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  • La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

    La terra dei tredici fari: Calabria per naviganti

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    Sirene morenti ed eroi leggendari, battaglie navali e mostri marini. E torri, e templi e castelli, che si confondono nel tempo lusingando il mito. Sono ricchi di storie i promontori e le rupi che ospitano i 13 fari a presidio dei mari calabresi. Storie che si rincorrono e si sovrappongono a quelle delle dominazioni che si sono date il cambio lungo i secoli. I greci, i romani, i bizantini, gli spagnoli in quei posti strategici a picco sul mare avevano fondato città. Avevano innalzato sacrari e fortificato torri, lungo una trama che attraversa tutti gli 800 chilometri e rotti di coste della regione. E che si lega con il capillare universo di fari e boe segnalatrici che garantiscono la sicurezza della navigazione moderna.

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    Il faro di Capo Suvero (foto Fiorenzo Fiorenza da Wikipedia)

    La leggenda di Ercole e la famiglia del faro

    La leggenda di Ercole che si riposa sullo Jonio dopo avere portato a termine le 12 fatiche, si fonde alla memoria del guardiano del faro che tiene in ordine la lanterna del punto più a sud dell’Italia peninsulare. E quella del tempio di Era, che con il suo tetto di marmo bianco indicava i pericoli della costa. Si confonde con quella della famiglia Sestito che da oltre un secolo si tramanda la responsabilità di tenere sempre acceso il faro di Capo Colonna.

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    Poi Paola, Punta Alice, Capo Suvero e Scilla; Capo Vaticano e Villa e Capo d’Armi: tredici «piccoli luoghi di luce oltre l’invalicabile presenza della notte», gestiti dalla Marina militare. Ma ormai praticamente tutte le funzioni tecniche che una volta competevano ai “guardiani del faro” sono completamente automatizzate. Tredici storie raccontate ne I fari della Calabria, tra natura e archeologia (264 pagine, edizioni La Vie), duplice e dettagliatissimo progetto curato da Ivan Comi.

    È un autore e regista catanzarese. Sulla storia dei fari calabresi ha anche realizzato lo splendido documentario La magia dei cristalli con le musiche originali di Mino Freda e Francesca Prestia.

    A presidio del mare

    Ritagliati in un angolo di un antico castello come a Scilla, o tra le mura antiche di una torre cavallara, come a Paola, i moderni fari calabresi illuminano il percorso dei naviganti dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.

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    Il faro di Paola, la città di San Francesco (foto Ivan Comi)

    Quasi tutte di realizzazione post unitaria, le “lanterne” attive sulle coste joniche e tirreniche della Calabria hanno particolarità che le distinguono le une dalle altre. Così consentono ai naviganti, sia durante il giorno, sia durante le ore di buio, di identificare immediatamente il tratto di costa a cui sono legate. E se di giorno sono le caratteristiche e i colori delle torri – bianche, a bande nere, rosse con bande bianche – a rendere i fari riconoscibili, di notte è la diversa frequenza e intensità della luce – che con le moderne attrezzature riesce a farsi strada per decine di chilometri oltre la terra ferma – a rappresentare la “carta d’identità” del presidio.

    La luce del fari non deve spegnersi mai

    La gestione unitaria di tutti i fari regionali ricade sotto la responsabilità di Taranto, ma sul campo ci sono ancora gli operatori nautici. Quelli che una volta si chiamavano faristi ora si occupano di tenere tutto in perfetta efficienza. Perché, qualunque cosa succeda, la luce del faro non deve spegnersi mai. Sono loro che si occupano di pulire le ottiche e gli specchi che consentono alla luce di farsi strada nella notte. E sono loro che ridipingono la torre con i colori originali quando i danni del tempo e della salsedine lo richiedono.

    Dalle fascine date alle fiamme nei fari antichi, ai sistemi di ingranaggi complicati quanto quelli di un enorme orologio a pendolo da ricaricare con la manovella ogni quattro ore, fino ai moderni computer che gestiscono automaticamente l’accensione delle lanterne e l’attivazione dei sistemi di emergenza in caso di avaria. Tecnologie cambiate radicalmente nel corso nel tempo e che condividono un unico obbiettivo: tenere costantemente acceso il cono di luce che garantisce la navigazione sicura. Resta quello il punto di riferimento certo per le imbarcazioni anche in un’era fatta di gps e transponder.

    Sulle orme del mito

    Nell’immaginario collettivo, i fari sono generalmente associati all’idea di solitudine e isolamento. Una delle particolarità dei fari calabresi è quella però di sorgere in posti già fortemente antropizzati. A Capo Colonna, ad esempio, il faro sorge proprio accanto al tempio di Era Lacinia.E fu proprio la sua costruzione a favorire un nuovo impulso alle scoperte archeologiche di Paolo Orsi, che su quel promontorio ripercorse i fasti di uno dei templi più importanti dell’età antica. Un legame così profondo quello tra la lanterna di Capo Colonna e la sua storia che, a guardia della torre, i costruttori dell’epoca misero una serie di teste leonine che richiamano da vicino i reperti trovati nell’area sacra.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Fari calabresi, acropoli e santi

    Seguendo la costa verso sud, anche il faro di Punta Stilo sorveglia dall’alto il parco archeologico dell’antica Kaulon e poggia le sua fondamenta su quella che gli archeologi considerano l’antica acropoli cittadina. Fu al largo di Punta Stilo che la marina militare inglese mise subito in chiaro la disparità di forze in campo con quelle schierata dall’Italia fascista, in quella che è passata alla storia come la prima battaglia in mare che vide impegnata la marina italiana nella seconda guerra mondiale.

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    Il faro di Capo Spartivento (foto Ivan Comi)

    A testimonianza di quella battaglia, sono rimasti i relitti delle navi affondate a qualche centinaio di metri dalla costa. Risalendo ancora lo Jonio verso lo Stretto, a capo Spartivento l’antico capo d’Ercole – il punto posto più a sud dell’Italia peninsulare, la leggenda racconta di quando San Cristofaro apparse a Sant’Elmo, che in una grotta su quel promontorio viveva da eremita, per ordinargli di accendere una lanterna nelle notti di tempesta per aiutare il passaggio delle navi.

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    Il faro di Punta Pezzo nel comune di Villa San Giovanni (foto Ivan Comi)

    A difesa dei naviganti: dallo Stretto a Paola

    Operativo dal settembre del 1867 è considerato dalla Marina come uno tra i cinque fari più importanti del Paese. Qualche chilometro ancora, e a presidio dell’ingresso nello Stretto, nel comune di Villa San Giovanni, si trova il faro di Punta Pezzo. Costruito alla metà degli anni ’50, accoglie con la sua luce rossa intermittente i natanti che attraversano il braccio di mare che la separa dalla Sicilia. E poi Scilla, dove la lanterna è stata sistemata dentro il cortile dell’antico castello dei Ruffo. Proprio sul promontorio dove Omero fa vivere il mostro marino dalle multiple teste flagello dei naviganti.

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    La luce che spunta dal faro di Scilla (foto Ivan Comi)

    E, ancora, Capo Suvero, risalendo il Tirreno. QUi la luce del faro illumina la costa che secondo il mito ospitò il corpo senza vita di Ligea, la sirena “melodiosa” punita con la morte per l’inganno di Ulisse, che era riuscito a evitarne i richiami facendosi legare all’albero maestro. E infine Paola, dove la lanterna è custodita all’interno della vecchia torre di guardia. Quella che un tempo serviva ad avvisare la popolazione delle incursioni saracene e che ora guida al sicuro le imbarcazioni che si avvicinano alla costa.

  • Il paradiso delle piante esiste… all’Unical

    Il paradiso delle piante esiste… all’Unical

    La dea Iride amerebbe come proprie creature le meraviglie variopinte che accolgono i visitatori. Da lei prendono il nome le iris (viola, gialle, rosa, ciclamino) che costeggiano il viale d’ingresso dell’Orto botanico dell’Università della Calabria, l’unico (riconosciuto) della regione. La fioritura a maggio è nel suo pieno, ma il caldo fuori stagione rende i petali già un poco vizzi, quasi a chiedere alla dea dell’arcobaleno di gonfiare di pioggia le nuvole. L’Orto botanico è uno scrigno che racchiude bellezza (in superficie), biodiversità, sapere scientifico, cultura del territorio (a un livello più profondo). È, anche, un laboratorio a cielo aperto, in cui le piante alimentano l’attività di ricerca e l’osservazione può portare a scoperte sorprendenti.

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    L’ingresso dell’Orto botanico di Cosenza

    L’orto botanico e la tutela della biodiversità

    «L’Orto botanico è stato fondato nel 1981 per conservare la biodiversità, tutta l’attività di ricerca e divulgazione è orientata in questo senso», spiega Nicodemo Passalacqua. Botanico, è referente scientifico della struttura che da fine 2021 rientra nel Sistema museale universitario, come parte del Museo di storia naturale della Calabria (Musnob). La missione è quella di tramandare alle generazioni future la vita vegetale e animale delle colline di Arcavacata di Rende, a due passi da Cosenza, in cui habitat poco modificati dagli umani convivono con terreni un tempo coltivati. «Qui sono state messe a dimora piante autoctone, spesso a rischio, per far conoscere ai calabresi le varietà del territorio». Ma ci sono anche specie provenienti da altri territori, alcune anche esotiche.

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    Il botanico Domenico Passalacqua, referente scientifico della struttura

    Zona speciale di conservazione

    Va bene la conoscenza, ma tutelare la biodiversità è necessario. Perderla significa contribuire all’insicurezza alimentare ed energetica, aumentare la vulnerabilità ai disastri naturali, diminuire il livello di salute della popolazione, ridurre la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverire le tradizioni culturali. L’Orto botanico, tra l’altro, è considerato zona speciale di conservazione dall’Unione europea, per la presenza di una pianta primitiva, la calamaria (Isoetes) e di due insetti, la falena euplagia, che abita tra gli arbusti ai margini del bosco e il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), un coleottero che vive nel legno morto.

    Il fungo sconosciuto

    La biodiversità si declina anche nelle circa trecento specie di funghi che qui sono state osservate. Tra queste, un piccolo fungo sconosciuto al mondo, lo Psathyrella cladii mariscii (dal nome botanico della pianta palustre alla cui base è spuntato). Il falasco (Cladium mariscus) era stato prelevato dalle rive del lago dell’Aquila, vicino Rosarno, e piantato vicino all’ingresso principale dell’Orto, tra un roseto e la vasca con le ninfee. Alcuni anni dopo, alla base dei fusti della pianta è spuntato il piccolo fungo con cappello marroncino, mai descritto e classificato fino a quel momento. La rivista scientifica MykoKeys ha pubblicato la scoperta nel 2019.

