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  • Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Lorenzo Calogero, il poeta della solitudine

    Oltre la morte non si può andare.
    Non si dorme, non si ama.
    Si riposa infinitamente.

    Il riposo infinito che giunge soltanto dopo la fine. Sì, perché la vita dell’autore di questi versi fu tutt’altro che serena e sgombra di affanni. Afflitto dall’angoscia di vivere, Lorenzo Calogero fu un poeta solo. E solo un poeta.
    Considerato, post mortem, fra i più alti poeti del Novecento da molti insigni pareri – fra questi anche quello di Carmelo Bene –, Calogero è tuttora poco conosciuto nella sua terra di origine, la Calabria, sempre molto incline a sostenere la liceità della locuzione latina d’evangelica memoria di Nemo propheta in patria.

    Gli studi e le prime poesie

    Nato il 28 maggio 1910 a Melicuccà, paese dell’entroterra Reggino, a breve distanza da Palmi e dalla Costa Viola, Lorenzo Calogero è il terzo dei sei figli – cinque maschi e una femmina – di Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone. Cattolici, abbienti, possidenti terrieri, i Calogero-Cardone sono una delle famiglie melicucchesi più in vista del tempo.
    Dopo i primi anni di studi – dapprima nel paese natio e poi a Bagnara, presso dei parenti della madre –, nel 1922 Lorenzo Calogero si trasferisce con la famiglia a Reggio Calabria, dove il ragazzo consegue la maturità scientifica, e nel 1929 a Napoli per iscriverlo alla facoltà di Ingegneria della prestigiosa Università Federico II. Si tratta di una breve liaison quella con l’ingegneria, sicché dopo poco lo studente passa alla facoltà di Medicina. L’insicurezza sul percorso accademico da intraprendere lascia intravedere la fragilità caratteriale del poeta fin dalla giovinezza.

    Disinteressato alla politica del periodo, agli inizi degli anni Trenta Lorenzo Calogero comincia a soffrire di un arcano disagio che lo accompagnerà fino al termine dei suoi giorni: patofobie, vale a dire il terrore, spesso confuso con la convinzione, di contrarre o già essere affetto da gravi malattie. Nel caso di Calogero, la tubercolosi e il cancro.
    In quel decennio, comunque, il giovane compone i primi versi. Risalenti al triennio 1933-35 sono le liriche poi raccolte in Poco suono, stampato, nel 1936 e a pagamento, da Centauro, editore che l’anno precedente aveva pubblicato sedici sue poesie riconosciute meritevoli dalla giuria del Premio Poeti di Mussolini.

    Nel ’37 Lorenzo Calogero consegue la laurea in Medicina e ottiene a Siena l’abilitazione alla professione che, dopo nuovi tentennamenti, inizia a esercitare in Calabria: prima nella natia Melicuccà, poi, sempre per parentesi brevi o brevissime, in numerosi paesi come Sellia Marina, Gimigliano, Zagarise, Jacurso e San Pietro Apostolo.

    Lorenzo Calogero, dal primo amore alla Val d’Orcia

    Caduto il fascismo e trovato un abbozzo d’indipendenza economica – seppur le patofobie non accennino a svanire, tanto che nel 1942, preso dallo sconforto, si spara un colpo in petto (parlare di tentativo di suicidio ci pare irriguardoso dell’intelligenza del poeta e del lettore, considerato che il nostro era comunque un medico e un medico sa bene come ammazzarsi e come non ammazzarsi) –, nel 1944 Calogero fa la straordinaria scoperta di un altro aspetto della vita: si innamora e fidanza con una studentessa conosciuta anni prima a Reggio Calabria. Purtroppo, le angosce, l’insoddisfazione cronica e le continue manie di cui soffre il giovane medico – in quel periodo è convinto di aver contratto la rabbia da un cane – inveleniscono il rapporto. La ragazza tenta in tutti i modi di tirare fuori Calogero dalle secche in cui sta scivolando, ma ogni tentativo si rivela vano. La complicata relazione si interrompe già con la fine di quell’anno.campiglia-lorenzo-calogero

    Conclusa la guerra, Lorenzo Calogero riprende a comporre poesie e fa ritorno a Melicuccà. Qui resta per un periodo abbastanza lungo, sino al principio del 1954 quando, dopo aver vinto un concorso, viene nominato medico condotto a Siena e spedito nel paesello collinare di Campiglia d’Orcia. La sua esperienza professionale in Val d’Orcia, però, è sì tanto disastrosa che appena un anno dopo è costretto a lasciare l’incarico. Scrive al fratello Paolo: «Come medico non godo alcuna simpatia da parte della popolazione»; la gente di Campiglia, infatti, aveva fatto presto a non fidarsi e a disertare lo studio di quel dottore così introverso e nevrastenico. Di fatti, l’isolamento in Val d’Orcia ha peggiorato il nervosismo e la suscettibilità del medico-poeta e ha acutizzato un’altra sua dannosa tendenza, quella di abusare di barbiturici e tabacco.

    Nessun sostegno dal mondo letterario

    Lasciatasi alle spalle l’esperienza infausta in terra toscana, Lorenzo Calogero si getta totalmente nella poesia cercando un editore che possa pubblicare i componimenti scritti nel dopoguerra e quella montagna di inediti giovanili che si porta appresso da anni. Dopo il rifiuto ricevuto da Einaudi, nel 1955 è costretto ancora una volta a ricorrere alla stampa a pagamento, in questa occasione presso la casa editrice senese Maia. Le due raccolte portano il titolo di Ma questo… e Parole del tempo.

    Uomo dotato di scarsissimo amor proprio, in vita Lorenzo Calogero non ha avuto – e non ha saputo condurre a sé – il sostegno di alcun esponente del mondo letterario, un universo prevenuto e distratto che non riusciva proprio a trovare le ragioni e il tempo per comprendere quel poetuccio venuto fresco fresco dal Sud più misterioso. L’unica eccezione è costituita da un altro poeta meridionale: si tratta di Leonardo Sinisgalli.

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    Leonardo Sinisgalli

    Lucano di origini – era nato nel 1908 a Montemurro – Sinisgalli è stato il solo a dimostrare amicizia e interesse per Calogero e le sue poesie. I due condividono pure la passione per l’ingegneria e il critico e poeta lucano non si tira indietro quando il collega calabrese gli chiede, durante il loro primo incontro a Roma, di firmare la prefazione per il suo prossimo scritto. È Come in dittici, raccolta di centosettantasei liriche scritte tra il ’54 e il ’56 e edite sempre da Maia.

    Il tentativo di suicidio e il ricovero a Villa Nuccia

    Il 1956 e il 1957 rappresentano due anni decisivi, in senso negativo, per l’esistenza di Calogero. Alla scomparsa della madre, cui era profondamente legato, il poeta tenta il suicidio. L’esaurimento nervoso oramai manifesto a tutti, porta i famigliari alla decisione di ricoverarlo nella clinica per malattie nervose di Villa Nuccia, a Gagliano di Catanzaro. Questo periodo di internamento – durante il quale verga gran parte dei versi che finiranno ne I quaderni di Villa Nuccia, volume postumo, nominato dal poeta melicucchese Canti della morte – non giova affatto alla psiche di Calogero. Imprigionato entro le alte mura della casa di cura, egli si sente tradito dalla famiglia, capisce di non potere più contare su di loro.

    È così che chiede nuovamente aiuto a Leonardo Sinisgalli, sempre più unico legame col mondo fuori da sé, solo faro visibile dalla sua bagnarola in preda alla tempesta.
    Il Poeta ingegnere non gli volta le spalle e il 3 marzo 1957 firma la presentazione di alcune liriche calogeriane pubblicate sulla Fiera letteraria. Nell’estate del medesimo anno giunge la prima e unica gioia letteraria – effimera – dell’autore calabrese con la vittoria del Premio Villa San Giovanni.

    La drammatica premiazione di Villa San Giovanni

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    Premio Villa S Giovanni, Lorenzo Calogero alla destra di Leonida Repaci; dietro di lui Enrico Falqui, Leonardo Sinisgalli, Franco Saccà

    Oramai divorato dai suoi demoni, in un primo momento Calogero non accetta l’invito ed è soltanto grazie all’intervento dell’amico Sinisgalli che decide di presentarsi alla cerimonia. La serata, però, è un colpo allo stomaco per chi vi assiste. Minato nella salute e incapace financo di camminare con fluidità, Lorenzo Calogero viene praticamente trascinato sul palco e ritira senza un sorriso il riconoscimento.
    L’episodio ricalca i contorni della premiazione di Cesare Pavese al Premio Strega 1950, consegnatogli sessantaquattro giorni prima del suicidio nella notte tra il 26 e il 27 agosto.
    “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla.” Queste le meste parole dello scrittore langhetto qualche giorno dopo la vittoria.
    «Mi cugghjuniàru». Questa la colorita ma tetra risposta, in dialetto calabrese, di Lorenzo Calogero a un compaesano che gli aveva chiesto come fosse andata al Premio Villa San Giovanni.

    La morte di Lorenzo Calogero

    Morte mi chiama

    col suo peso leggero

    come in un sogno.

    Gli ultimi anni del poeta sono segnati dai continui ricoveri e susseguenti fughe da Villa Nuccia. Abbandonato da tutti, al termine del 1960 si ritira in solitudine nella dimora di Melicuccà riempendo le sue giornate di innumerevoli cuccume di caffè, manate di sigarette e boccette di sonniferi.
    Qui l’inquietudine di una vita cessa, quando il 25 marzo 1961 è trovato morto. Le circostanze del decesso di Lorenzo Calogero non sono state mai chiarite. Con buone probabilità si era tolto la vita da almeno tre giorni con un sovradosaggio di barbiturici, altro episodio che ne paragona la parabola esistenziale a quella di Pavese. Un ultimo punto in comune con lo scrittore de La luna e i falò è il biglietto d’addio che, all’apparenza semplice ma pregno di delirio, arrendevolezza, distacco, apprensione, terrore, Lorenzo Calogero lascia accanto al suo corpo: «Vi prego di non essere sotterrato vivo».lorenzo-calogero-seppellito-vivo

    La poesia

    E quel che mi rimane

    è un poco di turbine lento di ossa

    in questo orribile viavai

    dove è alzato anche

    un palco alla morte.

    Da voracissimo lettore, Lorenzo Calogero accolse nella sua opera, come sostiene Luigi Tassoni ne Il gioco infinito della poesia (Giulio Perrone, 2021), “detriti, tessere, parole chiave, scie ritmiche” di tutti gli autori letti, rimodellati perché potessero aderire con coerenza alla sua poesia, ché questa non ne uscisse come una scialba parodia. Come abbiamo visto, però, i suoi versi ostinatamente tormentosi, scevri di speranza con cui consolarsi, anche antistorici rispetto alla poesia del tempo, non trovarono né lettori né editori interessati a pubblicarli.
    Il poeta morì in quell’alba di primavera del ’61, ma la sua poesia risorse, o, per meglio dire, sorse, facendo vedere quanto essa sia inconsumabile, prendendo in prestito le parole di Pier Paolo Pasolini.

    Estate ’62: Lorenzo Calogero diventa un caso letterario

    La diffidenza verso l’opera di Lorenzo Calogero crolla dopo la morte, come sovente accade e come era accaduto poche stagioni prima a un altro gigante della letteratura italiana del Novecento: Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell’estate del ’62 non si parla di altro che di quel poeta calabrese morto poco più di un anno prima in circostanze tragiche. Ne scrivono nomi illustri della cultura: Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Alberto Bevilacqua, Mario Luzi, Leonida Repaci, Sharo Gambino, Carlo Bo, Franco Antonicelli. Addirittura Giuseppe Ungaretti si lascia andare a una frase divenuta celebre: «Questo Lorenzo Calogero ci ha diminuiti tutti».

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    Giuseppe Ungaretti

    Il nome di Calogero compare su tutte le testate nazionali, La Stampa consiglia i suoi libri tra quelli da portare sotto l’ombrellone, qualcuno avanza paragoni con i Poètes maudits. L’ultimo poeta dell’ermetismo, il nuovo Rimbaud, l’ultimo dei poeti maledetti. I titoloni si sprecano. Poi, passata l’ondata emotiva e modaiola, sul nome di Lorenzo Calogero cala di nuovo il silenzio.

