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  • STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

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    Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».

    Darwin a Belvedere

    Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
    Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.

    Un Belvedere anche senza mare

    Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).

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    Belvedere Marittimo e la sua spiaggia

    D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.

    “La Carrera del Diavolo”

    Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.

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    L’ingresso della Grotta della monaca

    Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.

    Fantasmi a Belvedere

    Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
    A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.

    Le masserie abbandonate

    Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.

    Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.

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    Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia

    Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.

    Le villette col pianoforte in giardino

    C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.

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    Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone

    La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.

    Stracalabria tra porcili, vacche e vino 

    Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.

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    L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)

    Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.

    Neve a Belvedere

    Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.

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    Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)

    Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.

    La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.

    Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari

    Monte Cannitello brucia

    E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?

     

  • Deserto blu: meglio mangiare bianchetto oggi o pesce domani?

    Deserto blu: meglio mangiare bianchetto oggi o pesce domani?

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    «È dal 15 gennaio che non facciamo pescato, tra maltempo e altro. Ad andare con 200 nasse, spesso non prendiamo nemmeno un gambero». In circa 50km di costa, tra Capo Spartivento e il Golfo di Squillace, Nino ormai non prende quasi più niente.
    Da qualche anno è cambiato tutto. L’abbondanza di una trentina d’anni fa è finita. Niente più banchi di cefali. Niente più sacchi di polpi, come era abituato il vecchio Turiddu: «Non aveva secchi, né casse: portava solo dei sacchi. Li riempiva con i polpi, 100 chili tutti i giorni, era normale per lui un pescato del genere. Ora, anche il polpo… Negli ultimi 7 anni, vedrà circa 10 esemplari in tutto l’anno. È una situazione drammatica».

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    Pescatori sullo Jonio

    Sostenere i costi della sua attività, la cooperativa Argonauta a Marina di Gioiosa Ionica, è sempre più difficile. «Io l’inverno e in primavera riuscivo a lavorare, tempo permettendo. C’è stata una volta in cui sono stato in mare per 260 giornate. Adesso molte meno, con la scusa del maltempo. Ma la verità è che manca il pescato».
    E quando non si trova il pesce, i giri a vuoto sono sempre più frequenti. E costosi. «Qualsiasi cosa fai non sai se ti conviene. Le spese aumentano esponenzialmente. Un esempio, andare con i palangari. Servono almeno 10 casse di sarde: sono 200 euro solo per le esche».

    Estinzione di massa

    Quella di Antonino non è la prima, né l’ultima storia di pescatori che stanno arrancando, che non sanno come si evolverà il proprio lavoro nel giro dei prossimi anni. Un’incertezza che ci porteremo dietro per molto tempo. Uno studio della rivista Nature rivela che non rispettare i limiti alle emissioni di gas serra previsti dagli accordi di Parigi potrebbe innescare un’estinzione di massa della vita marina nel giro di due secoli, così grande da avere effetti simili alle cinque estinzioni di massa già avvenute sulla terra.

    Senza dimenticare quello che già sappiamo su quello che sta avvenendo all’oceano. L’IPCC, nel report dedicato a Impatti, adattamento e vulnerabilità, ha evidenziato come il Mar Mediterraneo ha registrato temperature in aumento ed un innalzamento del 1,4 mm l’anno nel corso di tutto il XX secolo. Un quadro che mette a rischio anche una lunga serie di città costiere.
    In tutto questo, come sta il Mar Jonio?

    Pochi pesci nello Jonio?

    La prima cosa da chiedersi è se la popolazione ittica è veramente diminuita nel corso degli ultimi anni. La risposta, come al solito, è complessa. «C’è una spinta naturale al ripopolamento, accompagnata invece una pressione antropica che genera un equilibrio in diminuzione. Questo è il combattimento quotidiano che avviene lungo le coste ioniche».

    A spiegarci cosa succede è Emilio Cellini, direttore del Centro Ragionale di Strategia Marina, la struttura dell’Arpacal dedicata allo studio delle condizioni del mare e della costa.
    Da un lato, ci sono delle dinamiche naturali che spingono verso il ripopolamento. In generale, il Mar Jonio ha acque povere di nutrienti. Un fenomeno che, da circa un decennio, sta vedendo un capovolgimento: «Le acque superficiali del mar Jonio si stanno arricchendo di nutrienti, perché si sta osservando il movimento di acque di risalita dei fondali dello Jonio».

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    Guardavalle, fondale sabbioso con relitto che diventa oasi/tana per i pesci (foto Wolfgang Poelzer, per gentile concessione della Megale Hellas Diving Center di Marina di Gioiosa Ionica)

    È la morfologia della zona a scatenare questi fenomeni di upwelling. Lo Jonio calabrese è caratterizzato da grandi canyon, come quello del Golfo di Squillace. «A queste profondità, si parla di canyon di oltre 1300 metri di profondità, c’è un meccanismo di risalita di acque fredde levantine provenienti dalla Grecia, cariche di nutrienti». Stavolta, a parlarci è Silvio Greco, direttore della sede calabrese della Stazione Zoologica Anton Dohrn, uno dei più importanti centri di biologia marina al mondo.

    Tutto questo rende l’acqua più ricca di fitoplancton e altri nutrienti che permettono alla vita marina di sostenersi e prosperare. Oltre a rendere le acque più pulite: «Nello Jonio si arriva subito sul fondo, e questi fenomeni permettono alle sue acque di avere un forte idrodinamismo. Sul Tirreno, dove la piattaforma è più lenta a scendere, è più complicato, l’impatto dei contaminanti è diverso».

    Pescare meno, pescare meglio

    Abbiamo una risorsa che ha una spinta naturale ad essere molto più abbondante. Perché allora le nasse dei pescatori sono vuote?
    «L’overfishing, accompagnato dall’inquinamento, ha portato a un crollo delle risorse di pesca negli ultimi 20 anni». Per Silvio Greco, i dubbi sono pochi: la risorsa è stata gestita malamente. «Fino a pochi anni fa, la logica del pescatore era quella di pescare il più possibile. Usciva la mattina per prendere tutto quello che trovava».

    La pesca eccessiva ed illegale ha un grosso peso, ma misurarne l’impatto non è semplice. Secondo l’ultimo report Mare Monstrum di Legambiente, solo nel 2020 sono stati sequestrati più di 40 mila chili di prodotti ittici pescati illegalmente.
    La Calabria sarebbe la quarta regione d’Italia per numero di infrazione, pari al 7,2% del totale italiano. Sono numeri in calo, ma che risentono degli effetti della pandemia. Inoltre, è molto complicato individuare le infrazioni.

    Il futuro dello Jonio? Siamo fritti

    In particolare, i calabresi stanno pagando a caro prezzo la loro passione per il bianchetto (o sardella o rosamarina che dir si voglia). È una passione particolarmente distruttiva. Qualche chilo di novellame di alici e sarde corrisponde a quintali di pesci adulti: sono cicli di vita che vengono interrotti prima che possano fiorire e riprodursi. Una perdita immensa, sotto forma di frittella. La loro pesca è illegale dal 2006, da quando è entrato in vigore il regolamento europeo 1967/2006.
    Lo stesso Nino è convinto: «Nel dicembre del ‘91 andavo al mercato di Crotone. Quello che mi colpiva è che tutte le sere ogni barca portava almeno 20 casse di scampetti, che saranno stati della dimensione di un mignolo. Quel ciclo è stato distrutto, te lo posso garantire. E chissà quante altre volte è successo».

    Frittelle di bianchetto

    Uno sfruttamento che ha colpito duramente proprio i pescatori. O almeno, le generazione più giovani di pescatori. Secondo Greco, è emblematico il crollo delle registrazioni nel registro barche e natanti negli ultimi 20 anni: «Per ogni attrezzo e imbarcazione, si registra una forte riduzione. E senza i pescatori, si perde anche un patrimonio materiale di conoscenza, saperi, che spariscono insieme a loro».

    Gli scarichi abusivi e l’emergenza depurazione

    Se è vero che non mancano le storie di inquinamento industriale in Calabria, come l’infinita epopea del Sin di Crotone, a caratterizzare il Mar Jonio è soprattutto l’inquinamento microbiologico, dovuto alle acque di scarico non controllate e non depurate. Piccole emergenze sparse, che ne fanno una gigantesca.
    Per Cellini, quella delle acque reflue è la questione che va attaccata con più decisione: «Il problema principale è questa selvaggia politica di non governo degli scarichi abusivi, reflui che vengono rilasciati in mare da impianti di depurazione non funzionanti. Ed è anche e soprattutto un’emergenza culturale».

