solferino, la strada del Corsera.

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    La sede del Corriere della Sera in via Solferino a Milano

    • INCIPIT

    «Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo dall’alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della vocale interdentalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno» (La vita agra comincia in modo non proprio agevole…).

    • LIBRI/1

    Da direttore della biblioteca di Arezzo inventò il Bibliobus, un furgone con cui distribuire libri a contadini e minatori.

    • LIBRI/2

    «Proverò a scrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino».

    • MAESTRI

    «I miei maestri si chiamano così: Giovanni Verga, catanese. Seguo invano le sue tracce fin da quando avevo diciotto anni. Carlo Emilio Gadda, milanese […] tuttora insuperato. Henry Miller, detto Enrico Molinari, da New York, che ebbi la fortuna di tradurre e conoscere personalmente. Ora abita a Big Sur, e qualche volta mi manda una cartolina firmando col suo nome italiano di mia invenzione».

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    Henry Miller nel suo studio a Big Sur alla fine degli anni Quaranta

    • NATALE

    Quel giorno che regalò Il piccolo chimico al figlio Ettore e passò una notte intera a tradurre il manualetto dall’inglese (amore paterno + deformazione professionale)

    • OPERAIO

    «È comprensibile che quest’uomo, ubriaco di pagine tradotte, senta ribollire la propria vicenda attraverso parole e linguaggi altrui, come l’operaio del film di Charlot che, pur staccato dalla catena di montaggio, continua meccanicamente ad avvitare bulloni» (Michele Rago sul linguaggio de La vita agra).

    • POLITICA

    «La bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo con cui vi si mantiene».

    • QUALITÀ

    «Non rinunciava a qualità, cura, rigore. Come se nella scrittura riuscisse a trovare la misura e l’equilibrio che non trovava nella vita» (Luciana Bianciardi).

    • REPRESSIONE

    «Mi pare che la vita, purtroppo, sia fatta di esami e di processi, che son poi la stessa cosa, due facce della stessa società autoritaria e repressiva che ci siamo costruiti intorno per non so quale follia» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana).

    • STIPENDIO

    «L’aggettivo “agro” sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo» (lettera all’amico Mario Terrosi, 30/12/1962).

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    Un’altra immagine di Luciano Bianciardi

    • SUBITO

    «Il guaio di finire un libro (da tradurre, ndr) sai qual è? Che subito dopo ti tocca attaccarne un altro» (lettera del 13 luglio 1970 alla figlia Luciana, che ne ricorda «la disciplina ferrea» da traduttore: «Fissava un numero di cartelle al giorno, e non andava a letto prima di aver finito l’ultima pagina. Era la lezione di sua mamma, nonna Adele. […] L’eccellenza è stata per lui un obbligo»).

    • TALK

    «È stato uno dei primi critici televisivi, uno dei primi opinionisti. Fosse ancora vivo, come si dice sempre del suo coetaneo Pasolini, quel che ne pensa del mondo andrebbe a dirlo in un talk becero di Rete4, pure a “Ballando con le stelle” se pagano qualcosa» (Alberto Piccinini, il Venerdì, 2/12/2022).

    Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

    • TELEVISIONE

    «La televisione non uccide, certo, ma può fare di peggio. Può imbottire teste, indurre ai consumi e formare opinioni. Perché l’uso della televisione è gratuito. Non si paga, però si sconta» (1965).

    • TOUR

    «Oramai sto girando come un rappresentante di commercio» (in tournée per La vita agra)

    • TORRACCHIONE/1

    Il Luciano protagonista del capolavoro assoluto di Bianciardi arriva a Milano per vendicarsi facendo saltare il «torracchione», che non è il Pirellone, come qualcuno potrebbe pensare, bensì la sede della Montecatini Edison (poi Montedison), società responsabile della tragedia raccontata da Bianciardi e Carlo Cassola ne I minatori della Maremma; «Se si guarda Milano oggi, hanno stravinto i torracchioni» (Francesco Piccolo, prefazione a Trilogia della rabbia, Feltrinelli, 432 pp., 16 euro, un’ottima idea regalo per Natale ma non solo)

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    Luciano Bianciardi a Milano (foto Ugo Mulas)

    • TORRACCHIONE/2

    «Ma lui non voleva mettere nessuna bomba: la bomba era quel libro là, che diceva che il miracolo economico era una fregatura. Però la bomba non esplose, anzi l’autore fu corteggiato dai salotti e dalla tv, un giullare che invece di essere combattuto viene integrato dal sistema» (Luciana Bianciardi).

