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  • Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Nardello e gli USA, “l’Area 51” dell’Aspromonte

    Dopo una prima parte di inverno in sordina, gelo e neve sembrano volersi fare strada e l’Aspromonte si colora di bianco a quote via via più basse. D’altronde il bianco da queste parti rimane colore dominante in ossequio ad una radice linguistica greca dove asper non vuole essere abbreviazione di asperrimo, quanto invece eloquente riferimento cromatico.
    Fu infatti proprio il bianco dei calanchi e quello delle nevi nell’immediato entroterra il colore che accolse i primi greci sulle nostre coste. E fu perciò proprio da quel primo sguardo, da quel colpo di fulmine, che prese origine l’appellativo che oggi in tanti erroneamente accostano alla natura impervia dei luoghi.

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    Il bianco dei calanchi di Palizzi accolse i marinai greci in Calabria

    È strana la neve, fenomeno meteorologico accompagnato sempre da una dicotomia: tormento per i pastori di alvariana memoria – assai meno per quelli 2.0 – e occasione di gioia per i bambini e di comprensibile sollievo per gli operatori turistici. Ma, se vogliamo, la neve ha anche un’altra sua valenza che in questa fase storica in cui il concetto di educazione al bello è spesso abusato, assume un valore pratico a cui si aggiunge un retrogusto poetico. È quasi come se la neve conservasse nella forma dei suoi cristalli, una cifra stilistica spesso sconosciuta all’uomo. Copre, uniforma, rende tutto uguale la neve, cancellando le storture prodotte dall’uomo.

    L’Aspromonte delle cattedrali nel deserto

    E di storture ne ha viste nel tempo questa montagna, violentata nello spirito e nella forma, nell’immagine e nei contenuti. Le ferite sono in superficie e ben visibili. Non si fatica, infatti, a trovare in un contesto di rara e ancora selvaggia bellezza elementi che parlano di degrado, di abbandono, di incuria. Cattedrali nel deserto che rimangono a perenne testimonianza di scelte scellerate, di miraggi mai realizzati, di improbabili intuizioni naufragate prima ancora di prendere il largo.

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    Uomini della Polizia nella Locride durante la stagione dei sequestri di persona (foto Gigi Romano)

    Dalla ghost town di Cardeto Sud, apoteosi di speculazione edilizia nata verso la metà degli anni Settanta, ai ruderi di Piani Moleti in territorio di Ciminà. Dall’ex base NAPS dei Piani di Stoccato in territorio di Oppido Mamertina poco più su della frazione di Piminoro (nata per ospitare i nuclei speciali antisequestri), alla struttura sportiva di Canolo nuova, sui pianori di Zomaro, concepita negli anni Ottanta con la velleità di ospitare la preparazione atletica di squadre di calcio professionistiche, mai entrata in funzione e divenuta nel tempo luogo di pascolo per mandrie più o meno sacre.
    È lungo l’elenco di incompiute, lunga la classifica di ecomostri rimasti a deturpare, a segnare in calce un’epoca che piaccia o meno, va accettata e riconosciuta. Sappiamo bene come utopia e poesia spesso debbano cedere il passo ad una realtà che quasi mai è come vorremmo.

    Monte Nardello, un luogo strategico

    Qualche mese fa, prima che l’inverno si decidesse a fare sul serio, ho rivisitato un luogo, che al pari di quelli prima indicati, testimonia di una incuria e un degrado che reclamano giustizia. Questa storia, fa riferimento ad un punto geografico preciso dove si cristallizza un’epoca, una fase storica a molti sconosciuta e assai particolare, durante la quale l’Aspromonte diventa crocevia di rotte internazionali. Il luogo di cui parliamo è monte Nardello. Siamo a circa 1.750 metri di quota in territorio del comune di Roccaforte del Greco. Risalendo il crinale di qualche centinaio di metri, siamo a ridosso del Montalto, da dove lo sguardo abbraccia idealmente lo Ionio e il Tirreno, facendo cogliere in tutta la sua maestosità la misura di una collocazione geografica strategica.

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    La zona in cui sorge la base

    Per capire cosa succede a Nardello, facciamo un passo indietro. È il 1965, sull’Aspromonte succede qualcosa che, fino a qualche anno prima, in una montagna ancora quasi completamente in bianco e nero sembrava impensabile: su quei monti arrivano gli americani.
    Il progetto, mai del tutto realizzato, si chiama Aspromont Horizon. È il nome dello studio che, fin dalla fine degli anni ’50, elaborano gli Stati Uniti, pensando proprio all’Aspromonte, ma anche alla Sicilia con le basi di Catania e Trapani, come crocevia strategico in tema di raccolta ed elaborazione di dati sensibili.

    Un’Area 51 in salsa calabrese

    Dall’altra parte del mondo siamo in piena guerra fredda ed in ballo c’è il controllo delle telecomunicazioni nell’area del Mediterraneo. In questo contesto geopolitico prende vita la storia di Nardello, divenuto nell’immaginario collettivo di quegli anni, luogo quasi mistico. Su di esso aleggiava una lunga serie di storie più o meno fantasiose che andavano dagli esperimenti con gli ufo, all’utilizzo di missili. Insomma, una sorta di Area 51 in salsa calabrese.
    La cosa più fantascientifica da quelle parti, però, pare avere poco a che fare con guerre e invasioni aliene. Nei giorni in cui la base apre alcuni spazi al pubblico sono tanti i ragazzi che dalla città e i paesi vicini si avventurano sul Monte Nardello per ascoltare la musica americana, altrimenti inaccessibile per loro, dal juke box insieme ai soldati.
    Dopo circa vent’anni di attività, si arriva al 1985, quando l’utilizzo sempre più massiccio dei satelliti determina ufficialmente la fine dell’operatività della struttura.