    Le piante a rischio custodite nell’orto botanico

    Il viale delle iris costeggia l’orto degli ulivi, con gli alberi da frutto, anche esotici, come il giuggiolo e il melograno, e il giardino roccioso mediterraneo, con le sue colorate varietà di valeriana. Peccato per i tabelloni usurati dal tempo e dalle intemperie, resi quasi illeggibili. Più in là c’è una delle piante più minacciate d’Italia, la Zelkova sicula. «In Sicilia ci sono solo un centinaio di individui, un singolo evento accidentale, come una frana o un incendio, – spiega Passalacqua – può provocarne l’estinzione. Così l’hanno riprodotta e mandata agli orti botanici per la conservazione ex situ». Nell’orto delle cerze (dal nome dialettale delle querce) c’è invece una quercia a rischio di estinzione in Calabria, la farnia (nome botanico Quercus robur). «Si trovava alla foce del Crati e del Neto e stava con le radici sempre nell’acqua. Ora questi habitat hanno subito molte trasformazioni».

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    L’arboreto dell’orto botanico all’Unical

    L’arboreto della Calabria

    Le farnie si trovano nella parte più recente dell’Orto botanico dell’Unical, l’arboreto della Calabria, che custodisce, insieme alla biodiversità, anche la cultura del luogo. «Le specie arboree costituiscono il paesaggio e il paesaggio è un aspetto culturale». Oltre alle querce, ci sono aceri, carpini, frassini, carrubi, sorbi. Accanto al laghetto artificiale, già a secco in questo anticipo d’estate, si stende il viale dei gelsi, le cui foglie si usavano per nutrire il baco da seta, il cosiddetto bombice da gelso. In Calabria la gelsicoltura ebbe la sua massima espansione nel XV secolo fino agli inizi del XX. Poi una grave malattia colpì gli allevamenti dei bachi. All’estremità del viale dei gelsi si trova la cibia, una vasca che un tempo i contadini creavano per avere a disposizione l’acqua per innaffiare l’orto. La superficie è completamente ricoperta dalla lenticchia d’acqua, una pianta che dà al liquido un aspetto vetroso. All’interno della cibia dimora il tritone, un piccolo anfibio a rischio estinzione.

    La ricerca sul corbezzolo

    Più in alto, nel bosco della collina di Monaci, uno dei tre boschi custoditi dall’Orto, si trovano i corbezzoli (Arbutus unedo). I suoi frutti rossi e commestibili e le foglie sono state oggetto di uno studio che ha condotto il dipartimento di Farmacia per verificare l’attività antiossidante e inibitoria di due enzimi (alfamilasi e alfaglucosidasi) per il trattamento del diabete di tipo 2. I risultati sono stati buoni e sono stati pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Antioxidants. Si tratta di studi in vitro, però, solo un primo step. Per proseguire lo studio ed effettuare le sperimentazioni sugli animali servono risorse ma anche l’interesse.

    Servono più risorse per l’orto botanico

    Più risorse ci vorrebbero anche per la manutenzione dell’Orto botanico. «Uno di queste dimensioni, oltre otto ettari, avrebbe bisogno di 15 giardinieri, noi ne abbiamo solo due», aggiunge Passalacqua. Di questi, Antonio De Giuseppe è giardiniere dell’Orto dei Bruzi da vent’anni, lo conosce come le sue tasche. Il suo lavoro gli permette di osservare come il clima sia cambiato negli ultimi tempi. «Ora le piante hanno bisogno di molta più acqua, persino l’ulivo soffre il troppo caldo. Sono aumentate anche le malattie delle piante. In particolare, si sta sviluppando la cocciniglia, un parassita che un tempo veniva distrutto dal freddo invernale».

    L’arte del bonsai

    De Giuseppe è anche istruttore nazionale di bonsai e ne realizza utilizzando piante calabresi: pini, ginepri, ulivi, mirti. «Noi bonsaisti recuperiamo piante rotte o morenti, cercando di imitare gli stili che esistono in natura». Ha fondato un’associazione, Shibumi, che promuove l’arte giapponese della coltivazione di alberi in vaso e svolge attività di educazione ambientale, in convenzione con l’Orto botanico. Ogni tanto l’associazione organizza eventi, esposizioni. Occasioni, anche, per stare insieme e condividere l’amore per la natura.

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    La dragontea o erba serpentona

    Il fiore che sa di cadavere

    E la natura sa essere sorprendente e straordinariamente complessa. Come nella dragontea o erba serpentona (Dracunculus vulgaris Schott), una pianta bellissima eppure velenosa che cresce nel bacino del Mediterraneo. Nell’Orto botanico si trova vicino una le due piccole serre, tra il bosco della sorgente e quello dell’amore. Si chiama così perché un tempo, quando l’Orto non era recintato, gli studenti andavano lì ad appartarsi. La dragontea ha un fiore incantevole eppure disgustoso, per il suo odore di carne in putrefazione. Tant’è che attira moltissimo le mosche. Queste entrano nel fiore e rimangono imprigionate da due corone di peli, imbrattandosi di polline. Una volta uscite, saranno le mosche a impollinare i fiori femminili. La vita ricomincia anche così.

    Simona Negrelli

  • Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone: la città dell’eterna crisi idrica

    Crotone è rimasta per qualche giorno senz’acqua, per l’ennesima volta. È una storia che si ripete quasi all’infinito. Un tubo si rompe, si grida allo scandalo, si chiedono tavoli tecnici, si parla di soluzioni definitive. E poi si rimane fermi, fino alla prossima emergenza.
    Questa volta, la rottura dell’adduzione principale, che collega la vasca di Calusia con il potabilizzatore, è avvenuta nel momento peggiore possibile. I rubinetti della città sono rimasti senza acqua durante i giorni della festa della madonna di Capocolonna. Un danno d’immagine ed economico, viste le difficoltà delle attività commerciali.

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    La sacra effige della Madonna di Capo Colonna in processione (foto pagina facebook Santuari Italiani)

    Il permesso della Procura per riparare la perdita

    Da 12 al 14 maggio, buona parte della città non ha ricevuto niente, oppure ha visto il servizio funzionare ad intermittenza. A rallentare ancora di più il tutto, il fatto che è servito il via libera della Procura per riparare la perdita: la tubazione, in località Margherita, si trovava in un’area sottoposta a sequestro.
    Per mettere una pezza, la Sorical ha attivato un piano di emergenza. La società ha attivato una condotta di emergenza per prendere l’acqua grezza dal bacino Sant’Anna. Una mossa insufficiente: i livelli del bacino non possono garantire la copertura di tutta la città. infatti, fin da subito il commissario della società, Cataldo Calabretta, ha avvisato che il servizio non sarebbe stato ripristinato completamente.

    Al momento, l’allarme è rientrato. Il guasto è stato riparato, ma il lavoro di manutenzione non è finito. Dal 25 al 28 maggio, Crotone rimarrà di nuovo senz’acqua. Il Corap è al lavoro per degli interventi di manutenzione straordinaria sulla condotta di adduzione.
    Le scuole di ogni grado rimarranno chiuse per 3 giorni. Per limitare i disagi, delle autobotti verranno piazzate in varie zone della città, per distribuire l’acqua agli abitanti. «Congesi prevede una serie di manovre da effettuare sui serbatoi cittadini per garantire, attraverso turnazioni, equamente il servizio idrico in tutti i quartieri della città», si legge nel comunicato del Comune.

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    Salvini e Cataldo Calabretta

    L’eterno ritorno dell’uguale

    Ad alimentare l’eterna crisi dell’acqua in città è la condizione pietosa delle tubature. Ciclicamente, le vecchie tubature di cemento armato si rompono. Il più delle volte, accade nei mesi di luglio e agosto.
    Negli ultimi anni, quasi ogni estate ci sono verificati dei guasti, sparsi in varie zone della città, o della provincia, come la rottura della conduttura a Belvedere Spinello, nel 2021. A maggio 2020 si ruppe una condotta gestita dal Corap, in località Iannello di Rocca di Neto. Il mese dopo, un altro guasto ad una tubatura Corap. E così, ogni volta.
    Le rotture tendono a concentrarsi sulla condotta di adduzione principale, che porta l’acqua del fiume Neto che si trova nella vasca di Calusia fino al potabilizzatore di Crotone, gestito dalla Sorical.

    Tre società per una condotta

    A complicare le cose è la gestione labirintica della fornitura d’acqua, che è di competenza regionale. L’impianto idrico è affidato a tre società: la Sorical, la Corap e il Consorzio di Bonifica Ionio Crotonese. Ogni volta che si verifica un guasto, la prima cosa da fare è capire di chi sia il tratto, e attivare chi di competenza.
    Il servizio integrato, invece, fa capo alla Congesi, il consorzio di 14 comuni della provincia crotonese.
    Questa frammentazione è uno dei motivi per cui il rinnovamento delle infrastrutture va a passo di lumaca. Gli accordi tra le parti sono sempre complicati, e i litigi sono frequenti, tra accuse di mancati pagamenti e di forniture mai ricevute.

    Ora che si fa?

    Nel frattempo, si cercano soluzioni per ovviare all’eterna crisi. Il sindaco della città Vincenzo Voce, lo scorso 18 maggio ha chiesto il ripristino del serbatoio di San Giorgio.
    L’impianto ha più di 20 anni: è stato costruito nel 2000, e non è mai stato attivato.

    «Il serbatoio non è stato mai messo in funzione e negli anni ha subito danneggiamenti, con l’asportazione di tutte le attrezzature elettromeccaniche, ed anche le condotte di alimentazione e di presa, essendo realizzate in acciaio e prive di protezione catodica, risultano in pessimo stato di conservazione», ha fatto sapere il sindaco Voce in una nota.
    Anche se il progetto dovesse andare in porto, la rimessa in funzione richiederà del tempo. Nei giorni scorsi, comunque, il sindaco ha chiesto un nuovo incontro a tutte le parti coinvolte, per trovare una soluzione condivisa. L’ennesima tavola rotonda.

