Non sorprende constatare che dopo gli ultimi fatti disastrosi delle Marche e della Sicilia la maggior parte delle considerazioni abbia riguardato l’abusivismo. Che c’entra, certo, ma prima, a monte, c’entra altro. Né il rosario senza fine che si sta sgranando sotto i nostri occhi da decenni – e riguarda la Calabria come ogni parte d’Italia, nessuna esclusa, con frane, alluvioni, devastazioni, lutti, risorse ingentissime spese posteventi e quasi altrettanti soldi disponibili e non utilizzati – basta ad accendere la scintilla della messa in sicurezza prima di ogni altra cosa. Che non significa inseguire un improponibile rischio zero ma nemmeno adagiarsi su una non ammissibile deregulation, ma previsione e prevenzione sì, però. Così come pianificazione e utilizzo del territorio secondo criteri basati sulle conoscenze, l’equilibrio fra i diversi comparti territoriali, urbani ed extraurbani e il controllo da parte di ha ruolo e responsabilità.
Difesa del suolo? Si fa poco e poi succede “Casamicciola”
Dagli Usa all’Italia
Un tempo non lontano solo a parlare di “piano” si richiamavano echi di modernità, di razionalità, di proiezione in avanti. Di certo le misure messe in essere dalla Tennessee Valley Authority varata da Roosevelt dopo il giovedì nero del ‘29 diedero una spinta poderosa alla “progettazione” e alla gestione del territorio in accordo alla multidisciplinarietà e all’utilizzo plurimo delle risorse.
Il presidente Franklin Delano Roosevelt firma uno dei provvedimenti economici del New Deal
La diffusione in Italia di quanto si stava facendo Oltreoceano sul Politecnico di Elio Vittorini funzionò da spinta ai primi governi di centrosinistra in Italia con Giolitti ministro per varare una stagione virtuosa e carica di promesse in tal senso: quelle della pianificazione, della previsione, della prevenzione.
Solo che i piani si moltiplicarono in misura esponenziale, invalse una loro concezione fin troppo rigida e poco modulabile. Le risorse cominciarono a scarseggiare. Così – anche per la sovrapposizione fra essi che di fatto creò una situazione fra l’eccessivamente vincolistico da una parte, la contraddittorietà dall’altra – quella stagione tramontò, in corrispondenza, e non è secondario, con un edonismo diffuso che piano piano prendeva piede.
Interviene l’Europa. E sono guai
Nel settore acqua-suolo lo strumento principe è stato il Piano di bacino che, a partire dal 1989 quando il Parlamento approvò il Programma Decennale per la Difesa del Suolo, individua comparti territoriali, strumenti, istituti, risorse, best practices per una ottimale politica di utilizzo del territorio. Ha dato frutti estremamente significativi, se pure molto osteggiato da chi lo giudicò un mezzo per limitare e vincolare e sottrarre poteri ai tanti cacicchi locali, avvalendosi degli straordinari risultati via via ottenuti in discipline quali l’idraulica, la geologia, la geotecnica.
La difesa del suolo deve tornare al centro dell’agenda politica
Le università e il Cnr costituirono magna pars di quel poderoso processo messo in moto, che nei fatti si arrestò nel 2000 con le Direttive Europee che mutarono volto e corpo al nostro apparato normativo e alle sue diverse articolazioni. Lo mutarono senza che ne conseguissero risultati positivi, fino a giungere a tutto il primo ventennio del terzo millennio con un territorio in balia di se stesso, confuso in termini di centri di competenze, responsabilità spalmate e irrintracciabili, controlli, cambiamento climatici e tutto quanto stiamo vivendo.
Basta scaricabarile
Recuperare la tensione e l’attenzione dei decenni passati, sulla scorta delle esperienze nel frattempo maturate e dei risultati conseguiti è così un imperativo etico oltre che politico per rispondere alla domanda di intervento e di responsabilità che sorge dai cittadini. Per onorare le vittime, senza ricorrere a una indecorosa caccia al colpevole. O al gioco preferito degli italiani: lo scaricabarile.
Massimo Veltri Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica
Sono passati più di trent’anni da quando, il 27 marzo 1992, è stata approvata la legge che ha vietato l’utilizzo e la produzione di manufatti contenenti amianto. Nel frattempo, però, chi ha lavorato per decenni a stretto contatto con l’eternit spesso ha sviluppato malattie di tipo tumorale. E la bonifica e lo smaltimento del pericoloso materiale in Calabria sono ancora in grave ritardo.
Una sentenza importante per un’intera categoria
A volte, come nel caso che stiamo per raccontare, si è rimosso l’amianto senza le dovute protezioni. Ogni sentenza racconta sempre una storia, questa va oltre il singolo caso perché riguarda una intera categoria di lavoratori.
Per 28 anni di fila, infatti, un uomo aveva lavorato in Ferrovie della Calabria, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì e dalle 7 della mattina fino alle 5 del pomeriggio. Poi nel 2008 si era dovuto dimettere perché il mesotelioma pleurico che lo affliggeva non gli consentiva più di fare sforzi. La neoplasia, purtroppo, circa 7 anni dopo non gli concedeva più altro tempo. E l’ex operaio delle Ferrovie della Calabria veniva a mancare, dopo molti ricoveri e cure, nonché un delicato intervento chirurgico presso il Mariano Santo di Cosenza.
Amianto e tumori: la denuncia dei familiari dopo la morte
L’uomo aveva già ricevuto in vita dall’Inail l’indennizzo per malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto. Gli eredi, la moglie e i 3 figli, un paio d’anni dopo la sua morte hanno poi deciso insieme agli avvocati Runco e Coschignano di fare causa a Ferrovie della Calabria per il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ritenevano, infatti, che la causa del tumore fosse la lunga e continuata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.
Il giudice: Ferrovie della Calabria deve pagare
Silvana Domenica Ferrentino, giudice del Tribunale di Cosenza, il 2 dicembre scorso ha depositato le motivazioni della sentenza. E, accogliendo il loro ricorso, ha quantificato in 170mila euro i soldi che Ferrovie della Calabria dovrà pagare a tutti e 4 gli eredi per il danno biologico, più 163mila euro ciascuno per danno da perdita parentale. In totale sono circa 820mila euro, più interessi e spese legali. Il nesso causale emerso in aula tra la presenza di amianto sul luogo di lavoro e il tumore ai polmoni ha sancito la responsabilità (al 55%) di Ferrovie della Calabria nel decesso dell’ex operaio cosentino
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Nelle varie udienze del procedimento civile sono stati acquisiti numerosi documenti e sentiti alcuni testimoni. Ma, soprattutto, è stata disposta una perizia medica che è servita a stabilire il nesso diretto tra la presenza d’amianto sul luogo di lavoro dell’ex operaio e il tumore ai polmoni che lo ha poi ucciso.