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    La base di Monte nardello in una immagine di qualche decennio fa

    Abbandonata sul finire degli anni ottanta, nel 1993 viene ufficialmente dismessa e trasferita al Ministero della Difesa italiano, cadendo in totale stato di abbandono. Nei decenni successivi si è assistito ad un saccheggio selvaggio di tutto ciò che poteva essere sottratto, in sfregio a qualsiasi riguardo, a conferma di come nel sentire comune, la res publica si trasformi spesso e facilmente in res nullius.
    Oggi i luoghi dell’ex base USAF, un’area di circa tre chilometri e mezzo di diametro, in un contesto lunare, disegnato da centinaia di alberi abbattuti dagli incendi degli ultimi anni, si presenta come una distesa desolata.

    Nardello, cosa resta dopo Aspromont Horizon

    A preoccupare, più degli alberi abbattuti, sono i residui di amianto che suggeriscono lo spauracchio del disastro ambientale. Da anni le associazioni ambientaliste segnalano il pericolo. Ma Nardello, nell’indifferenza generale, continua a rimanere là, silenzioso testimone di un sogno americano che ha ceduto il passo ad un neorealismo postmoderno calabrese.

  • Terremoto Turchia, ridimensionato allarme tsunami per la Calabria

    Terremoto Turchia, ridimensionato allarme tsunami per la Calabria

    Ridimensionato l’allarme tsunami per la Calabria e per le altre coste orientali del Sud Italia dopo il violento terremoto tra la Turchia meridionale e la Siria.

    In Turchia si registrano almeno 76 morti, nel nord della Siria almeno 100. I feriti in totale sono circa 600. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) italiano e del servizio di monitoraggio geologico statunitense Usgs, il sisma ha avuto ipocentro a circa 25 km di profondità ed epicentro nella provincia di Gaziantep.

    La Protezione civile nella notte ha diramato un allerta tsunami per le regioni orientali dell’Italia meridionale, soprattutto per Calabria, Sicilia e Puglia dove stamani è stata sospesa la circolazione dei treni nelle zone potenzialmente esposte.

    «L’allarme potrebbe essere revocato se non dovesse verificarsi. La situazione è in evoluzione – ha detto il direttore operativo della Protezione Civile Luigi D’Angelo a Rai Radio 1  – al momento la portata sembra ridimensionata in base alle prime rilevazioni al largo della Turchia. Dalle prime informazioni sembra piuttosto ridimensionata, però dobbiamo attendere le misurazioni. Siamo in fase di costante monitoraggio».

    «Il maremoto – spiega la nota della Protezione civile – consiste in una serie di onde marine prodotte dal rapido spostamento di una grande massa d’acqua. L’allerta indica la possibilità di un pericolo reale per le persone che si trovano vicino alla costa, specialmente se in zone poco alte, o addirittura più basse, rispetto al livello del mare. Anche un’onda di solo 0,5 metri di altezza – viene sottolineato nel comunicato – può generare pericolose inondazioni e fortissime correnti. Il Dipartimento della Protezione civile, in raccordo con l’Ingv, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e le strutture del Servizio nazionale di protezione civile (Snpc), continuerà a fornire tutti gli aggiornamenti disponibili sull’evoluzione dell’evento».

  • Aliva, salvare la Natura è un’arte

    Aliva, salvare la Natura è un’arte

    Si chiama Aliva perché produce oggetti di artigianato di design fatti in ferro e, appunto, legno degli scarti di potatura degli ulivi. Un nome semplice, per un progetto che semplice non è. Perché va ben oltre gli aspetti economici, cui pure ogni azienda – anche la più piccola – deve badare. Aliva si è data una missione: raccontare la storia dei territori proteggendone al contempo la natura. Come farlo? Realizzando prodotti con il legno di alberi secolari senza che uno solo di essi venga abbattuto. Di più, piantandone uno per ogni oggetto realizzato. E, con parte del ricavato, formando gratuitamente i contadini sulle migliori tecniche per proteggere le loro piante.

    Fare impresa e difendere l’ambiente è l’idea di quattro giovani calabresi; Antonio Centorrino, Vincenzo Fratea, Gabriel Gabriele e Marco Macrì. «In Aliva – ci racconta Antonio – sono quello che “fa il pr”, curo i rapporti con le aziende e ho disegnato la linea dei prodotti. Chi li ricrea è Vincenzo, artigiano e falegname a Dinami da 25 anni, ne ha 36. Gabriel è uno sviluppatore di Gimigliano e si occupa di tutta la “struttura” web e della sua evoluzione; Marco, di Catanzaro Lido, è il nostro esperto di comunicazione digitale, curerà la promozione e dei social.».

    Secoli in cenere

    Aliva l’hanno creata durante la pandemia, giorni di call, bozzetti, prove scartate. Ma il seme da cui è germogliato il progetto risale al giorno in cui uno di loro stava osservando il suocero accatastare i rami appena potati nel suo piccolo uliveto. Pezzi di alberi che erano là da secoli e di lì a poco sarebbero diventati cenere in qualche caminetto o stufa.
    Perché non farli ancora vivere in un’altra forma, magari una che raccontasse qualcosa del territorio in cui l’albero era cresciuto? La risposta è stata Aliva. Ossia prendere quella legna – ritenuta troppo fresca per usi diversi dal finire nel fuoco – e utilizzarla invece per creare complementi d’arredo. Oggetti, cioè, dalle dimensioni abbastanza contenute da non soffrire l’eccessiva “giovinezza” di una materia prima che, in pratica, non costa nulla.