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    Carabinieri in azione durante la recente operazione Deep

    La condizione dei depuratori sarebbe tragica in tutto il territorio. «Le posso dire che su dieci impianti costieri, saranno solo 2 o 3 quelli efficientati. Gli altri vanno assolutamente sotto stress». Questo perché molto spesso gli impianti sono stati concepiti per coprire un numero di abitanti inferiore rispetto al carico estivo.
    In quest’ambito, la Regione sembra aver preso il toro per le corna. Proprio la stazione zoologica Anton Dohrn, a novembre del 2021, ha stipulato un accordo per la tutela del mare calabrese con la giunta regionale di Roberto Occhiuto: il centro si occupa soprattutto del monitoraggio del sistema di depurazione. Nello stesso periodo, la Stazione ha firmato un protocollo d’intesa con la Procura di Vibo Valentia.

    L’invasione aliena

    Con l’aumentare delle temperature, si sta rimescolando la popolazione ittica. Pesci tropicali, che non dovrebbero arrivare nel mar Jonio, iniziano a farsi largo e a competere per il predominio sul territorio con quelli autoctoni.
    Secondo il WWF, in tutto il Mediterraneo sono entrate quasi 1.000 nuove specie invasive. In certe zone, le specie locali sarebbero crollate del 40%. Non solo: le specie aliene intaccano profondamente gli ecosistemi che invadono.
    In Turchia ed in Grecia, ad esempio, i pesci coniglio hanno ridotto del 65% le grandi piante marine, ed il 60% delle alghe. L’impatto si è sentito su tutta la fauna: la popolazione ittica è calata del 40%.

    Aplisia dagli anelli, specie atlantica, in un fondale sabbioso del basso Jonio (foto Wolfgang Poelzer, per gentile concessione della Megale Hellas Diving Center di Marina di Gioiosa Ionica)

    Le specie aliene hanno due ingressi naturali sul Mar Jonio: il canale di Suez, e lo stretto di Gibilterra. «Stiamo registrando da circa 40 anni, grossomodo da quando ho iniziato lavorare, un aumento delle cosiddette specie aliene invasive. Abbiamo registrato almeno duemila specie aliene tra crostacei, molluschi e alghe. Molte di queste sono diventate specie commerciali», racconta Silvio Greco.
    Un esempio è la vongola. «Quando mangiamo gli spaghetti alle vongole pensiamo di mangiare delle vongole mediterranee, in realtà molto spesso sono filippine», spiega di nuovo Cellini. La Ruditapes philippinarum, infatti, è diventata molto più popolosa della vongola verace italiana

    Antonino, in questi anni, ne ha visti di tutti i tipi: «Saranno almeno 15-20 anni che troviamo il pesce palla. Così come mi è capitato spesso di pescare dei barracuda. Quando ho lavorato su Bagnara, avrò visto un banco di 15-20 quintali, che pesavano almeno 15 chili».
    Oltre alle “frontiere” naturali che possono attraversare, i pesci possono sfruttare le cosìddette ballast waters, le acque di sentina delle navi. «Quando arrivano, per esempio, nel porto di Livorno, scaricano quell’acqua e caricano i container con i materiali. In quell’acqua, però, c’è di tutto. È successo che una di queste navi scaricasse un’alga, la Ostreopsis ovata, che era tossica e creava problemi di tossicità ai bagnanti che erano sulla spiaggia», ci racconta Greco.

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    Granchi blu pescati da Nino. Il Callinectes sapidus è originario dell’Atlantico: non dovrebbe trovarsi nello Jonio

    Jonio, quello sconosciuto

    Nonostante tutto, Cellini ci ricorda che «le condizioni ambientali dello Jonio, fatta salva come dicevo la contaminazione microbiologica dovuto ad acque reflue non trattate, è un mare che ha tutto il carattere delle eccellenze».
    Se, da un lato, il quadro sembra rassicurante, va ricordato che è un equilibrio delicato, precario, in cui il cambiamento climatico continuerà ad avere un ruolo decisivo, stravolgente.

    Inoltre, non abbiamo mai avuto il quadro completo. «Noi abbiamo in generale una abissale ignoranza sui mari italiani, che diventa ancora più profonda quando si va a parlare di Mar Jonio. Abbiamo mappato meno dello 0,1 % dei fondali marini del paese» lamenta Silvio Greco.
    Una mancanza di expertise e conoscenze che abbiamo pagato nel tempo. Non esiste nemmeno una facoltà di biologia marina in tutta la Regione. Per Cellini, «la Calabria, per troppi anni, ha voltato le spalle al mare, guardando più ai monti e alle colline».

     

    Il primato alla rovescia dell’Arpacal

    Per non parlare delle risorse. Cellini ha voluto sottolineare i passi in avanti degli ultimi anni, ma c’è ancora tanto da fare. L’Arpacal, ad esempio, è una delle poche Arpa d’Italia che non ha a disposizione un battello oceanografico: «Tutte le Arpa d’Italia hanno una barca dedicata allo studio degli impatti e della valorizzazione dell’ambiente marino, la Calabria no». Un problema condiviso con lo stesso Silvio Greco, che si sta impegnando per lasciare un batiscafo al centro di Amendolara.

    Potenziare il monitoraggio sarà fondamentale per gestire il futuro della pesca, e dei territori in generale. Per il direttore Cellini basterebbe che li mettessero in condizione di poter fare nel migliore dei modi quello che già fanno, «con del personale adeguato, un piano di tutela delle acque accompagnato da un controllo puntuale su tutti i corpi idrici superficiali e di tutti i depuratori».
    Senza il quadro completo, sarà impossibile «mettere il sale sulla coda ai violentatori dell’ambiente marino-costiero calabrese».

  • Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

    Onda su onda: cacciatori di energia in riva allo Stretto

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    Gli spagnoli partirono da Bilbao in minibus, erano in zona rossa ma non volevano rinunciare alla ricerca. Fu un viaggio mediterraneo pieno di soste nell’Italia deserta, con destinazione Reggio Calabria. Erano i giorni in cui i delfini riprendevano possesso dello Stretto, mai così vicini alla costa, con tanta voglia di giocare. Due giovani studiose arrivarono da Lisbona (una era polacca) e fecero l’abbonamento al bus. Ricercatori indiani rimasero in città per più di un anno. Furono coinvolti in lunghi pranzi con professori e dottorandi, si parlava di onde e venti, in quello straordinario laboratorio naturale che è il mare fra Reggio e Messina.

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    Il campionato vele d’altura sullo Stretto (foto Maria Pia Tucci)

    Questa storia mi è tornata in mente leggendo la notizia del campionato vele d’altura tornato dopo tanti anni sullo Stretto “in un teatro unico al mondo”. La scienza, lo sport ci dicono quello che non sappiamo, che abbiamo rimosso: sulle coste calabresi anche il vento è un valore, crea buona economia e indotto, come dimostra il celebrato modello del Club Velico di Crotone, le realtà di valore mondiale di Gizzeria e Punta Pellaro per il kitesurfing.

    L’eccellenza internazionale del Noel e l’indifferenza delle istituzioni

    A Reggio poi il vento si studia, da anni, grazie al laboratorio NOEL dell’Università Mediterranea, che ha stretto accordi di collaborazione con l’irraggiungibile Imperial College di Londra, con ricercatori della Columbia University. Viene in mente quello studio Svimez, che sottolinea il valore degli atenei calabresi, soprattutto in rapporto con la povertà del territorio, con la carenza dei collegamenti e dei trasporti. Ecco un settore dove la regione ultima fa bella figura, almeno nei casi in cui l’università dialoga con il territorio.

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    Quei ricercatori australiani, indiani, americani, norvegesi, danesi, inglesi, francesi, spagnoli, polacchi, portoghesi stimolarono la curiosità dei cittadini, meno delle istituzioni. E cos’era quella strana piattaforma a 60 metri da riva, dalle parti delle Terme romane in via Marina? Nessun consigliere comunale ci salì, al contrario lo fecero studiosi di tutto il mondo.