    Nel 1966 l’editore Lerici, che aveva pubblicato in due volumi le Opere Poetiche di Calogero e che aveva in cantiere una terza pubblicazione, chiude l’attività lasciando inedita un’altissima catasta di manoscritti.

    Gli inediti all’Unical

    In centinaia, infatti, sono i quaderni zeppi di poesie del melicucchese oggi conservati all’Università della Calabria – dipartimento di Studi Umanistici, laboratorio Archivi letterari novecenteschi – in pazientissima attesa che qualche anima volenterosa decida finalmente di pubblicarli.
    Di e su Lorenzo Calogero, poeta consumato dal suo mal di vivere e dimenticato dal mondo culturale italiano, possiamo leggere:

    • Opere Poetiche I, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1962);
    • Opere Poetiche II, a cura di Roberto Lerici e Giuseppe Tedeschi (Lerici, 1966);
    • Poesie, a cura di Luigi Tassoni (Rubbettino, 1986);
    • Lorenzo Calogero, di Giuseppe Tedeschi (Parallelo 38, 1996);
    • Itinerario poetico di Lorenzo Calogero, di Giuseppe Antonio Martino (Qualecultura/Jaca Book, 2003);
    • Parole del tempo, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi con una introduzione di Vito Teti (Donzelli, 2010);
    • Avaro nel tuo pensiero, di Lorenzo Calogero a cura di Mario Sechi e Caterina Verbaro (Donzelli, 2014).

    Melicuccà oggi ricorda il suo insigne figlio con una via e un monumento, sito lungo la principale via Roma, dell’artista scillese Carmine Pirrotta. L’opera (datata 1966) è stata finanziata con fondi degli emigrati d’Australia e commissionata dal Circolo culturale Lorenzo Calogero.

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    Melicuccà, il monumento a Lorenzo Calogero (foto Antonio Pagliuso)

     

     

  • Sette vite per Ettore Majorana nel romanzo di Mimmo Gangemi

    Sette vite per Ettore Majorana nel romanzo di Mimmo Gangemi

    Le sette vite di Majorana. Sono quelle che lo scrittore Mimmo Gangemi fa vivere al fisico siciliano misteriosamente scomparso nella notte tra il 26 e 27 marzo 1938. Uno dei cold case italiani più noti, oppure semplicemente un uomo desideroso di far perdere le sue tracce? Lo scopriremo solo leggendo L’atomo inquieto, ultima fatica letteraria del narratore di origini aspromontane. Che ieri ha presentato il suo ultimo libro a Villa Rendano in occasione di “Libri in Villa”, l’iniziativa promossa di concerto con il Comune di Cosenza e le associazioni che lo scorso 24 febbraio hanno sottoscritto, con la Fondazione “Attilio e Elena Giuliani” e lo stesso ente cittadino, il Patto per lo sviluppo culturale del territorio.
    Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio ed Elena Giuliani” ha aperto i lavori: «Sentimenti di amicizia e stima mi legano a Mimmo Gangemi, intellettuale capace di costruire una narrazione stupenda». E poi «Mimmo è stato pure autore della Luigi Pellegrini editore».

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    Da sinistra: Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza; Walter Pellegrini, presidente della Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”; Mimmo Gangemi, scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte

    A stimolare il dibattito e dialogare con lo scrittore aspromontano è stata Antonietta Cozza, consigliere comunale di Cosenza con delega alla Cultura. Secondo lei il libro è un po’ «una via di mezzo tra la spy story e il romanzo psicologico».
    La Calabria compare in questa storia. In primis per la ventilata presenza del fisico catanese nella Certosa di Serra San Bruno. Gangemi chiarisce il senso: «È un omaggio alla “Scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia». Anche «Sharo Gambino» fece lo stesso.

    A Villa Rendano Mimmo Gangemi sottolinea la stranezza di una lettera. Quella inviata da Majorana a un suo amico dove annunciava il suo suicidio in mare, sul traghetto che lo avrebbe dovuto portare in Sicilia: «Uno che sa nuotare non si toglie la vita in mare e, soprattutto, non porta con sé cinque stipendi e la sua quota di eredità paterna».
    Suggestioni, spunti, riflessioni e indizi disseminati nel ragionamento e nel romanzo. A partire da quella foto che ritrae il criminale nazista Adolf Eichmann sul piroscafo nel porto di Buenos Aires. Insieme a lui un capitano della Wermacht e un tipo che somiglia tanto, troppo, allo scienziato italiano. Gangemi chiarisce: «Non è mai stato filonazista, ma filogermanico».
    “L’atomo inquieto” aggiunge un altro capitolo alla carriera letteraria di Gangemi. Autore di libri come “La signora di Ellis Island”, “Il giudice meschino” e “Marzo per agnelli”.

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    “L’atomo inquieto” di Mimmo Gangemi
  • La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

    La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

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    Paolo Migliazza merita. Questa cosa non l’ho capita subito, cioè quando l’ho conosciuto qualche anno fa. L’ho capita un po’ dopo, quando entrai per la prima volta nel suo studio, il vecchio laboratorio in un sotterraneo di via del Pratello, a Bologna. Non tanto per l’ambientazione, che aggiungerebbe già di per sé una patina di bohémien di cui Paolo non ha minimamente bisogno, quanto per l’impatto visivo ed emotivo all’ingresso di quel luogo. E certo, uno studio d’artista è sempre una fucina magica più o meno a soqquadro a seconda delle inclinazioni del personaggio. Ma questo aveva in più qualcosa tra l’inquietante e un certo senso di estraneità rispetto al tempo. Ricordo un’intera stanza piena di busti di bambini, pochi ancora in lavorazione, molti finiti, tutti silenziosi ma in qualche modo urlanti. Qualcuno coperto, qualcuno rotto. Una specie di piccolo Esercito di terracotta under 18 e soprattutto inerme.

    Perché hai cominciato proprio con la scultura anziché con un altro mezzo espressivo?

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    Alcune sculture di Paolo Migliazza realizzate per We are not superheroes

    «Ho cominciato da bambino, toccando e giocando con la terra, stando in campagna dietro a mio nonno. I miei nonni erano da una parte operai, e dall’altra piccoli proprietari terrieri. Tutti di Girifalco. La terra l’ho sempre respirata, in particolare col nonno paterno, come spesso succede giù. E in campagna, uno dei modi che avevo per giocare, per inventarmi e costruirmi le stalle degli animaletti era prendere la terra, paciuccarla e creare i vari spazi. Il mio primo approccio alla scultura è stato questo, ludico, abbastanza inconscio».

    Strano che proprio a Girifalco fosse nato un altro artista, con un cognome simile al tuo e che forse ti assomigliava pure un po’, il garibaldino Antonio Migliaccio…

    «Nessun collegamento. L’arte l’ho assorbita un po’ da mio padre, che è stato sempre un po’ appassionato, anche non avendola mai potuta praticare. Ma io mi sento del tutto figlio, anzi, nipote di una dimensione contadina, anche nell’accezione più bella e romantica del termine».

    Contano, e molto, le radici?

    «Le radici sono un elemento costituente della personalità, ma che noi non razionalizziamo. Assorbiamo il retaggio culturale della storia dei luoghi in cui nasciamo e cresciamo e ce li ritroviamo nelle scelte che facciamo, specialmente in ambito artistico».paolo-migliazza-scultura

    Il fatto di aver iniziato con la terra ha condizionato quindi anche la scelta dei materiali con cui lavori oggi?

    «Sì e no, nel senso che quella è stata una scelta di comodo perché la conoscevo bene. La potevi costruire e distruggere, modellare la forma da 0 a 100 e da 100 a 0. Poi c’è anche la condizione del lavoro. La scultura ha qualcosa che tanti altri linguaggi non hanno: devi mettere in conto anche la stanchezza, il lavoro fisico, e non solo quello psicologico legato all’idea».

    Quali modelli di ispirazione hai avuto?

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    Una delle opere di Paolo Migliazza

    «Negli anni di studio sono venuto spesso a Bologna ma non ci ho trovato mai niente di interessante… mi ero formato in una piccola bottega locale… quello che mi ha veramente toccato è stato quando, al Parco Archeologico di Scolacium, Alberto Fiz curò per due anni Arte Nel Parco, una mostra collettiva all’interno degli scavi (con opere di Paladino ecc.); poi quello che mi ha smosso di più è stato Time Horizons di Antony Gormley: aveva installato sui pendii 100 calchi in ferro pieno e nonostante l’orografia, insomma le curve di livello altimetriche del parco fossero incoerenti, le 100 figure restavano tutte esattamente sullo stesso piano, disegnando idealmente una linea d’orizzonte che guardava verso il mare. Poi ho intervistato Aron Demetz per la tesi, ed è gente che mi ha messo un po’ in pace col mondo. Lui, Walter Moroder, Bertozzi e Casoni, mi hanno fatto capire che si poteva ancora fare la scultura figurativa. Io pensavo fosse una roba legata al Novecento e invece oggi è più viva di altri linguaggi.

    Ricordami quell’installazione tua e di Nicola Amato, che vi feci portare ad Aliano al festival di Franco Arminio (la gloriosa e indimenticabile edizione de “La luna e i calanchi” di fine agosto 2016)…

    Fu una cosa fatta solo per quell’occasione, ed era un’installazione assolutamente site-specific. Avevamo utilizzato circa 200 vecchi mattoni conici forati, le pignatte che venivano utilizzate per fare soffitti e controsoffitti. Avevano un buco sulla testa e uno sulla base, così da trattenere il calore ma contrastare l’umidità, una sorta di coibentazione. Ce le caricammo in macchina io e Nicola, da Girifalco ad Aliano… 270 km. Arrivati lì scegliemmo lo spazio che ci interessava di più, il pianterreno di una casa antica, con in mezzo la bocca di un pozzo. Rovesciammo le pignatte in modo praticamente casuale, considerato anche il fatto che quelle cadute orizzontalmente finivano per rotolare… sarebbe da rifare. Ma poi com’è che c’eravamo finiti?

    Niente, fu che l’anno prima fui invitato da Franco Arminio sempre ad Aliano, dove facevo una specie di seminario folle, itinerante, che si intitolava “Viabilità a misura d’uomo contro gli attacchi di panico (tornando all’Italia di prima)”, che poi era la base di partenza della rubrica “Strade Perdute” che sto curando su questo stesso giornale… Ma torniamo a te e cerchiamo di uscire un po’ dal tecnico. Qual è stata la tua soddisfazione maggiore?

    «Sicuramente l’esperienza con la Galleria L’Ariete di Bologna, il mio battesimo del fuoco in termini concettuali, quando ho fatto We are not superheroes, e ho cercato di trascinare la scultura nella contemporaneità».paolo-migliazza-dettaglio-scultura

    I tuoi bambini, meravigliosi e inquietanti… perché proprio i bambini?

    «Da un lato era la necessità di uscire dal seminato dello studio accademico, dei modelli e delle modelle, dall’altra iniziavo a riflettere su una mia visione personale, una mia traccia visiva. Anche su quello che era il mio passato: ho giocato per strada e nella mia memoria c’è questo imprinting per cui ho plasmato questi bambini che riporto ad un’immagine minima relazionandoli alla scultura arcaica: sono fermi, non giocano, non hanno rapporti tra di loro ma nemmeno con i grandi. Sono dei bambini vecchi».

    Una volta mi hai detto che questi bambini sembrano buoni ma in realtà sono cattivissimi.

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    Uno dei bambini scolpiti da Paolo Migliazza

    «Conosci bambini buoni? Tutti i bambini sono cattivi. Il male che ci si fa tra bambini è tremendo… Ne Il Signore delle Mosche Golding ci insegna che i bambini sono la peggiore cosa che possiamo incontrare. Perché sono terribilmente schietti.