Nessuna protezione né visite specialistiche
Queste, ad esempio, le parole di uno dei testimoni in aula che la sentenza riporta: «Noi operai lavoravamo solo con la tuta da lavoro ma non abbiamo mai usato mascherine e guanti… Preciso che non avevamo dispositivi di protezione e non eravamo informati sui rischi». Non risulterebbero poi visite mediche specialistiche effettuate dall’azienda sui propri lavoratori al fine di verificarne lo stato di salute. Eppure l’operaio morto riceveva spesso l’incarico di tagliare lastre di amianto, come la stessa sentenza dimostra.
Quindi: presenza di amianto, solo visite generiche, nessun dispositivo di sicurezza. Infine, le dichiarazioni del medico incaricato dal Tribunale: «Ove il soggetto fosse stato effettivamente esposto all’amianto, può certamente riconoscersi un nesso di causa tra l’insorgenza del mesotelioma e le mansioni svolte dal lavoratore».
Amianto e tumori: una decisione storica
Gli elementi per condannare Ferrovie della Calabria, dunque, c’erano tutti, stando alla sentenza di primo grado. A differenza del processo penale che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile vige la regola detta del “più probabile che non”: ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicché, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra.
In questo caso Ferrovie della Calabria (e i suoi comportamenti legati alla presenza di amianto in alcuni luoghi lavorativi) è stata riconosciuta colpevole al 55%, altrimenti la somma liquidata in condanna sarebbe stata più alta. Il giudice, infine, decurtando quello che l’Inail aveva già versato al defunto, ha stabilito le altre somme che hanno formato il risarcimento totale per tutti i danni subiti e da liquidare in favore degli eredi.
Queste le decisioni nel primo grado di giudizio, che comunque sono esecutive, in uno dei primi processi a Cosenza arrivati a sentenza per risarcimento danni da amianto e legati a Ferrovie della Calabria.
La buona notizia è che la Calabria, fra fonti rinnovabili, idroelettrico e altre fonti non fossili, produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Addirittura siamo al 42% sulle rinnovabili, dato che ha entusiasmato Younous Omarijee, presidente della Commissione Europea per lo Sviluppo Regionale, di recente in visita in Calabria. Evviva, verrebbe voglia dire. E invece no. Anzi quasi.
Tutto bello, certo, se non fosse che, per il tramite di alcune datate convenzioni con scadenze non proprio dietro l’angolo, la Regione Calabria ha affidato ad una società per azioni lombarda, la A2A, quotata in borsa e con 7 miliardi di fatturato, la gestione dei propri bacini idroelettrici.
L’acqua verso Nord e la Calabria a secco
Primo risultato? In forza di tali convenzioni, l’A2A, legittimamente sia chiaro, destina il grosso della produzione di energia elettrica verso il Nord utilizzando l’acqua dei nostri invasi. Secondo risultato? Accade che a causa dei mutamenti climatici e quindi in piena siccità e parallela crisi idrica, ci si ritrovi con i laghi quasi completamente svuotati. E con città come Crotone che, ad esempio, rischiano la paralisi degli approvvigionamenti idrici per uso domestico e agricolo. A penalizzarci è una convenzione che orienta l’utilizzo delle risorse idriche (nostre) verso priorità diverse da quelle espresse dalle esigenze sociali e produttive del territorio.
Le domande che ora vorremmo porre sono quasi banali. Per esempio: attesa l’eccezionalità della situazione meteo, i termini di queste convenzioni non possono essere rivisitati per intervenuta eccessiva onerosità o, magari, per distorsione della relazione sinallagmatica fra le parti contraenti?
Sila, il lago Ampollino svuotato
L’autonomia passa dall’energia: la Calabria e l’esempio del Veneto
In attesa che qualche giurista risponda al quesito, vorremmo lanciare una proposta chiara e forte. Visto che produciamo più energia di quella a noi oggettivamente necessaria, perché non pensiamo ad una autonomia differenziata che ci veda protagonisti e non spaventati da quello che il Nord e/o il Ministro Calderoli potrebbero architettare ai nostri danni? Sapete che il Veneto ha già approvato una legge che dispone il trasferimento della proprietà delle centrali idroelettriche alla Regione? Sapete che il presidente Zaia impazza già sui social rivendicando l’evento come primo passaggio verso l’autonomia della Regione Veneto?
Luca Zaia posa con un militante durante una manifestazione in favore dell’autonomia del Veneto
Un gestore pubblico tutto calabrese
E perché la Calabria non dovrebbe riscoprirsi coraggiosamente autonoma e, addirittura, visto il surplus energetico, regione fornitrice dell’intero mercato nazionale, nel settore delle rinnovabili, atteso che sole, vento e correnti marine non sembrano proprio mancarci? E chiaro o no che la tendenza di scenario, tra Agenda Onu 2030 e PNRR, muove inarrestabile verso la transizione ecologica e la sostenibilità?
Perché non costituire, da subito, un soggetto pubblico calabrese per la captazione, trasformazione, stoccaggio e distribuzione di energia derivante da fonti rinnovabili visto che le risorse naturali sono nostre e soprattutto non rare?
Indipendenti, non col cappello in mano
Attenzione a non giocare la solita partita vittimistica dell’autonomia differenziata e del Sud depredato. Cambiamo modulo di gioco: per la prima volta, nella nostra storia, proviamo a riscoprirci autonomi ed intraprendenti anziché genufletterci all’A2A di turno per pietire, con il solito cappello in mano ormai sgualcito, volumi aggiuntivi di acqua o di energia visto che, soprattutto, parliamo di risorse nostre.
E poi magari, nel frattempo, stiamo attenti a non dimenticare che lo stesso soggetto pubblico potrebbe, anzi dovrebbe, avviare la pianificazione degli investimenti necessari a giocare la partita energetica del futuro: quella sull’idrogeno.
La Calabria regione leader, in Italia, nelle energie rinnovabili. Dai, proviamo a regalare una prospettiva, un lavoro e un sogno alle nuove generazioni calabresi. I calabresi siamo noi.
Ci sono due espressioni forti, per indicare i rischi del territorio in Italia, soprattutto al Sud.
La prima è un classico: si dice Casamicciola, per rievocare il terribile terremoto del 1883, in cui rischiò la vita Giustino Fortunato e perse la famiglia Benedetto Croce. La seconda riguarda la Calabria ed è tratta da un’espressione dello stesso Fortunato: lo sfasciume pendulo sul mare.