    L’acqua potabile che finisce in mare

    La dispersione dell’acqua dovuta da un infrastruttura obsoleta è un problema che riguarda tutto il paese. Nel 2020, secondo i dati dell’Istat, il 36,2% dell’acqua immessa nella rete italiana è andata perduta, si tratta di 0,9 miliardi di metri cubi, una cifra che è difficile anche immaginare.
    Il problema è più accentuato a sud, e Crotone ne è uno degli esempi massimi. il presidente della Congesi, Claudio Lotti, nel 2021 si lamentava che la metà dell’acqua consegnata da Sorical si perdeva sotto terra.
    Senza contare che una buona porta dell’acqua viene persa a causa delle perdite delle tubature fatiscenti. Quando non finisce direttamente a mare.
    Proprio il Consorzio di Bonifica dello Ionio crotonese, ad agosto del 2021, ha denunciato un enorme spreco d’acqua. Secondo loro più di 200 milioni di litri cubi di acqua potabile all’anno finiscono per essere scaricati in mare.

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    Lungomare di Crotone (foto © Agostino Amato)

    «Un privato – spiega Claudio Lotti – viene legittimato a produrre energia e profitti con concessioni di uso di acqua pubblica e […], può tranquillamente sversare l’acqua a mare mentre, nei periodi di piena emergenza, pretende, dalla stessa Regione Calabria, quei rilasci in più che invece sono indispensabili per comuni ed imprese agricole e turistiche».
    L’attacco è rivolto alla A2A, la società idrica proprietaria delle centrali idroelettriche di Orichella, Timpagrande e Calusìa. Dall’azienda avevano fatto sapere che «quanto avviene alla risorsa idrica a valle dello scarico della centrale di Calusia non rientra nelle proprie prerogative di concessionaria né nelle proprie correlate responsabilità». Un rimpallo, che non aiuta di sicuro a mettere un freno allo spreco.

    Da ultimo, dobbiamo considerare la mancanza di piogge. Le province di Catanzaro e Crotone sono quelle dove la piovosità è stata più bassa negli ultimi anni. Un trend che rischia di aggravare una situazione che è già molto precaria.

    Se Crotone piange, la provincia non ride

    La malagestione delle condutture idriche è un male che infetta tutta la provincia di Crotone.
    La Sorical, lo scorso 18 maggio, ha chiesto ai sindaci di 15 comuni della zona di ridurre al massimo gli sprechi e di reprimere i furti d’acqua. Una richiesta quasi beffarda, per prepararsi ad un’estate che potrebbe essere problematica. A San Giorgio Albanese è stato sospeso il servizio di mensa scolastica per due giorni, per un guasto di una tubatura in località San Cosmo.
    Belvedere Spinello, Carfizzi, Casabona, Cirò, Cirò Marina, Crucoli, Melissa, Pallagorio, Rocca di Neto, San Nicola dell’Alto, Santa Severina, Savelli, Strongoli, Umbriatico e Verzino rischiano di subire interruzioni durante la stagione estiva.Alcuni centri stanno già vivendo le prime difficoltà.

    Molto spesso, a farsi sentire sono gli agricoltori, una delle categorie più colpite dalla mancanza d’acqua. Se manca l’acqua nei momenti sbagliati, i raccolti possono risentirne. Alcune colture possono andare perdute, vanificando mesi di lavoro.
    Lo scorso 20 aprile, gli agricoltori di Cutro ed Isola Capo Rizzuto si sono presentati in Regione, per parlare della mancanza d’acqua per i loro raccolti. A risentirne, sarebbero soprattutto le produzioni di finocchio e grano.

    L’estate scorsa, avevano scelto un metodo più vistoso. Il 27 agosto 2021, per esempio, è stata la volta dei trattori in autostrada. Una rappresentanza di questi agricoltori ha percorso le Statali 106 e 107 sui loro trattori, per protestare contro la A2A di fronte all’invaso di Calusia, nel comune di Crotonei. Una protesta simile l’avevano già portata avanti nel 2020.
    Nella storia dell’infinita crisi idrica crotonese, è difficile togliersi questa sensazione che tutto stia girando a vuoto.

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    Palazzine di edilizia popolare (Aterp) nella periferia di Crotone (foto © Agostino Amato)

     

  • Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

    Curinga, il posto delle fragole e dei giganti

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    Ci sono giganti e fragole a Curinga, borgo calabrese che sembra un quadro di Van Gogh. Il personaggio illustre del paese vive da mille anni in località Corda. È il platano orientale, patrimonio italiano, medaglia d’argento al contest 2021 “European Tree of the Year”. Un monumento verde, probabilmente piantato dagli stessi monaci basiliani che qui fondarono l’eremo di Sant’Elia.

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    Il platano millenario di Curinga

    Fragole e tramonti

    Puoi entrarci dentro e cantare, ballare, riposare. L’apertura a grotta è larga tre metri e dell’altezza del gigante si narra da anni. Venti, venticinque, trenta metri.
    Le piante di fragole sono milioni, in questo pezzo di Tirreno dell’istmo catanzarese che adesso si chiama Riviera dei tramonti. Negli anni Ottanta e fino a una decina di anni fa era un vero paradiso. Oggi servirebbe una varietà locale che ancora non esiste, ma iniziano a nascere campi di sperimentazione per crearla.

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    Pino Galati, presidente della Cooperativa Torrevecchia

    “Sabrina”, la fragola capricciosa

    La “Sabrina” è il tipo di fragola che ha attecchito. Capricciosa e gentile, ostinata e fragile come il cristallo. Non a caso ha un nome di donna. I filari traboccano di frutti rossi e sodi al punto giusto. La raccolta è una corsa contro il tempo: domani mattina dovranno essere sui banchi dei mercati, la loro perfezione è fugace ed entro tre giorni sfumerà. È questa la condanna, una specie di sortilegio per compensare tanta bellezza.
    «Lo senti il profumo? È così forte che si può raggiungere un campo di fragole anche ad occhi chiusi». Dopo quarant’anni con le mani nella terra, Pino Galati si muove nelle piantagioni come fosse a casa sua. Dal 2010 è il presidente della Cooperativa Torrevecchia che, nata nel 1978, tiene insieme alcuni fragolicoltori della piana di Lamezia Terme.

    Nove piccole aziende, tra Curinga e Pizzo, che, in totale, fanno numeri di tutto rispetto: una produzione annua di 10mila quintali, di cui solo il 30 per cento destinate al mercato calabrese. Il restante 70 per cento va nelle altre regioni italiane. «Il nostro è un territorio storicamente vocato a questo tipo di coltivazione – spiega Galati, 61 anni, – fin dagli anni Ottanta era una coltura leader, qui si produceva un frutto di una qualità molto al di sopra degli standard. Oggi, è inutile negarlo, le cose non vanno più tanto bene».

    Acconìa, il posto delle fragole

    Acconìa, frazione marina di Curinga, è il posto delle fragole. Rischia di perdere il suo primato e le ragioni sono due: la mancanza di manodopera e la genetica. «Abbiamo coltivato per tanto tempo una varietà di provenienza Californiana, la Cammarosa – continua Galati, – oggi sostituita dalla Sabrina, proveniente dalla Spagna. In questo passaggio, dettato dalle leggi del mercato, abbiamo perso alcune delle caratteristiche che facevano delle nostre fragole un frutto inimitabile altrove». L’obiettivo è tornare a produrre un prodotto peculiare. «L’Università di Forlì sta lavorando alla creazione una varietà autoctona che sia specifica della zona di Curinga. Siamo in una fase sperimentale che sta dando ottimi risultati».

    Sapore, colorazione, tenuta e consistenza sono i parametri con cui si misura la qualità. «Basta guardarsi intorno per capire che noi coltivatori continuiamo a dare l’anima per portare sui banchi dell’ortofrutta un prodotto eccellente, ma il futuro non è roseo». La preoccupazione maggiore riguarda la manodopera. È diventato sempre più difficile reperire raccoglitori, nonostante le tutele del contratto.

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    I lunghi filari di piante di fragole a Curinga

    Un’azienda leader, che lavora in solitaria, non associata alla cooperativa è la Vito Galati, cognome molto diffuso nel Lametino. Al contrario delle altre, vende in Calabria il 70 per cento della sua produzione, mentre il 30 per cento parte per l’Emilia Romagna, la Lombardia e, a sud, per la Sicilia. Si possono trovare le “sabrine” dai fruttivendoli di nicchia, quelli che hanno anche l’annona di Reggio Calabria, le merendelle del catanzarese e i pomodori di Belmonte, nella grande distribuzione, nei mercati. Maggio è il mese più felice nel posto delle fragole, il periodo della fase fenologica, quella della piena vitalità.

    Tommaso Galati, ingegnere informatico tornato da Firenze per lavorare nell’azienda di famiglia

    «Impossibile non avere problemi con la ‘ndrangheta»

    Tommaso Galati, 31 anni, figlio di Vito, 56, è un ingegnere informatico che da Firenze è rientrato nel villaggio agricolo di Acconìa, per lavorare nell’azienda di famiglia, accanto al padre, agli zii.
    «È un lavoro faticoso ma molto dinamico. Bello perché significa stare a contatto con la natura». Tra i filari, mostra le “crude”, le mature, le colture fuori suolo, la tecnologia a basso impatto ambientale. «Purtroppo non sempre si viene ripagati dei sacrifici fatti, è il motivo per cui i più giovani non si dedicano alle attività agricole». Anche suo cugino Dario, stessa età, lavora in un’altra azienda, sempre di forte tradizione familiare. Spesso discutono di tecniche, futuro della produzione, export e trasporti che non aiutano, distese ariose e cappe irrespirabili in territori dove «è impossibile non avere problemi a causa della presenza della ‘ndrangheta».

    Mancano le reti di impresa in Calabria

    Il platano è a un quarto d’ora di macchina da Acconia, più su, in collina. Qualche anno fa è arrivato a Curinga un famoso “cacciatore” di alberi rari, Andrea Maroè, per misurarlo in arrampicata. Trentuno metri. Nella sua grotta sono entrate, comode, dieci persone. I cugini di Acconìa entrano nella piantagione e tornano con le fragole più belle in mano. «È il frutto dei diabetici, è dolce eppure il contenuto di zuccheri è modesto, ricco di vitamine e di fibre. E’ un buon alimento anche per le donne in attesa, perché ricco di acido folico».
    Nei magazzini gli operai stanno confezionando la merce in partenza.

