Negli ultimi anni, il mondo dell’arte sta vivendo un nuovo capitolo di repressione e autocensura, che rischia di mettere in discussione i valori fondamentali della libertà creativa. Sono sempre più frequenti i casi di opere e artisti messi al bando, criticati o censurati perché le loro espressioni vengono giudicate scomode, troppo provocatorie o semplicemente troppo sincere. Questa tendenza all’oscurantismo culturale, alimentata dalla spettacolarizzazione dei casi di scandalo, minaccia di limitare un diritto fondamentale: quello di esprimersi liberamente, senza paura di essere giudicati o repressi.
Felicien Rops, Pornokrates, 1878,
La censura su Gauguin
Tra i più noti episodi della storia recente, si può ricordare la decisione di vietare le mostre dedicate a Paul Gauguin, accusato di aver avuto rapporti con minorenni, o la rimozione di alcune opere di Balthus, ritenute ingiustamente simbolo di pedofilia. L’arte erotica e la sua storia millenaria dimostrano come il sentimento, la provocazione e la libertà di rappresentazione siano parte integrante del percorso umano e culturale. Dalle pitture rupestri del Paleolitico alle raffigurazioni erotiche dell’antica Grecia, passando per le ceramiche Moche, le stampe shunga giapponesi e il Kāma Sūtra indiano, la storia dell’arte ci parla di un continuo confronto tra tabù e desiderio, tra moralità e libertà espressiva.
L’erotismo come bellezza
La stessa arte rinascimentale e i grandi maestri come Boucher, Fragonard o Courbet ci insegnano come l’erotismo possa essere veicolo di bellezza, simbolo di un’umanità fragile e potente allo stesso tempo e loro sono stati sottoposti a giudizi moralistici. Allora come oggi, questi giudizi gratuiti hanno alimentato un clima di intolleranza ma se allora restava in qualche testo o giornale o in una discussione da salotto perbenista, oggi si estende ai social media, i quali, paradossalmente, se da un lato ricoprono il ruolo di libera piattaforma di opinione e creazione, dall’altro si trasformano a volte in censori di immagini di nudo e arte erotica, oscurando opere che hanno fatto parte della storia culturale dell’umanità.
Picasso, Scena erotica, 1903, olio su tela
All’inizio del ‘900, mentre Pablo Picasso creava i suoi primi dipinti erotici, Jean Renoir affermava che un quadro per essere buono doveva essere prodotto con i genitali. A Vienna operano Gustav Klimt ed il suo discepolo Egon Schiele; quest’ultimo, a causa dei suoi ritratti considerati esageratamente spinti e pornografici ha trascorso diverso tempo in prigione: molte tra le sue opere (soprattutto dipinti di giovani donne nude) sono state distrutte dalle autorità con l’accusa di essere rappresentazioni oscene che offendevano il buon costume ed il senso comune del pudore.
L’asfissia censoria si manifesta anche in modo più politicizzato, con episodi come quello delle statue coperte durante la visita dell’allora presidente iraniano Hassan Rouhani in Italia nel 2016: un caso emblematico di come si utilizzi il simbolo e l’immagine pubblica come strumenti di controllo, spesso alle spalle di un’analisi critica o culturale più approfondita. È un paradosso che i nuovi “censori” provengano in molti casi dagli ambienti progressisti, che si ergono a difensori di ciò che percepiscono come “moralità” e “rispetto”, dimenticando invece che l’arte autentica nasce proprio dall’audacia di mettere in discussione i valori e le convenzioni più radicate.
Erotismo e pornografia
Dove si colloca, quindi, il confine tra libertà e offesa? È evidente che questa linea sia labile e soggetta a interpretazioni personali e culturali. La distinzione tra arte erotica e pornografia rappresenta un esempio lampante: la prima, intesa come espressione estetica che utilizza elementi erotici per veicolare significati più profondi e universali, è da sempre parte integrante della storia dell’umanità; la seconda, invece, come rappresentazione esplicita di scene sessuali finalizzate esclusivamente a provocare eccitazione, viene spesso relegata a genere di nicchia o, peggio, a materiale “osceno”. La soggettività, infatti, gioca un ruolo centrale nel giudizio estetico, ma anche nel riconoscimento della libertà di espressione: ciò che è considerato arte per alcuni può essere offensivo o inaccettabile per altri, ma questo non deve diventare motivo di repressione, bensì di confronto e dialogo.
La provocazione dell’arte
La lunga storia dell’arte ci testimonia come caratteristiche di provocazione, tabù e sfide morali siano state spesso le leve più potenti per scuotere le coscienze, stimolare idee nuove e abbattere pregiudizi radicati. Dalle raffigurazioni erotiche dell’antica Grecia alle opere di artisti rinascimentali come Boucher, Fragonard e Courbet, il continente europeo ha sempre avuto un rapporto complesso con la rappresentazione del desiderio e della sensualità. La stessa tradizione rivoluzionaria della pittura “erotica” di epoca moderna, con opere emblematiche come “Il bagno” di Manet o “L’origine del mondo” di Courbet, rivela come l’arte sia uno strumento potente anche per mettere in discussione i tabù morali e sociali, utilizzando la provocazione come veicolo di libertà.