La recente alluvione che ha messo in ginocchio Ischia e, in particolare, Casamicciola Terme, ha riacceso i riflettori sui pericoli del nostro territorio, dovuti a tre fattori: la gracilità del suolo, il rischio sismico e l’intervento dell’uomo, molte volte incosciente.
Di tutto questo si è discusso durante il dibattito svoltosi a Villa Rendano lo scorso 2 dicembre, significativamente intitolato: “Pioggia, fango, lutti e licenze edilizie: l’Italia crolla”.
L’architetto Daniela Francini
Cinque studiosi a confronto
Moderato dal giornalista Antonlivio Perfetti, il convegno di Villa Rendano è stato il quarto avvenimento organizzato dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani su argomenti di stringente attualità.
Il dibattito, pacato nelle forme ma forte nei contenuti, è stato animato da cinque addetti ai lavori: Paolo Veltri, professore Ordinario di Costruzioni Idrauliche dell’Unical, i due ricercatori del Cnr Carlo Tansi e Olga Petrucci, l’architetto e urbanista Daniela Francini e Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, un territorio ad alto rischio idrogeologico, come ricorda l’esondazione del 2015.
Il colpevole quasi perfetto è il Comune
La requisitoria di Veltri, che ha aperto i lavori subito dopo i saluti della vicesindaca di Cosenza Maria Pia Funaro, è pesantissima.
Per l’ex preside di Ingegneria, tragedie come quelle di Ischia non hanno un solo imputato, ma sono l’esito di una serie di responsabilità diffuse. Si va dalla pessima utilizzazione dei mezzi e del personale all’insufficienza della politica nazionale di difesa del suolo, in cui la Calabria ha il consueto ruolo della Cenerentola, perché priva di una classe politica forte, capace di pretendere dallo Stato.
Al riguardo, si registra il pesante paradosso dei sorveglianti idraulici, che sono in cassaintegrazione proprio quando piove, cioè quando servirebbero di più.
Gli indiziati più pesanti, tuttavia, restano la Regione, accusata di assenteismo nelle opere fluviali e gli enti locali. I Comuni, in particolare, sono il colpevole quasi perfetto, sia per quel che riguarda i controlli sia per la facilità con cui le amministrazioni chiudono un occhio sugli abusi edilizi o li condonano.
La natura è benigna, l’uomo no
Carlo Tansi e Olga Petrucci del Cnr intervengono nel focus organizzato dalla Fondazione Giuliani con due approcci diversi ma convergenti.
Tansi va giù duro sugli abusi e rovescia il paradigma dei disastri ambientali. Le frane e le alluvioni? Secondo il geologo sono processi benigni, perché consentono il ripascimento delle spiagge, che altrimenti verrebbero spazzate vie dall’erosione costiera.
I danni, invece, li fa l’uomo, quando usurpa con interventi edilizi dissennati gli spazi della natura. E la Calabria? Occorre fare attenzione al meteo: i guai inizieranno con le piogge.
Già, prosegue il geologo: possiamo fregare la legge e lo facciamo spesso. Ma la natura è un tribunale che emette sentenze inappellabili.
L’unica risposta è la prevenzione, che inizia dalla consapevolezza. In questo caso, dalla conoscenza dei luoghi su cui non si deve costruire.
Al riguardo, è utilissima l’esperienza di Petrucci, che ha realizzato una serie di volumi (reperibili anche su Google Books) dedicati alle zone a rischio idrogeologico in Calabria e ha realizzato un data base sulle catastrofi nel bacino mediterraneo.
Il colpevole? La burocrazia. Parola di sindaco
Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, punta il dito sulla lentezza delle procedure per l’erogazione di fondi e mezzi per la tutela del territorio.
«Le situazioni mutano sempre, perché il territorio non è statico. I mezzi arrivano spesso quando non servono più». Il rimedio, secondo il primo cittadino dello Jonio, si riassume in una parola: semplificazione. Già: la tempestività degli interventi, molte volte, è più importante dei fondi stessi.
Dura l’accusa sulla facilità con cui spesso sono concessi i condoni. Ma al riguardo, Stasi dichiara di avere la coscienza a posto: «Noi abbiamo ripreso a demolire».
Prima la sicurezza, poi la giustizia
L’architetta urbanista Daniela Francini si sofferma, invece, sulla pianificazione.
A suo giudizio, la pianificazione inesistente o inadeguata è in cima alla lista dei rischi.
In particolare, è difficile tuttora implementare i nuovi metodi di pianificazione, come dimostra il caso di Ischia.
Prevenire i disastri significa soprattutto tutelare le vite umane: quando si scopre un abuso, sostiene Francini nell’incontro promosso dalla Fondazione Giuliani, occorre innanzitutto mettere in sicurezza i fabbricati sotto accusa, poi sanzionare. «Se si fosse agito così», commenta l’architetta, «forse non piangeremmo dei lutti».
L’Italia crolla e la Calabria ancor di più? Forse sì. Ma prima di stracciarci le vesti sarebbe il caso di acquisire consapevolezza e approfondire.
Prevenire è meglio che curare. Ma per prevenire occorre sapere.
Tutte le testate nazionali lo confermano: il casus belli che ha portato il Movimento 5 Stelle a non votare la fiducia (uscendo dall’aula del Senato) al Governo Draghi è una norma del Decreto Legge “Aiuti”. Quella, cioè, che concede poteri straordinari al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, per la gestione in autonomia del ciclo dei rifiuti capitolini. E, a seguire, per la realizzazione del termovalorizzatore annunciato lo scorso aprile. Quei poteri aggiuntivi, difatti, consentiranno al primo cittadino romano di derogare al piano rifiuti regionale. Che il termovalorizzatore, invece, non lo prevede.
Termovalorizzatore, il braccio di ferro nazionale
Giusto due mesi fa il presidente del M5S, Giuseppe Conte, stigmatizzò tale ipotesi con un secco “no”. «Termovalorizzatore vuole dire fumi inquinanti, vuol dire scorie leggere e pesanti» disse in diretta su Twitter. Il fondatore e garante Beppe Grillo, a sua volta, parlò di «scelta insensata». Il motivo? «Bruciare i rifiuti è la negazione dell’economia circolare, a maggior ragione se si pensa che quest’impianto avrà bisogno comunque di una discarica al suo servizio per smaltire le ceneri prodotte dalla combustione, equivalenti a un terzo dei rifiuti che entrano nel forno».