    «Ogni stagione produttiva è un’incognita, possono sorgere tanti problemi, a iniziare dalle conseguenze degli eventi climatici. Altrimenti quello dell’agricoltore sarebbe il mestiere più redditizio del mondo», dice Francesco, 54 anni, zio di Tommaso. E’ appoggiato a un grosso contenitore colmo di pomodori profumati e bitorzoluti. Accanto ce n’è un altro pieno di ortaggi vari. Tutta merce destinata al macero, «invendibile». Per combattere tanto spreco ci vorrebbero segmenti di lavorazione agroalimentare, accanto alla produzione. «Nei distretti produttivi calabresi manca la rete d’impresa. Questo è uno dei problemi più grossi».

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    Raccoglitrici di fragole a Curinga

    I giovani non vogliono raccogliere fragole

    Le raccoglitrici portano copricapo colorati e cappelli di paglia. Staccano le fragole una per volta. «La manodopera specializzata è ormai un miraggio – spiega il presidente della cooperativa Torrevecchia. – I vecchi raccoglitori stanno progressivamente andando in pensione e le nuove generazioni non vogliono fare questo lavoro, come se ci fosse una vera e propria repulsione. Eppure la paga, rispetto ad altri settori, non è affatto male». Attualmente sono impegnate nei campi duemila persone ma ne servirebbero molti altri. Sono nella maggior parte donne, si muovono tra i filari con i carrelli, su cui adagiano con grazia i frutti. E intanto ridono, raccontano, si scambiano confidenze sotto il sole di maggio che è ancora clemente.

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    Una parte del centro storico di Curinga

    Fragole, giganti e resti archeologici

    «Chiudiamo l’annata con oltre mezzo milione di piante. Ognuna produce fino a un chilo di frutti», spiega Tommaso. L’azienda Vito Galati pratica la coltura tradizionale nel terreno. La metà delle piantine invece compie il suo ciclo vitale nel “fuori suolo”, cioè su strutture alte, ben irrigate. «Tutta acqua che recuperiamo e riutilizziamo, con un notevole risparmio idrico. Ciò significa non disperdere nulla nel terreno. Compreso i concimi e le poche sostanze chimiche che usiamo, con giuste quantità e modalità».

    Anche perché ucciderebbero sia i parassiti, sia gli insetti antagonisti, cioè i predatori introdotti tra le colture. L’orius laevigatus divora i tripidi e i fitoseidi mangiano i ragnetti rossi. È un metodo efficace per evitare i pesticidi. Le api ronzano intorno. A loro tocca l’impollinazione, in questa storia di fragole, giganti e resti archeologici. C’è la torre di vedetta di località Mezza praia, che dà il nome della cooperativa e c’è un sito archeologico di pregio, con i resti di antiche terme romane. Il platano veglia. Sulle fragole, sulla costa dei Feaci, sulle raccoglitrici e sulla battaglia degli insetti. Combattuta tra i parassiti e i piccoli predatori che ogni anno salvano distese di fragole.

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    I resti delle terme romane a Curinga
  • Termovalorizzatore: la Danimarca fa marcia indietro, la Regione Calabria vuole raddoppiarlo

    Termovalorizzatore: la Danimarca fa marcia indietro, la Regione Calabria vuole raddoppiarlo

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    Lo scorso 10 maggio, il presidente della Regione Roberto Occhiuto e i rappresentanti della città metropolitana di Reggio Calabria si sono riuniti alla Cittadella per parlare del raddoppio e l’ammodernamento dell’unico termovalorizzatore di Gioia Tauro.
    Due ore d’incontro, per accordarsi sull’essere in disaccordo.
    Un intervento che la Regione ha voluto inserire nel nuovo piano rifiuti, per liberarsi dalla dipendenza dalle discariche ed evitare accumuli di rifiuti prima della stagione estiva, oltre che per migliorare l’impatto ambientale della struttura.

    Gli amministratori e le comunità della Piana non ne vogliono sapere. «Serve una politica seria, nero su bianco, che ponga come ultima fase la chiusura degli impianti di termovalorizzazione. Se ti dai questo obiettivo, diventi credibile» ci dice, polemico, Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro, che era presente all’incontro. Qualche giorno prima, il 7 maggio, nella città c’è stata una prima manifestazione di protesta.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il territorio di Gioia è particolarmente sensibile al tema della salute. Nel 2018, uno studio dell’Asp di Reggio insieme ad Arpacal e all’Irccs di Bari ha attestato un tasso più alto di incidenza e di mortalità per le neoplasie polmonari nella città e, in generale, nell’area tirrenica. Se non è possibile collegarlo direttamente all’impianto, è vero che la zona della Piana presenta più siti ambientali a rischio.
    Gli impianti di nuova generazione danno più garanzie, da questo punto di vista. Ma rimangono tanti dubbi sulle emissioni e sul ruolo che possono avere nel compromettere lo sviluppo della raccolta differenziata sul territorio.

    Gioia Tauro, un termovalorizzatore a mezzo servizio

    La gestione dell’impianto è la croce più grande che la città si è dovuta caricare sulle spalle, secondo il sindaco Alessio: «Non sono state fatte a dovere né le manutenzioni ordinarie né le straordinarie. E ora ci raccontano la barzelletta che con le nuove misure dovrebbe andare tutto bene. Perché dovrei credergli?». Le due linee che lo costituiscono sono ormai obsolete, sorpassate dagli impianti di nuova generazione, che permettono un controllo più stretto su cosa si brucia, e di inquinare meno.

    A confermare il quadro tragico del termovalorizzatore in contrada Cicerna è un documento tecnico del dipartimento regionale Ambiente che è stato allegato alla manifestazione d’interesse per il project financing. Il documento parla di «continui fermi d’impianto» e di una produzione bassa. Le linee inceneriscono «quantitativi molto inferiori rispetto alla potenzialità autorizzata», che si attesta sulle 120mila tonnellate ogni anno.

    Alessio non si fida più delle promesse: «Ci stanno raccontando delle favole. E le favole sono tutte belle. Anche 22 anni fa, quando sono state costruite la prima e la seconda linea, la favola era che non avremmo respirato sostanze nocive. E che avremmo avuto il teleriscaldamento. Ormai nessuno ne parla più».
    La gestione dell’impianto attuale non è mai stata chiara. «Non c’è mai stata una gara pubblica con un assegnamento definitivo. La Regione l’ha consegnata ai privati. Rimaniamo nella transitorietà: le cose funzionano così in Calabria. E non fa scandalo, qui è tutto normale».

    I nuovi impianti abbattono i rischi per la salute

    Secondo molti studi sul tema, le nuove tecnologie permettono di ridurre significativamente sia le emissioni che i rischi per la salute, legati soprattutto agli impianti obsoleti ancora in funzione.
    La pericolosità degli inquinanti per i cittadini è forse il tema che sta più a cuore alla comunità di Gioia Tauro. Come accennato all’inizio, da tempo si denuncia un aumento dell’incidenza e della mortalità di alcuni tipi di tumore. È complicato, però, trovarne le cause profonde.

    Gli impianti di nuova generazione, da questo punto di vista, potrebbero essere un grande passo in avanti. Come si legge nel libro bianco italiano sull’incenerimento dei rifiuti, pubblicato nel 2021, «è scientificamente riconosciuto che le preoccupazioni sui potenziali effetti sulla salute degli inceneritori riconducibili a inquinanti potenzialmente presenti nelle emissioni, quali metalli pesanti, diossine e furani, sono da ricondurre a impianti di vecchia generazione e a tecniche di gestione utilizzate prima della seconda metà degli anni Novanta».

    L’ingresso del campus dell’Imperial College di Londra

    Una conclusione simile a quella di Anna Hansell, scienziata dell’Imperial College di Londra. In una ricerca, la professoressa non aveva escluso del tutto che i nuovi impianti possano avere delle conseguenze sulla salute (un’affermazione che sarebbe comunque difficile da verificare, a livello scientifico), ma «gli inceneritori moderni e ben regolamentati possono avere un piccolo, se non addirittura impercettibile, impatto sulle persone che vivono nelle loro vicinanze».

    I dubbi sulle emissioni del termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Nella visione della Regione, le nuove linee abbatterebbero anche le emissioni di anidride carbonica. Occhiuto insiste soprattutto su un dato: il raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro, secondo i calcoli effettuati dagli uffici della Regione, potrebbe abbattere le emissioni inquinanti dell’88% rispetto a quelli attuali. Questi ultimi rimarrebbero comunque in funzione, quindi è un dato da prendere con le pinze.
    Ma è vero che gli impianti di nuova generazione inquinano molto meno? La risposta breve è… .

    Ci sono tanti fattori da considerare. In primis, abbiamo un problema di metodo. Di solito, i dati contano solo le emissioni di CO₂ fossile, come quello emesso quando viene incenerita la plastica, ad esempio. Ma esiste un altro tipo, la CO₂ biogenica, che deriva da fonti naturali, come il legno. Anche questa inquina, eppure non viene conteggiata nelle statistiche: una falla che non permette di capire realmente gli impatti di questi impianti. Inoltre, è difficile quantificarne l’impatto ambientale, se non si sa cosa verrà bruciato. Anche accettando il fatto che le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti calino con i nuovi impianti, è vero che non esiste l’impatto zero. Queste strutture continueranno ad inquinare.

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    Gioia Tauro ha un altro problema, molto più concreto: ci vorranno anni per finire l’allargamento del termovalorizzatore. Nel frattempo, le prime due linee continueranno ad inquinare, con una produzione aumentata.
    Durante l’ultimo incontro, i sindaci della Città Metropolitana hanno portato una controproposta: dismettere le prime due linee del termovalorizzatore, quando le nuove saranno pronte. È stata bocciata.

    C’è chi ha già cambiato idea: il dietrofront della Danimarca

    Allargando lo sguardo, vediamo che la discussione sui termovalorizzatori tende a riproporsi nei contesti più vari. Negli ultimi giorni se ne sta parlando anche a Roma, dove la proposta ha un consenso decisamente più largo rispetto alla Calabria.
    Anche a livello internazionale, la pressione per la costruzione di nuovi impianti è forte. Molti stati vogliono fare in fretta, per liberarsi delle proprie discariche e aumentare la produzione di energia elettrica. Ma non mancano i ripensamenti.

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    Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci

    Uno degli stati più “entusiasti” ha fatto una brusca marcia indietro. La Danimarca, infatti, è uno dei paesi europei che ha investito di più nei termovalorizzatori. 23 impianti generano il 5% dell’energia elettrica prodotta nel paese, ed un quinto del teleriscaldamento.
    I danesi, però, non producono abbastanza rifiuti da tenere in funzione le centrali. Ed è qui che si genera il paradosso: la Danimarca è costretta ad importare i rifiuti dall’estero, spingendo la produzione più in alto possibile e compromettendo i propri obiettivi climatici.