    Non è che poi crescendo le cose cambino molto… Detto ciò: i tuoi sono bambini belli… perché? Forse per una forma inconscia di politically correct per cui non vorresti far passare la cattiveria infantile attraverso tratti somatici sgradevoli?

    «Riguardandone alcuni che non ho mai esposto, diciamo che non li metterei sul podio dei più belli della classe».

    Sono anche molto fotografici, icastici, ma spesso è come se non avessero gli occhi…

    «Li hanno velati: quello che voglio è eliminare un aggancio emotivo diretto, ecco perché eliminare l’occhio. Nella mia visione, velare gli occhi significa riportare tutto al corpo e alla semantica del corpo. Una scultura che diventa vicina fisicamente ma lontana a livello emotivo. Non mi interessa che passi la mia idea. Interessa che la mia opera riesca a far sentire lo spettatore davanti a un dispositivo aperto. Poi sta a lui».

    Prossimi progetti?

    «Il MABOS (Museo d’Arte del Bosco della Sila), è un museo d’Arte Contemporanea situato nella Sila catanzarese. L’imprenditore, Mario Talarico, ha aperto questo parco scultoreo offerto per la realizzazione di opere site-specific che rimangano lì. E poi sono stato invitato al Premio San Fedele, a Milano».

    Quindi, in parte, un temporaneo ritorno alla Calabria. Tutta l’Italia è paese?

    «Tutta l’Italia è provincia. L’Italia non è mai riuscita a vedersi come una nazione protagonista, ma ha sempre avuto una visione subalterna di se stessa».

    A parte forse durante il Rinascimento, anche se non c’era una sola Italia…

    «Esatto… era più internazionale e centrale cinquecento anni fa che non oggi».

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    Paolo Migliazza all’opera in occasione di We are not superheroes

    Cosa consiglieresti a un diciottenne artista di oggi?

    «Niente. Gli consiglierei di annoiarsi».

    Questa l’ha detto anche Paolo Sorrentino…

    «Ed è giusto. L’eterna provincia d’Italia, che è il Sud, e in particolare la Calabria… in questo ci aiuta. La provincia ti lasciava la libertà della noia perché non era a contatto con una contemporaneità stressata dai mezzi di comunicazione. Mi sento fortunato».

    Però fa scaturire anche recriminazioni…

    «Certo, il fatto che ci sia sempre una sorta di clientelismo. Il fatto è che spesso giù – ora un po’ meno – c’è sempre un po’ una visione per cui la cultura sembra di minor valore e rischia di mischiarsi alla sagra di paese. La Calabria è come una macchina supersportiva che potresti mandare a mille e invece la lasci ad arrugginire nel vialetto dietro casa perché ti vergogni di farla vedere…».

    Le immagini all’interno dell’articolo raffigurano alcune sculture di Paolo Migliazza della serie “We are not superheroes”. L’autrice degli scatti è Rosa Lacavalla

  • Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

    Francesco Jerace, il re degli scultori calabresi

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    È considerato tra i maggiori artisti del panorama italiano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; le sue opere hanno valicato i confini sia nazionali che continentali. Francesco Jerace è senza dubbio tra i figli più illustri della Calabria degli ultimi duecento anni.

    Francesco Jerace, da Polistena a Napoli

    Nato il 26 luglio 1853 a Polistena – popoloso paese del Reggino, stretto tra la Piana di Gioia e le pendici settentrionali del massiccio dell’Aspromonte –, Francesco Jerace era figlio di Fortunato e Mariarosa. Quest’ultima era discendente dei Morani, famiglia di scultori in legno originaria del Catanzarese che, al principio dell’Ottocento, si era trasferita verso i declivi del “Monte Bianco” calabrese per sfuggire alla prepotenza dei francesi.
    Ed è proprio nella bottega famigliare di Polistena – centro ricostruito da pochi decenni dopo il devastante terremoto del 1783 – che il giovane Jerace viene iniziato all’arte del disegno, dell’intaglio e della scultura. Emerso il suo talento naturale, non passa troppo tempo che il rampollo si trasferisce a Napoli, presso la Real Accademia di Belle Arti. Sono i primi anni settanta dell’Ottocento.

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    Un ritratto di Domenico Morelli

    A Napoli – città dove lo raggiungeranno presto i fratelli Vincenzo, anch’egli scultore, Gaetano, pittore paesaggista, e Michelangelo, poi insegnante – Francesco Jerace frequenta Andrea Cefaly, calabrese di Cortale e già patriota e pittore affermato. I suoi maestri sono Saverio Altamura, Tito Angelini, Tommaso Solari e Domenico Morelli. Dopo una prima passione per la pittura, fase non scevra da incomprensioni con maestri e pubblico, è proprio Morelli, insigne pittore e anima dell’Accademia, che indirizza il giovane alla scultura.

    La prima commissione di rilievo

    A Napoli, Jerace conduce una vita tutt’altro che agiata fin quando nel 1873 non giunge la prima importante commissione della carriera. Marta Somerville lo incarica di scolpire il monumento funebre della madre, la astronoma e autrice scozzese Mary Somerville. Scrive Alfonso Frangipane, biografo dell’artista, che al termine del pesante lavoro – oggi sito al cimitero inglese di Napoli –, la nobildonna, nel retribuirlo per il servigio, gli consigliò di procurarsi un luogo più salubre in cui svolgere il suo mestiere, ché lo vedeva “tanto malandato in salute” (A. Frangipane, Francesco Jerace, in Studii e ritratti calabresi, Casa editrice “La Sicilia”, Messina 1924).

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    Napoli, cimitero degli inglesi: il monumento funerario a Mary Somerville

    Francesco Jerace, lo scultore dell’eleganza e della gagliardia

    Il riconoscimento internazionale, comunque, non tarda a venire. Grande fortuna ha il gesso del Guappetiello, il fanciullo del popolo napoletano, riprodotto in molteplici repliche, tra le quali una in bronzo sarà portata all’Esposizione universale di Parigi del 1878. In quell’occasione tutti si accorsero della straordinaria grazia dell’arte di Jerace; la maestria jeraciana, infatti, segnò un progresso nella scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento, per la luce che sembrano sprigionare i suoi busti, per il realismo, per il bello ideale che raggiunge, per la libertà e l’armonia delle forme, lievi nel marmo in cui sono incise.
    Camillo Boito, architetto e teorico di spicco dell’architettura, esaltò l’artista calabrese definendolo «lo scultore dell’eleganza e della gagliardia».

    Un tocco di Calabria nella capitale

    Addentriamoci adesso nell’opera di Jerace. Partiamo da Roma, dove è possibile trovare lavori del grande scultore polistenese a Palazzo Madama, a Palazzo di Montecitorio e alla Banca d’Italia – luoghi che conservano tre busti di Francesco Crispi. Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea si trova, invece, il marmo del Trionfo di Germanico. Al Vittoriano, l’Altare della Patria, al lato destro della cancellata artistica di Manfredo Manfredi è collocato il gruppo bronzeo dell’Azione, capolavoro realizzato appositamente per l’apertura del Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II. Di queste due ultime opere monumentali esistono altrettanti bozzetti, conservati all’interno della Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro, ospitata al MARCA, Museo delle Arti della città capoluogo della Calabria.

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    Roma, complesso del Vittoriano: l’Azione, opera di Francesco Jerace

    La Napoli di Francesco Jerace

    La città che però conserva il maggior numero di opere del Maestro calabrese è certamente Napoli, dove Jerace visse per lunghi periodi della sua vita. Alle pendici del Vesuvio si possono ammirare le decorazioni del giardino e dei salotti della settecentesca Villa La Fiorita, nell’abitazione sui Colli Aminei l’artista soggiornò, ospite della famiglia del banchiere svizzero Oscar Meuricoffre. Oppure apprezzare l’altorilievo bronzeo sul frontone dell’Università degli studi, in cui, fra le diciotto figure – delle quali una è un ritratto del nonno Francesco Morani –, spicca Federico II, lo Stupor Mundi, fondatore dell’ateneo nell’anno di grazia 1224.

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    La statua di Beethoven nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella

    Ancora nella già capitale del Regnum Siciliae citra Pharum è possibile imbattersi nella statua jeraciana di Vittorio Emanuele II sulla facciata di Palazzo Reale, nei monumenti a Nicola Amore e a Giovanni Nicotera in Piazza della Vittoria, nelle sculture sul frontone del Duomo, nel busto della boccaccesca Carmosina al Museo e Real Bosco di Capodimonte, nella statua di Antonio Toscano, l’Eroe di Vigliena, al Maschio Angioino, nella drammatica Mater dolorosa del monumento Cocchia al cimitero di Poggioreale e nella statua di Ludwig van Beethoven, presentata nel 1895 alla edizione inaugurale della Biennale di Venezia e oggi collocata nel cortile del Conservatorio di San Pietro a Majella. Piccola parentesi: alla kermesse della città lagunare, inoltre, Jerace partecipò con altre opere tra le quali il busto di Hadria, poi acquistato da Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia.

    In giro per l’Italia

    Intorno all’area campana e meridionale sono da citare i monumenti in memoria dei caduti della Grande guerra a Sorrento e ad Aversa, il monumento a Giuseppe Martucci a Capua, la statua di Gabriele Pepe a Campobasso e un bronzo raffigurante Nino Cesarini, compagno del barone francese Jacques d’Adelswärd-Fersen, che il nobiluomo – personaggio da romanzo – fece collocare nel giardino di Villa Lysis a Capri, suo “tempio bianco” sacro all’amore e al dolore. La scultura purtroppo è andata perduta successivamente al suicidio del Fersen nel 1923 e all’abbandono in cui precipitò la Villa.

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    Il barone Fersen

    Menzionando il gruppo dedicato a Gaetano Donizetti a Bergamo – onere che Jerace ottenne a seguito di un concorso in cui trionfò contro una schiera di rivali in buona parte provenienti dal Nord –, proseguiamo l’itinerario artistico dello scultore calabrese giungendo nella sua terra d’origine.

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    Bergamo, il monumento a Donizetti realizzato da Jerace

    Le opere a Polistena

    All’interno del Duomo della natia Polistena – dove Jerace ricevette il battesimo – si trova un suo altare marmoreo, quello della cappella del Santissimo Sacramento, su cui campeggia la grande tela dell’Eucarestia, chiaramente firmata Jerace. All’interno del luogo di culto è conservato anche un quadro dell’Ultima Cena (dipinto nel 1904 per volontà del padre), fatica bastevole a ricordare l’altro campo artistico in cui eccelleva il Maestro. L’esterno della chiesa dedicata a Santa Marina Vergine presenta inoltre un frontone realizzato su disegni dell’illustre concittadino.

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    L’Ultima Cena, dipinto realizzato da Jerace su richiesta del padre

    Oltre a ciò, Francesco Jerace ha voluto ricordare il sacrificio dei polistenesi nel corso della Prima guerra mondiale con un monumento ai caduti situato in Piazza del Popolo. A sua volta Polistena ricorda il suo indimenticabile figlio con un’opera bronzea di Fortunato Longo, inaugurata nel 1997 e posta nella piazza da cui parte la via dedicatagli, e con la Casa museo Jerace, aperta nel 2018, nelle cui sale sono esposte numerose opere d’arte eseguite dall’artista e dal fratello Vincenzo. Nel Municipio della “perla della Piana”, in ultimo, si trova un bassorilievo di gesso con una testa barbuta – una delle primissime realizzazioni del giovane Jerace – e altri lavori donati in tempi recenti dagli eredi.

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    Polistena, Monumento ai caduti

    Francesco Jerace in Calabria

    A proposito di donazioni: abbiamo citato in precedenza la Gipsoteca Francesco Jerace di Catanzaro. Lo spazio offre una nutrita collezione di marmi e gessi dello scultore, donati nel 1966 dalla figlia Maria Rosa, come una riproduzione della Victa – busto marmoreo col quale nel 1880 partecipò all’Esposizione nazionale di Torino – e i busti ideali dell’Ercolanea e della principessa Evelina Colonna di Galatro.