Edvard Munch, Cupido, 1907
La società del controllo
Ma perché, oggi, si tende invece a censurare o a reprimere questa stessa libertà? La risposta si trova in un contesto culturale e sociale che ha ormai radicato nel proprio DNA il desiderio di conformismo e di controllo. La paura di offendere, di disturbare o di essere giudicati impone un’ingessatura che rischia di soffocare anche i messaggi più autentici e necessari. È importante ricordare che l’arte, al suo livello più profondo, è semplice e pura libertà. Del resto Gustav Courbet diceva: «Ho cinquant’anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e men che meno di alcun sistema: l’unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà».
Intellettuale anticonvenzionale, indipendente, unico e ineguagliabile. Cinquant’anni fa moriva Pier Paolo Pasolini, assassinato sul litorale di Ostia nella notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Un poeta, giornalista, regista e letterato che ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana del Ventesimo secolo e che ha scandagliato in profondità i tormenti, le ipocrisie, i vizi e i cambiamenti del popolo italiano.
Il ritrovamento del corpo di PPP
Dai campagnoli di Casarsa ai sottoproletari delle borgate romane, fra i popoli umili che più hanno intrecciato le loro sorti al vissuto di Pasolini un posto di rilievo ha la gente di Calabria. Quello fra PPP e la Calabria è stato un rapporto burrascoso ma intenso, sviluppatosi attraverso i reportage, i film, i documentari, anche la poesia, con le parole di Profezia, componimento del ’64 poi diffuso col titolo Alì dagli occhi azzurri, che anticipò il dramma dei migranti nel Mediterraneo e in particolare lungo le coste calabresi.
“Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci,
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini:
‘Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!’”
Pasolini in Calabria: banditi a Cutro
La complessità del legame fra Pasolini e la Calabria si fonda sul caso scoppiato lungo il vespro dell’estate del 1959, a seguito della pubblicazione – il 5 settembre – della terza e ultima parte di un reportage in Italia, da Ventimiglia a Pachino, da Reggio Calabria – luogo in cui, scrive, gli piacerebbe «vivere e morirci, non di pace, […] ma di gioia» – a Trieste, che Pier Paolo Pasolini confezionò, con gli scatti del fotografo Paolo di Paolo, per la rivista Successo. La parte conclusiva del documentario dal titolo La lunga strada di sabbia si concentrava sulla risalita della Penisola, dallo Jonio calabrese all’Adriatico, tragitto durante il quale il poeta passò, fugacemente, a bordo della sua Millecento a quattro cilindri, da Cutro, paesino immerso in un paesaggio bucolico di calanchi oggi in territorio di Crotone, al tempo rientrante nella provincia di Catanzaro.
Parliamo della famosa polemica dei banditi – così come Pasolini appellò la gente di Cutro –, cavalcata dalla pubblicistica locale e dal governo democristiano di Cutro con a capo il sindaco Vincenzo Mancuso.
«Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».
Premi e polemiche
Alla diffusione di queste pagine, sulla stampa calabrese si scatenò un’isteria collettiva. L’intellettuale corsaro provò, a suo modo, a chiudere la questione con una replica, uscita il 28 ottobre su Paese Sera. Un passaggio della Lettera sulla Calabria sosteneva che «la storia della Calabria implica necessariamente il banditismo: se da due millenni essa è una terra dominata, sottogovernata, depressa». Ma la querelle proseguì, raggiungendo il picco poche settimane dopo, a metà novembre, quando PPP ricevette a Crotone – città in contrasto politico con la vicina Cutro considerata l’amministrazione di colore rosso, retta dal primo cittadino comunista Vincenzo Corigliano – il prestigioso Premio Crotone per il suo romanzo Una vita violenta. «Il Premio Crotoneassegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro» metteva nero su bianco, indignato, Il Messaggero della Calabria.
Pasolini in Calabria per il Premio Crotone
Il dottor Pasquale Nicolini
È una vicenda famosa, di cui si è scritto molto. Poco tramandato è invece uno scambio di lettere, avvenuto a cavallo fra l’uscita del resoconto incriminato e la consegna contestata del Premio Crotone all’autore, fra Pasolini e un medico calabrese.
È il 26 settembre 1959 quando dalla Calabria parte una raccomandata. A firmarla è un dottore, ufficiale sanitario di Paola, Pasquale Nicolini.
Vicino agli ultimi, ai più deboli, Nicolini era quello che oggi definiremmo un attivista. L’uomo si impegnava a promuovere il diritto alla salute per le famiglie meno abbienti e per la costruzione di abitazioni moderne, che strappassero le genti più povere della cittadina tirrenica dalle loro casupole malsane e lesionate a seguito dei bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale – lascito di quegli orrori della guerra che il dottor Nicolini aveva sperimentato negli ospedali militari.
L’uomo possedeva anche una profonda cultura umanistica, amava discettare di filosofia e letteratura e non disdegnava di comporre poesie dedicate alla sua terra. Interessatosi chiaramente alla controversia scoppiata a seguito delle parole di Pasolini sulle pagine di Successo, il dottor Pasquale Nicolini pensò dunque di scrivere, con la cortesia e l’acume che lo distinguevano, una lettera privata al poeta.