    Le tempeste oceaniche in senso Stretto

    Ora che stanno per smantellarla, forse è il caso di raccontare a cosa è servita, insieme al professor Felice Arena, direttore scientifico del laboratorio NOEL (Natural Ocean Engineering Laboratory). Con una premessa: l’eccezione meteo-climatica di quest’area sta su tutte le carte nautiche, ed è legata alla conformazione dello Stretto.

    Il vento di canale soffia perpendicolarmente da Messina a Reggio per dieci chilometri, duecento giorni l’anno. Produce modelli in scala delle tempeste oceaniche, le correnti marine arrivano a due metri al secondo e possono generare energia, oltre che quei vortici che furono il terrore dei navigatori più verso Villa, nel mare aperto dove si incontrano Jonio e Tirreno e approdano i minuscoli pesci abissali (se volete divertirvi, per le correnti dello Stretto c’è anche un’app).

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    Il professor Arena impegnato in un seminario alla Columbia University

    La città potrebbe avere energia per un anno

    Il professore Arena dice: «Abbiamo studiato a Reggio quello che è stato costruito altrove». Decine le ricerche, che danno luogo a progetti internazionali, seminari, convegni. I sistemi studiati a Reggio sono riprodotti a Civitavecchia (Porto di Roma) e Salerno. Dove stanno per essere installate le turbine per produrre energia elettrica dalle onde marine.

    Si è creata a Reggio una piccola scuola. Arena è stato un allievo del professor Paolo Boccotti, un genovese che, a differenza di molti altri docenti che sono passati per l’Università reggina, ha scelto di fare tutta la carriera a Reggio alla Mediterranea. Evidentemente Boccotti ha colto le potenzialità del “teatro unico al mondo”, una galleria del vento naturale, più grande di qualunque laboratorio. Secondo una ricerca Enea, lo Stretto potrebbe arrivare a produrre 125 gigawatt/ora l’anno, il fabbisogno di una città come Reggio o Messina.

    Reggio può diventare luogo di scienza e ricerca

    Ecco quindi la piattaforma, o meglio la diga. Realizzata in cemento armato, con la parte attiva in acciaio. Uno dei progetti, in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, prevede la conversione dell’energia delle onde in elettrica. Un altro, The Blue Growth Farm, studia la costruzione di una piattaforma multifunzionale in mare aperto, con vasche per l’itticoltura, con gestione automatizzata.

    Dove viene prodotta anche energia dal vento, con una turbina eolica da 10 MW (nata al Politecnico di Milano), e dalle onde, attraverso sistemi a colonna d’acqua oscillante con risonanza interna. «La scommessa vinta – sostiene Felice Arena, che ha esposto le sue ricerche negli Stati Uniti, in Cina, in India e in giro per l’Europa – è stata quella di portare ricercatori a Reggio e di internazionalizzare il NOEL. Inutile dire quanto sia importante per noi ascoltare prospettive diverse, farne esercizio linguistico. La città può diventare un luogo di scienza e di ricerca». Un bellissimo lavoro di squadra, passate parola.

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    A caccia di vento nel mare di Ulisse

    Ps: per chi avesse pronta l’obiezione “non hai parlato dell’inchiesta sull’Università Mediterranea”, la mia risposta è semplice: ICalabresi ne ha già scritto, e l’effetto non secondario di questi scandali è quello di oscurare le belle storie e le belle ricerche come questa, il buon piazzamento della Mediterranea nel recente report dell’Agenzia Nazionale di valutazione.

  • Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    Depurazione: nel Reggino scatta la caccia agli abusi

    «La situazione ambientale è fortemente degradata. Ora tocca aspettare gli esami di laboratorio sui campioni di acqua e terreno prelevati, ma visto quanto abbiamo riscontrato non è difficile immaginare cosa ci diranno». Non usa mezze parole il comandante della legione Calabria dei carabinieri Pietro Salsano nella conferenza stampa che segue il maxi blitz “Deep 1” – più di 300 i carabinieri coinvolti – su tutto il territorio della provincia di Reggio.

    Depuratori fantasma, scarichi abusivi e condotte nascoste. E poi discariche di eternit e cimiteri di auto sotto gli ulivi. Persino un autolavaggio che andava avanti – miracoli della burocrazia calabrese – con il via libera di una licenza di trasformazione alimentare: la realtà venuta fuori dal “rastrellamento” certosino eseguito dai militari del comando provinciale e da quelli della forestale non lascia spazio a illusioni.

    L’appello ai cittadini

    «I primi esami – dice ancora Salsano – suggeriscono anche la presenza di metalli pesanti. La situazione è preoccupante e generalizzata in quasi tutto il territorio, anche quello dei piccoli centri. Questo dimostra che c’è stata poca attenzione sul rispetto delle regole ambientali. L’operazione di oggi dimostra ancora una volta l’attenzione dei carabinieri sul fronte della tutela dell’ambiente, ma spesso è difficile riscontrare gli abusi in un territorio così vasto e, in alcuni casi, così impervio quindi il mio appello va ai cittadini: denunciate, fateci sapere, venitecelo a dire quando riscontrate un abuso».

    Il blitz

    Più di 50 indagati (tra amministratori pubblici, funzionari di società che gestivano gli impianti e imprenditori privati), tre depuratori sotto sequestro (gli impianti di Bivongi, Ardore e Stignano), un impianto di sollevamento bloccato (a Campo Calabro, prima periferia di Reggio) e sigilli anche a un canale di collegamento delle acque reflue che serve il comune di Sant’Agata del Bianco. In totale sono 14 gli impianti di depurazione irregolari scovati dagli investigatori sui 48 passati al setaccio in tutta la provincia.depurazione

    Il fantasma dell’opera

    Problemi amministrativi e gestionali, ma anche veri e propri disastri ambientali ancora da codificare: in un caso i carabinieri si sono trovati davanti ad un vero e proprio depuratore fantasma, che pur essendo dismesso da anni, continuava a ricevere parte delle acque reflue dell’impianto fognario. «In un caso addirittura – ha ammesso in conferenza stampa il colonnello Migliozzii nostri uomini non sono ancora riusciti a trovare il bocchettone di scolo di uno degli impianti».

    I fanghi? Troppo pochi rispetto alla popolazione

    E poi la questione dei fanghi di scarto dalla (presunta) depurazione delle acque reflue. Fanghi frutto del procedimento di “ripulitura” degli scarichi e che dovrebbero seguire le stesse regole della matematica in tutta Italia, ma che in Calabria invece seguono strade differenti. A fronte dei poco meno di due milioni di cittadini che abitano la regione infatti, la produzione di fanghi si ferma a 34mila tonnellate. Praticamente un terzo rispetto a quanto prodotto – e quindi certificato – dalla Sardegna (che di abitanti ne ha poco più di 1,5 milioni) e un decimo rispetto alla Puglia, che di abitanti però ne conta quasi 4 milioni.

    I cacciatori nelle fiumare

    Il blitz si è trascinato per tutta la giornata di giovedì: un’operazione imponente dalla costa verso l’entroterra e che ha visto anche l’intervento del gruppo cacciatori – quello in genere deputato alla ricerca dei latitanti e della piantagioni di marijuana sui versanti nascosti d’Aspromonte – a cui è toccato risalire tutte (o quasi) le fiumare della provincia alla ricerca di scarichi nascosti e discariche abusive.

    Depurazione, scarichi abusivi e rifiuti

    L’operazione è andata avanti su tre livelli distinti: quello della depurazione, quello degli scarichi abusivi nelle fiumare e quello dello smaltimento dei rifiuti delle attività produttive. E la realtà che è venuta fuori fa venire i brividi. In un caso i militari hanno riscontrato una condotta abusiva sotterranea lunga 300 metri, che collegava illecitamente un opificio direttamente con la fiumara dove finivano gli scarichi. E ancora montagne di eternit e decine e decine di impianti privati (oleifici, autolavaggi, cementifici) irregolari, alcuni dei quali trovati in totale assenza dei requisiti previsti dalla legge.