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    Reggio Calabria, il monumento a Giuseppe De Nava

    In Calabria la mano di Jerace è rintracciabile in diverse città. A Reggio Calabria il Maestro realizzò le statue di San Paolo e Santo Stefano di Nicea per il sagrato del Duomo: il primo secondo tradizione convertì la popolazione reggina al Cristianesimo, il secondo fu invece il primo vescovo della città. All’interno del Duomo di Reggio si trova pure un suo monumentale pergamo. Per la città sullo Stretto il Genio di Polistena ha scolpito, inoltre, il monumento ai caduti con la Vittoria Alata, il marmo Eroica, il monumento a Giuseppe de Nava e un busto della poetessa locridea Nosside. Da segnalare anche un originale autoritratto a sanguigna custodito all’interno del Museo diocesano della città metropolitana.

    Un museo a cielo aperto

    Proseguiamo la carrellata citando i lavori di Francesco Jerace accolti alla Gipsoteca Michele Guerrisi, presso la Casa della cultura Leonida Repaci di Palmi, il busto di nobildonna conservato al MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento di Rende, e l’Angelo della tomba Compagna al sacrario della Schiavonea di Corigliano.
    Non soltanto gallerie al chiuso: la Calabria rappresenta, infatti, un autentico museo a cielo aperto per quel che riguarda l’opera di Jerace. Per le strade di Crotone si incontrano le statue di Armando Lucifero e Raffaele Lucente; a Cosenza gli Angeli della cappella Greco; a Pizzo, prossimo all’incantevole belvedere di Piazza della Repubblica, il busto di Umberto I di Savoia scolpito nel 1902 per ricordare il sovrano d’Italia assassinato due anni prima per mano di un anarchico; a Stefanaconi il monumento ai caduti; a Scilla la possente statua di bronzo della Sirena; ancora a Catanzaro i marmi dei viali di Villa Margherita, raffiguranti illustri calabresi del XIX secolo tra cui Andrea Cefaly, Francesco Fiorentino e Bernardino Grimaldi.

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    Cosenza, gli Angeli della cappella Greco

    Sul tetto dell’Aspromonte

    Impossibile dimenticare, infine, la statua bronzea del Cristo Redentore, realizzata per il Giubileo del 1900 e rientrante nel “grandioso omaggio a Dio” concepito da papa Leone XIII, progetto che prevedeva la collocazione di venti statue su altrettanti monti italiani.
    Posto nel 1901 sulla cima dell’Aspromonte, ai 1956 metri di Montalto, comune di San Luca, il Cristo Redentore di Francesco Jerace ha in mano una grande croce e con l’altra benedice l’intero popolo calabrese, perché possa vivere nella fede in Dio e non dimentichi i grandi uomini – religiosi e artisti su tutti – che lo hanno rappresentato nel mondo.

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    Montalto (San Luca), il Cristo redentore

    Francesco Jerace, sculture in tutto il mondo

    Membro della commissione permanente di Belle Arti, l’eminente artista fu professore onorario delle accademie di Belle Arti a Napoli, Milano e Bologna e alla VIII Biennale del 1909 gli fu riservata una mostra personale.
    Francesco Jerace fu invitato alle rassegne internazionali più importanti del suo tempo, partecipando a varie Esposizioni universali, all’Esposizione italiana di San Pietroburgo dell’anno 1902 e a manifestazioni anche oltreoceano (fu a Saint Louis, Buenos Aires e Santiago del Cile) prima di spegnersi a Napoli il 18 gennaio 1937. Sue opere si trovano oggi in tutto il globo: da Londra a Berlino, da Dublino a Monaco di Baviera, da Varsavia, a L’Aia, Madrid, Atene, Odessa e Bombay.

  • Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe poi l’abbandono. E nessuna soluzione in vista per il castello di Amantea, un rudere maestoso che domina la collina a strapiombo sul mare.
    Il castello e la torre – o meglio, i resti di entrambi – sono solo una parte, la più vistosa, di un problema più ampio: il pianoro su cui sorge l’antica roccaforte, circa 36mila metri quadri di terreno agricolo.
    L’insieme è un’unica proprietà privata, divisa tra tre eredi: Giuseppe, Giovanni e Giacinto Folino, che ne hanno quote diseguali.
    Dov’è il problema?

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    Il rudere della torre sullo sfondo del mare

    I problemi del castello di Amantea

    Ricapitoliamo: una grossa proprietà limitata da due vincoli pesanti. Il primo è la sua natura agricola, che consente un’edificabilità molto limitata.
    Il secondo è dovuto alla presenza dei ruderi, che ovviamente sono classificati come beni d’interesse storico-culturale.
    Mantenere questo popò di roba senza metterla a frutto è un problema per chiunque.
    A tacere dei costi di manutenzione, effettuata poco o nulla nell’ultimo ventennio e non per responsabilità dei proprietari. Cosa si aspetta ad acquisirla nel patrimonio pubblico?
    Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, un po’ di storia.

    Il castello e l’assedio di Amantea

    Il castello è legato a una vicenda storica importante: l’eroica resistenza dei manteoti, guidati dal capitano Rodolfo (o, secondo alcune fonti, Ridolfo) Mirabelli, alle truppe napoleoniche.
    L’assedio dura poco più di un anno tra alterne vicende.
    Alla fine i francesi, comandati dal generale Jean Reynier, espugnano il castello in maniera spettacolare.
    Dapprima, a fine gennaio 1807, bombardano a tappeto le mura e la cittadella interna con due cannoni pesanti e un obice, posizionati nelle colline circostanti.
    Poi, il 5 febbraio, arriva il colpo di grazia: una mina da 1.900 libbre (633 kg) di polvere da sparo esplode sotto una parete del castello, che crolla. A questo punto, chi può scappa e Mirabelli tratta con gli assedianti. Amantea capitola due giorni dopo. Tuttora la zona di questa prima breccia si chiama ‘a Mina.

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    I resti delle mura difensive

    Un lungo declino

    Tutto questo spiega perché il castello è un rudere. Ma non aiuta a capire come mai sia finito in mani private.
    Il motivo è semplice: già c’era. Infatti, i terreni protetti dalla rocca sono in origine proprietà, in larga parte, dei Frati Minimi che li coltivano addirittura a grano.
    Le successive espropriazioni favoriscono il passaggio di mano in mano del pianoro, ruderi inclusi, fino alla famiglia Folino. Ed eccoci di nuovo al XXI secolo.

    L’esproprio infelice del castello di Amantea

    Il primo che prova a espropriare è Franco La Rupa. Il votatissimo (e poi discusso e infine plurinquisito) ex sindaco di Amantea, ordina l’occupazione dell’area del castello il due ottobre del 2000.
    Per il Comune, l’occupazione è il primo step di un processo più complesso, che dovrebbe finire con l’espropriazione, per realizzare il rifacimento del centro storico della cittadina. Peccato solo che la procedura non sia a prova di bomba.
    Infatti, la famiglia Folino impugna il provvedimento e stravince.
    La prima volta al Tar di Catanzaro, nel 2001, e la seconda al Consiglio di Stato, nel 2006.
    Dalla duplice vittoria emerge un dato: il Comune ha occupato illegittimamente una proprietà privata.

    Il rudere della torre in primo piano

    Il duro negoziato

    Questa vittoria non comporta l’automatica restituzione del bene.
    L’era La Rupa è finita. Al suo posto c’è Franco Tonnara, che tenta un negoziato con la proprietà attraverso il proprio assessore ai Lavori pubblici: Sante Mazzei, che tra l’altro conosce bene il problema, perché è stato sindaco poco prima di La Rupa.
    Il Comune propone non l’acquisto, bensì l’acquisizione del castello ai proprietari.
    La differenza tra questi due concetti non è proprio leggera: l’acquisto è una normale compravendita, l’acquisizione, invece, è un esproprio soft. In parole povere: il Comune prende il bene con un decreto, ma lo paga secondo una stima effettuata da uno o più esperti.
    L’esperto ingaggiato dal municipio è Gabrio Celani, che valuta tutto. Ma, pare, in maniera insoddisfacente per i proprietari.

    Riprende il duello sul castello

    A questo punto, la faccenda, già non semplice di suo, si complica di brutto.
    Innanzitutto, per le vicissitudini politiche della giunta Tonnara, che subisce un commissariamento per mafia e torna in carica dopo un lungo duello giudiziario. Il quale, tuttavia, non serve granché: gravemente malato, il sindaco muore e si torna a una gestione provvisoria.
    Anche l’aspetto giuridico non è da meno, perché i Folino propongono un compromesso: il Comune acquisisca pure, loro faranno un ricorso solo per il prezzo.
    Ma anche quest’ipotesi salta.

    Le erbacce infestano il pianoro del castello

    La vittoria inutile

    Si arriva al 2021, un anno decisivo nella storia contemporanea del castello. Il 10 marzo 2021, la famiglia Folino, difesa dall’avvocato Stanislao De Santis, ottiene la sua terza vittoria contro il Comune, difeso dall’avvocato Gregorio Barba.
    Stavolta il Tribunale amministrativo mette nero su bianco che l’occupazione iniziata nel 2000 è illegittima.
    E mette il municipio con le spalle al muro: o acquisisce il bene oppure lo restituisce e paga i danni, che verranno quantizzati dal giudice, e i canoni, stimati nel 5% del valore commerciale del pianoro, del castello e della torre. Il risarcimento non si annuncia leggero, perché il valore commerciale non è piccolo.
    Nel frattempo, il rudere perde qualche pezzo e il terreno stesso denuncia un immediato bisogno di manutenzione. Che però i proprietari non possono assicurare, perché il bene risulta tuttora occupato.

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    Altri resti del bastione

    I nuovi negoziati

    I bene informati riferiscono di una ripresa dei contatti tra i proprietari e il Comune, che nel frattempo è uscito dal recente commissariamento per mafia ed è amministrato da Vincenzo Pellegrino, eletto lo scorso giugno.
    Non si sa a che punto sia l’abboccamento. Quel che è certo è che c’è un bene di grande valore culturale che dev’essere messo in sicurezza e – magari attraverso un restauro conservativo – potrebbe essere messo a frutto e restituito alla comunità.
    Certo, la situazione finanziaria di Amantea non è florida e i problemi politici sono all’ordine del giorno, come dimostra il recente tentativo di “secessione” di Campora, la frazione ricca e popolosa che confina con Falerna. Ma si apprende pure che i proprietari sarebbero disposti ad accontentarsi.
    La parola, a questo punto, dovrebbe passare al buonsenso.

    (Le foto dei ruderi del castello sono opera di Giuliano Guido. Le pubblichiamo su sua gentile concessione)

  • Perché Sanremo è… San Lucido

    Perché Sanremo è… San Lucido

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    Il Festival di Sanremo sta per iniziare, si sa, e interrogarsi su cosa significhi per questo nostro paese la sua puntuale, amplificatissima e superimposta celebrazione, nella disputa canonica tra elitarismo di massa e disprezzo intellettualistico per il pop, nella liturgica lotta tra apocalittici e integrati della canzonetta, è diventato oramai pericoloso come affrontare un dogma di fede, un tabù, un totem da scomunicare o idolatrare senza discussione.

    Festival per tutti (e tutto)

    Certo è che il Festival per antonomasia, quello di Sanremo, da settant’anni a questa parte è diventato il modello di spettacolo popolare che questo paese si è costruito per significare la categoria di un «evento di spettacolo popolare che ha luogo periodicamente in determinate località, con rappresentazioni di particolare rilievo e con programmi aventi di solito un loro carattere costante» (Treccani). La logica dell’evento, la festivalizzazione, ha colpito nel frattempo in ogni settore. Ormai un festival incombe per ogni cosa, dalla letteratura alla filosofia, dal porno all’edilizia, dalla cucina bio ai materiali high-tech. Un carattere di crescente enfatizzazione spettacolare e di ripetitività che, a partire dall’originale, ha generato sin dalle prime edizioni sanremesi anche curiose imitazioni e stravaganti repliche locali. Anche con sviluppi istituzionali.