Conte e Grillo
Certo, quando si è arrivati a dover trovare una mediazione in extremis, lo stesso Grillo dichiarò: «Non esco dal governo per un c… di inceneritore». Ora, però, è arrivata la decisione di non votare la fiducia al Dl “Aiuti” in Senato, con la capogruppo pentastellata Mariolina Castellone che ha bollato l’inserimento della controversa norma come «una follia»). La contromossa di Mario Draghi? Convocare il Consiglio dei ministri e poi salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni (poi respinte). Il nodo è ancor più venuto al pettine.
Mattarella e Draghi
«È veramente una follia interrompere il Governo. Mandiamo in crisi un governo per un termovalorizzatore a Roma? Ma chi ci rimette? La povera gente», ha dichiarato il sindaco di Milano, Beppe Sala. «Non si fa una crisi per un termovalorizzatore. Il premier non può essere sottoposto a ricatti», gli ha fatto eco il parlamentare e dirigente nazionale del Pd, Enrico Borghi.
Si attende la cosiddetta “parlamentarizzazione della crisi” di mercoledì prossimo, con Mario Draghi che si presenterà alle Camere. Intanto il dibattito sul termovalorizzatore romano come miccia scatenante della crisi stessa tiene banco e a pieno.
L’imbarazzo tra i grillini calabresi per il loro capogruppo
I pentastellati a livello nazionale hanno “inventato” il ministero della Transizione ecologica con a capo il fisico Roberto Cingolani. In altre Regioni, si pensi al Lazio, esprimono l’assessora alla Transizione ecologica, Roberta Lombardi. M5S, insomma, fa dell’ecologia, dell’economia green e della lotta agli inceneritori una assoluta priorità. Al punto d’arrivare a far saltare sia il Governo di Unità nazionale guidato da Mario Draghi sia il tentennante (e arrancante) “campo largo” con il Partito Democratico.
Tavernise stringe la mano a Occhiuto
In Calabria, invece, i due grillini in Consiglio regionale sono sotto il tiro sia del Pd che dal gruppo facente capo a Luigi De Magistris. Li accusano di portare avanti una opposizione “supina” o, financo, “inclinata” al Governo guidato da Roberto Occhiuto. Il capogruppo del M5S a Palazzo Campanella, Davide Tavernise, ha esternato posizioni in netto contrasto con quelle dei colleghi di partito romani. E ha suscitato non pochi imbarazzi, in primis tra i parlamentari calabresi che a Roma poi devono render conto, soprattutto in previsione delle elezioni politiche.
Termovalorizzatore a Gioia Tauro? Va bene anche a Cosenza
Tre mesi fa, seduta di Palazzo Campanella del 19 aprile. Proprio due giorni prima che il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, annunciasse il termovalorizzatore che avrebbe poi portato alla crisi di Governo, a Reggio Calabria si discuteva della “Multiutility”.
In quella occasione Tavernise ha preso la parola aderendo espressamente al “Partito dell’inceneritore”.
L’aula del Consiglio regionale della Calabria
«Voglio, invece, prendere posizione – le sue parole – su una questione che è associata a questa Multiutility, presidente Occhiuto. Ho letto proprio stamattina in un articolo, su un quotidiano, le dichiarazioni del Sindaco di Gioia Tauro, che io reputo, veramente, vergognose…».«Sentire e leggere – continuava il capogruppo M5S – che se si raddoppia il termovalorizzatore di Gioia Tauro è giusto raddoppiare i posti letto in ospedale, penso sia un atteggiamento un po’ superficiale da parte di chi fa il sindaco. Le faccio una provocazione: io non sono favorevole a priori al raddoppio, sono sicuramente a favore per l’adeguamento dell’inceneritore di Gioia Tauro, perché oggi quell’inceneritore sta ammazzando la gente, non lo dico io, ma lo dicono i fatti. Se non si è d’accordo, presidente Occhiuto, le faccio un invito: al posto del raddoppio di quell’inceneritore e dell’adeguamento, io direi di chiuderlo proprio. Iniziamo a pensare di farlo da un’altra parte».
Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci
«…Siccome, a differenza di quello che qualcuno ha detto, io ho coraggio, non è vero che me ne lavo le mani come Don Abbondio, la invito ad iniziare ad individuare anche un altro sito per un termovalorizzatore, magari nella provincia di Cosenza, visto che il sindaco di Gioia Tauro dice che dobbiamo farlo da un’altra parte… È facile dire che siamo contro i termovalorizzatori e contro gli inceneritori, però voi sapete che la migliore Regione, il Veneto, ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata. Mia padre che ha la terza elementare mi ha detto che il restante 25 percento o si conferisce in discarica o si brucia. Cerchiamo di bruciarlo seguendo esempi come il termovalorizzatore di Copenaghen o anche quello di Brescia, che sono dei termovalorizzatori moderni» concluse Tavernise annunciando voto di astensione sulla Multiutility voluta da Occhiuto, tra lo stupore e i mugugni dei colleghi di minoranza.
Sindaci in rivolta
«La giunta regionale sta lavorando per il privato. L’azione che ci rimane da fare è la protesta, dobbiamo diventare una spina al fianco della giunta regionale» ha dichiarato il sindaco di Gioia Tauro, Aldo Alessio, oggetto degli strali di Tavernise.
Contattato direttamente da I Calabresi, Alessio ha dichiarato: «Inutile che si parli di adeguamento, è un raddoppio del termovalorizzatore. La salute dei cittadini viene scambiata con l’interesse economico del privato. All’interno del M5S ci sono delle contraddizioni, non hanno una posizione univoca. Nel nostro territorio c’è il senatore Giuseppe Auddino che è al nostro fianco da sempre. Tavernise è penoso, dovrebbe venire a spiegare ai cittadini gioiesi perché secondo lui deve essere raddoppiato il termovalorizzatore».
Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro
Alessio ha richiesto l’accesso agli atti per valutare l’impugnativa della delibera di Giunta regionale dello scorso 21 marzo che approvava il documento tecnico di indirizzo per l’aggiornamento del Piano regionale di gestione rifiuti del 2016. Il sindaco della città Metropolitana di Reggio Calabria, Carmelo Versace, aveva annunciato la possibilità di impugnare proprio la legge regionale 10, quella sulla Multiutility.
Carmelo Versace, sindaco della Città metropolitana di Reggio Calabria
«Sin dal primo momento siamo stati contrari all’ipotesi di raddoppio di questo impianto che, ribadiamo, non è un termovalorizzatore, ma un inceneritore» ha dichiarato pubblicamente, invece, il sindaco di Reggio Calabria, Paolo Brunetti. È chiaro, quindi, che i sindaci sono sul piede di guerra.