    • UTOPIA

    «Aveva scritto un romanzo contro la borghesia culturale milanese, ed era invitato come una star a tutti gli appuntamenti mondani. Si struggeva e beveva e si chiedeva dove aveva sbagliato; ma intanto ci andava, e chissà quanto si rendeva conto di somigliare ancora di più al protagonista del suo libro. (…) Viene accolto con clamore, e viene amato da coloro contro cui si scaglia» (Piccolo, cit.); sembra l’effetto contrario di quello ottenuto da Tom Wolfe dopo la celebre descrizione dei radical chic newyorkesi.

    • VOGUE

    Per celebrare il successo de La vita agra su Vogue America esce una sua foto accanto ai simboli della Milano del boom e dei consumi, una città che raccontò con sguardo lunghissimo attraverso i suoi cambiamenti: la moda del cibo giapponese e la mania delle diete, i calciatori dalle facce «sempre meno di braccianti e manovali, sempre più di assennati ragionieri», persino ciò che saranno i selfie, gli autoscatti sintomo di un allora incipiente esibizionismo di massa.

    • ZUPPA

    Per il racconto La solita zuppa, un mondo al rovescio nel quale s’insegna l’ora di masturbazione a scuola, nel 1965 fu denunciato per oscenità e vilipendio della religione.

  • L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

    L’arte torna a casa, Belmonte rivuole indietro i suoi tesori

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    Belmonte Calabro, la patria dei prestigiosi pomodori che si tagliano e si mangiano come se fossero bistecche, rivuole indietro le sue opere d’arte. Per ragioni sconosciute le hanno portate a Cosenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Forse per avviarne i restauri, che poi si sono rivelati infiniti, forse per motivi di sicurezza, oppure per entrambe le cose. Fatto sta che le chiese di Belmonte Calabro sono state spogliate e chiuse, eccetto le parrocchie più grandi.

    «L’idea è di far rientrare la cittadina negli itinerari artistico-religiosi», spiega Stefania Bosco, storica dell’arte e restauratrice diagnosta, che dirige il “progetto Belmonte”. «Speriamo di poter riaprire tutte le chiese e di poter restituire loro le opere sottratte». Dovrebbero essere una ventina in tutto, disseminate tra i magazzini della Soprintendenza e della Curia.
    A giorni è attesa un’Annunciazione che recenti studi attribuiscono ad Antonello da Messina, mentre nel duomo sono stati appena recuperati due dipinti del Settecento a spese di un gruppo di belmontesi. A pilotare l’operazione dal basso, con una raccolta di fondi, è stata l’associazione Arte e bellezza, presieduta da Filippo Verre, a lungo medico di famiglia.

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    L’associazione Arte e bellezza festeggia il restauro dei due dipinti del ‘700

    La tavola preziosa che torna dopo quarant’anni

    Il ritorno del dipinto dell’Annunciazione è previsto proprio in questi giorni. Dopo quarant’anni, la tavola del Quattrocento sta per lasciare la Soprintendenza di Cosenza per rientrare a casa. Come Ulisse ad Itaca, come una parente amatissima partita tempo fa e attesa in patria. Un’opera di originale stile compositivo e ricca di simbolismi.
    Quando è stata portata via dalla deliziosa chiesa della frazione dell’Annunziata, si pensava che il suo autore fosse Pietro Befulco. E invece no, non è più cosa certa. Potrebbe essere di Antonello da Messina, il maestro meridionale che ha fuso l’arte italiana con quella fiamminga e che ha creato dipinti mozzafiato reinventando spazio e luce, come la Crocifissione e San Girolamo nello studio conservati nella National Gallery di Londra.

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    L’Annunciazione di fine XV secolo a Belmonte Calabro

    «È un’opera bellissima, una delle più importanti che abbiamo in Calabria, di una fattura molto raffinata. Il supporto è assai povero, una tavoletta di pessima qualità, ma la preparazione della stessa è straordinaria», spiega Stefania Bosco. E come se l’autore avesse raccolto un pezzo di legno qualsiasi per dipingerci sopra. Un supporto di fortuna che nel tempo è stato attaccato dai parassiti e che, per via della fragilità, ha messo a dura prova i tecnici durante le fasi di recupero. «Ma si è capito da subito – aggiunge, – che la scuola e il livello dell’artista erano molto alti».