    Storia e modernità

    «Siamo partiti con l’idea di utilizzare legna di cui ci sono milioni di tonnellate all’anno gratuite. Già ora abbiamo almeno 50 aziende agricole che ce la darebbero gratis, in quale altro ambito puoi avere tutta quella materia prima senza pagarla? Anche volendo comprarla, spenderemmo meno di dieci euro a quintale e con una quantità del genere facciamo centinaia di prodotti. Abbiamo studiato come potere utilizzare il legno più fresco in maniera funzionale».
    E così dai rami di un albero potato a Borgia è nato, ad esempio, Dinami, il primo oggetto prodotto da Aliva. Incarna a pieno lo spirito del progetto: è uno speaker passivo in legno secolare da utilizzare con gli smartphone. Storia, modernità e nessun albero tagliato.

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    Il primo esemplare di Dinami, lo speaker passivo realizzato da Aliva

    Aliva: dalla potatura all’artigianato di design

    Ne saranno realizzati soltanto mille esemplari al massimo, tutti su ordinazione, e di ognuno sarà tracciabile l’intera filiera. «Non siamo noi ad occuparci dell’albero che useremo, ma un potatore certificato da un ente nazionale. Ce ne sono quattro, noi ci affidiamo alla prestigiosa “Scuola Potatura Olivo” del dottor Pannelli. In Calabria sono solo cinque i potatori certificati da Pannelli, più altri 14 con attestati di altri enti. Non ci siamo autocertificati perché pensiamo che la collaborazione con un ente esterno autorevole aiuti anche a dar valore a quello che facciamo. Non vogliamo che qualcuno compri qualcosa che facciamo semplicemente per l’estetica. Il valore e il senso dei nostri prodotti è un altro».

    Si parte sempre solo e soltanto da scarti di potatura. Poi si trasformano in oggetti dal design minimalista legati a un personaggio, un luogo, un mito da ricordare o scoprire. La Torre dell’orologio nel caso di Dinami, piccolo centro di meno di mille anime nel Vibonese e sede dell’azienda, che ha ispirato l’omonimo speaker. Oppure Kaulon, il portachiavi a forma di tassello di mosaico; l’orologio Milone, simile ai cerchi delle Olimpiadi in cui trionfava il campione crotonese, e quello Demetra, richiamo a un’antica statuetta esposta al museo di Cirò Marina. E poi ci sono i vasi ornamentali Castore e Polluce, omaggio alle colonne dell’omonimo tempio perduto rimaste all’interno di Villa Cefaly a Curinga. Infine, la lampada da tavolo Amendolara, ispirata alle forme della Torre spaccata del paese ionico.

    Tre regioni per cominciare

    Una Calabria straordinaria eppure a basso costo, insomma, diametralmente opposta a quella tanto cara – in tutti i sensi – alla Regione di questi tempi. «Non sono le classiche icone tipo la Cattolica di Stilo o il monastero di Tropea. Pensiamo abbiano pari valore, ma siano meno stereotipate. Ne doneremo una copia alle comunità anche come stimolo: sarebbe bello se grazie ai vasi Castore e Polluce, ad esempio, qualcuno riprendesse le ricerche del tempio».

    Gli oggetti appena elencati compongono la collezione Kalavrìa e un esemplare di ognuno andrà in omaggio ai Comuni che li hanno “ispirati”. In arrivo anche la Trinacria e l’Apulia, così da dedicarne una a ciascuna delle tre regioni che insieme hanno l’86% degli uliveti italiani. «Il valore storico degli ulivi nelle altre regioni è inferiore, hanno poco da raccontare. Non c’è legame storico, ideologico, identitario. Per i pugliesi l’ulivo è un simbolo iconico, è nella loro bandiera».

    Un albero piantato per ogni oggetto venduto

    Ma è proprio in Puglia che si è consumata una vera e propria ecatombe di ulivi secolari, oltre venti milioni le vittime della Xylella. Aliva prova a dare il suo contributo anche qui. Grazie alla collaborazione con l’associazione pugliese OlivaMi, per ogni oggetto venduto dall’azienda calabrese si pianterà in Salento un nuovo ulivo. E sulla collaborazione, in generale, Antonio, Vincenzo, Gabriel e Marco puntano tantissimo, proprio alla luce di quanto accaduto in Puglia. Lì la Xylella ha fatto scempio degli alberi proprio perché i contadini non parlavano tra loro, spesso per vecchi asti tra confinanti, ed ognuno ha agito per sé con risultati nulli. È mancato il collante, ruolo di cui vorrebbe farsi carico, invece, Aliva in Calabria.

    L’unione fa la forza

    «Premessa: il nostro primo obiettivo è il profitto. Siamo micro ma pur sempre un’azienda e come tale senza profitto non possiamo sostenerci. Ma ci siamo detti “perché non legare tutto a un progetto ambientale-sociale?”, si potrebbe ottenere un risultato migliore. Se l’obiettivo fosse distribuire corsi di formazione guadagneremmo di più. Ma il nostro non è greenwashing,: non siamo un’azienda che ha sputtanato l’ambiente per 50 anni e poi trova un testimonial green per ripulirsi. Noi non dobbiamo pulirci nulla». Tant’è che i corsi di formazione, li offriranno loro gratis ai proprietari di uliveti con parte del ricavato delle vendite.

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    La prima potatura da cui è partita la produzione di Aliva

    A insediare gli alberi, infatti, non c’è solo la xylella, ma incendi, malattie, altri parassiti e incuria. E insegnare a occuparsi di prevenzione o affidare la potatura a personale qualificato è il modo migliore per preservare le piante. «Io vivo a Bovalino superiore, ma sono originario di Gioia Tauro. Zone piene di uliveti, ma non ho mai avuto la percezione che tra tutti quelli che hanno alberi ci fossero connessioni. Che ci costa provare a essere noi quel collante? Ai Comuni a cui doneremo i primi esemplari che produrremo chiediamo di collaborare alla creazione di un osservatorio sullo stato di salute degli ulivi nel territorio. Il progetto è ambizioso, si tratta di monitorare quasi in tempo reale lo stato di salute degli ulivi in Calabria, Sicilia e Puglia. Il nome del laboratorio lo abbiamo già: SalvOliva».