Termovalorizzatore, l’ultima proroga
Intanto l’avviso pubblico esplorativo per “la ricerca di operatori economici interessati alla presentazione di proposte di project financing finalizzate all’individuazione del promotore ex art. 183, Dlgs 50/2016, per l’affidamento della concessione relativa alla progettazione e realizzazione dell’adeguamento e completamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro comprensiva della gestione” che scadeva a maggio, è stato prorogato al prossimo 29 luglio.
Sulla manifestazione di interesse si legge che “in Calabria la gestione dei rifiuti urbani è fortemente condizionata e dipendente dallo smaltimento in discarica; in discarica vengono conferiti i rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti urbani per cui la chiusura del ciclo di gestione dipende dalla disponibilità di volumi di abbanco, registrando una grave criticità dovuta alla carenza strutturale di discariche pubbliche e private sul territorio regionale nonché determinando un aggravio dei costi per i cittadini calabresi per il necessario ricorso a discariche o a impianti di incenerimento extra-regionali”.
Il termovalorizzatore di Gioia Tauro
Il documento riporta anche che “la Regione Calabria, ricorrendo alla normativa vigente e alle nuove disposizioni di ARERA, intende dotarsi di un mix impiantistico in grado di assicurare il recupero e il riciclaggio di materia dalle frazioni merceologiche che compongono i rifiuti urbani e, a valle, chiudere il ciclo attraverso il recupero energetico dai rifiuti secondari (derivanti dal trattamento delle frazioni merceologiche del rifiuto urbano) nell’impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro”.
Insomma, in Calabria il termovalorizzatore s’ha da fare. Anche grazie al supporto politico del Movimento 5 Stelle. Ma tra il Pollino e lo Stretto, evidentemente, manca un Draghi da mandare a casa.
Scrivere su questo giornale comporta una seria assunzione di responsabilità, per l’alto numero di lettori che lo segue, per il buon livello dei contenuti che sono affrontati quotidianamente. Chi legge, pertanto, comprende lo spirito costruttivo che anima chi scrive e nei quali contenuti si identifica in forma positiva e con forme di civismo attivo.
La riflessione di queste righe parte dal dibattito in corso sulle potenziali attribuzioni di fondi PNRR al Sud e alla Calabria e sugli esiti che questa significativa quantità di risorse finanziarie e conseguenti opere potrà produrre nel breve-medio termine. I fondi europei rappresentano una grande opportunità, non solo per il rilancio dell’economia ma anche per il ruolo dei professionisti nella progettazione.
I contesti dimenticati
Alle nostre latitudini, preme prima di tutto ricordare che un “difetto” di forma è insito nel PNRR. Quale? Questo Piano non ha i territori come sfondo sui quali depositare le proposte, bensì una sorta di mix di programmi di economia e finanza che guidano dall’inizio tutte le scelte. Una prassi negativa ormai consolidata nel nostro paese che ha sostituito il progetto per lo spazio delle relazioni e dei luoghi con la programmazione “sulla carta”.
Mario Draghi alla presentazione del PNRR
Non avere reale contezza delle potenzialità e fragilità dei diversi contesti, se non con documenti programmatici e fin troppo pragmatici, al Sud in primis, lascia dedurre che non si tratta di piani pensati per i territori, bensì di ripartizioni, più o meno efficienti, delle risorse europee per macro aree socioeconomiche.
La Calabria e il Sud al tempo del Pnrr
Il PNRR è nato per fronteggiare la crisi pandemica e dare vita ad un paese – soprattutto al Sud, ancor più in Calabria – innovativo e digitalizzato; aperto ai giovani ed alle varie opportunità, rispettoso dell’ambiente, del paesaggio, delle bellezze, coeso territorialmente.
Per questa ragione il rischio si palesa ancora più grave, nel momento in cui i comuni, ai quali giungono i fondi finali, soprattutto in Calabria, mancano di strumenti urbanistici solidi, visioni strategiche ampie, progettisti capaci di produrre un avanzamento di qualità piuttosto che ancora una volta una ennesima sequenza di quantità, quale frutto delle opere realizzate.
Un bis dei fondi Por?
Sappiamo che è stato così per i fondi POR, e rischia di essere altrettanto per i fondi PNRR, con il solito mantra per quasi tutti i sindaci, eccezione fatta per pochi, del “paniere della spesa” da riempire, ossia aver portato a casa un pò di risorse per fare opere pubbliche. Paniere in cui troppo spesso non conta affatto la qualità progettuale di queste opere pubbliche, la loro durata, il riscontro e approvazione da parte della comunità che le utilizzeranno, la capacità di generare nuova bellezza, così come è stato per secoli per le opere del passato che ancora oggi stupiscono per autentica originalità e qualità estetiche, urbane, costruttive.
La Giunta regionale della Calabria discute dei fondi Por per il prossimo settennato
Il tema è quanto davvero molti, disarmati team progettuali, all’opera per le fasi preliminari ed esecutive dei progetti, siano capaci di mettere insieme diverse competenze disciplinari, necessarie a garantire risposte attuali ed esaustive, soprattutto rispetto alla durata e attualità ambientale delle opere da realizzare, nonché alla vera capacità di intervenire per cambiare la società attraverso gli interventi con ricadute culturali, economiche, sociali.
Il Pnrr dopo 15 anni di scempi al Sud e in Calabria
Bisogna sottolineare l’importanza di questo piano che ha assegnato al nostro paese 191,5 miliardi da impiegare entro il 2026 e di come gli architetti, gli ingegneri, i comuni, in questo siano stati chiamati ad un grande sforzo per realizzare progetti in grado di rispettare i vincoli posti dall’Unione europea e i canoni del DNSH (do not significant harm/non causare danni significativi) secondo cui i lavori non debbono arrecare nessun danno significativo all’ambiente, pena l’esclusione dai finanziamenti, così come il rispetto, stringente, della tempistica.
Una celeberrima incompiuta calabrese
Non possiamo non essere allarmati, anche se lieti dell’opportunità, pertanto guardando la nostra realtà. Sono ancora oggi di fronte ai nostri occhi gli scempi edilizi, urbanistici, infrastrutturali compiuti in questi ultimi quindici anni, con la quantità di altre risorse comunitarie della programmazione straordinaria. Delusi, di fronte ai tangibili fallimenti di molte opere non completate, non utilizzate, mal gestite, senza manutenzione, capaci di generare un paesaggio degradato e degradante, sciatto, senza bellezza e senza nuovi significati.