  • Bruno Gualtieri e la multiutility: il commissario regionale che ce l’aveva con la Regione

    Bruno Gualtieri e la multiutility: il commissario regionale che ce l’aveva con la Regione

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    Dopo aver consolidato i pieni poteri in sanità e deminolizzato la Film Commission, Roberto Occhiuto ha portato a casa anche il risultato dell’agognata multiutility. La nuova Autorità regionale acqua-rifiuti è stata affidata, per ora, a un commissario straordinario. Scelto non certo con gli stessi criteri adottati per la nomina del supertecnico Mauro Dolce in Giunta e dei superconsulenti in quota Bertolaso Agostino Miozzo ed Ettore Figliolia.

    Il commissario Gualtieri

    Occhiuto aveva annunciato un tecnico calabrese e, in barba ai nuovismi a cui lui stesso ci aveva abituato, stavolta ha optato per un usato sicuro. Si tratta di Bruno Gualtieri, volto ben noto in Regione che, a quanto si apprende, si dovrà occupare prevalentemente di rifiuti, almeno per qualche mese, con l’obiettivo dichiarato di evitare di ritrovarsi di nuovo con la spazzatura per strada in estate. E con quello, meno ostentato, di mettere uno sull’altro più mattoncini possibile per il raddoppio del termovalorizzatore e la realizzazione del rigassificatore, entrambi a Gioia Tauro.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Pare che a breve arrivi la nomina anche di un direttore generale che, nelle intenzioni di Occhiuto, si orienterà più verso il servizio idrico e l’affidamento al soggetto gestore – sarebbe in dirittura d’arrivo la trattativa per acquisire le azioni di Sorical – da chiudere entro il 30 giugno per non perdere fondi Ue. Le due figure – commissario e dg – probabilmente dunque coesisteranno per qualche tempo. E il commissario si sostituirà agli altri organi (Consiglio direttivo dei sindaci e revisori dei conti) quando sarà necessario. Fino alla loro costituzione, però, resterà in carica Gualtieri.

    L’Ato di Catanzaro e gli altri incarichi

    Ma chi è il superburocrate a cui il Duca Conte ha dato le chiavi della Megaditta acqua-rifiuti? Partiamo dall’incarico più recente, quello di dirigente del settore Igiene ambientale del Comune capoluogo e di direttore dell’Ato di Catanzaro. Si tratta dell’Ambito territoriale che in Calabria ha fatto più passi avanti verso una gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, ma nei corridoi della Cittadella qualche maligno mormora che il compito di Gualtieri non sia stato poi così difficile, visto che nel Catanzarese si è ritrovato con gli impianti di Alli e Lamezia funzionanti e con ancora spazio a disposizione nella discarica lametina.

    Ma Gualtieri è stato lontano dalla Regione solo per qualche anno. Ha infatti cominciato a bazzicare quegli uffici già nel 1995. Ingegnere, dopo la gavetta degli anni ’80 nell’Ufficio tecnico del suo paese, San Lorenzo, e nelle Commissioni edilizie di altri Comuni della provincia di Reggio, e dopo aver fatto il docente nelle scuole superiori, è stato membro della Commissione urbanistica regionale e poi dell’Autorità regionale ambientale. Quindi consulente dell’Assessorato regionale all’Ambiente dal ‘96 al ‘99 (giunte Nisticò-Caligiuri di centrodestra e Meduri di centrosinistra) e poi dirigente di diversi settori regionali dal 2001 al 2004, nonché del dipartimento Lavori Pubblici fino al 2005.

    La discarica di Alli

    Gualtieri e quell’altro commissario

    Nel suo curriculum ci sono pure degli incarichi che hanno senza dubbio aumentato la sua esperienza. Ma i cui risultati, con gli occhi di oggi, sono piuttosto discutibili. Dal 1998 al 2005 Gualtieri è stato infatti dirigente presso l’Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza ambientale. Un commissariamento per cui, stando alle risultanze della Commissione parlamentare di inchiesta che se n’è occupata, in 13 anni le spese sono «lievitate a ben oltre il miliardo di euro, a fronte degli insufficienti risultati ottenuti».

    Nei primi anni 2000 risulta aver coordinato molte direzioni dei lavori, effettuato collaudi e partecipato a riunioni al Ministero dell’Ambiente per conto del Commissario. Nel 2002 ha partecipato alla redazione del Piano regionale per l’individuazione definitiva delle discariche di servizio agli impianti e per la progressiva riduzione del numero di discariche di prima categoria esistenti nel territorio della regione. Tra il 2010 e il 2011 ha coordinato il Settore Tecnico dell’Ufficio del Commissario. Quanti obiettivi abbia raggiunto in queste vesti non spetta ai non addetti ai lavori stabilirlo. Però è un fatto che ancora oggi in Calabria ci si ritrovi con la metà dei rifiuti che continua ad andare in discarica. E con montagne di soldi pubblici sborsati per portarli fuori regione e addirittura fino in Svezia.

    Ni all’accentramento

    Quel che è certo è che il neo commissario dell’Authority cambierà ora linea rispetto agli ultimi anni passati all’Ato di Catanzaro. Da quella postazione ha infatti condotto una discreta “guerra” contro la Regione accentratrice, accusandola addirittura di aver adottato atti illegittimi nel «maldestro tentativo di invadere un ambito proprio degli Ato» provinciali. Lo si legge in una sua comunicazione del febbraio del 2020 relativa ad alcune disposizioni della Regione sui flussi di Css destinati al termovalorizzatore di Gioia Tauro.

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    La sede della Giunta regionale a Germaneto

    Lo stesso Ato di Catanzaro, inoltre, a dicembre del 2021 ha ottenuto dal Tar l’annullamento di un’ordinanza del presidente della Regione (risalente alla reggenza Spirlì) che voleva far portare a Lamezia gli scarti dei rifiuti prodotti da altri territori. Ora che la governance del settore è stata accentrata in un unico Ato regionale, seguendo un percorso inverso rispetto a quello rivendicato anche da Gualtieri negli ultimi anni, certi contenziosi non avranno più ragion d’essere.

    E il Gualtieri che dal centro di Catanzaro tuonava verso la Cittadella di Germaneto ora dovrà tenere a bada da commissario le rivendicazioni di tutti i territori. Soprattutto quelle che già arrivano dalla Piana: il consiglio della Città metropolitana di Reggio ha approvato due mozioni contro il raddoppio e il rigassificatore a Gioia – si paventa un ricorso alla Consulta contro la norma che ha istituito l’Authority – votate anche dal leader del centrodestra reggino Antonino Minicuci.

  • STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

    STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

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    Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…

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    Confini…

    L’exclave stritolata da tre paesi 

    C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedere un’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…

    La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.

    Terra di exclavi

    Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.

    Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.

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    La chiesa madre di Oriolo

    Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschiin parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.

    Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.

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    Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi

    Il dito di San Francesco di Paola

    Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).

    Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.

    Tombe e reperti

    E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).

    Peste e rivoluzione ad Oriolo

    E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.

    I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.

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    Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo

    Caduta libera

    Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.

    Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)

    E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.

    Oriolo e i cimiteri

    Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano (nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.

    Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.

    Una piccola Sila jonica

    Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.

    E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri
    Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?

     

  • Locride Horror Picture Show:  il cemento armato sfida la bellezza

    Locride Horror Picture Show: il cemento armato sfida la bellezza

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    Volete visitare la Locride ma non ne potete più della macchia mediterranea? Siete stufi delle litanie sul consumo del territorio e sul rispetto dell’ambiente? Stanchi della cattedrale medievale incastonata in un paese gioiello o della banalissima passeggiata tra le pietre degli antichi greci? Della Calabria da cartolina di scena in questi giorni alla Bit di Milano?

    Dimenticatevi il solito weekend fatto di escursioni al borgo e passeggiate bucoliche. Questo itinerario mette al centro uno degli elementi di spicco più autentici del territorio: il cemento armato. Materiale poliedrico attraverso cui si è voluto omaggiare alcuni tra i massimi artisti della scena planetaria con opere capaci di spingersi oltre il consueto. Opere cadute nel dimenticatoio e che noi intendiamo riportare ai fasti di un tempo.