    La sfida comincia ora

    Nel frattempo, dopo le prime uscite ufficiali alla Fiera dell’Artigianato di Milano e a RaccontArti a Catanzaro, tocca affrontare un’altra sfida, quella del mercato. Con una confezione che più green non si può per ogni prodotto, ovviamente: cartone riciclato ed un letto di foglie di ulivo al suo interno.

  • MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

    MAFIOSFERA | Quando i clan rubano i titoli, ma i criminali sono (pure) altri

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    “Batterie per auto da smaltire, così la ’ndrangheta di Cosenza vuole trasformare il piombo in oro” – così titola LaCNews, a firma di Marco Cribari, il giorno dell’Epifania. Seguono altre testate, come CosenzaChannel “‘Ndrangheta Cosenza, ecco come i clan vogliono smaltire le batterie per auto”, Calabria7 che riprende AffariItaliani, “Batterie esauste, il nuovo business della ‘ndrangheta che avvelena l’Italia”.

    La notizia suggerisce chiaramente un business dei clan cosentini nei rifiuti speciali. Si fa riferimento ad un’informativa del 2020 allegata alle ultime indagini che la DDA di Catanzaro ha effettuato nel cosentino sugli interessi dei clan mafiosi cittadini. Tale informativa confermerebbe che carichi di batterie per auto esauste, ergo da smaltire, partono dal Cosentino per venire poi interrati in modo illecito in provincia di Caserta, a Marcianise per la precisione. Si tratta di rifiuti speciali e dunque, dicono le notizie riportando i risultati della DDA, di ingenti guadagni per le cosche, sempre fameliche di soldi facili e illeciti.

    ‘Ndrangheta, Cosenza e rifiuti speciali

    Come ogni volta che sui giornali c’è una notizia che riguarda faccende di mafia – che ha nel titolo la ‘ndrangheta e qualche suo business come in questo caso – è spesso necessario “pelare” la notizia, come si fa con le cipolle per capirci. Strato dopo strato, bisogna levare via le superfici per cercare di arrivare al cuore della faccenda, possibilmente senza lacrimare troppo.
    Appare chiaramente dalle notizie, una volta lette fino in fondo e una volta approfonditi i dati riportati, che prima di reati di mafia qui si tratta innanzitutto di reati ambientali.
    Cosa è successo, dunque, in questo caso?

    ‘Ndrangheta, Cosenza e il traffico di rifiuti

    Nella geografia dei clan mafiosi della città di Cosenza (spesso per semplicità chiamati clan di ‘ndrangheta, nonostante per alcuni non sembra essere confermata l’affiliazione alla casa madre) si trovano i cosiddetti clan ‘italiani’ a confronto con i clan degli “zingari” o “nomadi”. Quest’ultimo gruppo, secondo le cronache, avrebbe detenuto un monopolio sul traffico di rifiuti speciali fino a qualche anno fa.
    Ma ecco che un imprenditore cosentino – e qui la questione diventa interessante – è intenzionato ad ampliare il mercato e a coinvolgere anche gli altri clan “italiani” della città. Può farlo, tale imprenditore, perché in possesso della licenza che gli consente di smaltire batterie esauste in modo lecito e regolare.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma avrebbe commesso una leggerezza: a fronte di un investimento iniziale di duecentomila euro, ne ha dovuto sborsare oltre la metà di tasca propria in quanto solo un’altra persona ha risposto all’appello per investire nel business. L’obiettivo, dunque, è recuperare gli investimenti e per farlo serve coinvolgere altre società del cosentino e del crotonese, di fatto interessate a frodare lo Stato – quindi a non smaltire regolarmente le batterie esauste – e così facendo, a condonare quell’avvelenamento che lo smaltimento illegale necessariamente provocherà, a Marcianise nel casertano.

    I clan al servizio delle imprese

    Nella gerarchia della serietà della condotta criminosa in questo caso, il traffico di rifiuti speciali e pericolosi sovrasta – per danno sociale – il coinvolgimento mafioso. In pratica questo vuol dire che i reati relativi ai mafiosi sono dipendenti dal reato madre, che è il reato ambientale a opera di colletti bianchi. Detto ancora più chiaramente: la condicio sine qua non di questa vicenda – cioè l’elemento che, qualora mancasse, cambierebbe l’evento stesso – non è la disponibilità della mafia cosentina, italiani o zingari che siano, a essere coinvolta nel traffico di rifiuti, bensì l’esistenza di imprenditori che tentano di aggirare le regole sullo smaltimento dei rifiuti. E che, per farlo, chiedono aiuto a chi, come certi gruppi mafiosi, non si fa problema a entrare nel business illecito.

    La mafia che presta servizi in mercati illeciti lucrativi è variabile dipendente rispetto all’intenzione dell’imprenditore di turno, che dà il via alla partita. Europol, nel suo report sui rischi legati ai crimini ambientali del 2022, ricorda appunto come, a differenza di altri settori in cui sono gruppi di criminalità organizzata si attivano autonomamente, nel settore del traffico di rifiuti, pericolosi e non, il motore criminale parte dalle imprese che cercano di tagliare e evitare i costi dello smaltimento. I gruppi criminali, dunque, non solo in Italia, agiscono sempre più a servizio delle imprese, o “da dentro” di esse.

    Privacy a imputati alterni

    Ma c’è in questa notizia ancora altro che stona. Sui mafiosi o presunti tali coinvolti ci sono dettagli, nomi, cognomi e analisi di intenzioni e possibilità. Così non è né per l’imprenditore cosentino che avrebbe avviato il tutto, né per le società che si sarebbero prestate, o dimostrate interessate, alla frode insieme a lui. Non solo non sappiamo chi sono (e questo potrebbe essere giustificato in termini di privacy), ma non sappiamo nemmeno se e quando qualche provvedimento verrà preso nei loro confronti o se quanto meno ci sia un modo – ideato o potenziale – di protezione di questo mercato.