Di seguito, estratti della missiva, pubblicata il 23 luglio 2012 da Roberto Losso, giornalista scomparso nel 2023, sulle colonne del Quotidiano della Calabria:
Una lettera per confrontarsi
«Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto La lunga striscia di sabbia, pubblicato nel numero di settembre di Successo, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so se l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così?
Ella, dunque, percorrendo la ‘lunga strada di sabbia’ della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada».
Pasolini tra le braccia di Morfeo?
«Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in ‘turboreattore’, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro-tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?».
«Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello…» […]
Povera ma bella
«E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo ‘carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita’. Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».
Quel che resta del tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone)
«Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? […] Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo. Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite.»[…]
«Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».
La replica di Pasolini
Apprezzando il tono e la cultura classica espressa da Nicolini, PPP decise di rispondere. Già il 1° ottobre con la sua Olivetti 22 il poeta replicò al medico calabrese. Riportiamo alcuni lacerti della risposta:
«Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose ‘dune giallastre’ durante la notte.» […]
«E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».
Manie di persecuzione, lotta e realtà
«Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica». […]
“Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato.
E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini».
Pasolini torna in Calabria
Il carteggio non fu divulgato, come esortato dallo stesso Pasolini. «Persona degna di ogni rispetto e anche affetto», il dottor Nicolini lasciò la preziosa corrispondenza nel cassetto, lontana dalle grinfie di cercatori di scoop e fomentatori della diatriba.
La polemica si affievolì presto e, trascorsi alcuni anni, Pasolini ritornò in Calabria. Il rapporto con la regione, terra genuina, reale, trascurata e anarchica quanto bastava per non essere stata ancora corrotta dalla omologazione e dalle brutture conformistiche imposte dalla modernità, da quel “genocidio culturale” inflitto agli italiani, proseguì raggiungendo l’acme nel ’63-’64con le riprese del Vangelo secondo Matteo.
Pasolini durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo
Il poeta e regista, deluso dalle trasformazioni del paesaggio avvenute in Medio Oriente, scelse di girare in diversi luoghi rupestri del Meridione, fra cui le calabresi Le Castella e Cutro, panorami «ferocemente antichi», scampati al disastro «economico, ecologico, urbanistico, antropologico» del tempo, che meglio potevano ricordare la Terra Santa di duemila anni prima.
E il colto dottor Pasquale Nicolini? Voci perpetuate nei decenni vogliono che Pasolini abbia incontrato, negli anni successivi a quella turbolenta seconda metà del 1959, quel medico intellettuale paolano che aveva avuto l’ardire di scrivergli direttamente per metterlo a parte del suo pensiero e per avere un confronto, e che grazie all’educazione e all’accesa passione per le proprie radici si era meritato non soltanto la risposta, ma pure la stima di uno dei massimi pensatori del Novecento.
Voci, indiscrezioni mai confermate che nulla tolgono a una corrispondenza preziosa, tassello importante per ricostruire il rapporto tormentato e ricco di fascino fra Pasolini e la nostra terra.
Ebbene sì, c’è un autore che era già stato in Calabria prima del festival di fotografia di Corigliano, quello che ha reso la nostra regione una tappa ineludibile della grande fotografia contemporanea. Ospite della Fondazione Napoli Novantanove, Mimmo Jodice ha ripercorso a fine millennio il viaggio di Norman Douglas, raccontato nel 1915 dallo scandaloso, quanto raffinato scrittore inglese in Old Calabria, diario di viaggi nell’antica Calabria, da Lucera al Salento, ma non solo. Come suggerisce il titolo del libro di Jodice, Old Calabria e i luoghi del Grand Tour, il suo percorso fotografico si muove fra le tracce di altri scrittori in viaggio, da George Gissing a Henry Swinburne, Alexandre Dumas, Edward Lear e Francois Lenormant, solo per citarne alcuni.
Fuori dalla contemporaneità
E dunque è una Calabria che evoca un tempo altro dalla contemporaneità quella di Jodice, le cui atmosfere sospese, dense di silenzio, inducono alla riflessione, a “perdersi a guardare”, secondo la frase di Fernando Pessoa che il Maestro ha trasformato nel tempo in poetica dalla felice cifra stilistica: «Osservare, indagare con gli occhi, con la mente, perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà», scriverà nella biografia pubblicata da Contrasto il cui titolo, Saldamente sulle nuvole, è una citazione di quell’Ennio Flaiano che «l’arte è un modo di tenere i piedi poggiati saldamente sulle nuvole».
Le immagini dei Bronzi di Riace
È questa lentezza dello sguardo di Jodice, caparbiamente lontano dal virtuosismo dell’attimo decisivo bressoniano, che sottrae il viaggio alla dimensione documentaria per affidarlo ad un’interiorità visionaria e contemplativa, fino a trasformare la realtà in una sorta di paesaggio dell’anima, capace di accarezzare le nostalgie della memoria. Memoria che è soprattutto identità, in questa nostra parte di Mediterraneo vista come luogo di radici e stratificazioni che riprendono vita nelle immagini di certi luoghi o architetture. Tracce di identità altrimenti consegnate all’oblio, la cui ricerca è proseguita poi qualche anno più tardi con le immagini dei Bronzi di Riace, realizzate per la campagna fotografica affidatagli dalla Regione Calabria.