Un’opportunità da non perdere
Possiamo provare a superare il paradosso di questa terra – e del Sud in generale – ovvero che la migliore urbanistica realizzata è quella della Magna Grecia? E ancora che l’architettura più straordinaria è quella che impregna oggi la parte più originale delle nostre città storiche, che ha radici nel Medioevo, nel Rinascimento a Sud, nelle chiese e nei conventi ancora oggi testimoni e custodi di gemme preziose? Vogliamo arrivare al giro di boa dell’appuntamento con l’Europa superando tutta questa mediocrità? Il PNRR al Sud può tradursi in grandi nuove sfide per i comuni, i progettisti, la società civile. Non sprechiamo ancora una volta questa imperdibile, forse unica, opportunità.
Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.
La riva sotto il sole
Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.
La Tropea di Escher
Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.
Tropea raffigurata da Escher
La metamorfosi del turismo
Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.
Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.
Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”
Nella penna di Berto
Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico. Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.
Tropea, Capo Vaticano e la sibilla
La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto». La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro. Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.
Il faro di Capo Vaticano
Una casbah ’nduja e cipolla
Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.
Cosa resta di Berto
Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.
Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto
Il ricordo della barista
Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.
Berto, un reazionario illuminato a Tropea
Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».
Berto con il suo cane Cocai
Il riposo
Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita. Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».
Abusivi e kitsch: i vivi come i morti
Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche. Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.
La tomba di Berto
Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.
Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.
Un disegno infantile
La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi
Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.
«Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.
Sono arrivati i turisti mannari: i consumatori di fritture di gamberi e calamari, gli occupatori di spiagge e qualsiasi cosa sia fruibile per trascorrere una giornata estiva. Conoscono tutte le aree picnic lungo i fiumi, tutte le spiagge libere, le scogliere profumate di iodio. E si alzano la mattina presto per portarvi sedie a sdraio, ombrelloni, perfino barbecue. Tutto è privatizzato secondo questa mentalità che tende a togliere spazi pubblici – o comunque non propri – agli altri. Da decenni va avanti questa occupazione. Da decenni una popolazione intera si riversa dai propri territori originari a quelli vicini. Salta a pie’ pari aree di confine della Campania, come la costiera amalfitana e quella di Agropoli.
Il motivo? Lì i prezzi sono alti da sempre. Poi il mare non ha la profondità e la trasparenza che ha nelle coste calabre. E qui si sentono padroni di ogni cosa. Perché hanno comprato casa trent’anni fa, perché i loro genitori venivano qui fin dagli anni ’70, perché qui pagano le tasse dell’immondizia e dell’acqua. Se non ci fossero loro moriremmo di fame, ripetono quando discutono con qualche commerciante o residente, e tutte le amministrazioni abbozzano. Ma qualcosa si sta rompendo. Il sindaco di Scalea ha cominciato a mettere dei paletti con un’ordinanza.
Scalea e la guerra agli ombrelloni
Polizia municipale all’Ajnella
La storica spiaggia cittadina dell’Ajnella, con una scogliera unica e l’acqua sempre pulita, era diventata inaccessibile a molti residenti e turisti. Sempre occupata da ombrelloni che vi rimanevano per mesi interi. Nessuno li spostava per non incorrere in risse o aggressioni, come avvenuto negli anni scorsi. Chi si alzava prima la mattina aveva privatizzato la spiaggia piantando file di ombrelloni per gli amici, i parenti ed anche per chi pagava dieci euro al giorno per farsi piazzare il proprio ombrellone.
Le proteste e le denunce del passato si erano rivelate inutili. Ignorate, in nome del turismo e della gente che porta danaro qui e «non fa morire di fame i negozianti». Quest’anno la svolta con l’ordinanza del sindaco Perrotta. Chi vuole bagnarsi all’Ajnella potrà farlo solo con un telo da mare. Niente ombrelloni o sedie. E, soprattutto, niente barbecue.
L’Arcomagno sotto attacco
Il grido d’allarme arriva da Italia Nostra che con un comunicato stampa stigmatizza il comportamento dei turisti-mannari. In questo caso quelli che, come accadeva all’Ajnella, si piazzano armi e bagagli nella piccola spiaggetta suggestiva ed unica di San Nicola Arcella.
Turisti “mannari” sulla spiaggia dell’Arcomagno
L’associazione chiede con una lettera al sindaco Eugenio Madeo, a che punto sia «l’affidamento del servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerente le visite controllate all’Arcomagno» per tutelarlo da comportamenti inadeguati. Italia Nostra auspica la scomparsa di «bivacchi, attendamenti notturni e diurni, ombrelloni», da sostituire con «visite guidate per piccoli gruppi, controlli, nel rispetto della fragilità ambientale del luogo».
Madeo e la sua Giunta hanno già deliberato il 24 maggio scorso di affidare il «servizio di vigilanza, bigliettazione e pulizia inerenti le visite controllate all’Arcomagno e vigilanza serale e notturna». L’amministrazione ha approvato la proposta di una ditta di Belvedere e ora sono trascorsi i termini per l’acquisizione di una eventuale altra proposta migliorativa. A questo punto, chiede Italia Nostra, occorre di sbrigarsi, così da garantire «il modo migliore per valorizzare il patrimonio ambientale del nostro territorio, il modo migliore e moderno per fare turismo». Nonostante la lettera degli ambientalisti, l’occupazione dei turisti mannari continua indisturbata anche qui con pedalò e barbecue.
Non c’è pace neanche per i fiumi
La foce del Lao era diventata un’area picnic: c’era, addirittura, chi metteva i tavoli nell’acqua all’ora di pranzo e poi buttava i rifiuti nel fiume che li portava via. E così via, lungo l’Abatemarco e l’Argentino. Anche le aree picnic sono ad uso e consumo di chi si alza prima. Auto a pochi metri dal fiume, comportamenti da spiaggia, musica ad alto volume, giochi con pallone, divertimenti vari, compreso il lancio di pietre nel fiume.
Calabria vs Campania
Nei cartelloni estivi lungo l’Alto Tirreno cosentino non c’è traccia di cantanti, comici o attori calabresi. Qui primeggiano i napoletani, da Nino D’Angelo a Biagio Izzo o Gigi Finizio. In alternativa si può scegliere un Riccardo Cocciante alla modica cifra di 82 euro. In tutta la costa primeggia la neomelodica napoletana. La si sente ad alto volume nei lidi balneari o la sera negli improvvisati karaoke di fronte alle pizzerie prese d’assalto dal primo pomeriggio.