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    L’architettura avanguardistica del depuratore di Caulonia

    Caulonia e l’Anarchitecture

    Il nostro mini tour alla riscoperta del patrimonio perduto inizia a Caulonia, con una visita al capolavoro di building-cuts ripreso da un progetto originale di Gordon Matta-Clark.
    L’esponente di punta del movimento Anarchitecture fu chiamato a intervenire nell’ambito del programma “progettiamo con arte” varato dall’allora giunta comunale. Fu lui a volere riproporre il suo splitting – il famoso taglio che raddoppia gli spazi rendendoli speculari – sull’indispensabile depuratore.

    Degli amministratori dell’epoca invece l’oculata scelta relativa al quadratino di spiaggia – proprio accanto alla foce della fiumara più distruttiva del reggino – dove edificare qualche migliaia di metri cubi di cemento, in questo pregevole esempio di arte prestata all’ingegneria civile.

    Un’opera da tutelare

    L’artista, morto purtroppo prima dell’inaugurazione, ha voluto contaminare la sua opera con un omaggio alla cultura bizantina presente sul territorio. Da qui la presenza, sulle pareti esterne che guardano al mare, di una volta stellata col il caratteristico blu di lapislazzuli.

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    Il blu delle stelle sul muro del depuratore si fonde con quello del cielo diurno in un poetico omaggio a Magritte

    Della Giunta di allora, e di quelle che seguirono, l’intento di non fare mai entrare in esercizio l’opera di ingegneria per evitare che vibrazioni e umidità potessero danneggiarla. Obiettivo raggiunto. Il tour cauloniese prevede anche una visita guidata alla piazzetta dei finti bronzi, con riproduzioni nane degli antichi guerrieri (in cemento) su piedistalli oblunghi (sempre in cemento). E prosegue con la “colonna solitaria”, omaggio contemporaneo al vero deus ex machina del territorio: il palazzinaro.

    “Colonna solitaria”, opera simbolo della scuola filocementista locridea

    Locride, un esempio che ha fatto scuola

    Attribuito invece al movimento del neobrutalismo lo splendido edificio che possiamo ammirare sulla spiaggia tra Riace e Stignano. Originariamente dedicato alla residenzialità turistica, questo raro esempio di architettura – che alcuni riconducono alla scuola di As Found – è lungo quanto un campo di calcio e alto cinque piani. Rappresenta ancora, a distanza di quasi 40 anni dalla posa della prima pietra, una meraviglia unica, seppure malamente replicata a macchia di leopardo su tutta la costa. L’ardito utilizzo del cemento armato a vista – il beton brut così come esce dalle casseforme – realizza fino in fondo l’idea del brutto che diventa bello solo perché reale.

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    Il concetto di interazione tra spazi urbanizzati e natura assume qui nuovi significati

    In questo caso, il concetto di “sottrazione” caro al movimento, sposandosi con le accuse di abusivismo e speculazione edilizia mosse ingiustamente ai mecenati dell’epoca, consentì di lasciare intatto lo scheletro nudo dell’opera, proprio come lo avevano pensato gli architetti inglesi. Seppure risultino remotissime le possibilità di abbattimento e di ripristino dei luoghi, dobbiamo segnalare che la vegetazione sempre più disordinata e la prepotenza del mare potrebbero minarne la solidità strutturale.

    Palafitte a Gioiosa

    Con un breve trasferimento lungo la pittoresca Statale 106, il nostro itinerario nella Locride prosegue e si conclude nella vicina Siderno. Non prima però di avere reso omaggio all’inconfondibile stile palafittesco – in omaggio ai primi esempi di autogrill – della sala da pranzo “sospesa” che accoglie con i suoi pali turchese le frotte di turisti in arrivo sul lungomare di Gioiosa Marina. Qui la burocrazia si è messa di mezzo. Da tempo l’accesso all’opera è precluso ai turisti, che possono però transitare sotto l’arco che guarda lo Jonio e godere dell’ombra.

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    Il richiamo evidente agli autogrill come architettura di denuncia civile contro l’inadeguatezza della SS 106

    Parkour a Siderno

    Giunti a Siderno, il nostro tour nella Locride prevede una visita al vecchio molo: 180 metri di acciaio e cemento inutilmente protesi sul mare. Anticamente era utilizzato come molo commerciale, alcuni vecchi pescatori del posto favoleggiano di quando le navi vi attraccavano. Da anni ormai è stato riconvertito in percorso di parkour. Interruzioni, cedimenti e vertiginose arrampicate sull’acqua sempre nuove e sorprendenti, grazie all’azione continua del binomio mare/vento. Una perniciosa ordinanza della capitaneria ne vieta, attualmente, l’accesso al pubblico.

    Il sacro fuoco dell’arte

    Risalendo la costa, il nostro tour comprende una sosta al famoso “stabilimento balneare flambé”. Si trova nel centro geografico del lungomare delle Palme, a 50 metri dalla piazza e dal corso principale della cittadina. Lo stabilimento, ovviamente in cemento armato, sfida orgoglioso lo scorrere del tempo. E, incurante delle varie ordinanze che lo bollano come abusivo, continua ad attirare turisti e appassionati che vi si intrufolano tra porzioni di tetto bruciacchiate e preziosi esempi di streetart di «coraggiosa denuncia».

    La Locride e il brutalismo

    Ormai stanchi, ma non paghi di tanta bellezza, i turisti verranno accompagnati per il pernottamento al “Grand Hotel Burraccia”. Attribuito all’architetto milanese esponente del brutalismo italiano, Vittorio Viganò, e dedicato alla memoria dell’omonimo mendicante amico di tutti – unico ad abitarci fino ad ora, esclusi gli ambulanti che vi soggiornano di straforo durante la settembrina festa di Portosalvo – l’hotel chiude il cerchio sul nostro tour della Locride. Cibo e bevande non compresi nel prezzo.

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  • Vent’anni di solitudine: l’ex Sin e la bonifica che non si fa mai

    Vent’anni di solitudine: l’ex Sin e la bonifica che non si fa mai

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    Cinquantaquattro conferenze dei servizi dopo, non è successo niente. Seguire le notizie sul Sin di Crotone può far venire un senso di nausea e ridondanza. Una serie infinita e sfiancante di proclami, promesse non mantenute, tavoli di discussioni mai conclusi, attese. E una tragica mancanza di progettualità, di visione del futuro per una zona immobile da troppo tempo.

    Il prossimo 26 novembre la città festeggerà un triste anniversario. Saranno 20 anni da quando l’ex zona industriale tra Crotone, Cerchiara e Cassano dello Ionio è finita nell’elenco dei Siti d’Interesse Nazionale. Sotto questo titolo si raggruppano le aree più inquinate del nostro Paese, contaminate ad un livello tale da essere un rischio per la salute umana.
    Pezzi d’Italia compromessi da sostanze nocive, che hanno bisogno di interventi di bonifica profondi prima di tornare alla comunità, quando è possibile farlo.

    Lo sviluppo che contamina

    A Crotone il sito più inquinato è stato il motore dello sviluppo economico per molti anni, dagli anni ’20 fino agli inizi degli anni ‘90.
    Un’illusione di crescita, in un luogo dove ora è tutto completamente fermo, improduttivo e contaminato. Una mancanza dal quale non è riuscita più a riprendersi.

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    Paolo Asteriti (WWF)

    «La città ha perso tutta la sua economia, basata sulle industrie, e ancora non si capisce cosa succederà su quel terreno di fronte al mare», ci spiega, con tono rassegnato, Paolo Asteriti, segretario provinciale del WWF, una delle tante associazioni ambientaliste presenti a Crotone che sta lottando per tenere alta l’attenzione sul tema delle bonifiche.

    Metalli pesanti

    Con il Sin di Crotone ci riferiamo, soprattutto, a 530 ettari di terreno che costeggiano lo Ionio poco al di fuori della città. Una grossa ex area industriale, legata al reparto chimico e al trattamento dei rifiuti, con una buona presenza di industrie alimentari. Gli impianti principali appartenevano all’ex Pertusola. In quegli stabilimenti si fabbricava soprattutto lo zinco: è stata la più grande fabbrica della Regione, fin quando è stata operativa. Inoltre, la zona comprende gli stabilimenti della ex Fosfotec, la ex Agricoltura, e la ex Sasol Italia/ex Kroton Gres.