    Se il termovalorizzatore inquina di più: il caso del Regno Unito

    Come ha raccontato nel 2020 a Politico il ministro danese per il Clima Dan Jørgensen: «Importiamo rifiuti ad alto contenuto di plastica per utilizzare l’energia in eccesso generata dagli impianti. Il risultato è un aumento delle emissioni di CO₂».
    Per questi motivi, il governo danese ha invertito la rotta. Nel prossimo decennio, verranno chiusi 7 inceneritori (su un totale di 23). Inoltre, la capacità di incenerimento dovrà scendere almeno del 30%. L’alternativa di lungo periodo è di puntare sul rafforzamento della raccolta differenziata.

    Può anche succedere di scoprire dopo anni che gli impianti che utilizzi siano più inquinanti di quello che pensi. È quello che è successo in Regno Unito.
    Secondo un report della società di consulenza Eunomia per ClientEarth, la produzione di energia dai termovalorizzatori inglesi è più inquinante di quella creata utilizzando il gas. Insomma, servirà un monitoraggio molto preciso, se vogliamo misurarne gli effetti sull’ambiente.

    Il colpo di grazia alla raccolta differenziata?

    Il problema più grosso è che i termovalorizzatori diventano un grosso ostacolo per la raccolta differenziata e, in generale, per l’idea dell’economia circolare.
    Una volta creato un impianto, bisogna tenerlo in funzione. È difficile che venga dismesso dopo pochi anni.
    Di solito, sono progettati per rimanere in attività per almeno 20 anni, e ci sono dei contratti da rispettare. Le scelte degli amministratori rischierebbero di essere vincolate al mantenimento degli impianti, e non agli obiettivi ambientali. Esattamente com’è successo in Danimarca.

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    L’ultima emergenza rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Sappiamo, inoltre, che le alternative sono poche: dobbiamo ridurre la produzione di rifiuti. Per rispettare gli impegni degli accordi di Parigi, in Italia bisognerà riciclare almeno il 55% dei rifiuti urbani entro il 2025, e il 65% dei rifiuti da imballaggio. Percentuali che hanno soglie più alte per i 10 anni a venire.
    In questo ambito, la Calabria è molto indietro. Tra le Regioni d’Italia, è la penultima per raccolta differenziata. Una percentuale intorno al 50%. E pensare che l’obiettivo regionale per il 2012 era quello di raggiungere il 65%.
    Sarà fondamentale investire bene i fondi europei, per creare degli impianti che ci permettano di rispettare i nostri obiettivi. Sul termovalorizzatore si può anche discutere, ma non c’è alternativa al riciclo.

  • L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

    L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

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    Diciamolo una volta per tutte e senza timore: di verdeggianti paesaggi e panorami mozzafiato non se ne può più. Abbattiamo, assieme a pregiudizi e stereotipi, anche la retorica visiva sulle bellezze della Calabria. Basta bergamotti in ogni dove, basta celebrazioni sui Bronzi, basta foto di mari e monti. Soprattutto basta borghi.

    Se la Regione è un po’ confusa, ma diciamo anche indecisa, tra il puntare sulla «valorizzazione delle aree industriali» di cui ha parlato Roberto Occhiuto a Expo Dubai, oppure sui «marcatori identitari distintivi» riproposti nelle scorse settimane alla Bit di Milano, rilanciamo la nostra controproposta per dare una scossa alla narrazione turistica della Calabria: gli horror tour.

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    Il lungomare Ginepri “interrotto” a Lamezia

    Piuttosto che continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, o ad accusare chi la polvere la solleva provando a spazzarla via, potremmo per una volta a volgere a nostro vantaggio il «carattere di mitomani» che Corrado Alvaro riconosceva ai meridionali come inesorabile eredità dei Greci.

    Ci sono sui territori tracce visibilissime, ma davvero poco sfruttate, che si possono unire fino a farne degli itinerari che rendono piccola piccola, quale effettivamente è, la retorica della riserva indiana cui siamo puntualmente sottoposti dagli osservatori esterni. Sempre tanto compiaciuti delle nostre quotidiane miserie quanto pronti a insegnarci come uscirne.

    Abbiamo già focalizzato alcune di queste brutture nella Locride. Ora, risalendo sulla statale 106 jonica e poi passando sull’altra costa, proviamo a indicarne delle altre. Nella consapevolezza che si tratti di un itinerario parziale e incompleto, ma pur sempre di un punto di partenza.

    Soverato: perla jonica e cementificata

    La cementificazione intensiva di Soverato, per dire, è un elemento che finora nessuno ha pensato di tramutare in motivo di attrazione. Se la chiamano «perla» come non più di altre tre o quattro località costiere della regione, e se per una settimana di agosto si chiedono affitti (in nero) a livello Elon Musk, allora facciamone altri di appartamenti. Coliamo più cemento e alziamo nuovi pilastri fino a nasconderlo del tutto, questo sopravvalutato orizzonte jonico, ché un po’ ha stancato.

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    L’urbanizzazione spinta di Soverato vista dalla Statale 106

    Gli esperimenti di architettura ultramoderna già realizzati sulle colline attorno a Squillace dimostrano che fare peggio di com’è oggi è difficile, ma ce la possiamo fare e magari ne avremo anche un profitto. Per esempio puntando sulle aree interne, come quelle che si trovano muovendo verso l’altra costa per una strada poco battuta, una sorta di “Due Mari” dei poveri.

    Cemento à gogo sulla collina che sovrasta il mare a Squillace

    La Calabria delle rotonde e delle pale eoliche

    Andando per provinciali e colline ben curate si passa in mezzo ad Amaroni, Girifalco, Cortale e Jacurso. E si contano decine di rotonde – che disciplinano un traffico inesistente – e centinaia di pale eoliche – che ancora non risolvono il caro bolletta. Così si attraversa senza annoiarsi l’istmo di Marcellinara, il famoso punto più stretto d’Italia. Poi si spunta a Maida, dove sorge uno dei centri commerciali più larghi della Calabria.

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    L’immancabile eolico tra lo Jonio e il Tirreno

    Lamezia tra zucchero e il porto d’Arabia

    Avvicinandoci alla principale porta d’ingresso della Calabria– che vabbè, è anche quella d’uscita per tanti nostri cervelli – si può osservare cosa abbiano lasciato certi sogni industriali degli anni belli. Come l’ex zuccherificio a ridosso della stazione di Lamezia, con annesso murales neorealista. O il famigerato pontile dove le navi che dovevano rifornire la mai realizzata Sir non sono evidentemente attraccate neanche una volta.

    L’ex zuccherificio di Lamezia

    Ora, invece che portarci le comitive ad ammirare tanta identitaria decadenza, vorrebbero fare da quelle parti un porto turistico intitolandolo a uno sceicco arabo. E tutti hanno ovviamente paura che la cosa finisca peggio di com’è andata con i pezzi di lungomare lametino che oggi, in un capolavoro di esistenzialismo non colto dai tour operator, collegano un nulla all’altro di questo tratto di costa.

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    Il pontile ex Sir a Lamezia Terme

     

    Il cemento da patrimonio Unesco a Vibo

    Lo stesso vuoto alberga in una struttura ammirabile all’ingresso di Pizzo. Sta subito sotto l’autostrada e non c’è, tra agrumeti e fichi d’india, nemmeno una via d’accesso per arrivarci e visitarne le cavità antropologiche. La medesima poco valorizzata bruttezza caratterizza un edificio che forse doveva ricordare una nave e che incombe sulla suggestiva insenatura della Seggiola. Invece poco più a Sud, a Vibo Marina, non si sono fatti intimidire e col cemento sono andati fino in fondo. C’è un quartiere, il Pennello, in cui l’abusivismo ha toccato vette di audacia così alte che meriterebbe di essere almeno proposto a patrimonio Unesco.

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    Il mega-albergo vuoto di Pizzo

    Salendo verso il capoluogo vibonese, poi, si può notare, senza che incredibilmente nessuna guida ne faccia vanto di fronte a manipoli di turisti dell’orrido, come a svettare sulla città non sia il castello Normanno-Svevo, nella zona dove probabilmente si trovava anche l’Acropoli di Hipponion, ma le quasi gotiche antenne radiotelevisive che qualche anno fa, invece di proporre un tour congiunto museo-tralicci, qualcuno si è spinto a sequestrare per fosche ipotesi di elettrosmog.

    Panorama con antenne a Vibo Valentia

    È inutile: non sappiamo proprio valorizzarci. Altrimenti non si spiega perché un cartello mancante in pieno centro a Vibo, che dovrebbe indicare l’itinerario di un parco archeologico in larga parte inaccessibile e infestato da erbacce e spazzatura, non diventa una Mecca del situazionismo o un luogo feticcio degli amanti del teatro beckettiano.

    Cemento “selvatico” lungo la Statale 18

    Il cemento anarchico della Statale 18

    La teoria delle potenzialità inespresse della Calabria continua procedendo lungo l’altra mitologica statale, la 18. Se avessimo avuto anche noi un Guccini sarebbe stata leggenda come la 17, la via Emilia e pure il West messi insieme. Ai lati di questa strada il cemento spunta dalla vegetazione come fosse selvatico. Genuino e autoctono, niente lo trattiene: è potente, anarchico e futurista al tempo stesso. C’è dentro tutto il Novecento e se ne possono ammirare diversi avanguardistici esempi andando in auto dal Vibonese verso la Piana. Ma purtroppo nessuno ha pensato a dei tour organizzati con accompagnatori che indichino a quali cosche di ‘ndrangheta sia assegnato ogni singolo chilometro.

    Soffrono di un imperdonabile abbandono turistico anche cattedrali mancate come la stazione ferroviaria di Mileto, un ibrido metallico tra post barocco e brutalismo, e la Fornace Tranquilla, una fabbrica abbandonata dove un ragazzo africano è stato ammazzato per una lamiera. Da anni, e ancora oggi, alla Tranquilla sono interrate tonnellate di rifiuti tossici. Altrove sarebbe meta di pellegrinaggi di dark tourism, noi invece l’abbiamo dimenticata.

    Come la ex statale 110, una strada che fin dai tempi dei Borbone univa le due coste alle montagne delle Serre e che a causa di alcune frane è chiusa da qualche anno. Un ignoto esteta ne ha decorato i margini con copertoni e bombole di gas. Incompreso, come le tante monumentali bruttezze che in Calabria abbiamo sotto la finestra e che facciamo finta di non vedere.