Uno scatto di Mimmo Jodice a Santa Severina (KR)
Jodice non fotografa la Calabria, la ascolta
Come tra volto e anima, per Jodice c’è un legame indissolubile fra dimensione esteriore e interiore che caratterizza tutto ciò che riguarda il Sud, dove “si fondono bellezza scenografica del paesaggio e dimensione sociale che viene dal passato”, come dirà in un’intervista.
E forse è questo, in fondo, il dono più grande che Mimmo Jodice ci ha lasciato: aver guardato la Calabria non come un “altrove” da raccontare, ma un luogo dove la bellezza non è mai solo estetica, ma memoria viva, carne e spirito.
Da calabrese, non posso che riconoscere in quelle immagini il respiro lento della mia terra, la luce che indugia sulle pietre, il silenzio che sa dire “più di mille parole”, la malinconia che da noi è una forma d’amore. Jodice non fotografa la Calabria per spiegarla: la ascolta. E in quello sguardo sospeso, tra mare e montagna, tra mito e realtà, ci restituisce l’essenza di ciò che siamo: un popolo che resiste al tempo, ancorato alla propria storia ma sempre, ostinatamente, con i piedi poggiati sulle nuvole.
I Calabresi ad Arles. Che detta così fa un po’ provinciale, ma un bagaglio leggero di autoironia è sempre d’aiuto. Azzardata quindi la decisione, e fatta la colletta, la trasferta inizia con la richiesta dell’accredito stampa, primo step ansiogeno di una lunga serie, segnato da controlli compulsivi della mail a intervalli di 10 min. Così, alla vista di quel “We are pleased to confirm your press accreditation for the 2025 edition of the Rencontres d’Arles”, un caloroso mix di sentimenti a base di gratitudine verso la Louise del Press Office ha fatto saltare tappi e scatenato abbracci da scudetto: allora è vero, si parte! Dal “Tito Minniti” di Reggio Calabria, Arles è oramai un sogno possibile, e la consacrazione della testata pure, da ora ufficialmente nota all over the world.
E siccome certe distrazioni del DNA ti accompagnano ovunque scegli di viaggiare nel mondo, l’esordio da Totò e Peppino a Malano è segnato dal primo sgarro del budget, multa da euro 80 per omissione di tagliandino del parcheggio. Paese che vai, colore delle strisce che trovi, e anche quelle bianche da queste parti sono a pagamento; imparare ha i suoi costi.
Il kit di sopravvivenza a prezzi salatissimi
Arles, quanto mi costi?
Vabbè, ma siamo comunque ad Arles, pazienza. Che in questo periodo dev’essere nell’occhio dell’anticiclone delle Azzorre, stabilmente intorno ai 40° in assenza di una qualsiasi refolella di vento. E lì si comprende la sezione del sito dei Rencontres dedicata al kit di sopravvivenza, 47€ fra cappello, ventaglio e bottiglia termica, con possibili aggiunte di tote bag e guida della città per un totale di 89€. Ancora di più si comprendono i visitatori con il kit fai da te, composto da busta di frutta e scorta d’acqua in bottiglie di plastica, rigorosamente con tappo europeo, il tutto a prezzi da supermercato.
Installazioni umane deambulanti
Ma le tappe di avvicinamento al senso della trasferta proseguono con altre scoperte: a inoltrarsi nella folla da overturism il primo appunto sul taccuino del bravo cronista è dedicato proprio allo spettacolo di varia umanità che sciamana per vicoli e piazzette, immediatamente ribattezzati i chARLatain. Gioco di parole necessariamente eccessivo, come richiesto da pezzo di costume: man mano che ci si accalca, si scopre che in mostra qui non ci sono solo fotografie, ma con quel trucco un po’ così, quell’abbiglio un po’ così e quell’espressione un po’ così, moltitudini di installazioni umane deambulanti fanno a gara nel contendersi l’attenzione.
Un fenomenismo cresciuto negli anni, come del resto il tasso di occupazione di ogni centimetro di muro disponibile con mostre estemporanee, purché nella galleria a cielo aperto più famosa e desiderata del mondo dei fotografanti.
All’atmosfera tendente al Barnum contribuiscono ovviamente le performance degli stessi fotografanti, dagli ambulanti della minuteira, la fotografia istantanea di strada fatta con grandi chassis di legno, ai concettuali dagli allestimenti simili a flash mob che si confondono con la vita che scorre intorno: invitati di un matrimonio che non sai se comparse di una scenografia, e residenti mimetici che riconosci dall’abilità di slalomisti fino al dileguamento in viuzze laterali.
Les italiens
In realtà il paese è piccolo assai, così che la probabilità di incontrare amici e conoscenti di fotografia è decisamente alta, soprattutto in questa settimana inaugurale; e se anche non dovesse accadere, si può sempre andarsela a cercare. In Rue du 4 Septembre, ribattezzata la via des italiens.
È lì che ho incontrato molti amici e diverse nuove storie, che poi sono sicuramente le cose più interessanti di tutto l’ambaradan, quelle che ti mettono addosso il friccico del cercatore d’oro; per tutto il resto ci sono mappe & app.