    «Crotone è stata un’area particolarmente importante per tutta Europa per la produzione dello zinco dalle blende, nella zona dell’ex Pertusola. Però, è emersa la presenza di contaminazione legata alle industrie della produzione dell’acido fosforico, di ammoniaca e così via. Una sorta di contaminazione mista, legata soprattutto al tema dei metalli pesanti» ci spiega Mario Sprovieri, dirigente di ricerca del CNR e responsabile scientifico del progetto Cisas, il Centro Internazionale di Studi Avanzati su Ambiente, Ecosistema e Salute umana.

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    Mario Sprovieri

    Tra le tante cose, il centro ha portato avanti il progetto SENTIERI, lo studio epidemiologico più completo sui siti d’interesse nazionale, volto a monitorare gli impatti delle sostanze inquinanti sulle popolazioni circostanti. Stando alle rilevazioni, gli inquinanti presenti nel terreno e nel mare di Crotone sono soprattutto cadmio, zinco, piombo e arsenico: la zona del porto, inoltre, ha registrato alti livelli di mercurio, cromo e rame, così come di DDT2.

    Le bonifiche e la mappatura del Sin di Crotone

    Oltre alle aree industriali, il Sin di Crotone comprende una discarica e la fascia costiera, altri 1469 ettari di territorio da bonificare che si trovano a mare, tra la foce del fiume Passovecchio, a nord, e l’Esaro a sud. Una stima ottimistica, secondo gli esperti del Cnr. Infatti, ci spiega ancora Sprovieri, il Sin di Crotone ha una particolarità: a causa della conformazione costiera, forti eventi alluvionali possono «trasportare contaminanti presenti nell’area portuale, più contaminata rispetto alle altre, nelle aree più offshore».

    Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due. © copyright Agostino Amato

    Il Sin, comunque, non si ferma a Crotone: l’area si estende anche ai comuni di Cassano allo Ionio e Cerchiara, dove si trovano tre discariche. Il quadro, però, non è completo. Secondo il report di Legambiente Liberi dai veleni del 2021, la mappatura del Sin è ancora al 50%. Di questa porzione, le bonifiche riguardano solo il 13% dei terreni, e l’11% dell’area marina. Praticamente niente.

    Una città ferita

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    Queste palazzine di edilizia popolare (Aterp) nella periferia di Crotone fanno parte dei siti “altamente contaminati”. © copyright Agostino Amato

    La contaminazione non si ferma alla sola area del Sin. Nel settembre nel 2008, con l’operazione “Black Mountains”, è venuto fuori che dagli anni ’90 gli scarti industriali dell’ex Pertusola, sono stati mescolati con materiali edili, utilizzati per le costruzioni in varie parti della città. «Il cubilot veniva regalato alle ditte, che lo prendevano, probabilmente ignare della tossicità», continua Asteriti.

    Questa miscela forma il Conglomerato Idraulico Catalizzato. Lo hanno utilizzato per costruire gli alloggi popolari “Aterp” nei quartiere Lamparo e Margherita, la scuola San Francesco ma anche per costruire vie, strade e persino il parcheggio della Questura.

    La questura di Crotone fa parte dei siti contaminati, come ricorda il cartello “Attenzione accertata la presenza nel sottosuolo di materiali che, se privi di copertura, potrebbero rivelarsi nocivi per la salute…” © copyright Agostino Amato

    Assoluzioni e prescrizioni

    Nonostante la scoperta, l’inchiesta s’è conclusa nel 2012 senza produrre alcun colpevole tra i dirigenti delle aziende coinvolte. Sia il gup di Crotone che, successivamente, la Corte di Cassazione hanno prosciolto tutti i 45 indagati, per i reati di disastro ambientale e avvelenamento delle acque. I reati legati alle discariche abusive, invece, sono caduti tutti in prescrizione.

    La questione del Sin, insomma, ha toccato tutta la città, che nel corso degli anni si è mobilitata più volte per protestare contro le condizioni ambientali e l’alta incidenza di tumori. La questione è così sentita da diventare politicamente decisiva: alle amministrative del 2020 ha trionfato l’ingegnere ambientale Vincenzo Voce, uno dei protagonisti dei movimenti ambientalisti e con una lunga storia di lotte per la bonifica del Sin. Col sostegno di una serie di liste civiche, tra cui Tesoro Calabria di Carlo Tansi, ha vinto con il 63,95% dei voti.

    Vent’anni e non sentirli

    La fetta più grossa delle bonifiche spetta a Eni Rewind, la società controllata del colosso dell’energia che si occupa di risanamento ambientale.
    Il processo di bonifica di quella fetta del Sin è partito solo nel 2010 e si è inceppato molto spesso, tra rimodulazioni e piani molto contestati.

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    Il silos della Pertusola Sud coperto da un murales commissionato dall’Eni, che dirige la bonifica della zona industriale. © copyright Agostino Amato

    In particolare, negli ultimi due anni lo scontro si è concentrato sulla rimodulazione del Progetto operativo di bonifica (POB) Fase 2, autorizzato nel marzo del 2020. Secondo gli attivisti ambientali – tra cui lo stesso Voce, prima di diventare sindaco – il piano da 305 milioni di euro mira alla messa in sicurezza permanente e non ad una vera e propria bonifica, che permetterebbe di riqualificare le aree.

    Le ultime notizie su questo fronte parlano di tavoli, intese e collaborazioni tra le autorità pubbliche e la società. Troppo poco, dopo tutto questo tempo.
    Di recente, sembra si stia muovendo qualcosa su uno dei temi più sentiti dalla città: il recupero dell’area archeologica dell’antica Kroton, che ricopre il 15% del Sin.

    In questo caso, la bonifica è di competenza del Ministero della Cultura: il sindaco Voce ha annunciato lo scorso 7 aprile di voler riaprire in tempi brevi il castello di Carlo V. Anche qui, però, le tempistiche sono incerte.
    Nella confusione di norme, competenze e territori sparsi, un dettaglio non va trascurato: dal 2018 manca un commissario straordinario alle bonifiche. Il Governo aveva nominato nel 2019 il generale Giuseppe Vadalà, ma non si è ancora insediato, tant’è che Voce ha scritto a Draghi per avere delucidazioni in merito.

    Le buone notizie

    Se c’è una buona notizia, in tutto questo, è che i dati non mostrano al momento un livello di inquinamento tale da essere un rischio per la popolazione. Secondo le analisi del progetto SENTIERI, «si può dire che il Sin di Crotone ha un impatto sulla popolazione ridotto, rispetto ad altre situazioni in cui i fenomeni di impatto sono più significativi».

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    Lungomare. Secondo uno studio effettuato nel 2004 da Legambiente e WWF nel mare di Crotone, durante il primo e il secondo semestre del 2002, sono stati rilevati, rispettivamente, 33.360 e 29.704 microgrammi per chilo di arsenico, mentre nel secondo semestre 2003 il dato era di 39.557. Il valore limite è 12.000. © copyright Agostino Amato

    Nello studio, i professori del Cisas hanno analizzato quattro matrici: l’aria, il suolo, i sedimenti marini ed il pesce. Una serie di fattori hanno permesso di abbassare il livello di inquinamento. Secondo Sprovieri, il più importante è stato, paradossalmente, un’alluvione: quella del 14 ottobre 1996.
    La grossa bomba d’acqua che si è generata ha causato una specie di «effetto di lavamento della falda e dei suoli. Ciò ha abbassato in maniera significativa la contaminazione proprio su queste due matrici. Alcuni inquinanti sono ancora presenti, ma con livelli di gran lunga inferiori rispetto a quelli che erano stati rilevati nel periodo precedente».

    I rischi legati al cibo

    Anche i dati sulla qualità dell’aria hanno registrato parametri nella norma. La questione che preoccupava di più gli studiosi del Cisas è quella legata al cibo: «I sedimenti all’interno dell’area portuale, ed in parte nell’area esterna, mostrano valori di concentrazioni soprattutto dello zinco, ma anche degli altri metalli pesanti, che sono importanti».

    Il rischio è che i pesci bentonici, cioè quelli che vivono a contatto con il fondo del mare, possano brucare i sedimenti depositati sul fondo del mare: in questo modo, gli inquinanti verrebbero assimilati dagli animali, per poi finire sui piatti dei consumatori. Anche in questo caso, però, i dati raccolti dagli studiosi del Cnr non hanno evidenziato nessuna contaminazione significativa: «Siamo stati contenti di poter verificare che sostanzialmente questi contaminanti oggi nei pesci non sono presenti nella maggior parte dei casi».