  • In Calabria 17 Bandiere Blu nel 2022: Tropea e le new entry

    In Calabria 17 Bandiere Blu nel 2022: Tropea e le new entry

    Sono 17 le Bandiere Blu in Calabria. Due nuovi ingressi nel 2022: si tratta di Caulonia e Isola Capo Rizzuto. Le altre 15 sono: Tortora; Praia a Mare; San Nicola Arcella; Santa Maria del Cedro; Diamante; Roseto Capo Spulico; Trebisacce; Villapiana; Cirò Marina; Melissa; Isola di Capo Rizzuto. In provincia di Catanzaro: Sellia Marina; Soverato; Tropea; Roccella Jonica; Siderno.

    Sono 210 i Comuni italiani che quest’anno hanno ottenuto la Bandiera Blu, il riconoscimento alle località rivierasche e ai porti turistici più incontaminati e sostenibili, assegnato dalla Fondazione per l’educazione ambientale (Fee), ong internazionale con sede in Danimarca. I criteri per l’assegnazione della Bandiera Blu sono assoluta validità delle acque di balneazione, efficienza della depurazione e della gestione dei rifiuti, aree pedonali, piste ciclabili, arredo urbano, aree verdi, servizi in spiaggia, abbattimento delle barriere architettoniche, corsi d’educazione ambientale, strutture alberghiere, servizi d’utilità pubblica sanitaria, informazioni turistiche certificazione ambientale delle attività istituzionali e delle strutture turistiche, pesca sostenibile.

     

  • Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

    Trasporti green: la cura del ferro si fa coi treni ad idrogeno?

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    Tra le tante voci del Pnrr dedicate ai trasporti, ci sono i treni ad idrogeno. Sei regioni italiane saranno le prime che nei prossimi anni sperimenteranno i treni che emettono acqua nel trasporto locale, sulle tratte non elettrificate. Lombardia, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Umbria e Calabria potranno accedere ad un finanziamento di 300 milioni complessivi dedicato a questo esperimento.

    Queste regioni riceveranno le prime tranche nel 2023. Oltre all’acquisto dei treni, il piano è di installare 9 stazioni di rifornimento su 6 linee ferroviarie entro il 2026. Per la Calabria, il tratto interessato è Cosenza-Catanzaro.

    I finanziamenti europei saranno fondamentali per ammodernare il disastrato trasporto locale, che negli ultimi anni ha subito cali drastici nell’offerta e nel traffico ferroviari. Secondo il rapporto Pendolaria 2022 di Legambiente, in 10 anni l’offerta di treni si è ridotta di un quarto. Per non toccare il tema dell’alta velocità, dove regna la confusione.

    La Regione, inoltre, ha bisogno di liberarsi il prima possibile dei vecchi treni diesel. L’età media delle locomotive locali è di 21,3 anni. L’82,1% dei treni calabresi ha più di 15 anni.

    I treni a idrogeno sono una delle soluzioni messe in campo per gli anni a venire. In particolare, potrebbero essere una risposta per le tratte in cui è particolarmente complicato o costoso elettrificare le strutture esistenti. Ma ci sono molti fattori da considerare.

    50 sfumature di idrogeno

    Partiamo dalla base: l’idrogeno può essere usato come combustibile ecologico. Non emette anidride carbonica, ma vapore acqueo. Croce e delizia dell’idrogeno stanno nella sua produzione. L’elemento chimico più abbondante nell’universo, infatti, è poco presente in natura nella sua forma pura, la molecola H2. Di solito, lo si trova in forma combinata, cioè attaccato ad altri elementi, come nell’acqua.

    Per ottenerlo, bisogna separarlo dagli altri. Un processo che richiede molta energia. Ed è proprio qui che sta il problema. Ci sono molti modi per ottenere l’idrogeno, ma quello largamente più diffuso e conveniente è quello più inquinante. La maggior parte dell’idrogeno nel mondo viene ottenuto separandolo dal gas. L’idrogeno grigio, infatti, produce più gas serra delle combustioni del diesel.

    idrogeno-treni-pro-contro-nuova-tecnologia-greenOgni tanto, nei dibattiti politici si sente nominare l’idrogeno blu. È quello che viene prodotto da fonti fossili, ma per il quale la CO₂ viene catturata e stoccata.

    La versione più ecologica è l’idrogeno verde. Questo si genera tramite l’elettrolisi: in parole povere, si utilizza l’elettricità per separare l’idrogeno dall’acqua. Se questa elettricità viene prodotta da fonti rinnovabili, l’impatto sull’ecosistema diventa praticamente zero.
    L’idrogeno ha un altro grande vantaggio: può essere stoccato sottoterra quasi dappertutto.

    Il Coradia iLint

    Il primo treno ad idrogeno al mondo lo abbiamo visto sfrecciare già a partire dal 2018 tra le rotaie della bassa Sassonia, in Germania. Il mezzo, però, è stato creato da una società francese. Il Coradia iLint è stato progettato a partire dal 2014 dalla multinazionale francese Alstrom, una delle più grandi aziende produttrici di treni sul mercato europeo. La conosciamo bene anche in Italia: tra le tante cose, fornisce i treni elettrici POP, dedicati al trasporto regionale, e il Pendolino.

    Nell’iLint, i serbatoi di idrogeno sono posti sul tetto. Una cellula combustibile fa combinare l’idrogeno con l’ossigeno dell’aria, generando l’elettricità di cui si servirà il treno per muoversi. Una batteria in litio, invece, permette di conservare l’energia durante le frenate e di aumentare la potenza quando è necessario.

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    Il Coradia iLint

    Secondo i produttori, il calo delle emissioni sarebbe significativo. Per ogni treno ad idrogeno, si risparmierebbero 700 tonnellate di CO₂ l’anno, l’equivalente di quanto emesso da 400 auto.

    Nel 2023 lo vedremo anche in Italia: 6 modelli di questo convoglio sono stati comprati per la tratta Brescia-Iseo-Edolo. Trenord e Fnm vogliono sostituire l’intera flotta di mezzi diesel entro il 2025.

    I problemi dell’idrogeno

    L’ostacolo più grosso, al momento, è quello più banale: il costo. L’idrogeno verde è ancora molto lontano dall’essere competitivo, non solo rispetto alle altre fonti rinnovabili, ma rispetto ai diversi tipi di idrogeno.
    Un chilo idrogeno verde costa tra i 4 e gli 8 dollari, ben più del doppio rispetto a quello grigio (1,5 dollari). Quello blu si attesta sui 3,5 dollari. L’UE, però, prevede che entro il 2030 il prezzo di quello verde scenda a livello molto più competitivi e scenda quasi agli 1,5 dollari del grigio.

    Serviranno grossi investimenti iniziali, prima di arrivare a questo obiettivo. Soprattutto perché costano molto anche gli elettrolizzatori, le macchine che permettono la scissione tra acqua e idrogeno. Per farlo, l’Unione sta investendo 470 miliardi di euro nelle installazioni in tutti i paesi membri.

    costi-idrogenoSul fronte italiano, bisognerà trovare un modo di favorire al massimo l’utilizzo dell’idrogeno verde, a discapito degli altri. Una garanzia che ancora non abbiamo, come sottolinea Pendolaria 2022: «Se ha senso sperimentare questa soluzione su alcune linee dove l’elettrificazione è costosa e complessa, sarebbe bene aspettare i risultati prima di scegliere di farla diventare un’alternativa all’elettrificazione per il potenziamento dei collegamenti sulle linee ancora sprovviste».

    Rischiamo di cadere nella Maladaptation, uno dei problemi della transizione ecologica messi in un luce dall’Ipcc in uno dei suoi ultimi rapporti. È il paradosso delle buone intenzioni. Implementare male una soluzione ambientale rischia di fare più danni del previsto. Come piantare gli alberi sbagliati nel posto sbagliato, ad esempio.
    L’idrogeno, se prodotto da fonti fossili, non può essere considerato una soluzione ambientale. E rischia di pestare i piedi all’elettrico.

    L’idrogeno a Gioia Tauro?

    In Italia, l’obiettivo dichiarato dalla Strategia Nazionale Idrogeno è far arrivare al 2% la penetrazione dell’H2 nella domanda energetica finale. Entro il 2050, questa percentuale deve arrivare al 20%. Per ottenere questo risultato, bisognerà spingere sulla creazione delle Hydrogen valley, cioè gli hub in cui si concentra sia la produzione sia il consumo dell’idrogeno in un certo territorio.

    Tornando ai trasporti in Calabria, anche Ferrovie della Calabria si è mossa verso la transizione all’idrogeno. A maggio 2021, ha stretto un accordo con il Dimeg, il Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Energetica e Gestionale dell’Unical per realizzare una centrale di produzione di idrogeno verde a Vaglio Lise, nei pressi della stazione di Cosenza.

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    Il porto di Gioia Tauro

    La Alstom, inoltre, sta già lavorando con la Regione per il trasporto ferroviario locale. E, durante il Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai, ha manifestato il suo interesse nell’investire nel porto di Gioia Tauro.

    «Potremmo sviluppare un concetto sinergico con il porto di Gioia Tauro per quanto riguarda l’idrogeno. La produzione di idrogeno potrebbe essere un’idea molto interessante, a partire dall’eolico e dal solare» ha detto l’ad di Alstom Michele Viale, collegato al Regional Day della Calabria all’Expo 2020 Dubai.

  • Aspromonte, il paradiso può attendere

    Aspromonte, il paradiso può attendere

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    A distanza di quasi un anno dagli incendi che hanno saccheggiato l’Aspromonte al ritmo di un paio di focolai al giorno, si va avanti a vista, confidando anche nelle statistiche che segnano sempre un intervallo di una manciata di anni tra un disastro e l’altro. Quattro morti, settemila ettari di area protetta andati in fumo, decine di sentieri cancellati dalle fiamme e intrappolati dalle frane che ne sono figlie, e un paio di paesi che hanno seriamente rischiato di essere devastati dai roghi: l’estate del 2021 verrà ricordata come l’estate della devastazione. Devastazione che ha avuto il suo epicentro nella provincia di Reggio e che ha visto il Parco nazionale d’Aspromonte pagare un prezzo altissimo al tavolo dei piromani che per quasi un mese hanno messo a ferro e fuoco uno dei polmoni verdi della Calabria.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte (foto 2021)

    Cronologia di un disastro

    Una ventina di giorni, quelli compresi tra il 29 luglio e il 17 agosto: sono queste le date che segnano il passo degli incendi e che registrano almeno un nuovo fronte di fuoco. Fronti che, a leggere i primi dati raccolti attraverso il sistema Copernicusil programma satellitare di osservazione della Terra coordinato e gestito dall’Unione Europea – sono scoppiati praticamente in contemporanea a distanza di decine di chilometri l’uno dall’altro. I primi episodi, sporadici, si registrano nei primi giorni di luglio a monte di Mammola e San Luca. Ma è con la fine del mese che le cose precipitano.