    Sicuramente siamo tutti pronti a indignarci e gridare allo scandalo della mafia onnipotente perché i mafiosi cosentini fanno i mafiosi, o ci provano: vogliono fare soldi facilmente anche con attività di servizio altrui e questo è riprovevole, come sempre. Ma come mai non ci indigniamo allo stesso modo per i colletti bianchi che quel servizio lo creano? E come mai non ci indigniamo ancora di più quando oltre al mercato illecito che porta guadagni indebiti si commette anche un’atrocità ambientale?

    Nonostante l’inserimento degli eco-reati nel Codice penale dal 2015, la complessità delle normative in materia di rifiuti, spesso associata a scarse risorse per il monitoraggio, l’ispezione e l’applicazione delle norme, comporta ancora rischi ridotti per coloro che infrangono la legge a monte – colletti bianchi, imprenditori e più o meno grandi società e imprese – mentre i profitti illeciti che possono trarre da questo settore sono elevati. Nel caso delle batterie si parla di 1.500-1.800 euro a tonnellata.

    Chi sta sul carro

    Ma il problema non è solo l’arricchimento indebito e illecito – reale o potenziale – di qualche clan mafioso; il problema vero qui è che ci sono pratiche, quasi interamente condonate, di avvelenamento del territorio con i liquidi contenuti all’interno delle batterie esauste, mistura di acqua e acido solforico. Il traffico di rifiuti speciali o la mala gestione dei rifiuti pericolosi non ha solo ha gravi implicazioni per l’ambiente e la salute. Ha un impatto economico anche sulla concorrenza, ponendo le imprese che rispettano i regolamenti per lo smaltimento in una posizione di svantaggio economico.

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    Qual è l’incentivo a seguire i regolamenti se chi non li segue, o cerca di aggirarli, di solito non viene punito? Infatti, si puniscono facilmente i mafiosi coinvolti in questo traffico proprio perché sono “già” mafiosi, ergo già sotto osservazione delle forze dell’ordine; ma in questo mercato i clan sono solo una delle ruote del carro: sul carro stanno imprenditori, colletti bianchi, a volte grandi imprese e i loro arsenali di avvocati.

    Non solo ‘ndrangheta

    Mi permetto un’ulteriore riflessione. A guardare le notizie di cronaca in Calabria sembra spesso che a fare da protagonista assoluta, in faccende criminali di una certa serietà e complessità, sia sempre e solo la ‘ndrangheta: estorsioni, droga, traffici illeciti, appalti truccati, corruzione politica. Sicuramente, nella nostra regione, esistono monopoli criminali; c’è una densità tale dell’operatività dei clan mafiosi che spesso erroneamente si presume che ogni nefandezza che succede qui da noi debba passare dalla ‘ndrangheta, sia collegata alla ‘ndrangheta, oppure sia ideata dalla ‘ndrangheta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Non paiono esistere, nella pubblica percezione calabrese, reati complessi e attività lucrative che non coinvolgano la ‘ndrangheta: reati ambientali, reati societari, reati dei colletti bianchi, reati finanziari e via discorrendo. Fa eccezione, per ora, solo il traffico di migranti, che esula dagli interessi mafiosi perché di base non riguarda il territorio. Quando tali reati complessi si manifestano– e questo caso del traffico di batterie ne è esempio lampante – non paiono esistere in formula del tutto autonoma dall’interesse dei clan, da essi, o dalla loro narrazione, vengono fagocitati Questo non sorprende nessuno, vista appunto la capacità dei gruppi mafiosi locali di penetrare l’economia legale (come illegale) in modo totalizzante e vista la capacità legata alle indagini di mafia di ‘scoprire’ anche altri reati che ruotano intorno ai soggetti attenzionati per mafia.

    I colpevoli dimenticati

    Ma così facendo si rischia, come in questo caso cosentino, di mancare il focus, attribuendo tutto il male di vivere della nostra amara terra a una ‘ndrangheta onnivora mai sazia di denaro facile e moralmente sempre corrotta, senza vedere le sfumature, le differenze tra i clan. E, soprattutto, senza realizzare che le fattispecie criminali locali sono molto più complesse della volontà, dei successi e dei fallimenti della ‘ndrangheta. È un po’ come chi guarda il dito e non la luna: a furia di concentrarsi solo sul ruolo della ‘ndrangheta come protagonista in tutto ciò che non va in Calabria, si rischia di banalizzare fattispecie e attori criminali a volte molto più dannosi e a volte più scaltri di tanti gruppi mafiosi. Quando si riesce a identificare e accusare il mafioso, altri spesso finiscono nel dimenticatoio: per condannare la ‘ndrangheta, si finisce per assolvere de facto altri potenziali colpevoli.

  • La Calabria che frana e non vuol sapere perché

    La Calabria che frana e non vuol sapere perché

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    L’inizio della stagione invernale riporta alle cronache notizie legate a frane, alluvioni e erosione costiera… Aspettate, forse meglio ricominciare poiché registriamo eventi già in autunno.
    L’arrivo delle prime piogge riporta alle cronache… No, neanche così va bene poiché abbiamo avuto eventi alluvionali anche ad agosto.
    In qualsiasi periodo dell’anno (ora sì che funziona), la Calabria, come molte altre aree dello Stivale, registra eventi naturali che provocano nel peggiore dei casi la perdita di vite umane, nel migliore solo la distruzione di abitazioni e strade.

    In queste occasioni, la macchina della solidarietà si mette immediatamente in moto, le persone offrono aiuto fisico ed economico dimostrando vicinanza verso chi è stato meno fortunato. Contemporaneamente, i politici sfoderano (in modo proporzionale al livello dei danni registrati) il meglio della loro ars oratoria per promettere che tutto ciò non si ripeterà più (fino alla prossima dichiarata emergenza). Gli amministratori locali, spesso lasciati da soli a fronteggiare dinamiche e situazioni più grandi di loro, sbattono i pugni chiedendo fondi per ripristinare lo stato delle cose (fino al prossimo evento).