    I tumori e l’ex Sin di Crotone

    Non bisogna però illudersi. Le indagini epidemiologiche e d’impatto ambientale hanno bisogno di un salto di qualità, per avere il quadro completo della situazione.
    Tanti dubbi rimangono sull’incidenza dei tumori. Il gruppo di ricerca aveva scelto il Sin di Crotone proprio sull’eccesso di mortalità: i dati di SENTIERI registrano un numero superiore alla media di decessi per tutte le tipologie di tumore.
    Questo è il dato statistico. Il problema, in questi casi, è stabilire il nesso causale tra l’inquinamento e l’insorgere di una malattia.

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    In questa zona sorgevano le cosiddette Black Mountains dove venivano stoccati i rifiuti della Montedison. © copyright Agostino Amato

    Una questione già difficile di per sé, lo è ancora di più se non si riceve collaborazione nella ricerca. Il team del Cisas non ha potuto fare un’indagine epidemiologica specifica sulla popolazione di Crotone, lamenta Sprovieri. L’unica cosa che hanno potuto fare, a causa dei ritardi burocratici, è stata una collaborazione con un reparto pediatrico: un’indagine sulle coppie madre-figlio che deve ancora essere portata a termine.

    Il problema delle alluvioni

    Non dimentichiamo, inoltre, il tema delle alluvioni e dello spargimento dei sedimenti inquinati su altre zone marine. Un fenomeno che potrebbe estendere ancora di più l’area contaminata e danneggiare gli ecosistemi più delicati che non sono stati ancora toccati dalle scorie industriali.
    «Qual è il senso di procrastinare questa cosa, se non proteggere l’ENI? Non si è mai voluto parlare col le realtà del territorio», si chiede Asteriti, amaro. «Non ci arrendiamo, perché chi resta qua ama il suo territorio, e continua a lottare. È difficile trovare la luce dopo anni di buio. Magari c’è, ma noi non la vediamo».

  • Alfonsino Grillo, da portaborse pignorato a commissario da 6.000 euro al mese

    Alfonsino Grillo, da portaborse pignorato a commissario da 6.000 euro al mese

    Roberto Occhiuto ha un (Alfonsino) Grillo per la testa. Ormai pare abbastanza chiaro: il presidente della Regione brilla per stravaganza quando si tratta di nomine pubbliche di sua competenza. Quella di Antonio Grande (detto Anton Giulio per la haute couture) a commissario della Film Commission ha fatto storcere il naso a tanti; quella del suo capo di Gabinetto Luciano Vigna, che si cumula a quella di direttore della stessa Film Commission, ha resuscitato persino l’opposizione targata Pd. Sarà il clima pasquale.

    A queste tocca aggiungere la recente nomina del commissario del Parco delle Serre, Alfonsino Grillo. A dettarla, probabilmente, la fede politico-partitica (in particolare, il sostegno elettorale alle ultime regionali al ticket forzista Michele Comito-Valeria Fedele) e non particolari competenze tecniche. Grillo, difatti, ha svolto la professione di geometra (oggi non risulta iscritto all’albo) ed è laureato in Scienze politiche. Certo, nel 2002 la Giunta Chiaravalloti lo nominò nel cda del Parco delle Serre e da consigliere regionale fu componente della commissione Ambiente. Un background forse un po’ scarno a fronte delle tante eccellenze calabresi, anche giovani, costrette ad emigrare.

    Il Grillo cangiante: da Esposito a Mangialavori

    Ma il golden buzz (per dirla alla Italian’s Got Talent) per Alfonsino Grillo è scattato di recente, grazie all’abbraccio con Giuseppe Mangialavori e Forza Italia, dopo anni passati al seguito del catanzarese Baldo Esposito.
    Dopo l’esperienza da sindaco di Gerocarne nel 2007, Grillo è stato eletto consigliere regionale nella lista “Scopelliti Presidente” nel 2010 con 3.400 voti. Esperienza che non riuscì a replicare nelle due successive tornate, limitandosi a “reggere” le liste che porteranno nel 2014 e nel 2020 all’elezione del catanzarese Baldo Esposito, che ottenne il seggio anche grazie al suo apporto.

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    Mangialavori e Occhiuto durante l’ultima campagna elettorale

    Nel 2014 sotto la bandiera del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (compagine che vide Grillo assumere ruoli partitici di rilievo, in primis il coordinamento provinciale di Vibo Valentia) raccolse 3.610 voti (a fronte dei 6.400 di Baldo Esposito). Nel 2020 con la lista “Casa delle libertà” ne ottenne 2.654, mentre furono oltre diecimila quelli per l’ormai ex presidente della commissione Sanità. In quell’anno Grillo si “candidò” anche per ricoprire incarichi di sottogoverno regionale, senza successo.

    La condanna della Corte dei Conti

    Nel marzo del 2020, però, arrivò per Grillo la condanna della Corte dei Conti per il filone erariale di Rimborsopoli.
    Ben 62.570,98 euro di danno erariale per spese non ammissibili per gli anni da consigliere regionale 2011 e 2012. Per quelle del 2010 è arrivata, invece, la prescrizione.

    «Sotto il profilo formale, quasi tutta la documentazione non è riferita al Gruppo, ma all’on. Grillo, nella qualità di consigliere regionale», si legge nel testo della decisione. «Sul piano sostanziale è lapalissiano come l’erogazione di contributi alle varie associazioni presenti sul territorio non sia affatto riconducibile alle finalità istituzionali del Gruppo consiliare, ma agli scopi di promozione politica del consigliere Grillo», precisarono i magistrati contabili.

    Tra le spese, pagate con soldi pubblici per fini giudicati privati, figurano elargizioni per i festeggiamenti in onore di San Michele Arcangelo a favore del Priore della relativa confraternita di Arena, altre a favore dell’Associazione “Lira Battente” per una manifestazione, contributi a favore della Pro Loco di Zambrone e per la festa patronale di San Basilio a Cessaniti.

    Alla fine la condanna è stata pari all’80% del danno (il restante 20% rimane in capo al presidente del Gruppo consiliare per omesso controllo), ossia 50.056,78 euro. Permane, inoltre, ad oggi, il rinvio a giudizio per peculato disposto dal Gip di Reggio Calabria nel 2017 per quanto concerne gli aspetti penali.

    Portaborse e vitalizio: i “cuscinetti” alla condanna

    Con determina del 4 agosto 2020 a firma di Antonio Cortellaro e Romina Cavaggion – tra l’altro ex componente della struttura di Grillo quando era consigliere regionale – è arrivata la nomina da parte di Baldo Esposito proprio di Alfonsino Grillo quale “responsabile amministrativo al 50% del Presidente della III Commissione”. Un portaborse, insomma, nonostante il diretto interessato non ami sentirsi definire tale.

    Grazie a quella nomina ha ricevuto 7.984,64 euro lordi nel 2020 e circa 17mila nel 2021. L’erario, però, ha pignorato un quinto della somma per far fronte alla condanna della Corte dei Conti. Tutto legittimo e pazienza se pagare con un incarico fiduciario pubblico (intervenuto dopo la condanna) alla Regione un danno erariale alla Regione stessa può suscitare critiche da parte dei soliti maliziosi.

    Ma non è finita. Lo scorso 28 marzo Alfonsino Grillo ha chiesto il vitalizio per il mandato di consigliere regionale svolto dal dal 28 marzo 2010 al 22 novembre 2014. Vitalizio che si vedrà accreditare proprio dal 1 aprile per una cifra pari a 2.434,83 mensili lordi. Piccolo particolare: la somma del vitalizio è ridotta del 25%, ma solo perché Grillo ne ha chiesto la liquidazione anticipata. Ossigeno, quindi, per le tasche dell’ex geometra.

    Alfonsino Grillo, da commissario a presidente?