Bisogna andare verso la Calabria del sud, a Palizzi e Bova per sentire la tarantella calabrese durante il festival Palearizza, che in calabro-greco significa “antica radice”. È un festival itinerante della musica e delle tradizioni popolari della Calabria greca, completamente gratuito. Si svolge di solito tra la fine di luglio ed il mese di agosto, nei borghi dell’Area Grecanica. Un’area che ancora è calabrese e dove si balla la tarantella tenendo i piedi per terra e le mani a coltello che circondano la donna.
Una tarantella in costume grecanico
È vietato il saltarello tipico della tarantella napoletana o pugliese. Lo testimonia un episodio a cui ho assistito a Riace Marina: durante un concerto dei Kumelca, il cantante scese dal palco per dire a due giovani ballerini di origine campana di smettere di fare il saltarello e seguire una coppia calabrese che ballava secondo tradizione. «Imparate la nostra tarantella, quando tornate a casa fate il saltarello», disse loro, fra gli applausi di tutti i presenti.
Andando un po’ più a nord sulla linea jonica si distingue Roccella Jonica. Qui ogni anno un festival jazz attira turisti di qualità da ogni parte d’Italia. Si respira aria diversa, tranquilla, non invadente. Qualche anno fa l’intero festival fu dedicato a Frank Zappa: questo fa capire che tipo di turista si vuole e che tipo di cultura si pratica.
Il Tirreno cosentino derubato della propria identità
Una volta, pochissimi anni fa, non era così. Il Tirreno cosentino era solcato da pescatori, non da lussuosi yacht ormeggiati nei porti di Cetraro o Maratea. Erano tantissime le marinerie di Cetraro, Amantea, Diamante, Scalea, Cittadella del Capo. Ed erano loro, i pescatori, i padroni del mare. Quasi 70-80 in ogni paese. Uscivano in mare la notte e tornavano la mattina con carichi di pesce che vendevano direttamente ai turisti e ai residenti in attesa sulla spiaggia.
Una bella immagine della spiaggia dell’Arcomagno
La strada del Tirreno cosentino era ancora quella costruita da Mussolini nel 1927 e solo nel 1970 fu costruita la variante SS 18. Ora è diventata intasatissima, teatro quotidiano di incidenti stradali con morti e feriti. Si viaggiava per forza di cose lentamente e gli incidenti erano rari. La mattina, il risveglio nei paesi della cosiddetta Riviera dei cedri profumava davvero di cedro. Oppure dello iodio profuso dalle scogliere ricche di ricci di mare e “capelli di mare” ormai scomparsi. Ora si sente il profumo dell’olio delle barche a motore, degli scarichi fognari clandestini, dei depuratori malfunzionanti.
L’arrivo dei turisti mannari
Gli unici turisti presenti erano quelli della “Cassa di Risparmio” di Cosenza, che mandava nella costa tirrenica i propri dipendenti in caseggiati appositamente costruiti per loro. Ai cosentini che avevano costruito ville a Diamante, Sangineto, Cittadella, si affiancarono turisti romani e così fu fino agli inizi degli anni 80. Poi arrivarono loro, i turisti mannari. Certo, non tutti sono turisti mannari. Esistono persone che hanno acquistato casa e si sentono calabresi, ma la maggioranza non rispetta il residente. Emblematica fu l’uccisione di un giovane cosentino, accoltellato a Diamante da un napoletano per futili motivi.
Mafia e politica, Dc in primis, si allearono e cominciò la grande distruzione. Si cominciò a costruire ovunque. Senza legge. Senza ritegno. Derubarono le spiagge della sabbia per farne cemento. Colonizzarono i fiumi per realizzare impianti per il prelievo della sabbia. Le ruspe cominciarono ad abbattere ogni cosa per far posto a enormi villaggi turistici. Ed ecco che a migliaia acquistarono mini appartamenti di 30-40 mq. Tutti ammassati come formiche in condomini dai nomi bellissimi e ingannevoli. Niente venne risparmiato. E ora correre ai ripari invocando un turismo di qualità o un turismo sostenibile è pura fantasia. Questo è il Tirreno cosentino e questo sarà per i prossimi anni. Facciamocene una ragione.
Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno. Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.
Ma i cedri dove sono?
Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata. Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche. Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.
Rabbini durante i festeggiamenti della Sukkoth
La bellezza tra il cemento
Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.
I paesi del cedro
A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.
Il cedro: in Calabria meglio che in Asia
Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.
Alessandro Magno: si deve a lui l’arrivo dei cedri nel Mediterraneo
Il cedro di Calabria a misura di ebrei
Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.
Una coltura antichissima
Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana. Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.
Un rabbino impegnato nella raccolta dei cedri
Come si produce
Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare. Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.
L’arte del candito
Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.
Una cedriera in tutta la sua bellezza
Gli anni del boom: meglio che in Israele
Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differentie complementari.
Culture a confronto
Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.
Rabbini in posa a Santa Maria del Cedro
I rabbini nelle cedriere
I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare. Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.
Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.
Dopo la scelta
Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.
Una fase della raccolta dei cedri
Fine del raccolto
Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri. Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana. Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.
«Il Mediterraneo è morto», diceva Cousteau in una delle sue ultime interviste. Era una provocazione, ma certo il nostro mare già allora non stava bene e oggi sta peggio.
Lo sguardo che daremo andrà oltre la schiumetta che troppo spesso galleggia sulla superficie. Si porterà nelle profondità dei fondali della Calabria, dove si celano forme di biodiversità di straordinaria bellezza, la cui tutela potrebbe funzionare anche da attrattore turistico. Coniugare la protezione dell’ambiente con la turisticizzazione degli spazi non è facile. Ma il turismo subacqueo è particolare: non è di massa, è specializzato e per questo pregiato sul piano propriamente commerciale. Le aree protette in Calabria sono il Parco di Isola Capo Rizzuto e cinque altre zone tra Tirreno e Ionio. A gestirle sono Raffaele Ganeri e IlarioTreccosti.
Gorgonie sul fondale di Scilla (foto Cristina Condemi)
Qui va tutto benissimo. O quasi
Ganeri è a capo del Parco di Isola Capo Rizzuto, tornato alla gestione dellaProvincia di Crotone dopo circa tre anni di affidamento alla Regione. «La legge Delrio aveva sottratto alle province la gestione delle partecipate e per tre anni tutto è rimasto abbandonato», spiega Ganeri. Poi insiste sulla necessità di ripartire quasi da zero con i progetti e le infrastrutture. «Siamo in piena fase di ripresa dei lavori, con ricognizioni sull’area e rilancio delle attività subacquee per il turismo e con il coinvolgimento dei pescatori del luogo». Più ampia e dislocata su punti tra loro lontani è invece l’area protetta cui deve vigilare Ilario Treccosti.