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    In rosso le zone interessante dagli incendi nel 2021 in Aspromonte

    Il 29 il fuoco attacca l’entroterra di Gerace mangiandosi quasi 10 ettari di foreste. Poi, in un’escalation tremenda dove è difficile non individuare la mano dell’uomo, le fiamme aggrediscono i territori di Condofuri, di nuovo San Luca, Mammola e Oppido. Quindi si allungano fino ai confini estremi di Reggio. Ancora poche ore, e nella notte tra il 4 e il 5 agosto le fiamme prendono piede nell’area di San Lorenzo. Dalle campagne del piccolo paesino dell’Aspromonte grecanico i roghi scendono e risalgono i costoni della montagna portando devastazione e morte in tutta l’area. Minacciano da vicino anche l’abitato di Roccaforte del Greco e quello di Bagaladi.

    Non c’è pace fino a settembre

    All’alba di ferragosto, quando il fronte ha ormai distrutto quasi ogni cosa gli si parasse davanti spostandosi più a sud verso la diga del Menta, si conteranno più di 6mila ettari di boschi, in area sottoposta a tutela, completamente distrutti. E mentre le fiamme corrodono i boschi secolari di “pino calabro”, i nuovi fuochi continuano ad aggredire le ricchezze del parco.

    Il 5 è la volta di Oppido. Poi il sette di nuovo a San Luca in quello che, probabilmente, è il fronte (850 ettari andati in fumo) che ha minacciato da vicino le foreste vetuste di Faggi, a quota 1200 metri di altezza: l’Unesco le aveva dichiarate patrimonio dell’Umanità appena una manciata di mesi prima. E ancora Martone, Cittanova e Grotteria il dieci agosto e di nuovo San Luca – il paese che presenta la maggiore estensione territoriale in tutta la provincia – Canolo e Mammola in un inferno di fuoco che s’interromperà solo nei primi giorni di settembre.

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    I sentieri distrutti dalle fiamme nel 2021 in Aspromonte

    Paradiso perduto

    Sono le guide ufficiali del Parco a certificare lo stato di devastazione causato dagli incendi. Loro lo studio che compara i dati Copernicus con le carte che mappano la biodiversità vegetale presente sul territorio. E sono sempre loro a battere la montagna annotando nuove frane sui percorsi noti e a toccare con mano l’entità del disastro.

    Sono stati i boschi più pregiati a pagare il prezzo più alto dell’estate degli incendi, soprattutto nella zona compresa tra i centri di Bagaladi, San Lorenzo e Roccaforte del Greco. Qui, il report stilato dalle guide del Parco, certifica come siano oltre 1700 gli ettari di “pino calabro” – uno degli alberi che maggiormente caratterizza la vegetazione autoctona e le cui foreste erano vecchie di secoli – andati completamente perduti. Un patrimonio inestimabile a cui si devono aggiungere le foreste di faggi, castagni e lecci (circa 550 ettari) e quelle venute fuori dal rimboschimento di conifere e ormai evaporate (quasi mille ettari).

    Animali e sentieri 

    E ancora boschi di ginestre, pascoli e decine di fondi coltivati a uliveto. Per non dire degli animali. Tassi, faine, scoiattoli e martore che non hanno trovato scampo come cinghiali, volpi e lepri. Confusi dal fumo e circondati dalle fiamme, sulle loro carcasse hanno banchettato per giorni corvi e cornacchie.

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    Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di agosto 2021

    Nel lungo elenco dei danni ancora in corso di realizzazione sono finite anche le aziende e le associazioni che il parco d’Aspromonte lo vivono e lo fanno vivere ai turisti. Sono decine i chilometri di sentieri e stradine interessate dagli incendi su tutti i versanti della montagna, che fanno parte dei consueti percorsi turistici. Dal sentiero “Italia” nel tratto che collega Reggio a Gambarie e poi più a nord in quello che collega Montalto – la cima più importante d’Aspromonte – con San Luca. E, ancora, i percorsi che scavalcano le vette e collegano Bova nell’area grecanica con Delianuova sul versante tirrenico e tra Samo e il cuore della montagna.

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    La moria delle Api a causa degli incendi in Aspromonte (foto 2021)

    Aspettando Godot

    Se la reale portata degli incendi non è ancora del tutto chiara, buona parte del problema viene dai comuni (37 in tutto) che ne compongono il cuore. Spetta a loro il compito di censire dettagliatamente i confini dei roghi che hanno interessato i rispettivi territori. È un lavoro che andrebbe eseguito nelle immediatezze degli eventi. Serve, infatti, per avere una visione chiara delle aeree in cui intervenire e la priorità degli interventi da mettere in campo oltre che a progettare un adeguato piano di difesa. Nessuno (o quasi) dei centri del Parco ha ancora consegnato le planimetrie dei censimenti. Così nei giorni scorsi gli uffici amministrativi dell’Ente sono stati costretti a inviare una comunicazione ufficiale a ogni comune nel tentativo di capire quanto fatto finora.

    E sono sempre i comuni a dovere garantire la pulizia dei fondi – soprattutto quelli nelle immediate vicinanze dei centri abitati – in modo da creare delle zone taglia fuoco in grado di proteggerli. Anche in questo caso la situazione attuale registra un preoccupante ritardo, nonostante la scorsa estate le fiamme siano arrivate a toccare le prime case di Grotteria e di San Giovanni di Gerace.

    I cittadini si improvvisano pompieri d’Aspromonte

    In quell’occasione furono anche gli abitanti dei due piccoli centri a dare una mano alle squadre antincendio: incuranti delle ordinanze sindacali che disponevano l’evacuazione decine di semplici cittadini si diedero da fare con pale, rastrelli e sifoni da giardino per domare le fiamme che avevano attaccato la rupe su cui si affacciano il comune di Grotteria e la chiesa di San Domenico, da cui un drappello di fedeli aveva “evacuato” per precauzione la statua del Santo protettore. L’incendio che lambiva l’abitato ebbe anche la conseguenza di “dirottare” l’unico canadair presente in quei giorni sulla montagna che, come ordine di servizio, deve dare priorità ai centri abitati.

    Soldi e bandi pubblici dove sono finiti?

    Da una parte i comuni, a loro difesa, mettono sul piatto una pianta organica ridotta all’osso, che dilata i tempi e complica le cose. Dall’altra provano a battere cassa, indicando i costi pesanti dell’affidamento a società esterne per il censimento degli incendi passati.

    Eppure di soldi legati ai bandi pubblici ne sono girati. E ne continuano a girare. Soldi, come quelli del bando “Clima 2021” che hanno preso varie strade, previste dai bandi ma solo “adiacenti” a quelle che ci si immaginerebbe dopo il disastro dell’anno scorso. Quello che i fuochi del 2021 hanno mostrato è infatti la drammatica carenza di strutture, mezzi adeguati e uomini preparati ad affrontare eventi così imponenti.

    Sono circa una quindicina, ad esempio, i punti di rifornimento di acqua a cui possono accedere i mezzi antincendio impegnati sul territorio. Punti disseminati a macchia di leopardo dentro i confini del parco – tra reti idriche, piccoli laghetti e, sparute, vasche antincendio – ma che sono risultati decisamente insufficienti alla prova dei fatti.

    Solo un milione su 4 per le vasche antincendio

    Degli oltre 4 milioni di euro garantiti dal ministero della Transizione ecologica e veicolati attraverso il Parco nazionale, però, solo uno dei nove progetti finanziati prevede la costruzione di una vasca antincendio. Succede nel comune di Cosoleto, che ha chiesto e ottenuto 200mila euro per allestirne una a cui possano “abbeverarsi” i mezzi spegni fuoco.

    Il resto dei soldi è andato invece, legittimamente, per la ristrutturazione e l’efficientamento energetico dei municipi di Bova, Gallicianò e Cinquefrondi. Mentre a Cittanova serviranno per la ristrutturazione dell’ostello della gioventù e per la costruzione di un vivaio forestale. Questione di priorità, anche alla luce del fatto che quello degli accessi all’acqua durante gli incendi è stato uno dei problemi maggiori riscontrati la scorsa estate per gli interventi da terra.

    In ballo ci sono poi i finanziamenti per altre vasche. Attendono il via libera per il progetto definitivo i comuni di San Luca, Oppido, San Giorgio Morgeto e Mammola. Ma i tempi sono quelli della burocrazia calabrese. Toccherà incrociare le dita.

    I fantasmi dell’Afor sull’Aspromonte

    Sul campo però, oltre ai vigili del fuoco e alle associazioni, a cui come da piano Aib è andata la gestione di 15 delle 16 zone in cui è stato diviso il territorio protetto (una resta invece di competenza dello Stato e viene gestita direttamente dal reparto dei carabinieri per la biodiversità), vanno le squadre di Calabria Verde.

    Una settantina quelle disponibili in tutta la provincia. Sono formate per lo più da gruppi di 3-5 persone, ma alcune sono più numerose. Oltre a tenere a bada le fiamme dovrebbero anche garantire la manutenzione delle strade e la ripulitura del sottobosco in Aspromonte.

    Passati i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor, però, i numeri degli addetti sul campo sono crollati drasticamente. Tenere a bada i 67mila ettari dell’Aspromonte è semplicemente impossibile. Un problema, quello della scarsità d’organico, che si riflette anche sui tempi di intervento. Capita che i mezzi antincendio, privi degli operai che conoscono la montagna, si perdano tra le mille stradine sterrate del territorio.

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    Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte nel 2021

    Gara deserta

    E se gli uomini mancano, lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i mezzi. Sei le autobotti di Calabria Verde in provincia, due delle quali stanziate fuori dai confini del Parco. Dal 2018 avrebbero dovuto aggiungersene altre fra le 10 messe in cantiere dalla società regionale. Peccato che le gare – subissate da richieste di chiarimenti sul bando da parte dei concorrenti – continuino ad andare deserte da quattro anni.