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    Lista di alcuni eventi naturali come alluvioni e frane avvenuti in Calabria negli ultimi anni

    Scarsa conoscenza e speculazioni

    Un piccolo esercizio di memoria aiuterebbe a comprendere che gli eventi naturali ed il cambiamento delle condizioni che noi definiamo “normali” rappresentano, in Italia come e più di altre aree geografiche, la norma e non l’eccezione. Questo perché la Terra è viva (se non lo fosse avremmo poche chance di sopravvivere), l’ambiente intorno a noi è dinamico. Processi come frane e alluvioni sono parte integrante e fondamentale del ciclo naturale.

    Da un punto di vista geologico l’Italia è una catena giovane e ancora in fase di assestamento, con il 94% dei Comuni sottoposti a rischi naturali. Se a questo aggiungiamo un uso del territorio, sia in tempi antichi che recenti, che per mancanza di conoscenze (prima) e/o speculazione (dopo) non ha tenuto e non tiene conto di questo dinamismo e delle peculiarità e vulnerabilità del territorio, è facile trovarsi a cadenze regolari nelle stesse situazioni.

    Un circolo vizioso

    In questo scenario, l’unico strumento che abbiamo a disposizione per prevenire il verificarsi di eventi potenzialmente avversi è quello di conoscere il territorio, la sua struttura, morfologia e predisposizione a determinati cambiamenti. Per fare ciò abbiamo bisogno di persone qualificate come i geologi, capaci di leggere ed interpretare in modo corretto il territorio, e di database come le carte geologiche aggiornati.

    Negli ultimi anni, politiche universitarie discutibili e progressivi tagli ai finanziamenti hanno portato alla scomparsa di molti dipartimenti di Geologia e Scienze della Terra, o nel migliore dei casi alla loro fusione con altri dipartimenti, riducendo di fatto la loro visibilità e ruolo di riferimento per gli studi del territorio. Questo, unito alla mancata attenzione e riconoscimento da parte sia della politica che della società civile della figura del geologo e delle sue capacità, ha contribuito alla riduzione del numero di iscritti di studenti nelle discipline di Scienze della Terra. Calo che porterà nei prossimi anni ad una progressiva riduzione di competenze sia a livello locale che nazionale in un circolo vizioso che, salvo investimenti sostanziali, potrà solo peggiorare.

    Centoquarant’anni e non sentirli

    Per quanto concerne le carte geologiche, pochi mesi dopo l’atto formale di unificazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) veniva istituita una giunta consultiva che doveva “discutere i metodi e stabilire le norme per la formazione della Carta Geologica del Regno d’Italia” che porterà nel 1881 in occasione del 2° Congresso Internazionale di Geologia tenutosi a Bologna di pubblicare “per cura del Regio Ufficio geologico” la prima edizione della Carta geologica d’Italia in scala 1:1.000.000. Dopo 140 anni, ci troviamo oggi nella situazione in cui in Italia non abbiamo ancora una carta geologica aggiornata in grado di rappresentare tutto il territorio nazionale.

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    17 marzo 1861, nasce il Regno d’Italia

    Il programma di Cartografia Geologica nazionale CARG, lanciato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, rischia di fermarsi nuovamente per la mancanza di finanziamenti dopo che nel 2020 aveva ripreso dopo 20 anni di inattività per carenza di fondi. I fogli CARG rappresentano una banca dati fondamentale per la conoscenza del territorio e del sottosuolo necessaria per mappare le aree a rischio e metterle in sicurezza e procedere con una idonea pianificazione urbanistica. Come recentemente annunciato dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (ISPRA), «quella a rischio è un’importante infrastruttura di ricerca strategica per la Nazione che oggi rappresenta lo strumento più completo per leggere il passato e il presente del nostro territorio».

    Per un pugno di euro

    Il tutto per una cifra tutt’altro che esorbitante (5 milioni l’anno) rispetto alle conoscenze e benefici che ne deriverebbero, sebbene questo dovrebbe essere una priorità per il Paese a prescindere dal costo. A titolo di esempio, Francia, Germania e Inghilterra hanno una carta geologica che copre tutto il territorio e la stessa viene aggiornata regolarmente.
    A livello nazionale, la copertura odierna della carta geologica CARG si attesta a poco più della metà del territorio: 348 carte geologiche su 636 totali.
    La Calabria è tra le regioni con minore copertura con solo 15 carte geologiche completate (incluse due a cavallo tra Calabria e Basilicata) e due in fase di realizzazione rispetto alle 42 necessarie a coprire il territorio regionale.

    Copertura regionale delle carte geologiche CARG in Calabria (Fonte Ispra)

    Il ruolo delle Scienze della Terra

    Solo conoscendo il territorio, la sua composizione e variabilità geologica è possibile una corretta pianificazione e gestione per proteggere la vita dei cittadini e anche le infrastrutture. Senza una pianificazione e sostegno finanziario e culturale, lavorando nel medio e lungo periodo per dotarsi degli strumenti e delle figure professionali necessarie per monitorare il territorio, i proclami post-evento hanno poca efficacia. Se non quella di rispondere, in emergenza, ad evento già avvenuto.
    Quello su cui si deve lavorare è sostenere e valorizzare gli studi delle Scienze della Terra. Allo stesso tempo permettere di realizzare gli strumenti necessari a prevenire gli effetti legati ad eventi naturali. Ad esempio, mettendo in sicurezza le aree a rischio o limitando le stesse nelle situazioni in cui è necessario convivere con i rischi perché impossibili da risolvere a meno di non evacuare la popolazione spostandola su altri siti.