Fra le tante, Alessandro, che immerge le foto in un bagno di thè, così che assumono un colore diverso a seconda di quello usato, thè verde e così via, forniti da un altro palermitano, in arte Faidathè, produttore di un gin al thè, base dei cocktail con olive da giù offerti nello spazio-galleria affittato da Palermofoto.
O Andrea da Pontedera, con una struttura mobile di 8 cubi di plastica simile al cubo di Rubik su cui sono stampate foto di famiglia che si compongono e scompongono, e ideatore di un progetto di beneficenza che passa per una stampante termica e la progressiva scomparsa della traccia fotografica che sarebbe lungo spiegare.
E poi le mostre
E poi, in un piccolo slargo della via, il Livres et Cafè, spazio gestito da Mimesis Edizioni, Gente di Fotografia, e Il Fotografo, sorta di ambasciata d’Italia ad Arles, e tappa obbligata per i connazionali in tour; da Joan Fontcuberta al nostro conterroneo reggino Alessandro Mallamaci, passando per Silvio Canini, sono molti gli autori che hanno presentato qui i propri libri in un’atmosfera assolutamente informale e cazzeggiante, con moka h24 sul fornello, come da promessa.
Tutta gente che alla sera, quando si tratta di conquistare il diritto di sedersi in un ristorante turistico a prezzi da 3 stelle Michelin, dà vita a tavolate dalle geometrie variabili e talvolta improbabili, che appaiono comunque una rivincita sulle app di dating.
Si, ma le mostre, la fotografia, vi starete chiedendo dopo essere arrivati pazientemente fin qui… beh, non crederete che ad Arles ci si vada per quello! Ad Arles si va per esserci e raccontarla!
Sono anni ormai che si parla di retromarketing, tutto un mercato legato all’effetto nostalgia che va dal gaming ai vinili, non disdegnando la fuffa alimentare delle cose buone fatte come una volta. Al ritorno di nicchia dell’analogico, solleticato dalla continua mercificazione del ricordo, in questa estate che stenta si aggiunge un nuovo – e ci vuole del talento per definirlo tale – prodotto: la macchina fotografica usa e getta!
E pazienza se per lanciare il redazionale bisogna pur trovare qualcosa in stile new-age, tipo «è come se la nostra mente, con una macchina fotografica usa e getta a disposizione, si lasciasse andare alla vita più autentica, all’insegna della leggerezza», con testo dai toni sognanti a seguire; la cosa che fa realmente tenerezza è il dover spiegare come si usa!
Non so se ricordate l’esperimento della tv svizzera che mise una decina di ragazzini davanti a un vecchio apparecchio telefonico con la rotella, chiedendo loro di cosa si trattasse e come funzionasse. Beh, siamo più o meno da quelle parti, considerato che una sezione del redazionale intitolata “Come funziona la Kodak usa e getta da 27 scatti?” immagina di doverlo spiegare ai potenziali acquirenti, posizionati evidentemente fra Generazione Z e Generazione Alpha, appena un passo dopo i Millennials, impelagati ancora con un piede nell’analogico.
Quindi (copia-incolla testuale):
“La prima cosa importante da sapere è che la pellicola da 27 scatti è già inserita e pronta, non dovrai inserirla. Inquadra e scatta: la Kodak ha un mirino ottico semplice per comporre l’immagine. Non c’è nessun display, ecco che cogliere l’emozione più autentica sarà semplicissimo (oltre che veloce).
Avanza manualmente: dopo ogni scatto, ruoti una rotella sul retro per far avanzare la pellicola al fotogramma successivo.
Flash integrato: ha un piccolo flash elettronico attivabile con un pulsante, utile per scattare in condizioni di scarsa luce o al chiuso.
Sviluppo: Una volta esauriti i 27 scatti, porti la fotocamera in un laboratorio fotografico per lo sviluppo. Lì estrarranno la pellicola e svilupperanno le tue foto, spesso con l’opzione di riceverle anche in formato digitale.”
Come dire che sebbene sia passato più di un secolo, con un tempo che va più veloce delle ere geologiche, il vecchio jingle della Kodak, quello dei tempi della Brownie a 1 dollaro, si dimostra immarcescibile: “You press the button, we do the rest”!
Sarà il cosentino professore e architetto Armando Rossi a chiudere come ospite principale la rassegna “Neanche gli Dei – Festival Letterario e Incontri d’autore” di Cagliari il 27 luglio prossimo dove il suo Saggio “I Rosoni medievali – significato, simboli, esoterismo e numerologia” (Fontana Editore) è risultato il più apprezzato. Il Festival di Cagliari Neanche gli Dei (il nome è preso in prestito dal titolo di uno dei romanzi di fantascienza di maggior successo di Isaac Asimov, “The Gods Themselves”, del 1972), si prefigge di esplorare e generare definizioni diverse e innovative della realtà e degli strumenti sociali, economici, filosofici, artistici e culturali con particolare attenzione alla sezione “saggistica”.