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    I restauratori al lavoro. In primo piano, Stefania Bosco

    Vuole questo regalo per Natale il sindaco Roberto Veltri. La Soprintendenza ha richiesto standard di qualità e sicurezza molto precisi per poter riconsegnare l’opera. Lui, con il suo staff, grazie a fondi comunali e alla donazione di un imprenditore locale, ha predisposto «una stanza del Comune, dotandola del sistema d’allarme richiesto e di un dispositivo di controllo di temperatura e umidità. Abbiamo reso adatto l’ambiente per la buona conservazione dell’opera al suo rientro».

    C’è fermento nel centro storico di Belmonte

    Anche don Giuseppe Belcastro, responsabile delle chiese della cittadina, si sta dando da fare per riportare l’arte sacra nel borgo. «Iniziamo a vedere qualche risultato con il restauro dei due dipinti e il ritorno della tavola. È un primo importante passo, poi bisognerà impegnarsi per riavere tutto il resto. Grazie all’impegno competente e appassionato di Stefania Bosco il progetto Belmonte ha avuto una accelerata».
    È candidata ad ospitare un piccolo museo la chiesa dell’Immacolata, all’ingresso del centro storico. Risale al 1622 e ha un affascinante portale tardo rinascimentale. È stata recuperata in parte, ma ha ancora bisogno di interventi.

    «Siamo riusciti a restaurare tutti gli affreschi dell’abside e l’altare maggiore, grazie a una fusione di forze tra l’università, il Comune, la Curia, la Soprintendenza di Cosenza e le associazioni culturali San Martino e Barrueco», racconta ancora la Bosco, che lavora al progetto da un po’ di anni. Ha diretto i lavori di recupero dei due dipinti del Settecento del duomo e ha restaurato l’interno dell’Immacolata. Insieme a lei, la collega Donatella Barca e studenti dell’Università della Calabria. La chiesa è diventata un cantiere didattico prima della pandemia. Sette studenti del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Università della Calabria, hanno pulito le superfici decorate, hanno stuccato, integrato la pittura, rifinito con gli strati di protezione.

    Il duomo di Santa Maria Assunta è anche nel centro storico. Sta accogliendo gruppetti di viaggiatori dalla fine di novembre, da quando la pala d’altare e L’ultima cena sono tornati ad antico splendore. L’Assunzione, del 1795, è del pittore di Borgia Francesco Basile. L’ultima cena è un’opera del pugliese Nicola Menzele, formatosi nella bottega partenopea di Francesco De Mura.
    «Siamo rimasti molto soddisfatti, non soltanto noi dell’associazione ma anche la cittadinanza», dice il dottore Verre, che è uno dei duemila abitanti del borgo, dove è rimasto a vivere dopo il pensionamento.

    Non solo Belmonte: la regione delle “invasioni” artistiche

    Come tutta la Calabria, Belmonte ha ospitato artisti di diversa provenienza «Non esiste una scuola calabrese, i nostri artisti, come Mattia Preti, Pietro Negroni, Marco Cordisco, per formarsi sono andati in altre regioni», racconta ancora la direttrice del progetto. «La Calabria esprime un’arte contaminata da culture diverse, che abbiamo assorbito e fatto nostre. E questo può essere anche un punto di forza».

    Non desta quindi meraviglia un’apparizione del grande Antonello da Messina a Belmonte. Alla Pinacoteca comunale di Reggio Calabria, lo scorso anno, sono rientrate due tavolette a lui attribuite e che raffigurano San Girolamo penitente e La visita dei tre angeli ad Abramo .
    Che Antonello è ad Amantea, a pochi chilometri da Belmonte, nel 1460, è attestato da un documento. Quell’anno il padre Giovanni affitta un brigantino e si dirige proprio sulla costa tirrenica cosentina. Sul piccolo veliero salgono l’artista, sua moglie, i figli, la servitù. Un trasloco dopo un periodo trascorso in Calabria?
    La città di Belmonte non si pone domande. Aspetta la sua Annunciazione. Ci sarà tempo per i certificati di paternità, «l’importante – dice il primo cittadino – è che torni a casa».

  • Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

    Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

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    Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

    Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
    Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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    Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

    Bellocchio e la rivoluzione

    Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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    La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

    Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

    Un manifesto politico con lo stile di sempre

    Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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    Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

    La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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    Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

    Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

    I pedinamenti dei carabinieri

    Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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    Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

    Un’occupazione in 100 minuti

    Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

    Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

    Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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    Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

    Paola, 1969

    C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

    Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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    1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il Boom si è fermato ad Eboli

    Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
    Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

    Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

    Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

    Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

    I poveri e l’avvocato del popolo

    La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

    Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

    Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

    Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

    Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

    Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

    Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

    Il ricordo di Bellocchio

    Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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    Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

    Da comunisti a borghesi

    L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

    I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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    Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

    Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

    Un libro per capire meglio

    Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
    La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

  • Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

    Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

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    Paola Cossu è un cervello in fuga. Da Catanzaro al mondo, sempre alla ricerca di un accrescimento professionale e culturale, sempre in movimento.
 Paola Cossu è partita dalla Calabria, subito dopo il liceo, perché per seguire il suo percorso era necessario andarsene, come molti figli di questa terra sanno, una scelta obbligata. A Roma si è laureata in Scienze Statistiche. Poi, parallelamente, è diventata AD di Fit Consulting, azienda leader nel settore della mobilità urbana sostenibile, e manager di Paola Turci, artista tra le più originali e coraggiose della musica italiana con quasi 40 anni di carriera. È una calabrese illustre.

    Partiamo proprio dalle radici: dove sei nata?

    «Sono nata e cresciuta nel centro storico di Catanzaro, in una condizione perfetta: I giardini davanti casa, circondata da giovani come me. Ero una privilegiata, non usavo motorino né mezzi pubblici, avevo tutto lì. Sono nata in un quartiere “bene”: mio padre discendeva da una famiglia nobile di giudici e notai, ma lui era un funzionario Inps e ispettore di vigilanza, mia madre insegnante elementare. Questo mi ha avvantaggiato perché la mia era una famiglia senza pregiudizi, io e mia sorella siamo sempre state estremamente libere in ogni nostra scelta. Sicuramente non era la tipica famiglia del Sud».

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    Uno scorcio del centro storico di Catanzaro
    C’è un ricordo in particolare che leghi a Catanzaro e alla Calabria?

    «Ce ne sono tanti, ma sicuramente quelli più legati alla scuola. Mi piaceva tantissimo studiare, ho fatto il liceo scientifico. Ho avuto anche la fortuna di avere professori molto aperti, leggevamo Repubblica in classe con quello di filosofia, negli anni ’80 non era una cosa banale. Ho imparato dai miei prof giovani a essere uno spirito critico e aperto. Mi piaceva tantissimo, avevo la consapevolezza di essere già molto fortunata. Andavo al cinema, a teatro…».

    Un posto del cuore, in Calabria?

    «Dal 1975 ho una villetta sul mare, a 20 km dalla mia città. È il mio posto del cuore, rappresenta tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, i momenti più belli. Ancora oggi che mio padre non c’è più, l’estate è lì, con mia madre e mia sorella. Arrivo, mi metto gli zoccoli e mi sento libera».

    Quando hai iniziato a pensare “in grande” e capire cosa volevi fare?

    «Ho fatto poche scelte nella mia vita, ma tutte molto convinte. Quando mi sono diplomata volevo andare via dalla Calabria, non perché non la amassi, ma perché sapevo che per quello che volevo fare io era impossibile restare. L’unica facoltà che non c’era e che era solo a Roma: Scienze Statistiche. Ero obbligata, i miei mi hanno capita. Il primo anno un po’ di ambientamento, poi in casa con altre ragazze, infine ho preso un appartamento con mia sorella. Dopo la laurea, con una tesi super sperimentale sui titoli azionari, con un prof che sceglieva ogni anno uno studente soltanto per fargli fare tesi così. Ero felicissima, ci ho messo un anno e mezzo per finire ed è stato faticosissimo».

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    Roma, La Sapienza: l’ingresso della facoltà di Scienze Statistiche
    E dopo?

    «Dopo ho deciso che dovevo cominciare a guadagnare qualcosa e ho cominciato con lezioni private di statistica, matematica finanziaria, redazione di tesi. Quindi ho lavorato per una compagnia di assicurazioni e dopo qualche mese ho incontrato il mio attuale socio. Mi ha proposto di entrare in una società di progetti europei sulla mobilità sostenibile con sede a Orte, disse che c’era da lavorare e da viaggiare tanto. I miei non erano molto convinti, preferivano che rimanessi nelle assicurazioni, ma sono sempre stata allergica all’idea che qualcuno mi dicesse cosa dovevo fare o non fare, è il mio carattere.
    Questa mia caparbietà mi ha quindi portato a viaggiare, a imparare bene l’inglese, a scrivere progetti per la Commissione Europea. Dopo tre anni sono diventata socia perché lui mi aveva detto che se avessi raggiunto gli obiettivi stabiliti mi avrebbe regalato una quota. E così dal 3 per cento nel 1998 sono passata a diventare amministratore delegato di Fit Consulting nel 2003. In cinque anni. Avevo 33 anni».