    L’ultima è stata dichiarata «infruttuosa» lo scorso 14 aprile e ha costretto Calabria Verde a virare verso un “procedura negoziata”. Con un tetto massimo di poco più di 200mila euro, dovrà rimpolpare il parco automezzi con cinque nuove autobotti da prendere con il principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Tempi previsti: 120 giorni dalla stipula del contratto. Speriamo che i piromani aspettino.

  • FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

    FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

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    I viaggiatori del Settecento e dei secoli successivi hanno alternato nei loro diari impressioni contrastanti su questo lembo d’Italia chiamato Calabria, esaltandone alcune straordinarie bellezze e denunciandone le brutture. Quando la regione non veniva saltata a piè pari perché terra di ruberie, truffe e raggiri, assalti e uccisioni, in molte occasioni, per edulcorare a se stessi le delusioni, nei romantici diari di viaggio si attenuavano le profonde ed evidenti precarietà che la Calabria rappresentava e racchiudeva, nella medesima forma di paradigma delle negatività italiane di oggi.

    Edward Lear, disegno di viaggio in Calabria, 1847

    È pure vero che i frettolosi visitatori dimenticavano una certa quantità di eroi, soprattutto nel secolo risorgimentale. Così come pochi riuscivano a cogliere, in quei medesimi periodi, le tracce dell’antica bellezza magnogreca che pure ha interessato l’intera Calabria. Una storica frase dell’archeologo Lenormant, nel suo passaggio nei pressi dell’antica Sibari, rimane tutt’oggi memorabile: «Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura dove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole e il mare della Grecia».

    Un viaggio tra slanci e ritardi

    Sarà la nostalgia di un passato affascinante, il richiamo di radici profonde e lontane quanto attuali, il senso di impotenza e disagio a spingermi a scrivere. L’obiettivo è scorgere, nelle pieghe di un tessuto urbano e sociale lacerato, slanci e sprazzi di vitalità che pure esistono e stanno emergendo. Scavare nelle macerie della nostra malconcia modernità alla ricerca della bellezza che sopravvive. Parlare dei nuovi eroi che la tengono attiva con iniziative che superano ogni difficoltà in una diversa forma di risorgimento sociale calabrese. Ritardi e slanci, quindi.

    Eroi nel Crotonese

    La chef Caterina Ceraudo nell’orto della sua azienda agricola

    La Regione Calabria si presenta alla Bit di Milano con ambizioni, premesse e promesse che pretendono di farla sembrare la Florida, ma il turismo che interessa la nostra terra è ancora di scarso livello culturale, con modeste ricadute socio-economiche. Però, proprio nei padiglioni milanesi della Bit, si accende una luce su una delle nostri giovani eroine: Caterina Ceraudo. Chef stellata, da tempo stupisce tutti con i suoi piatti che affondano le radici nella tradizione calabrese, nei prodotti di questa terra, con rivisitazioni che conquistano. Suo padre Roberto Ceraudo con sana testardaggine calabra ha realizzato dal nulla e conduce una azienda agricola bellissima, tutta ecologica, nei pressi di Strongoli.

    Caterina Ceraudo, Piatto Sottobosco, omaggio alla Sila

    Alla stessa maniera hanno fatto, poco vicino, gli altri nuovi eroi: i Librandi. Da generazioni rinnovano una cultura enologica di rara qualità, che include l’aver saputo rigenerare persino il vitigno calabrese per eccellenza, quel Gaglioppo capace di conservare l’origine della bellezza greca. E lo fanno in un contesto – tra Crotone e Cirò – saccheggiato dalla malavita, dall’abusivismo sulle coste, dalla moria progressiva dell’ex tessuto industriale crotonese. I Librandi hanno superato, da soli, la logica dell’assistenzialismo. Di generazione in generazione hanno acquisito prestigio: dai sei ettari iniziali oggi ne coltivano 232, con una produzione di 2,3 milioni di bottiglie e un nome noto nel mondo.

    I Librandi in un vigneto dell’azienda di famiglia

    La Sila che attira i turisti e quella che li respinge

    Per rimanere nell’ambito della nuova stagione del cibo, quest’anno la stella Michelin è toccata anche al lavoro certosino di ricerca e bellezza, tra odori e sapori dei boschi della Sila, di Antonio Biafora, del ristorante Hyle, a pochi chilometri da San Giovanni in Fiore. Nella stessa località ha sede anche il Consorzio Tutela Patata della Sila, una sfida vinta contro infiniti luoghi comuni avversi all’idea che al Sud si possa fare associazionismo e prodotti della terra di qualità ed ecologici.

    Lo chef stellato Antonio Biafora tra i boschi della Sila

    Tuttavia, a queste eccellenze e a una natura esuberante e di rara bellezza dei boschi di pino laricio fa da contrasto la povertà dei tessuti urbani dei principali centri silani. Fuori dalle cinture storiche, presentano una drammatica precarietà edilizia, estetica, mancanza di elementi minimi di decoro. Sono densi di provvisorietà, esito di ritardi culturali e miopia urbanistica. Certo non sono capaci di attrarre alcun turista intelligente. E non aiutano affatto il prestigio di Biafora, tantomeno della Patata della Sila, così come di altre eccellenze silane.

    San Giovanni In Fiore, Luca Chistè 2020

    Errori pubblici e privati

    Quanto accaduto negli ultimi cinquant’anni ai centri urbani calabresi, dietro al fallimento di ingenti investimenti pubblici con aree produttive vuote e fantasmagoriche, è frutto di una totale mancanza di strategie capaci di uno sguardo che non fosse oltre la soglia di casa. Così, più si scende verso Sud e più la cultura urbana e della manutenzione si fa chimera.

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    Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Ma qui in Calabria, oltre questa assenza, si tratta di una diffusa condizione di disinteresse civico, di totale disattenzione verso qualsiasi segno di rinascita che si opponga al decadimento. E, se non fosse per il virtuosismo di iniziative private e di alcuni illuminati amministratori, il disagio e il divario verso altre realtà sarebbero ancora maggiori.

    Un’altra Calabria è possibile

    Questo, però, è anche un viaggio di speranza, di fiducia. Per accendere luci dove ci sono e smetterla con la cultura del lamento, ma seguire nel realizzare un panorama diverso dentro ai ritardi e alle devastazioni. Costruire una geografia positiva, capace nei prossimi anni di ribaltare le negatività e invertire la rotta, può tradursi in una ulteriore spinta per non sprecare l’occasione del Piano di Ripresa e Resilienza, che ha il Sud come obiettivo principale perché a Bruxelles lo sanno che è qui il punto nevralgico dell’Italia.

    Luci e ombre a Reggio Calabria

    Tra le ombre lunghe di Reggio Calabria, oltre il suo magnifico lungomare in cui una stupenda installazione dell’artista Edoardo Tresoldi conferisce a questo luogo la magia dell’Arte urbana, la città, nelle pieghe del suo tessuto più densamente abitato, esplode in un dedalo di conflitti urbani e diffusa marginalità. Con un aeroporto scalcinato indegno di tale nome, più verso la collina i pezzi di università che contrastano il degrado; un Museo del Mare mai finito, megalomane progetto dell’allora sindaco Scopelliti; fiumare abusivamente abitate e intasate di cemento.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Poi ci sono i Bronzi, felicemente ritrovati, in un Museo Archeologico che merita molto di più di ciò che ha e che può offrire. Per esempio qualcosa di più dell’inadeguato, recente, marchio per i 50 anni del ritrovamento delle due bellissime sculture, realizzato come sempre senza una sana competizione tra i migliori graphic designer italiani, ma affidato in modo superficiale a qualche miope “sguardo” localistico.

    Anche a Reggio si accendono da tempo luci tra le ombre. Nei numerosi ritardi accumulati dalla città dello Stretto si scorge lo slancio di giovani eroi che fanno cultura, innovazione, ricerca. Alcuni – intorno alla docente di UNIRC, Consuelo Nava, attivissima ricercatrice che dirige un produttivo laboratorio di tecnologia sostenibile sulle possibilità di un abitare ecologico in Calabria e nel Mediterraneo – accendono più di una speranza. Nella stessa università, pur in tempesta per le recenti indagini della procura locale, il dipartimento di Giurisprudenza è tra i più innovativi e avanzati nel settore e di recente è stato riconosciuto come Eccellenza dal MUR.

    L’importanza della scuola

    Proprio sulla tematica del costruire sostenibile, di recente, un ingente investimento statale ha consentito di mettere in sicurezza oltre 700 edifici scolastici calabresi. Le scuole sono di importanza vitale: qui si formano i cittadini futuri, le classi dirigenti e molti di essi rappresentano il segnale negativo di quanto poco interesse si ha per la qualità, il decoro, la funzionalità, diciamolo per la bellezza nelle sue diverse forme attuali. Mi fa piacere, in questo caso, accendere una luce sulla nuova Scuola d’infanzia “Virgilio” di Locri, un esempio di bioedilizia.

    La scuola “Virgilio” di Locri, prima del suo genere in Calabria

    È la prima in Calabria realizzata secondo una sintesi perfetta tra efficienza energetica, comfort e sostenibilità ambientale. La progettazione esecutiva e realizzazione sono di un’impresa calabrese, la Cesario Legno, con sede a Zumpano, dove tra capannoni anonimi e una natura bellissima, a due passi dal fiume Crati, si progettano case domotiche d’avanguardia.

    La Calabria che non si parla e quella che non si rassegna

    Da questo viaggio emerge quanto la Calabria sia in parte persa nei suoi diffusi e disarticolati territori, “che non si parlano”. Quanto questa terra di “bellezza e orrore” resti tanto chiusa nelle proprie estese e preoccupanti contraddizioni che ne amplificano il degrado. Ma emerge anche il coraggio di un esteso manipolo di resistenti, residenti, non assuefatti all’oblio, non rassegnati alla sconfitta, che alimentano già una letteratura vasta che include calabresi e non, illustri e meno noti.

    Una Calabria di oggi, dunque, ancora diffusamente punteggiata da slanci e ritardi. Dove ad aree industriali dismesse o mai decollate, strade non finite, edifici pubblici fatiscenti, luoghi della perenne precarietà, pontili nel nulla, porti senza navi, aeroporti senza aerei e senza qualità, perenni vuoti senza mai pieni, opere pubbliche faraoniche, si oppongono il desiderio del fare e un anelito al cambiamento diffusi ovunque. Alla scoperta di luci che diradano, nel tempo, le ombre più cupe, segnando una necessaria inversione di tendenza.