Il tema della IV edizione è “Nuovo disordine mondiale” e porterà a Cagliari le opere che possono contribuire a riposizionare sotto una nuova luce i valori esistenziali spaziando dal sociale all’ambiente, dalla pedagogia ai nuovi modelli finanziari, alla psicologia, alla spiritualità, alla geopolitica, riposizionando il pubblico in un ruolo attivo e centrale all’interno del progetto del Festival e delle proprie vite, con l’obbiettivo di consegnare nuovi modelli, nuove visuali e prospettive e strumenti concreti per la rivisitazione dei valori dell’essere.
Il saggio di Armando Rossi a Cagliari
Nel saggio di Armando Rossi (che sarà premiato a Cagliari), il rosone diventa una soglia simbolica, un simbolo di pietra che riflette l’ordine cosmico, la perfezione divina e il cammino interiore dell’uomo. Lo scritto accompagna il lettore (non necessariamente tecnico o esperto in medioevo) in un viaggio tra geometrie sacre, numeri carichi di potere simbolico, e tradizioni esoteriche che si intrecciano con l’arte, l’architettura e la spiritualità medievale. Uno degli aspetti più affascinanti del testo, quindi, è proprio l’approccio esoterico: il rosone non è solo un capolavoro architettonico, ma una porta iniziatica. I suoi raggi, le sue suddivisioni, le sue simmetrie parlano il linguaggio degli antichi misteri. Dietro la pietra scolpita si cela una sapienza antica, che unisce elementi della Cabala, dell’ermetismo, della mistica cristiana e della scienza dei numeri. Nel Medioevo non esisteva separazione netta tra scienza, fede e magia.
I rosoni: un medioevo dove i saperi si incrociano
Il rosone, allora, diventa specchio del macrocosmo, emblema del tempo ciclico e dello spirito eterno, strumento di contemplazione e veicolo di trasformazione interiore. Ogni capitolo del libro è un tassello che compone un mosaico complesso e suggestivo, capace di parlare al lettore moderno con sorprendente attualità. E forse è proprio questo il cuore dell’opera: la capacità di risvegliare in noi lo sguardo simbolico, di riscoprire l’arte come via per comprendere l’invisibile, e di ritrovare nelle pietre antiche un messaggio per l’uomo contemporaneo. Il saggio sui rosoni non è semplicemente un testo per addetti ai lavori, è uno strumento divulgativo che permette a tutti, appassionati e non di seguire quel percorso iniziatico che ogni autentica opera d’arte ci chiede di compiere.
Il festival di Cagliari
Il Festival di Cagliari è una manifestazione unica nel suo genere, che promuove la ricerca e l’approfondimento della percezione del quotidiano, la condivisione del sapere, il valore dell’esperienza umana, elementi che costituiscono un percorso intricato e affascinante, fatto di distopie e fantastico, economia sostenibile e psicologia, medicina, arte e spiritualità. Stabilire nuove interazioni, generare linguaggi innovativi, creare un presidio culturale in grado di sviluppare una comunità, consapevole del potere e del valore della conoscenza. Questi gli obbiettivi e la filosofia del festival, una manifestazione fuori dagli stereotipi, fondata sulla visione di una realtà orientata sul confronto e sulla partecipazione, senza filtri, pregiudizi o discriminazioni.
A Cosenza Vecchia, le antiche pietre raccontano un passato glorioso e un presente ferito. Qui, un gioiello di rara bellezza, il Chiostro di San Francesco, è perfettamente conservato ma inaccessibile. Un contrasto che lacera il cuore della città e dei suoi abitanti, testimoni di uno splendore negato.
Un viaggio nel tempo
Camminare nei vicoli di Cosenza Vecchia è un viaggio attraverso secoli di storia. Si attraversano nobili facciate, testimoni di antiche grandezze, e angoli che oggi rivelano il peso dell’incuria. In questo scenario di luci e ombre, dove la bellezza combatte ogni giorno contro il degrado, sorge il Chiostro di San Francesco. È il primo complesso francescano costruito in Calabria. Le sue geometrie armoniche, le linee pulite e la cura evidente di ogni pietra creano un’immagine quasi surreale. Appare come un frammento di ordine e serenità, quasi fermo nel tempo. Chiaramente, mani attente ne conservano l’integrità, custodendolo come un segreto prezioso.
Un tesoro nascosto
Uno scrigno segreto
Proprio questa perfezione, questa evidente cura, genera una profonda amarezza. Lo scrigno, infatti, rimane sigillato, inaccessibile ai cittadini. Il Chiostro di San Francesco, con la sua serena bellezza, potrebbe infondere pace e orgoglio. Invece, si erge come un miraggio irraggiungibile. È come un banchetto sontuoso, preparato con cura, a cui nessuno è invitato. È come una musica sublime, suonata a porte chiuse, mentre fuori il rumore del degrado si fa sempre più forte. Questo gioiello intatto brilla solitario, quasi indifferente al destino del tessuto urbano circostante. A pochi metri dalle sue mura impeccabili, il resto del centro storico – uno dei più vasti e antichi d’Italia – mostra le sue ferite aperte. Si vedono palazzi che perdono lentamente la loro dignità e vicoli trasformati in trappole di silenzio e abbandono. Si percepisce il respiro affannoso di una comunità sempre più isolata, stretta tra le memorie di un grande passato e le incertezze di un presente difficile. Gli abitanti di Cosenza Vecchia, custodi ostinati di un’identità che resiste, vivono ogni giorno questo paradosso. Sanno di avere un’oasi di bellezza a portata di mano, ma inaccessibile, mentre intorno a loro avanza il deserto dell’incuria.