    Quali pensi siano le sfide realistiche in questo settore, data l’urgenza del cambiamento climatico?

    «Io sto lavorando su diversi piani, due fondamentali. Il primo riguarda una gestione dinamica degli spazi della città per tutti, non possono più essere ad uso esclusivo di una categoria: per la logistica e per il trasporto pubblico. Di giorno uso lo spazio per una cosa, la sera per un altro. Tutte le infrastrutture della città devono essere messe a servizio: mobility hub, cioè spazi dove trovi la fermata del bus, la ricarica elettrica, il car sharing, la bicicletta.

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    Il secondo riguarda l’e-commerce, che ha cambiato davvero non tanto i processi logistici, ma proprio l’abitudine delle persone: sono diventate compulsive. Il delivery deve diventare più lungo possibile, non è pensabile né sostenibile che la consegna sia per forza in un giorno. Amazon ha voluto soddisfare il singolo cliente nella sua singola necessità. Ma se tu acquisti un bene e lo vuoi domani, hai un impatto forte sull’ambiente, quindi è urgente responsabilizzare il cliente sulla sua scelta di acquisto. Bisogna lavorare sulle persone. L’acquirente ha un potere enorme, così si possono capovolgere i poteri».

    A proposito di logistica, cosa pensi del Ponte sullo Stretto?

    «È una stronzata. Un programma europeo ha finanziato un ponte grandioso, quello che congiunge Svezia e Danimarca, e quello ha un senso prima di tutto perché non ci sono appalti, subappalti e subappaltini. Secondariamente, lì ci sono le infrastrutture che consentono di gestire la domanda. Ma se tu fai il ponte che arriva a Messina e a Messina non ci sono le infrastrutture che smaltiscono il volume di traffico è una proposta fuori dal mondo. È una megalomania propagandistica e opportunistica. Bisogna creare ferrovie, migliorare le strade, promuovere il turismo».

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    Il ponte di Øresund, che – insieme a un tunnel sottomarino – collega Svezia e Danimarca
    Come hai incontrato, invece, Paola Turci?

    «Nel 1996, tra gli album Una sgommata e via e Volo così. Lei aveva un fan club gestito da un’altra persona che mi ha chiesto di aiutarla. Dall’immediata stima reciproca è nato un affetto grande. Negli anni abbiamo costruito e tenuto viva la passione di tutti i fan che la seguono, cercando di darle continuità. Il mondo della musica è molto difficile: puoi avere il miglior discografico che vuoi, ma devi avere la tua fanbase, le persone che ti amano e comprano i tuoi dischi».

    Qual è la qualità che più apprezzi in lei, come persona ancor prima che come artista?

    «È una persona fragile e forte allo stesso tempo. Le vuoi bene perché, al di là dell’enorme talento che le ha fatto sempre mantenere un livello artistico alto senza mai scendere a compromessi, Paola è una persona libera. La sua libertà è la sua forza ed è anche la sua generosità: i fan lo avvertono. Ho una grandissima stima di lei. Fare la sua manager richiede tanta attenzione, riuscire a tutelarla e a farle esprimere il meglio. Il suo nuovo progetto teatrale sta andando benissimo, la prima cosa che lei mi ha chiesto è stata il teatro. Sta facendo sold out dappertutto, sarà un grandissimo successo. È lei con le persone davanti, ma non è più la musica. È una cosa diversa. Paola ha tantissimo coraggio, non ha paura. La frase più significativa di questo spettacolo è: “Pensate quello che volete di me: io sono libera”».

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    Paoa Cossu con Paola Turci
    Un’ultima domanda, a risposta secca: in cosa la Calabria è imbattibile e in cosa è pessima?

    «Il calore, la generosità, l’ospitalità e la simpatia, la genuinità delle persone sono qualità per cui la nostra regione è imbattibile. I calabresi accolgono a braccia aperte, come faceva mio padre. La cosa che invece assolutamente non apprezzo è il vittimismo: è il freno più grande allo sviluppo della nostra terra».