    Lo sfasciume pendulo sul mare è ancora lì

    Nel lontano 1904, quando le prime carte geologiche d’Italia erano da poco state realizzate permettendo di colmare un divario con le altre nazioni e conoscere il territorio anche da un punto di vista geologico, Giustino Fortunato (politico e storico italiano) definì, a ragione, la Calabria come uno «sfasciume pendulo sul mare». A più di cento anni di distanza, lo sfasciume pendulo è ancora lì intento, nella sua lenta ma inarrestabile evoluzione geologica. Purtroppo, gli strumenti per conoscerlo e monitorarlo sono spesso ancora gli stessi consultati da Giustino Fortunato. Dire che da allora ad oggi si sarebbe potuto fare di più è retorica.

     

  • Guarascio, che batosta a Reggio: salta l’appalto da quasi 120 milioni

    Guarascio, che batosta a Reggio: salta l’appalto da quasi 120 milioni

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    Tempi duri per Eugenio Guarascio. A Cosenza, come presidente della locale squadra di calcio deve fare i conti con le contestazioni dei tifosi. A Reggio Calabria, invece, ha visto sfumare un appalto da quasi 120 milioni di euro potenziali che, soltanto pochi mesi fa, considerava ormai cosa sua. Ecologia Oggi Spa, l’azienda del patron rossoblu, non si occuperà infatti della raccolta dei rifiuti in riva allo Stretto, come pure la ditta dell’imprenditore lametino aveva dichiarato con una nota a fine ottobre. La gestione della spazzatura reggina resterà di competenza della piemontese Teknoservice, che se n’era già occupata negli ultimi tempi e continuerà a farlo per i prossimi 48 (che potranno diventare 60) mesi.

    L’appalto finisce in tribunale

    L’assegnazione a Teknoservice e non ad Ecologia Oggi del servizio è figlia di una lunga battaglia giudiziaria che ha visto pronunciarsi il Tar prima e il Consiglio di Stato poi. A scontrarsi, da un lato il Comune e l’azienda piemontese, dall’altro quella calabrese. Guarascio contava molto sull’aver fatto un’offerta migliore dal punto di vista economico. La cosa, però, non si era rivelata sufficiente perché da quello tecnico la proposta di Teknoservice risultava decisamente superiore a quella dei rivali. Il problema per i piemontesi, però, era che la commissione chiamata a valutare le offerte e aggiudicare l’appalto non era stata sufficientemente accurata nel motivare le proprie valutazioni. E così, di fatto, le aveva rese contestabili.

    Teknoservice già al lavoro

    L’aggiudicazione definitiva dell’appalto, pertanto, era rimasta sub iudice. Teknoservice aveva iniziato a lavorare solo grazie a un’ordinanza emanata dal Comune per tamponare l’accumulo di rifiuti che la mancata assegnazione del servizio avrebbe comportato. Poi, nelle scorse settimane, la sentenza del Consiglio di Stato sembrava aver riaperto i giochi per Ecologia Oggi. In realtà, le cose non stavano come Guarascio e i suoi avevano dichiarato. I giudici avevano sì respinto i ricorsi dei piemontesi e Reggio, ma anche chiesto al Comune di motivare meglio i perché della prima scelta pro Teknoservice. E le motivazioni sono arrivate: non c’erano difformità nell’offerta rispetto a quanto richiesto, come lamentava Ecologia Oggi.

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    Un mezzo della Teknoservice

    Il Comune conferma: l’offerta tecnica era regolare

    L’ulteriore istruttoria seguita alla sentenza ha consentito – si legge in una determina pubblicata a San Silvestro – di«affermare la validità dell’Offerta tecnica della Teknoservice srl, rispetto alle finalità prefissate dalla stazione appaltante, essendo stato dimostrato, in punto di equivalenza funzionale e di effettiva idoneità al conseguimento dei prefissati obiettivi di raccolta differenziata, che le modalità di raccolta ivi proposte soddisfano pienamente le indicazioni operative recate dalla lex specialis (che di per sé ammetteva varianti ed ottimizzazioni rispetto al progetto posto a base di gara, purché funzionali agli obiettivi dell’Amministrazione comunale».

    Costa meno, ma Ecologia Oggi è fuori

    Quanto proposto da Teknoservice, insomma, non sarà economico quanto il progetto di Ecologia Oggi (il ribasso rispetto alla base d’asta si ferma a un 1,08%) ma decisamente più efficace rispetto alla concorrenza per ottenere i risultati auspicati dell’amministrazione reggina. «Tant’è vero – si legge ancora nell’atto del Settore Ambiente – che la considerevole diversità quali-quantitativa delle due offerte tecniche si traduce in un forte distacco nei punteggi attribuiti ad esse (59,480 per Teknoservice Srl contro 46,218 per Ecologia Oggi Srl)».

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    Un estratto dell’atto che assegna l’appalto a Teknoservice

    Non esistono, quindi, motivi ostativi all’aggiudicazione della gara, i precedenti rilievi risultano sanati dall’istruttoria extra. A raccogliere i rifiuti per i prossimi 4 anni sarà dunque Teknoservice, in cambio di circa 93,5 milioni di euro, oneri di sicurezza inclusi. Ai quali si aggiungerà un’ulteriore ventina abbondante di milioni nel caso il contratto sia esteso a un quinto anno.

  • Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

    Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

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    Se dovessi pensare a un’immagine della Calabria da trasmettere come metafora della realtà socio-politica del nostro tempo opterei per quella dei suoi ponti. Tre nello specifico, anzi due ponti e un viadotto. Tre ponti di cui uno dimenticato e sconosciuto, un altro che ogni tanto rimbalza sulle pagine della cronaca e l’ultimo famosissimo ma anche futuristico, quindi inesistente. Ponti specchio di come questa regione è amministrata, ma allo stesso tempo di quanto stia poco a cuore ai suoi abitanti, sempre più lontani da una presa di coscienza oggettiva di quello che è il bene comune. Gente sempre più impegnata a perorare interessi privati, intenta a coltivare orticelli secondo quella logica del familismo amorale che, di fatto, ha determinato la marginalità della Calabria.