Il fascino delle antiche pietre
Una delle molte occasioni perdute
La domanda sul perché di questa inaccessibilità aleggia, muta e persistente, come un’ombra sulla magnificenza del Chiostro. Il contesto urbano avrebbe un disperato bisogno di simboli positivi, di luoghi di aggregazione e di bellezza condivisa. In questa situazione, la chiusura del Chiostro al pubblico è un’occasione perduta, un potenziale inespresso che grida in silenzio. Non si tratta di denunciare l’incuria del monumento, visibilmente ben tenuto. Si tratta, piuttosto, di constatare l’effetto di una separazione, di un distacco dalla vita pulsante della città che invece lo meriterebbe.
La bellezza e il declino
Così, il Chiostro di San Francesco resta lì, custode silenzioso della sua perfezione: un’isola di ordine in un mare di crescente abbandono. È un paradosso che pesa sul cuore di Cosenza Vecchia. È uno specchio che riflette non solo la sua impeccabile bellezza, ma anche l’amara constatazione di ciò che potrebbe essere per la sua gente e, inspiegabilmente, non è. Un tesoro intatto, ma distante. La sua luce filtrata illumina a stento le crepe di un centro storico che cerca disperatamente ogni raggio di speranza. Per i figli di questa terra, rimane l’immagine struggente di una ricchezza vicina, eppure irraggiungibile. Diventa un simbolo potente delle contraddizioni che pesano sull’anima della Calabria.
Cosenza Groove festival al via il 21 maggio nella città dei bruzi. Anche quest’anno lo storico Conservatorio di musica “S. Giacomantonio”, diretto da Francesco Perri, ospiterà la rassegna dedicata allo sfaccettato mondo delle percussioni musicali dal nome Cosenza Groove festival, giunta finora alla sua sesta edizione.
Un appuntamento davvero atteso da addetti ai lavori e appassionati anche coon masterclass promosse dal Conservatorio “Giacomantonio” di Cosenza. Concerti in programma nell’Auditorium parco della musica: Vibe & Vibrations (21 maggio, ore 19:30) con Paolo Cimmino & Christos Rafalidfes, Fabio Guagliardi e la Grooveria percussion ensamble di Tarcisio Molinaro; Vibe & Vibrations (21 maggio, ore 19:30) con Paolo Cimmino & Gianni Di Carlo, le classi di flauto del conservatorio Giacomantonio di Cosenza e la Grooveria percussion ensamble di Tarcisio Molinaro.
Una conferenza stampa congiunta per la Notte dei musei 2025 ma anche una proposta unitaria due amministrazioni comunali di Cosenza e di Corigliano-Rossano con la direzione della Galleria Nazionale di Cosenza. Un dialogo promosso per presentare insieme tre grandi eventi culturali che il comunicatore strategico Lenin Montesanto, coordinatore dell’iniziativa di ieri mattina nella Sala Giorgio Leone di Palazzo Arnone, ha definito «una singolare proposta esperienziale, oggettivamente inedita per le due città, preziosa ed utile per iniziare a raccontare la Calabria come una destinazione dello spirito».
Notte musei, il programma tra Cosenza e Corigliano-Rossano
Ad illustrare in dettagli il programma ricco e di qualità che parte da oggi sabato 17 maggio nella città capoluogo e che proseguirà fino a domenica 25 nella Città d’Arte sullo jonio, sono stati Rossana Baccari, direttore della Galleria Nazionale di Cosenza; la presidente dell’Associazione Rossano Purpurea Alessandra Mazzei; il vicesindaco di Corigliano-Rossano, Giovanni Pistoia; il dirigente del dipartimento programmazione del Comune di Corigliano-Rossano, Giovanni Soda e Antonietta Cozza, delegata alla cultura del Comune di Cosenza.
La Notte Europea dei Musei vedrà co-protagonista la Galleria Nazionale di Cosenza attraverso la mostra d’arte contemporanea HUMAN e coinvolgerà con un ricco percorso culturale serale, anche il Museo dei Brettii e degli Enotri, il Museo Multimediale Consentia Itinera e Museo Diocesano. – La quarta edizione 2025 di PATIR Open Lab – Patrimonio Comunità Visioni ed il Premio Patir Giorgio Leone si articolerà da venerdì 23 a domenica 25 maggio toccheranno il Complesso monastico di S.Maria del Patire (uno dei Marcatori Identitari della Calabria Straordinaria), il Palazzo San Bernardino ed il Palazzo Madre Isabella De Rosis, nel centro storico di Rossano insieme al Quadrato Compagna, nello storico borgo marinaro di Schiavonea. – Sono questi i tre momenti territoriali di qualità, culturali ed esperienziali, proposti da Cosenza e da Corigliano-Rossano per i due prossimi weekend di maggio.