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    La storica sede del Festival di Sanremo

    La Regione Calabria, per esempio, alcuni fa nella rincorsa ai “grandi eventi” spettacolar-turistico-culturali da celebrare in regione, si inventò un bando pubblico intitolato non a caso “Calabria Terra di Festival”. Ma anche uno dei primi tentativi di clonazione della rassegna canora sanremese, incredibilmente, prese in passato le mosse proprio in Calabria. E per similitudine con l’evento originario, proprio in un piccolo centro rivierasco del Tirreno cosentino, solo qualche anno dopo la celebrazione dal primo Sanremo canzonettistico.

    Il Lucival: San Lucido come Sanremo

    Accadeva a San Lucido negli anni ’50 del Novecento. Il festival appena gemmato sulle sponde calabre, magra e provinciale imitazione del primo, non poteva fare a meno di echeggiarne almeno la desinenza. E fu così che si chiamò Lucival. Dato che “sentirsi Sanremo”, sognare le luci della ribalta canora con contorno di personaggi noti ed esibizioni di arti varie, con musiche, balli e luminarie – potenza primordiale dei primi organismi staminali dell’odierna società dello spettacolo – pare sia stata la molla di un’aspirazione agonistica per uscire dal grigio anonimato locale della vita di provincia, quando quella Calabria del secondo dopoguerra ancora neanche intravedeva il boom.

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    1954, un’esibizione durante la prima edizione del Lucival

    La prima edizione del Lucival, «grande evento locale» celebrato nella “perla del Tirreno” calabrese, è datata 1954. Per chi ne divenne artefice «era il momento giusto per inventarsi qualcosa di simile» a Sanremo anche in un paesino di mare della lontana Calabria tirrenica, che dall’altro capo dell’Italia sognava di uscire con la musica, le canzoni e i cantanti dalle ombre lunghe della guerra. Alcuni giovani del luogo «al passo con i tempi capiscono che qualcosa sta cambiando nel mondo dello spettacolo». E così pensano bene di organizzare a casa loro “una kermesse canora-culturale, alla quale danno il nome di Lucival – abbreviazione originale di Festival San Lucidano”.

    Nilla Pizzi in Calabria

    Il Festival di Sanremo era iniziato appena qualche anno prima, nel 1951, quando le canzoni si potevano ascoltare solo alla radio, dato che la televisione non c’era ancora. Il 1954, l’anno del primo Lucival, fu pure l’anno di un avvenimento che cambio la vita dell’Italia popolare: il 3 gennaio la RAI, radiotelevisione italiana, aveva avviato la trasmissione dei primi programmi televisivi in bianco e nero. Nel 1951 il Festival di Sanremo lo vinse l’allora giovanissima Nilla Pizzi, che aveva spopolato con Grazie dei fiori, considerata all’epoca, con Papaveri e papere una sorta di manifesto in musica dell’Italietta di buoni sentimenti post bellica prudentemente guidata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi.

    https://www.youtube.com/watch?v=4fuyGhGZOlA

    Proprio la Pizzi, «con la sua voce melodiosa e la sua avvenente presenza», diventata personaggio familiare con il successo radiofonico del primo Sanremo, fu “ospite d’onore negli anni successivi proprio a San Lucido, conquistando tutti con le sue esibizioni canore”.
    C’era chi intravedeva anche in Calabria in quelle presenze musicali amplificate dalla crescente risonanza del festival ligure, «l’avvento di un periodo di ottimismo, di incredibili trasformazioni sociali e di crescente entusiasmo culturale». Furono dei sognatori da pro-loco e filodrammatica di paese e far nascere il Lucival nel 1954. Ingenuità culturale e illusioni visionarie fecero il resto.

    I premi per i bambini

    «Il Lucival sanlucidano aveva l’impronta di una manifestazione di arte e di cultura varia che ambiva a valicare i confini locali per raggiungere tutta la Calabria; infatti, scrittori, poeti, giornalisti e artisti di varie specialità potevano concorrere per premi quali Il Giornale d’Italia e La Calabria Letteraria». Un mix popolare di musica, cantanti e buoni sentimenti, dato che «la manifestazione era organizzata a scopo benefico, tant’è che gli stessi vincitori devolvevano i premi in denaro a favore dei bambini poveri della scuola».

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    1966, un bambino sul palco del Lucival

    Il Lucival non era infatti destinato solo ad una platea «di artisti locali e ad un pubblico di adulti», “ma si rivolgeva anche ai più piccini, con concorsi a premi come La Palestra dei Piccoli, L’Ugola d’Oro, Lo Zibaldone». Di fronte a queste auliche e ingenue dichiarazioni artistiche impossibile non provare sfogliando il folto album ingiallito del festivalino sanlucidano, una sorta di Amarcord per un mondo di sentimenti, emozioni e personaggi paesani ormai trapassato.

    L’inventore del Lucival e l’inno cittadino

    L’idea della manifestazione canora sanlucidana «era maturata grazie alla passione di un insegnante di musica», Giovanni Ciorlia,. Per anni fu animatore e «direttore artistico del festival sanlucidano» (ma anche primo presidente della Pro Loco e a lungo assessore comunale ed esponente della DC locale). Al suo fianco, il «Prof. Dalmazio Chiappetta, il Prof. Antonio Calomino, Sindaco di San Lucido, e il Prof. Giacomoantonio Napolitano (direttore didattico)». L’orchestra Primavera diretta dal maestro Franco Perri e il quartetto Aurora, diretto da Davide Iorio, costituivano, invece, il supporto orchestrale del festival, «il cuore pulsante dell’evento». Dopo aver «trionfato nell’edizione del Lucival del 1955», la canzone A ritmo di beguine, Notte Sanlucidana, «scritta dal maestro Clemente Selvaggio e musicata dal maestro Matteo Puzzello», composta e cantata in quell’occasione, “è divenuta nel tempo l’inno musicale della cittadina”.

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    Giovanni Ciorlia sul palco del Lucival insieme all’Orchestra Fenati

    Il Lucival fu così nel giro di qualche anno un vero happening indigeno, un «evento musicale di grande richiamo» locale che raccolse nelle sue serate al clou del successo «un pubblico pagante» che, sostengono le cronache, giunse «fino a 7.000 persone». Il Lucival fu ripetuto con successo in diverse edizioni, ma senza mai valicare «i confini della provincia».
    Si teneva in estate in uno spazio all’aperto, e tutto durò sino allo scoccare del fatidico 1968. Poi, cambiati i tempi, la musica e le mode, solo qualche replica minore e grandi nostalgie attestate da reduci e gruppi facebook locali, che oggi del “mitico Lucival” sanlucidano conservano a futura memoria reliquie e icone del bel tempo che fu.

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    Magari non come a Sanremo, ma anche gli spettatori del Lucival a San Lucido erano numerosi

    San Lucido (quasi) come Sanremo: i big del Lucival

    Si ricorda così qualche memorabile comparsata di alcuni volti noti del bel mondo dello spettacolo nazionale. Quella dell’attrice Sandra Milo o, nel 1968, quella di «Nuccio Costa, mattatore dell’ultimo Cantagiro». Persino un memorabile passaggio di Enzo Tortora, che “accolto calorosamente” presentò il Lucival del 1967. Poi una galleria minore di artisti di passo a cui arrise in quel periodo anche una qualche sporadica notorietà. Qualche esempio? La cantante Anna Identici e il più classico Achille Togliani. O, ancora, «Franco Tozzi e il suo complesso», che al Lucival del 1968 cantò I tuoi occhi verdi, unica hit che si ricordi di colui che altri non è che il fratello del più noto e fortunato Umberto Tozzi.

    Insieme a questi, una carrellata di dilettanti locali calcarono il palco delle “voci nuove” del Lucival restando per sempre “promesse locali”. Come “il complesso The Seamen”, o «l’orchestrina sanlucidana degli Aurora». Ma resta, forse unica impronta di vite e carriere artistiche avvolte nel buio della dimenticanza, una folta processione di illustri carneade e di figurine appena tangenti quel mondo fatuo e fatato «della Rai-TV». Epifanie forestiere in mezzo a quelle calde estati di fervore paesano di cui non resta altra traccia che queste fugaci apparizioni artistiche sanlucidane da rotonda sul mare. Evocazioni di nome d’arte quasi circensi e di silhouette teneramente fellinane, fantasmi del palcoscenico rimasti malinconicamente ai margini delle luci della grande spettacolo.

    Fantasisti, imitatori e ragazzi di strada

    Un appello a cui rispondono nomi da leggenda strapaesana come «il cantante Franco Giangallo», «gli illusionisti del duo Naldys», «la cantante Niky», «l’attrice Nuri Neva», «Rino, il ragazzo di strada», «la cantante della Rai-TV Myriam del Mare», seguita in altre edizioni dalle «applaudite apparizioni delle cantanti Rita Monaco, Germana Caroli, Anna Maria Maresca, Valeria Foroni». Con un contorno fiorito di interpreti e artisti di arti varie, come il «celebre Maestro direttore d’orchestra Giovanni Fenati», «il magnifico trombettista Tony Spada», o «il grande fantasista Riccardo Vitali».
    Al cast nostrano dei Lucival di quei tempi non poteva mancare una specie di Noschese dei poveri, il mai più rivisto Mario Di Giglio. Era lui «il bravo imitatore» cui spettava l’arduo compito, in mancanza dei più noti e blasonati personaggi originali, di portare al Lucival tutte «le altre voci delle celebrità mancanti».
    Erano pur sempre luci del palcoscenico, Lucival della ribalta.

    Le immagini a corredo dell’articolo sono state raccolte negli anni dalle pagine FB “Giovanni Ciorlia – Un pezzo della nostra storia”; C’era una volta Santu Lucidu”; “Tavernetta letteraria”

  • Il cielo sopra Mammola è l’utopia di Nik Spatari

    Il cielo sopra Mammola è l’utopia di Nik Spatari

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    Tutto sommato è facile raggiungere Mammola. Puoi arrivarci da una statale che taglia l’Aspromonte, oppure da sotto, lasciando la 106 Jonica a Marina di Gioiosa. E ci vai essenzialmente per due motivi. Uno per tenere a bada lo stomaco mangiando stocco in una delle due capitali calabresi (l’altra è Cittanova) del predetto prelibato; oppure per nutrire l’anima fermandoti al MuSaBa di Hiske Maas e Nik Spatari, artista di fama internazionale, amico di gente come Pablo Picasso e morto nel 2020.

    Un documentario diretto da Luigi Simone Veneziano ha raccolto il testamento poetico di questo personaggio fuori dal comune. Il lungo lockdown ha frenato la distribuzione dell’audiovisivo prodotto dall’associazione Le sei Sorelle. Da alcuni mesi è tornato ad emozionare il pubblico. In Calabria soprattutto nei cinema storici come il Santa Chiara a Rende.

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    Una veduta aerea del MuSaBa (foto sito www.musaba.org)

    Nik Spatari: un doc per Il sogno di Jacob

    Appena vedi uno come Veneziano, capisci subito che ha buone storie da raccontare. Con Il sogno di Jacob ha riannodato un pezzo di Calabria capace di produrre meraviglia. Regia attenta, fotografia accurata, recitazione appropriata e musiche al passo con la narrazione. E una sceneggiatura affidata alle sapienti mani di Alessia Principe, scrittrice e giornalista de LaC. Con un’incursione-cameo di Gioacchino Criaco, autore di libri come Anime nere e Le Maligredi. Criaco dialoga con Spatari, due sensibilità stregate dalla luce accecante dell’Aspromonte. Una luce in grado di riprodurre la gamma di colori utilizzata da Michelangelo, spiega Nik in una sequenza dell’intervista.

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    Lo scrittore Gioacchino Criaco intervista Nik Spatari e Hiske Maas al Musaba

    Nei manuali si dice metacinema. In realtà la parola è entrata nel vocabolario dei giornali e degli appassionati da tempo memorabile. Veneziano porta sul grande schermo un regista impegnato a realizzare un lavoro per la tv su Spatari e sul Musaba. Sarà un motivo per riflettere su se stesso insieme alla troupe.