    Ma Alfonsino Grillo è tornato in grande spolvero a seguito del cambio di sponsor politico. Decisivo l’apporto elettorale a Michele Comito e Valeria Fedele, eletti nella lista di Forza Italia (anche se sub iudice, soprattutto la seconda, ineleggibile secondo il giudizio di primo grado del Tribunale di Catanzaro).
    Ad attendere Grillo, il Parco delle Serre e un discreto stipendio, nonostante i precedenti commissari svolgessero l’incarico a titolo gratuito. Il dirigente regionale Giovanni Aramini, voluto da Jole Santelli nel 2020, il funzionario Domenico Sodaro nel 2016 e il dottor Giuseppe Pellegrino nel 2018, voluti da Mario Oliverio, non percepivano il becco di un quattrino.

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile
    La luce trafigge il bosco del Parco delle Serre (dal sito ufficiale dell’Ente: foto Salvatore Federico)

    Diversa sorte toccherà a Grillo. Lui arriverà a ricevere oltre 6mila euro lordi mensili (36.308 euro lordi per i sei mesi di durata dell’incarico da commissario). Intanto, solo due giorni fa, l’Assemblea della Comunità del Parco (guidata dalla assessora leghista di Simbario, Melania Carvelli) ha inserito lo stesso Grillo nella rosa dei 5 nominativi in lizza per la presidenza dell’ente. Ma la strada non è proprio in discesa.

    La possibile sospensione e l’orientamento dell’Anac

    Come si è detto, permane a carico di Alfonsino Grillo l’accusa di peculato dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, nel filone penale dell’inchiesta “Rimborsopoli”. In caso di condanna, anche se non definitiva, per peculato il soggetto esterno all’amministrazione che abbia un incarico pubblico (come è quello di commissario/presidente del Parco delle Serre) va sospeso senza retribuzione (come sospesa è l’efficacia del contratto di diritto privato stipulato con l’amministrazione).

    Non solo, l’Autorità nazionale anticorruzione suggerisce al legislatore di estendere la disciplina delle inconferibilità anche in caso di condanna della Corte dei Conti per danno erariale.
    Tali condanne, si legge nella delibera, «portano dietro un giudizio di disvalore, dal punto di vista della lesione dell’immagine della pubblica amministrazione… analogo a quello delle sentenze di condanna emesse all’esito di giudizio penale». Ma se a Roberto Occhiuto va bene così, non sarà certo l’opposizione a farglielo notare.

    Uno slogan elettorale di Alfonsino Grillo particolarmente azzeccato
  • Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    Aiko, Giuseppe e le api: miele e sushi da Tokyo ad Aprigliano

    «Scusi, sa dove si trova la Apricus
    «Chi?!?»
    «Gli apicoltori!»
    «Ma chi, Aiko? La giapponese? Seguitemi, vi accompagno»

    Quando anche Google Maps si era arreso al dedalo di viuzze di una delle tante contrade di Aprigliano, dal finestrino della sua auto un uomo fa segno di seguirlo, superando quello che sembrava un confine oltre il quale il mondo finisce. E invece la strada si fa sterrata, costeggia un burrone e poi si affaccia sulla vallata.

    Bisogna rallentare, fermarsi. È una terrazza naturale sulla valle del Crati con l’eco del fiume che gorgheggia in basso, il verde interrotto dalle macchie bianche dei fiori di erica, il contorno delle montagne incastrato nel blu del cielo. Aiko e Giuseppe ci vengono incontro con larghi sorrisi, indossano gli scafandri gialli. Sembrano astronauti sbarcati su un nuovo pianeta. Poco più giù ci sono le arnie colorate disposte le une accanto alle altre. «Questo è il nostro mondo. È qui che trascorriamo le nostre giornate. È la vita che abbiamo scelto, seguendo quello che più ci piaceva» – dice Aiko.

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    Un amore calabro-giapponese nato in Irlanda

    Aiko Otomo è una cuoca e apicoltrice giapponese naturalizzata in Calabria. Nella prima parte della sua vita viveva a Tokyo e faceva l’infermiera. Nel 2001 si trasferisce in Irlanda per imparare l’inglese. Qui incontra Giuseppe De Lorenzo, anche lui è in Irlanda per studiare. «Ci siamo innamorati e quindi da quel momento in poi non ho più imparato l’inglese, ma l’italiano», dice con il candore di una bambina. Le loro vite s’intrecciano, tornano in Italia, prima in Emilia Romagna, poi si trasferiscono in Sardegna. Aiko tiene dei corsi in cui insegna a preparare il Sushi, che va tanto di moda in Italia in quegli anni. Giuseppe è un’insegnante. Ma la passione comune è quella per la natura.

    «Cercavamo un posto in cui impiantare un apiario – racconta Giuseppe – quindi cinque anni fa abbiamo deciso di tornare in Calabria dove io avevo questi terreni ereditati dai miei nonni. Si trovano in una posizione ideale per il nostro progetto, ci siamo detti che era il luogo giusto. Tornare in Calabria, fare qualcosa di bello nel mio paese di origine, è perfettamente in linea con la nostra idea di puntare sulla biodiversità, preservare questa terra, perché la Calabria ne ha bisogno».

    Per godere dello spettacolo della vita negli alveari è necessario equipaggiarsi e poi superare ogni reticenza, avvicinarsi, mettere il naso nella routine delle api, lasciarsi ipnotizzare dal bombito che prima è ronzio e poi diventa musica. Ma bisogna stare attenti, «oggi le api sono nervose, forse per via del vento», avverte Giuseppe. Nella vallata le fronde degli alberi ondeggiano, ma il lavoro negli alveari prosegue nonostante tutto. «Adesso è un paradiso, ma quando siamo arrivati era una discarica: c’erano carcasse di auto rubate e spazzatura, abbiamo bonificato e trasformato il terreno e oggi qui produciamo tre tipi di miele, cera, polline e propoli».

    Sushi calabrese ad Aprigliano

    Quando Aiko non si occupa delle api, è ai fornelli. Sperimenta, contamina la cucina giapponese con ingredienti calabresi. Partecipa ad eventi in cui presenta percorsi gastronomici originalissimi: il morsello giapponese, il sushi con erbe spontanee o formaggi dei caseifici locali, una rivisitazione dei dorayaki con il fagiolo poverello di Mormanno e le fragole di Curinga, ravioli al vapore col suino nero di Calabria, yakimeshi con la cipolla di Tropea, shumai di maiale con lo zafferano di Castiglione. «Semplicemente cucinare non mi diverte – dice – a me piace farlo utilizzando ingredienti nuovi, magari sperimentare utilizzi inediti di prodotti a km 0 o anche meno».

     

    Quando è quasi ora del tramonto in pochi minuti sull’erba è servita una colazione a base di tè verde con riso integrale tostato e matcha e deliziosi dorayaki con crema a base di borragine, una pianta che cresce spontanea a queste latitudini.
    L’ospitalità calabro-nipponica viene amplificata dalle loro risate e dai loro sguardi d’intesa. «Ci piace vivere qui, abbiamo trovato un equilibrio e il nostro ritmo è quello della natura» – dice Aiko. «Il suono delle api è magico, è rilassante, molti credono abbia proprietà curative. A un certo punto non si riesce più a farne a meno».

    Apicoltori idealisti

    Il legame col Giappone resiste attraverso la cucina, la passione per la calligrafia, gli amici che vengono in Italia a trovarla e i ciliegi, che fioriscono anche da queste parti e la fanno sentire a casa.
    «Io e Aiko ci siamo innamorati dalle api e siamo impegnati a curarle. Non è semplicemente un lavoro, ma una missione. Vogliamo dare il nostro contributo perché sono a rischio estinzione» spiega Giuseppe. «L’apicoltura è essenziale per la vita sulla terra. Le api stanno morendo e hanno bisogno del nostro aiuto, per questo è necessario difenderle».

     

    Un impegno che si concretizza anche attraverso iniziative e progetti di sensibilizzazione sull’importanza della biodiversità. La prossima tappa di questo percorso sarà il 20 maggio, in occasione della Giornata mondiale delle api. Tra Rogliano e ad Aprigliano si terranno convegni, seminari, corsi di apicoltura, jam session, degustazioni di miele, passeggiate nella valle del Savuto e fra le sorgenti del Crati.
    Il sole sta calando, le api si rintanano nelle arnie per riposare, cominciano a vedersene sempre meno intorno alle piante. Sembra che tutto finisca e invece è solo il momento di raccogliere nuove energie.