Le riserve sono cinque, dal nord del Tirreno incontriamo la Riviera dei Cedri, dall’Isola di Dino fino alla Scoglio della Regina, passando da Cirella; poi gli scogli d’Isca, tra Belmonte ed Amantea; la zona tra Ricadi e Pizzo; la Riviera dei Gelsomini e sullo ionio la baia di Soverato. «Le condizioni delle aree tutelate sono eccellenti», giura Treccosti. Che annuncia anche opere di protezione attorno alle zone di maggior pregio per impedire la pesca a strascico su quei fondali, ma anche il posizionamento di cartelli indicatori sulle strade in corrispondenza della presenza di aree marine protette.
Un branco di barracuda (foto Cristina Condemi)
Il biologo: i controlli, questi sconosciuti
«Quello che manca sono i controlli», dice senza esitazioni Domenico Asprea, biologo marino che ha lavorato all’Asinara e in Liguria. Indicare un’area come protetta e poi non proteggerla è un bel guaio. Le cause sono essenzialmente legate alla logistica e alle risorse. Molte zone sono lontane dai porti dove fa base la Capitaneria e poche sono le imbarcazioni su cui il corpo può contare. Ed ecco che «frequentemente sono stati segnalati fenomeni di pesca abusiva nell’area di Capo Rizzuto». Ma c’è anche un altro problema ed è legato al monitoraggio. «Non è corretto che le risorse della Regione Calabria per la tutela ambientale vadano a società di altre regioni, qui ci sono competenze e professionalità di alto livello», spiega il ricercatore, aggiungendo che a governare certe decisioni sono «scelte chiaramente politiche».
La febbre del mare
«Il Mediterraneo ha la febbre», dice Eleonora De Sabata, giornalista e appassionata di immersioni. Per questo ha deciso di andarne a misurare la temperatura, proprio come farebbe un medico con un paziente. Eleonora è protagonista dell’Associazione MedFever, che sostiene assieme ai centri subacquei la ricerca. Si immerge, e posiziona a quote prestabilite dei rilevatori di temperatura, andando poi periodicamente e registrarne i dati. Il progetto è appoggiato dall’Enea e vede la collaborazione dei Diving. «In Calabria abbiamo posizionato diverse stazioni di rilevamento sui fondali di Scilla. Questo lavoro colma un vuoto. I satelliti rilevano la temperatura del mare con precisione, ma i dati sono quelli della superficie. Così invece avremo i dati a varie quote».
Un cavalluccio marino (foto di Ernesto Sestito)
I termometri sono stati posizionati a 5, 15 e 30 metri. Ma considerata la caratteristica dei fondali di Scilla e la loro unicità, alcuni termometri sono stati posti fino a 70 metri. «È ancora troppo presto per trarre conclusioni, ma abbiamo cominciato a raccogliere i dati, importanti soprattutto in aree come Scilla dove il respiro del mare, l’incontro tra le correnti fredde dello Ionio e quelle più calde del Tirreno, fanno segnare sbalzi significativi».
Le sentinelle dei mari
Il lavoro di Eleonora De Sabata si poggia molto sulla collaborazione dei professionisti delle immersioni. Loro sono una sorta di sentinelle delle condizioni mutate del mare. «Scilla ha una delle foreste di Gorgonie più belle del Mediterraneo, con un ecosistema meraviglioso, ma molto fragile», racconta Paolo Barone.
Romano, ma calabrese da sempre, è lo storico leader dello Scilla diving center. Barone viene da mille immersioni e spedizioni esplorative. E aggiunge che quell’habitat negli ultimi cinque anni è stato messo a dura prova dal mutamento climatico. Per questo quei luoghi magici sono costantemente monitorati, affinché chi verrà dopo ne possa godere. Incredibilmente però, malgrado le straordinarie bellezze nascoste nei suoi fondali, Scilla non è tra le aree protette e questa “distrazione istituzionale” non aiuta.
Lo spirografo, un’altra meraviglia degli abissi marini (foto Cristina Condemi)
Giorgio Chiappetta è un altro storico istruttore subacqueo e il suo diving è difronte l’Isola di Dino. Chiappetta si dice soddisfatto del grado di conservazione dell’habitat dei fondali dell’isola, dalle gorgonie sul frontone che guarda al largo a tutti gli altri siti. Annuncia l’inizio di un progetto di riforestazione della Posidonia, una pianta marina fondamentale per la vita dei fondali. «Si tratta di un progetto portato avanti assieme all’amministrazione comunale e consiste nel piazzare in aree ben individuate dei contenitori bio solubili che rilasciano i semi della posidonia favorendo la sua ricrescita»
Sempre meno cavallucci
Oreste Montebello è un fotografo con un passato di guida e imprenditore del turismo subacqueo. Nel corso del tempo ha visto il graduale declino della presenza del Cavalluccio marino nella Baia di Soverato. «Per 15 anni ho portato turisti in immersione nella baia, per mostrare loro i Cavallucci. Se ne potevano incontrare decine nel corso di ogni immersione, oggi sono significativamente diminuiti», racconta Montebello.
Quali sono a suo parere le cause della diminuzione dell’Ippocampo? «L’introduzione sistematica di ingegneria marina, con bracci e porti, ha modificato l’arrivo di nutrienti della Cymodocea nodosa, che costituisce l’habitat del Cavalluccio», spiega il fotografo che può essere considerato una specie di testimone del mutamento dei fondali di Soverato. Del resto dei cinque centri di immersione che si affacciavano sulla baia, ne è rimasto operativo uno solo, segno di come siano andate le cose.
Una murena attaccata allo scoglio (foto Cristina Condemi)
Il corallo ad Amantea
L’altro testimone del mare calabrese è Piero Greco, probabilmente il più vecchio tra gli istruttori subacquei della regione. Quando lo sentiamo è appena uscito da una immersione a 56 metri nei fondali di Amantea. Subito racconta «che laggiù è ancora presente il corallo, ma assottigliato, meno rigoglioso». Greco non pensa si tratti di inquinamento, ma dei primi segni di riscaldamento del mare, «mentre in buone condizioni rimane la prateria di posidonia nel mare di Diamante». I segni negativi però ci sono tutti, «basti pensare che a Briatico è presente una colonia di pesci pappagallo, segnalati qualche tempo fa nel mare della Sicilia. Forse questo vuol dire che il Mediterraneo si sta tropicalizzando». E non è una buona notizia.
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