    Quando il bambino era bambino

    In principio era un bambino di una Reggio Calabria sotto le bombe sganciate dalle Fortezze volanti. Ai più attenti ricorderà in parte il ragazzino del cult movie The Wall, il film di Alan Parker ispirato al capolavoro musicale e concettuale dei Pink Floyd.
    Uno di quegli ordigni ruba per sempre l’udito a Nik. Da allora sentirà il mondo solo attraverso le tonalità uniche delle sue opere.

    Nel documentario una precisa scelta stilistica mescola il bianco e nero con il colore. Come fa Wenders ne Il Cielo sopra Berlino. Veneziano dice di essersi ispirato espressamente alla cifra narrativa del regista tedesco approdato, non molti anni fa, proprio in Calabria a pochi chilometri da Mammola. A Riace ha girato un film-documentario sul paese dell’accoglienza e la forza del messaggio di Mimmo Lucano.

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    Particolare de “Il sogno di Jacob” di Nik Spatari (foto sito www.musaba.org)

    L’utopia di Nik Spatari

    Nik non dimenticherà mai la bibbia a puntate sulla rivista religiosa letta dalla madre. Le illustrazioni di Gustave Doré e il messaggio universale di quelle storie. Il sogno di Jacob nasce da lontano per poi diventare un’opera d’arte lunga 14 metri. Fogli di legno e colori «alla Spatari» direbbe Hiske Maas per il racconto di Giobbe abbandonato da Dio e dagli uomini.

    Lucano, Spatari e Tommaso Campanella. Tre utopie che si mescolano, si inseguono, percorrono strade poco battute. Non è un caso se un capitolo del documentario del regista cosentino si chiama: “La città del sole”. E Stilo non è lontana da Mammola.

    Il regista Luigi Simone Veneziano e l’artista Hiske Maas al MuSaBa di Mammola durante le riprese de “Il sogno di Jacob”

    Il furto di Jean Cocteau

    Nik Spatari espone a Parigi negli anni Sessanta quando il grande Jean Cocteau gli ruba una tela. Il fatto non sfugge alla stampa della capitale francese. L’episodio è raccontato dal filmaker calabrese nel documentario. Con la sua compagna, l’artista Hiske Maas, alla fine di quel decennio Nik decide di tornare a Sud. Stregati dai ruderi del complesso monastico di Santa Barbara e da un paesaggio ammaliante, mettono radici alle pendici dell’Aspromonte.
    Trasformeranno questo posto in un museo-laboratorio unico. Qualcuno, più di uno, cerca di mettere il bastone tra le ruote a questa coppia di visionari. Tanti ostacoli superati; compresa la superstrada che doveva passare a pochi metri dal MuSaBa. L’ostinazione di Iske contiene pure un messaggio per chi non crede in un futuro quaggiù: «Ci sarebbero mille cose da fare in questa Calabria».

  • Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Uno show di luci ha concluso il 2022 a Corigliano-Rossano (o, per gli amanti dei campanili a Corigliano e Rossano).
    Tuttavia, «ho voluto celebrare anche questa unione tra due comunità, che hanno accantonato i loro campanilismi», spiega l’autore delle installazioni spettacolari che hanno abbellito la città jonica.
    È Franz Cerami, classe ’63, napoletano doc, artista specializzato nel mescolare tecniche classiche e hi tech e docente di Digital Storytelling presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”.
    Spettacolo multimediale e nuove tecnologie per celebrare monumenti antichi e persone comuni. Oppure per dare una bellezza inedita agli orrori urbanistici, come la centrale elettrica.
    Tanti modi per dire una cosa sola: l’arte è anche racconto…

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    Lighting Flowers: la centrale idroelettrica trasfigurata dai laser

    Partiamo dall’installazione più legata al territorio che hai celebrato: Denzolu.

    Mi ha colpito molto, al riguardo, un’antica leggenda, che esprime le rivalità tra i campanili. Si racconta che i rossanesi mettevano le lenzuola davanti al sole per oscurare Corigliano. E poi mi ha colpito il suono di questo termine dialettale: “denzolu” vuol dire senz’altro lenzuolo, però evoca anche suggestioni arcane, se si vuole un po’ esotiche.

    Cosa hai voluto rappresentare con l’uso del lenzuolo?

    Ho voluto trasformare un elemento divisivo, che ricorda troppo le rivalità tra comunità, che a volte hanno avuto esiti tragici, in un simbolo d’unione.

    Quel che colpisce è la tecnica utilizzata. Vogliamo approfondire un po’?

    Ho fatto una serie di riprese con due videocamere a varie persone, cittadini comuni, artigiani, pescatori, professionisti e autorità. E ne ho fatto un doppio uso. Il primo è multimediale: ho mescolato queste riprese “ritratto” a riprese dell’ambiente e le ho proiettate sulla Torre del Cupo a Schiavonea.

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    Denzolu: ritratti di cittadini sulla Torre del Cupo

    Ma c’è anche uno sviluppo più tradizionale, che poi dà il nome all’opera. O no?

    Esatto: ho estratto dei frame da queste riprese e ne ho ricavato varie serigrafie sviluppate su delle tele che ho appeso sulle facciate dei due palazzi municipali di Corigliano e Rossano. Ed ecco: le lenzuola non offuscano più il sole, ma vivono attraverso la luce e raccontano la fusione coraggiosa.

    Lighting Flowers, invece, segue un’ispirazione diversa.

    Quest’installazione fa parte di una serie di opere che ho sviluppato in diverse zone del mondo: San Paolo del Brasile, Napoli, San Pietroburgo e via discorrendo. A Corigliano-Rossano ho deciso di valorizzare a modo mio la centrale elettrica.

    Un compito non facile…

    In questo caso, ho deciso di trasformare il classico ecomostro in un’opera d’arte attraverso la proiezione di motivi colorati con potenti fasci di luce. Ho giocato un po’ sul doppio senso della parola “mostro”: in latino “monstrum” vuol dire sia “brutto” (e la centrale indiscutibilmente lo è) sia “appariscente”. Io ho tentato di estrarre l’aspetto meraviglioso da una cosa brutta.

    Un primo piano di Franz Cerami

    A giudicare dal risultato, ci sei riuscito.

    Anche De Andrè diceva: «Dal letame può nascere un fiore. O no?».

    Infine c’è Lumina, che si ispira a una poetica diversa: portare un elemento futuribile su una struttura antica…

    In questo caso, ho proiettato dei fasci di luce sulla facciata dell’Abbazia del Patire. Il risultato è stato molto forte, a livello visivo.

    Notevole anche l’uso delle colonne sonore.

    Merito, in questo caso, di Claudio Del Proposto, che le ha composte per l’occasione. E sono debitore anche al mio assistente Flavio Urbinati, il cui aiuto è stato fondamentale per la riuscita.

    Com’è nata quest’iniziativa?

    Sono stato contattato direttamente dall’Amministrazione comunale, per sviluppare un progetto celebrativo di questo municipio unico che fonde due comunità calabresi affini anche quando erano divise. I contatti sono iniziati nella tarda primavera del 2022. Ho iniziato i lavori a luglio e li ho terminati poco prima dell’autunno.

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    Il Patire vola nel futuro

    Come ti sei trovato?

    Direi benissimo. I cittadini sono stati collaborativi e ospitali. Ottima l’accoglienza, bellissimo il paesaggio e molto suggestive parecchie zone. In particolare, mi ha colpito Schiavonea. Ma in una realtà così ricca come quella in cui ho lavorato c’è l’imbarazzo della scelta.

    Ma cosa può trovare di tanto importante un napoletano in Calabria?

    Tante cose. Ma soprattutto quell’apertura e quella socialità tipica delle zone di mare. Forse la magia di queste zone è tutta in quest’orizzonte sconfinato e bello. A Napoli come sulle vostre coste. Un punto di partenza per sognare un futuro migliore.

    Anche grazie all’arte?

    Certo.

  • Dal vernacolo agli haiku: Dante Maffia, un poeta per due continenti

    Dal vernacolo agli haiku: Dante Maffia, un poeta per due continenti

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    Con Dante Maffia ci siamo incontrati poco e di sfuggita. Una volta a Firenze, un’altra volta – fuori dal tempo e da ogni logica razionale – per caso a Laino Castello, deserta in un pomeriggio d’agosto, e un paio di volte nella “nostra” Roseto Capo Spulico. Ma basta leggere la voce di Wikipedia che lo riguarda per rimanere increduli davanti alla quantità di pubblicazioni e di riconoscimenti internazionali alla sua attività di poeta, narratore e saggista.

    L’impressione è che tu sia più conosciuto fuori che dentro dalla Calabria: quanto ritieni sonnolenta la regione, in termini di fruizione della cultura? 

    «Su Wikipedia non c’è tutta la mia attività, non mi sono preoccupato di fornire le notizie. A me interessa fare, prendere piacere e interesse a fare, con assiduità, con attenzione e cura perché provo gioia se riesco a realizzare dei versi belli, delle pagine interessanti che potrebbero (!) aiutare la conoscenza e la consapevolezza. Per il resto non mi preoccupo di promuovermi. Ho tanti difetti, tranne la vanità, e ciò non giova per occupare un posto preminente sui giornali e nelle televisioni. Ma io sono all’antica. Ho sempre creduto e credo che la poesia, la letteratura in genere, non siano notizia e dunque possono aspettare il loro turno per farsi vive e dire la loro. Sono uno stupido illuso, lo so, ma va bene così. Non mi sono aspettato mai niente dai miei libri. Perché li scrivo e li pubblico? Per molte ragioni, ma soprattutto perché dentro pongo messaggi che avranno senso in futuro. La poesia, quella vera, quella che nasce dal cuore, dall’anima, dalla cultura e dall’esperienza in un amalgama distillato in cerca della verità, non ha tempo, vive nella perennità.

    La Calabria mi ha sempre riconosciuto e mi ha dato molta attenzione, a cominciare dalla candidatura al Premio Nobel proposta all’unanimità dal Consiglio Regionale, dalle cittadinanze onorarie ricevute da Reggio Calabria, Girifalco, Trebisacce, Amendolara, Rocca Imperiale, Cassano Jonio… e infine da un convegno, con 47 interventi dalle Università di tutta Italia. Ma il problema Calabria è troppo complesso, prima perché si tratta di Calabrie, di molte Calabrie. Con vocazioni e intenti diversi, con storie diverse, con eredità che non sempre sono state smaltite per bene. Poi perché gli eventi si ripetono: Milano, in particolare, esercita una sorta di razzismo silenzioso ma efficace nei confronti di tutto ciò che non sia fatto di nebbia e di danaro. Lo so, è un luogo comune trito e ritrito, ma io ne ho subito molte dure conseguenze».

    Quali soluzioni individui?

    «Ce ne sarebbe una sola. Ritornare a due Italie, due gestioni autonome politiche, sociali ed economiche. Io maledico sempre le azioni di Garibaldi, il suo tradimento di Mazzini. E mi ricordo che Umberto Zanotti Bianco da qualche parte ha scritto che la Calabria, bellezza a parte, potrebbe essere la regione d’Europa più ricca: 900 chilometri di costa – e che costa! -, tre montagne, Aspromonte, Sila e Pollino, e il parco archeologico più grande del continente: Sibari».

    Beh, se Zanotti potesse vedere le coste allo stato attuale… Ma andiamo avanti: hai esordito a 18 anni, nel 1964, con “È più bella la notte”, poi a 21 anni hai pubblicato “Lo straccivendolo di Eros”, ormai introvabili tutti e due. Sapevi che il secondo è conservato soltanto in due delle migliaia di biblioteche pubbliche italiane? E il primo, addirittura, in nessuna?
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    Rara copia di un’opera degli esordi di Dante Maffia

    «In realtà ho esordito a 14 anni con un volumetto intitolato I canti dello Jonio e da quello addirittura ho recuperato una poesia che ancora ritengo valida: “Vado la sera / di casa in casa / ad ascoltare le fiabe / che mi raccontano i vecchi al focolare / come un mendico / che ha bisogno d’un pezzo di pane…”.
    L’ho preso in mano proprio ora, per controllare, e la meraviglia è che ci sono brevi poesie che sembrano haiku, quegli haiku che mi hanno portato in Giappone, dove sono stati tradotti 22 miei volumi. A gennaio, a Kyoto, ci sarà la prima edizione del Premio Dante Maffia. Proprio “Premio Dante Maffia”, nonostante che, almeno sembra, ancora io sia vivo. Una storia lunga. Annoieremmo i lettori».