Ricordato l’intellettuale rossanese Giorgio Leone
La Galleria Nazionale di Cosenza alle ore 20 di questa sera (sabato 17) aprirà le porte sulle opere di tre talentuosi artisti calabresi contemporanei: Salvatore Anelli, Francesco Minuti e Tarcisio Pingitore. Invitando a non perdere questa occasione, la direttrice Baccari ha ringraziato le due amministrazioni di Cosenza e Corigliano-Rossano, guidate dai sindaci Franz Caruso e Flavio Stasi e l’Associazione Rossano Purpurea per aver scelto di organizzare ed ospitare la conferenza stampa congiunta a Palazzo Arnone, nella sala che porta proprio il nome del compianto Giorgio Leone. Ricordando con emozione la figura dell’intellettuale rossanese che ha sostenuto la cultura materiale e immateriale del territorio, la Baccari ha salutato in sala Rita Leone, sorella dello storico dell’arte e docente Unical scomparso nel 2016. La direttrice ha concluso con un appello: le grandi città facciano squadra per il turismo di prossimità, promuovendo i rispettivi patrimoni culturali.
Patir, ponte tra Oriente e Occidente
Con la promozione di questo momento condiviso – ha detto la Mazzei – abbiamo provato ad unificare una proposta altrimenti frammentata. Fin dalla sua genesi – ha aggiunto – Patir ha unito diversi elementi attorno a un concept forte: il suo stesso nome richiama un bene territoriale simbolo, non solo di unione tra le due anime della città, ma dell’intera area della Sibaritide; è pensato come ponte tra Oriente e Occidente, tra mondo greco e latino, tra confini che sono stati anche la nostra storia; una storia in cui elementi diversi devono incontrarsi, non escludersi. È per questo che Patir viene riconosciuto come luogo e locus capace di tenere insieme le anime che definiscono questo territorio, nella sua memoria storica e nella sua attualità. L’evento coinvolge tutti ed è ispirato alla pace, intesa e vissuta, attraverso le parole di Papa Francesco, non solo come assenza di guerra, ma come armonia con se stessi, la natura e gli altri.
Premio Leone a Mimmo Lucano
Pistoia ha sottolineato l’importanza del conferimento del Premio Leone a Mimmo Lucano, definito icona di una umanità che non vuole disperdersi nella disumanità e, alla memoria, ad Amedeo Ricucci, storico reporter di guerra della Rai. Dobbiamo sforzarci di evitare lacerazioni a tutti i livelli e preferire – ha continuato – la massima collaborazione tra cittadini ed istituzioni, superando ogni ipotesi conflittuale con virtuosismi concreti, come l’originale iniziativa odierna. Oggi più che mai in passato –ha scandito – abbiamo bisogno di ispirare meraviglia, riflessioni e pace e la tre giorni di Patir risponde a pieno a questa esigenza del cittadino e del viaggiatore contemporaneo.
Ribaltare la narrazione della Calabria
Questo esempio di collaborazione tra le due principali istituzioni pubbliche della provincia di Cosenza – ha sottolineato Soda – può e deve rappresentare un punto di svolta. Corigliano-Rossano e Cosenza si uniscono in un ragionamento comune che può diventare tessuto condiviso tra due vaste ed importanti aree territoriali separate per soli 35 km in linea d’aria dalla grande Valle del Crati (l’unico fiume dell’Italia peninsulare a scorrere da sud a nord!) e che è archivio e deposito singolare di orizzonti, contenuti, biodiversità, storie e identità sulle quali ricucire – ha detto il dirigente facendo anche riferimento ai MID – narrazioni attrattive e competitive, L’entusiasmo sotteso a questa iniziativa nuova nel suo genere – ha concluso – rappresenta la conferma che c’è una nuova consapevolezza nelle comunità e nelle istituzioni locali, una nuova linfa che dobbiamo sapere accompagnare e sostenere, ribaltando tutti insieme il racconto della Calabria al quale purtroppo siamo stati abituati: non più quello di una terra abbandonata, isolata e predestinata, ma quella di un pezzo dell’Italia, non solo attraente ma dove si vive bene.
Notte dei Musei, intesa Corigliano-Rossano con Cosenza
Portando il saluto ed il messaggio di benvenuto del Sindaco Franz Caruso, la Cozza ha molto apprezzato lo spirito della conferenza stampa, auspicando che per il 2026 si possano anche calendarizzare iniziative ulteriori, senza sovrapposizioni e perfino promuovendo servizi di collegamento reciproco ad hoc dalle e per le rispettive comunità territoriali. L’intesa sulla cultura tra le città Corigliano – Rossano e Cosenza – ha concluso complimentandosi con la Mazzei per la qualità complessiva della tre giorni di PATIR Open Lab – rappresenta anche per noi punto di partenza ed un percorso significativo, un filo di seta che vogliamo continuare a tessere.
In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.
Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.
La Calabria che si svuota
L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.
Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia
Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?
È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria
Le aree interne e la risposta della bomboniera
Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.
L’Europa e lo Stato
Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.
La sede del Parlamento europeo
Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.
Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo. Il modello “bomboniera” non serve a nulla.
Strategie per le aree interne
Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.
Bisognerebbe in ordine sparso:
aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.
Due “sorprese”
I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.
Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.
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