    Poi, a 28 anni, hai pubblicato “Il leone non mangia l’erba” e a scriverne la prefazione fu nientemeno Palazzeschi. Vi furono gli apprezzamenti da parte di una componente importante della cultura italiana dell’epoca: da Sciascia a Natalia Ginzburg e Mario Luzi, da Caproni a Giacinto Spagnoletti. Cosa ricordi di te ventottenne, o giù di lì, circondato dalle attenzioni di questi nomi? Com’era quell’ambiente letterario?

    Con Il leone non mangia l’erba mi resi conto che le mie emozioni non erano dettate da velleità, ma da una profonda necessità di dialogare con l’Universo, con il Mistero, con il Lievito della vita, con la Morte. Quindi vedere alla Libreria Croce addirittura personaggi come Sciascia, Luzi, venuto da Firenze, Spagnoletti, Caproni, Palazzeschi, Moravia, Bellezza e altri… mi sembrò un fatto naturale. Ma allora ancora esisteva il mondo letterario che badava alla qualità dei testi e non agli inciuci. Allora si leggeva, non si appariva soltanto. E infatti, senza appoggi, senza referenze, se non quelle del mio entusiasmo e della mia cultura, fui chiamato a collaborare al quotidiano Paese Sera, al settimanale La Fiera Letteraria e alla rubrica dei libri Rai 2. Ognuno aveva il suo compito e si collaborava».

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    Un altro raro testo giovanile di Dante Maffia
    Anche il poeta Giuseppe Pedota scrisse di questa tua presentazione alla Libreria Croce, presenti – oltre ai suddetti – molti altri nomi celebri tra cui Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci e Leonida Repaci. «Un avvenimento – scrisse – che riempì la cronaca dei giornali. Come aveva fatto questo ragazzo venuto dal nulla, da un paesino sperduto della Calabria, a far confluire il gotha della letteratura romana alla presentazione del suo libro? Mistero». Oggi, questo “mistero” come puoi scioglierlo?

    «Era normale partecipare alle presentazioni dei libri. Non se ne facevano a bizzeffe, non si portavano in cattedra dilettanti, ruffiani e belle bambole. Si seguivano le novità. E se nasceva un poeta bravo, se esordiva un narratore valido si consentiva, si battevano le mani. Non si spianavano i fucili per dare spazio alla mediocrità o al comparuccio.
    Repaci mi abbracciò come rinascita della Calabria, che contraddiceva quello che una volta Jorge Luis Borges mi raccomandò: “Non dire mai che sei nato al Sud, dici che sei figlio di norvegesi o di londinesi e vedrai come il mondo cambia”».

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    Dante Maffia da giovane
    E invece tu hai scritto molto anche in vernacolo (quello dell’area Lausberg), indice di un legame forte, ma non totalizzante, con la tua terra d’origine. L’Italia è ancora pervasa da razzismi interni inespugnabili, figuriamoci quanto poteva esserlo all’epoca del tuo esordio. Quanto costava allora, in quell’ambiente, in quel settore culturale, avere una provenienza meridionale?

    «Quanto costava allora avere una provenienza meridionale? Devi dire quanto costa. Un solo esempio: se scorri le collane ufficiali che pubblicano poesia potrai renderti conto di quanta immondizia, non saprei come diversamente chiamarla, ci viene offerta e quasi tutta dalla stessa area o da chi ha adottato quell’area. Siamo allo sfascio. Certo, i danni del Gruppo 63 ancora sono visibili e la stupidità dei giocolieri ancora ha dei rigurgiti. Ma peggio hanno fatto i nominalisti, o come diavolo si chiamano, confondendo la poesia con la lista della spesa.

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    L’edizione scheiwilleriana del libro di Dante Maffia in vernacolo

    La brutta verità è che ormai nessuno legge. E allora mi domando perché ci sono primari di medicina, giudici, avvocati e dirigenti d’aziende e professoroni d’ogni genere che pretendono di fare i poeti. È forse una raccomandazione del loro medico per uscire dal tunnel dell’insipienza? E senza mai leggere i classici? Lo sai che cosa mi ha detto un personaggio televisivo sempre in bella mostra? Lui scrive poesie ma, per carità, non ne legge mai per non essere influenzato. Quindi: “È spuntato il sole e illumina la spiaggia; ti voglio bene amore mio; ai lati del viale ci sono gli alberi”… L’ovvietà più assoluta, il non dire, o la retorica nata dai ricordi carducciani e leopardiani, a proposito di influenze!
    Con un mio libro pubblicato con lo pseudonimo Maria Marchesi, e scrivendo che la poetessa è nata al Nord, ho vinto il Premio Viareggio. Per anni non ero mai stato preso in considerazione con la firma Dante Maffia».

    Tra i tuoi volumi in vernacolo il mio preferito è senz’altro “U ddìje poverìlle”. Enzo Siciliano ti ha paragonato a Scotellaro (che secondo me poco ci azzecca). E se qualcuno ti paragonasse – negli episodi vernacolari – ad Albino Pierro?

    «Enzo Siciliano ha buttato quel nome, credo, a caso. Con Scotellaro non credo di avere nessuna parentela. Ma se qualcuno mi apparentasse ad Albino Pierro mi sentirei offeso. Pierro non ha scritto mai poesia che tale possa dirsi, ha composto in dialetto perché aveva intuito che era il momento giusto per essere presi in considerazione. Basti leggere i suoi versi in italiano, davvero mediocri, più spesso banali. S’infatuò, cominciò a credere che fosse la lingua a fare la poesia e non la poesia a fare la lingua. E poi, quando i filologi come Contini e altri se ne occuparono, finì per credere che fosse un grande poeta e cominciò a pretendere il Nobel. No, Pierro no: io sono un poeta e lui era un letterato. Attenti alle mitologie create da situazioni festaiole o politiche o d’altro genere».

    Restiamo ancora al Sud, e possibilmente in Calabria. Tempo fa mi dicevi che sei stato amico pure dell’assai poco celebre Enrico Panunzio, pugliese temporaneamente naturalizzato parigino, scrittore sopraffino e però – o forse perciò – incompreso. So che assieme a Dario Bellezza frequentava d’estate Rocca Imperiale: c’eri anche tu, con loro, lì a due passi da Roseto? Mi racconti un paio d’aneddoti inediti sulle vostre chiacchierate?

    «Enrico Panunzio era uomo colto e intelligente, ma noioso e ripetitivo e, forse perché non aveva ottenuto ciò che meritava, si era eretto a giudice supremo con la falce in pugno. Non gli andava bene niente e ricordo che Spagnoletti, con cui era molto amico, spesso lo redarguiva. Parlava sempre della Francia. Era comico vedere che cosa faceva ogni giorno per farsi offrire il caffè. Era la tirchieria all’estrema potenza. Dario Bellezza e io, scialacquatori senza quattrini, ci divertivamo a prenderlo in giro, ma lui non batteva ciglio. Le nostre chiacchierate erano a ruota libera, io mangiavo troppi libri e spesso li disorientavo. Enrico parlava sempre di Camus e Dario lo chiamava “il riflesso della peste”».

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    Enrico Panunzio e Dario Bellezza trascorrevano l’estate con Dante Maffia a Rocca Imperiale
    Mi pare che l’editoria italiana fino alla fine degli anni ’70 sia riuscita a conservare, almeno in parte, un’anima attenta alla qualità del prodotto. Sei d’accordo sul fatto che un certo spirito virtuoso sia venuto meno negli anni? E, secondo te, si può intravedere un destino editoriale meno suicidario in termini qualitativi?

    «Sono pessimista in proposito. E sono anche molto disorientato. Vedo un profluvio di libri, editi dalle sigle editoriali così dette prestigiose, che non hanno né testa né coda, che non dicono, subito spenti, inutili e obsoleti, privi di tutto. La domanda è perché vengono pubblicati. Anche mezzo secolo fa ogni tanto si faceva un favore e si pubblicava qualche cicoria, ma era evidente che si trattasse di un compromesso necessario all’editore. Adesso credo che sia ignoranza e affidamento totale alla possibilità eventuale che funzioni la vendita. Un disastro, culturalmente parlando. Un disastro al quale non riusciremo più a sottrarci, perché i lettori rimasti saranno man mano abituati alla mediocrità.

    Nello specifico, in Calabria pare manchino quasi del tutto figure intellettuali di riferimento. Peggio: che vi siano fin troppi sedicenti intellettuali e finti tali. Non ne nascono più? Nascono e non attecchiscono? Scappano? E la situazione editoriale calabrese?

    «Non mancano, anzi… Ma sono altrove, sono fuori e lontani dalla Calabria e dai problemi che la investono. Quindi scappano e, man mano, le radici seccano. La situazione editoriale calabrese non è male, ma le case editrici sono penalizzate perché non vengono distribuite per il solito motivo. Meno concorrenza c’è, meglio è. Il confronto fa male a molti, soprattutto ai poveri di spirito».

    Ti hanno apprezzato Pasolini, Calvino, Montale, Eco, Amado, Bobbio, De Mauro, Bufalino, Zanzotto, Praz, Dacia Maraini, Gina Lagorio. In Italia hai fondato riviste, a Palazzo Chigi sei stato insignito del Premio Matteotti per la letteratura Italiana. Ciampi – all’epoca Presidente della Repubblica – ti ha insignito della Medaglia d’oro alla Cultura. Sei stato candidato al Nobel. All’estero sei stato tradotto in 35 lingue. Due domande in proposito, una sopportabile: in quale Paese straniero hai ricevuto l’accoglienza critica più elaborata, articolata? E l’altra un po’ meno: poesia e politica… qual è il tuo parere sulla polemica di qualche anno fa in merito alla questione “con l’arte non si mangia”?

    «Soprattutto in Giappone, ma anche in Romania, dove sono stato tradotto più volte e sono membro effettivo della loro Accademia Eminescu. Ma forse anche in Albania, dove mi hanno dato il maggiore riconoscimento da loro elargito, il Premio Madre Teresa di Calcutta. E poi in Russia, in Ungheria, in Spagna… Devo dare ragione a Vittorio Introcaso, un giornalista televisivo che mi segue da sempre: gli stranieri mi amano di più. O almeno fanno di tutto per farmi sentire importante.
    Con l’arte non si mangia? È vero e non è vero. C’è perfino chi s’abbuffa o chi, come me, mangia indirettamente con qualche incarico e qualche riconoscimento».

    Hai presieduto numerosi concorsi letterari, te ne saranno capitate molte. Tempo fa, Erri De Luca pubblicava un minuscolo libro dal titolo “Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura)”. Perché, secondo te, si può trovare più dilettantismo nella poesia che nella narrativa? Come si può far capire ai tanti, troppi sedicenti poeti che non basta spezzettare una frasetta e infiocchettarla con un paio di termini struggenti (secondo loro…) per farne un componimento poetico? O che prima di esprimersi bisognerebbe avere davvero qualcosa (possibilmente non troppo banale) da esprimere ?

    «A me Erri De Luca non è mai piaciuto, sempre per il solito problema. Vanno bene gli esercizi di stile, ma la narrazione è altra cosa, e non ti dico la poesia. Il dilettantismo è dilagante sia in prosa che in poesia. Con una differenza sostanziale: in poesia il disastro viene subito messo da parte o, se si tratta di personaggi importanti, si fa finta, si apparecchia l’ipocrisia e s’infarina; in narrativa, però, può accadere che un romanzo sbagliato, banale, non riuscito in nulla possa trovare l’interesse di un regista e diventare film.
    E il ballo della mediocrità continua e si allarga. Io vedo che siamo quasi sull’orlo del dirupo. La faccenda non finirà mai, tanto è vero che i cartellonisti, i pubblicitari ormai vengono chiamati pittori e i parolieri e i cantautori poeti. Il vocabolario si sta appiattendo, spero che non finiremo di servirci soltanto di mugolii per esprimere le inquietudini e le estasi della nostra anima. In principio fu il Verbo».

  • Ferramonti, la storia dei libri in internamento

    Ferramonti, la storia dei libri in internamento

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    Un campo di internamento può diventare, oltre a un luogo dell’abominio, anche un casuale crocevia di cultura. Quello di Ferramonti di Tarsia è stato, almeno in parte, anche un luogo di questo tipo.
    C’è un filo che insospettatamente lega la Calabria a Theodor Mommsen e persino alla storia dell’editoria anastatica e del collezionismo.
    Già noto per esser stato un campo sui generis, ricordato soprattutto per la provvidenziale forma di solidarietà che si venne a creare tra i prigionieri, i civili e le autorità locali, Ferramonti fu occasione di prigionia condivisa per almeno quattro particolarissime personalità della cultura, note e meno note. Quattro uomini che la storia ha condotto dapprima nel lager, poi a riemergere in maniera singolare: Ernst Bernhard, Gustav Brenner, Michel Fingesten e Werner Prager. Vi si aggiunge la figura di Israel Kalk, il quale pure varcò le soglie del campo, benché non da prigioniero.

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    Internati a Ferramonti

    E c’è intanto una piccola storia conosciuta a pochi, più che altro nel giro dei bibliofili più consumati: Oliviero Diliberto, che appartiene a questo novero, l’ha scoperchiata, ricostruita e divulgata con passione nel suo La biblioteca stregata (Roma, 2003). È, appunto, la storia tormentata della biblioteca privata di Theodor Mommsen, un corpus librario scampato parzialmente a due incendi, poi a divisioni ereditarie, ancora parzialmente a donazioni, a dismissioni da parte di biblioteche pubbliche (scarsamente accorte di fronte alla presenza degli ex libris mommseniani su alcuni doppioni), a trasferimenti transoceanici e, infine, alla vendita incontrollata sulle bancarelle. Uno degli ultimi luoghi di passaggio di alcuni volumi provenienti dalla biblioteca Mommsen fu una libreria antiquaria romana, dalla quale questi riemersero dopo le interminabili peripezie: la libreria Prager.

    Werner Prager, da Amsterdam a Ferramonti

    prager-ferramontiWerner Prager, protagonista – forse inconsapevole – di questa storia libresca, nacque nel 1888 a Berlino, dal libraio Robert Ludwig (1844-1914) la cui bottega aprì nel 1872. Assieme alla moglie Gertrud, continuò a gestire la società R. L. Prager e, pensando poi di scampare ai provvedimenti antisemiti, trasferì ingenuamente l’attività da Amsterdam a Roma nel 1937, ovvero solo un anno prima della promulgazione delle leggi razziali che intanto gli impedirono il commercio librario, e in secondo luogo lo costrinsero alla prigionia a Ferramonti.

    Dopo la liberazione, Prager riaprì la sua libreria, che chiuse poi i battenti nell’anno della sua morte, 1966. Possiamo immaginare conversazioni dotte, a rinfrancare parzialmente la prigionia, tra Prager e i prossimi personaggi che ci vengono incontro. Perché intanto c’è un altro libraio eccellente nella storia di Ferramonti, un uomo che come Prager ha fatto riemergere libri dall’oblio: Gustav Brenner.

    Gustavo Brenner, da Ferramonti alla Casa del libro

    Brenner, ebreo austriaco, è forse una delle figure più dimenticate della storia dell’editoria italiana. E, al tempo stesso, una delle poche davvero ascrivibili a un’intellettualità autentica, almeno nel panorama culturale della Calabria che lo accolse. La sua storia si lega prima al commercio librario, poi all’esperienza dell’internamento, e poi all’editoria tout court. Gustav Brenner nacque a Vienna nel 1915 da Joseph, libraio in Praterstrasse, e intraprese il mestiere paterno fin quando non lo arrestarono per condurlo dapprima a Buchenwald e poi a Dachau.

    Fuggito, maturò in lui l’idea di rifugiarsi a Trieste e poi a Milano. Proprio qui, mentre lavorava presso una casa editrice, lo arrestarono e deportarono nel campo di Tarsia. Lasciò il campo il 31 ottobre 1942: sposatosi nel 1947, aprì a Cosenza la “Casa del libro” in piazza Crispi, ovvero una libreria e casa editrice il cui catalogo offriva già dall’inizio una scelta incentrata sulla storia del Mezzogiorno nonché sull’esoterismo, molto spesso d’impronta massonica (Gustav era affiliato al Grande Oriente d’Italia).

    Le ristampe anastatiche

    Fu allora che si fece strada anche la sua prima idea di “biblioteca circolante”, in qualche modo antesignana del bookcrossing oggi in voga. A Brenner si dovrebbe riconoscere, tra l’altro, un primato che di solito si attribuisce ad altri, ovvero quello di aver introdotto in maniera sistematica, in Italia, la ristampa anastatica (riedizione, conforme agli originali, di opere difficilmente reperibili). Prima di lui, in maniera sporadica, a mettere in commercio delle ristampe anastatiche era stata certamente la Görlich di Milano, mentre all’estero era stata già messa in atto dal celebre antiquario Kraus, cresciuto nella stessa Praterstrasse (proprio al civico 16 in cui visse Arthur Schnitzler).

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    Gustavo Brenner sull’ingresso della sua prima libreria a Cosenza

    Ma la paternità dell’introduzione sistematica della ristampa anastatica in Italia viene di solito erroneamente attribuita ad Arnaldo Forni: in realtà le primissime pubblicazioni di Forni vedono, sì, la luce nel 1959 ma le sue prime ristampe anastatiche nascono soltanto nel 1966. A voler esser magnanimi, un primo isolato tentativo di anastatica fu messo in atto da Forni nel 1961, mentre Brenner aveva pubblicato già nel 1958 l’anastatica in tre volumi della Storia dei Cosentini di Davide Andreotti (l’edizione, sotto l’insegna della Casa del libro in Cosenza, riporta l’acerba dicitura “ristampa elettro meccanica dell’edizione di Napoli, S. Marchese, 1869”).

    Una sfida impari

    Detto ciò, resta inconfutabile che Brenner sia stato il primo in Italia e tra i primi in Europa a riprodurre rare opere che, soprattutto tra il Sei e il Settecento, gli autori meridionali avevano fatto stampare presso tipografie perlopiù estere. Certo, l’indirizzo prettamente meridionalistico ed esoterico delle edizioni Brenner non poté competere col respiro più ampio del catalogo Forni e con la più acuta capacità commerciale del bolognese il quale, se pur non aveva nemmeno lontanamente la levatura culturale di un Brenner, poteva dal canto suo avvalersi, nella città universitaria, della collaborazione di un intellettuale di notevolissimo spessore quale Albano Sorbelli, figura con la quale nessuno, in Cosenza, avrebbe potuto misurarsi.

    Il Picasso degli ex libris

    E Michel Fingesten (già Finkelstein) cosa c’entra con i libri, vi starete chiedendo? Presto detto: è stato, tra l’altro, il più grande ideatore e incisore di ex libris del Novecento. Anzi, qualcuno disse che Fingesten sta all’ex libris come Picasso sta alla pittura. Nato nel 1884 a Butzkowitz, studiò all’Accademia di Vienna, laddove ebbe come compagno di studi nientemeno Oskar Kokoschka. Membro della corrente della “Nuova Secessione”, testimoniò nelle sue acqueforti le atrocità della Grande Guerra.

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    Michel Fingesten dipinge a Ferramonti

    Internato nel 1940, continuò a creare opere d’arte persino a Ferramonti, come quel Martirio di San Bartolomeo commissionatogli dall’allora parroco di Bisignano. Ma è l’ex libris la sua specialità  e per gli ex libris verrà richiesto il suo talento dai collezionisti di tutta Europa (tra i committenti celebri, addirittura Roosvelt, Stravinsky, Richard Strauss, Rainer Maria Rilke, Bernard Shaw e Paul Valery o, in Italia, Pirandello, D’Annunzio e addirittura Mussolini!).

    Israel Kalk e la Mensa dei Bambini

    L’altra figura legata a Ferramonti e ai libri, è quella di Israel Kalk. Ebreo lettone, trasferitosi a Milano si dedica a iniziative filantropiche come la Mensa dei Bambini, che accoglie i figli dei profughi ebrei giunti in Italia intorno al 1938-39. Assicura loro una dimora, un pasto quotidiano, l’assistenza medica e il doposcuola. L’attività della Mensa si estende presto all’assistenza per i profughi ebrei anziani e per i deportati nei campi di concentramento dell’Italia meridionale.

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    Israel Kalk

    È così che Kalk riesce a recarsi ripetutamente presso il campo di Ferramonti: all’organizzazione del campo dona materiale scolastico, vestiario, medicinali e sussidi, istituendo persino una borsa di studio a tutti gli scolari. Dal 1939 Kalk incomincia a raccogliere un fondo archivistico, costituito non soltanto dai documenti della Mensa ma pure dal ricchissimo materiale inerente all’attività di assistenza presso Ferramonti e dalla sua collezione libraria: 416 volumi, prevalentemente in lingua yiddish, pubblicati tra il 1907 ed il 1977 (narrativa, poesia e teatro, raccolte di proverbi, leggende e fiabe ebraiche, testi sacri e canti liturgici), oggi custodito dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

    Ernst Bernhard, lo psicanalista delle star

    L’ultimo personaggio, Ernst Bernhard, nacque invece a Berlino, da genitori ebrei, nel 1896. Socialista, partecipò alle rivoluzioni bavarese e austriaca. Dopo la laurea in medicina indirizzò i propri interessi verso la psicanalisi, e collaborò con Jung tra il 1935 e il 1936, anno in cui si trasferì a Roma, marcando ancor più del suo maestro l’interesse per l’esoterismo, nonché per la teosofia, la chirologia e l’astrologia. Non è propriamente un bibliofilo, ma ai patrimoni librari e alla stessa storia del libro, ha contribuito con la sua opera di saggista.

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    Ernst Bernhard

    Prigioniero anch’egli, nel 1941 Bernhard poté finalmente lasciare Ferramonti, dove era entrato «col suo I Ching e il suo diario, deciso a vivere in modo consapevole e significativo ciò che il destino gli avrebbe portato». Riprese poi la professione nella capitale e a Bracciano, laddove fondò l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica, che portò avanti fino seguendo illustri pazienti quali Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Cristina Campo, Roberto Bazlen, Vittorio de Seta e, tramite quest’ultimo, persino Federico Fellini.

    Ferramonti e il paesaggio palestinese

    Dai suoi diari di autoanalisi emerge pure un sogno fatto e annotato durante la prigionia (che, a dire il vero, starebbe benissimo sulla bocca del miglior Woody Allen):

    «Dal campo in Calabria vengo deportato verso Oriente e arrivo in un campo dove sono completamente isolato e solo.
    Penso che mi peserà molto il non avere nessuno di cui prendermi cura e da far progredire. Ma a mio conforto mi viene in mente che là ci sarà pure un corpo di guardia nazista. Potrei prendermi cura di questo».

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    Soldati all’esterno del campo

    Ancora, negli anni più maturi della sua professione non mancò di ricordare sporadicamente l’esperienza calabrese:

    «Nel 1941, quando ero internato in Calabria, passai il Venerdì Santo solo, sotto un fico, leggendo e digiunando, davanti a me il paesaggio del Mediterraneo, che mi ricordava il paesaggio palestinese. Quando la sera mi avvicinai al campo d’internamento, mi venne incontro il brigadiere della polizia e mi disse: “Dottore, è arrivato il telegramma”. Ero libero. Comprai vino rosso e dolci per i miei compagni di prigionia e nuovi amici, festeggiai con loro l’addio e il giorno seguente partii in tassì, con fichi e cioccolata, per Amantea e la notte seguente per Roma. La domenica di Pasqua arrivai in via Gregoriana, con una completa amnesia di tutto ciò che prima della mia prigionia era avvenuto nella mia abitazione, tanto per quel che riguardava me che i miei pazienti».