    Ponti del diavolo: la Calabria in buona compagnia

    I ponti sono strutture pensate dall’uomo per aprire nuove vie di comunicazione, superando ostacoli che s’interpongono alla continuità della viabilità. Opere d’ingegneria che, in Italia come nel resto del mondo, segnano anche mete turistiche. Perché, oltre la funzione pratica, i ponti parlano di storia, dell’evoluzione di una società. I ponti uniscono lembi di terra distanti geograficamente e avvicinano strutture sociali diverse.

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    Tra i ponti più famosi in Calabria c’è quello del Diavolo a Civita (CS)

    Nel resto d’Italia i ponti storici più famosi, solo per citarne alcuni, sono quello di Rialto a Venezia, Ponte Vecchio a Firenze, Ponte Sant’Angelo a Roma. Nel Cosentino abbiamo il Ponte di Annibale a Scigliano, monumento nazionale di epoca romana (II sec. A.C.), il suggestivo Ponte di Tavolaria a Marzi, edificato intorno al 1592, e il famoso Ponte del Diavolo a Civita che, secondo una recente documentazione, può essere datato intorno al 1840.
    In realtà ogni regione che si rispetti sembra debba avere un suo ponte del diavolo, dal Friuli al Veneto, passando per Piemonte, Toscana, Emilia, Lazio. Ognuna rivendica una leggenda che mette in relazione la capacità del demonio di costruire laddove per gli uomini è impossibile.

    Griffe e fiducia cieca 

    Poi ci sono gli altri ponti, quelli che gli automobilisti percorrono ogni giorno. Per citarne qualcuno ricordiamo il Viadotto Italia che attraversa i comuni di Laino Borgo e Laino Castello, il Viadotto Sfalassà sull’autostrada nei pressi di Bagnara Calabra, il Viadotto Fausto Bisantis, detto anche Ponte Morandi a Catanzaro. Spesso ne ignoriamo lo stato di salute e non possiamo fare altro che fidarci del fatto che siano aperti alla viabilità.

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    Il ponte di Calatrava a Cosenza

    In Calabria possiamo anche vantarci di avere un ponte griffato dal famoso architetto Santiago Calatrava. Lo hanno inaugurato nel 2018 in pompa magna con effetti speciali da far venire in mente Rutger Hauer in Blade Runner e la sua  «Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi». Resta solo da capire la funzione di un ponte che in realtà più che a unire è riuscito a dividere una città intera, ma questa è un’altra storia.

    Tre ponti simbolo della Calabria

    Torniamo invece ai tre ponti simbolo della nostra realtà territoriale. E spostiamo, quindi, l’attenzione sul Ponte della Cona, costruito sul finire del 1700 nel comune di San Giovanni in Fiore, sul Viadotto del Cannavino, realizzato negli anni ‘70 del secolo scorso sulla SS 107 Silana Crotonese nei pressi del comune di Celico alle porte di Cosenza, e sul tanto discusso Ponte sullo Stretto, il cui primo progetto risale al 1969. Quest’ultimo, per il momento, riesce solo a unire nelle polemiche il dissenso e l’approvazione, il buonsenso e la sconsideratezza.

    I tre ponti in questione sono l’immagine del passato, del presente e del futuro. Il passato è abbandonato a se stesso, immerso nel degrado di un luogo che ha perso ogni contatto con il centro abitato e difficilmente raggiungibile. Il presente vive una situazione di precarietà e di pericolo che non fa ben sperare sulle sorti della sua stessa stabilità, e quindi sulla sicurezza di chi lo attraversa. Il futuro è incerto. E, soprattutto, appare come il luogo ideale per chi, da sempre, è alla ricerca di certi consensi personali o elettorali.
    Benvenuti in Calabria, dunque, dove il passato è stato dimenticato, il presente vacilla e il futuro è illusorio e fuorviante. L’immagine di questa terra è quella di una cultura dimenticata, di una società governata da un’imperante negligenza e di un avvenire costruito da accurate e ben orchestrate narrazioni utopistiche.

    Registi in fuga dalla Storia

    Il Ponte della Cona è una struttura a due arcate, con le volte a pietra incastrate fra loro e tenute insieme da uno strato di malta a base di calce. Anticamente era l’unico accesso al centro di San Giovanni in Fiore. Sul ponte transitarono anche i Fratelli Bandiera dopo la cattura in località Stragola, distante poco più di dieci chilometri dal centro abitato.
    Si giunge al ponte dopo aver percorso una ripida discesa e sembra quasi di fare un salto indietro nel tempo di almeno duecento anni. Una fitta vegetazione di betulacee, nello specifico ontani, costeggia il sottostante corso del fiume Neto. Insieme agli alberi anche i rifiuti si estendono lungo il fiume. E il ponte subisce i segni del tempo, tanto che da oltre un decennio c’è un divieto di transito per i mezzi e i pedoni.

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    Il Ponte della Cona nei pressi di San Giovanni in Fiore

    Ma chi se ne importa, il sito è ormai relegato ai margini della città e per essere sicuri non ci sono indicazioni che suggeriscano come raggiungerlo. Almeno così si può essere certi del fatto che nessuno chiederà nulla su alcuni sversamenti sospetti provenienti da condotte non canalizzate che confluiscono direttamente nel fiume. Di questo non potrà dare conto neanche il registro dei tumori perché in Calabria c’è ma è come se non esistesse.
    Qualche mese fa un regista ha fatto un sopralluogo in zona: voleva girare alcune scene di un film, ma poi è scappato a gambe levate spostando il lavoro della troupe verso l’Italia centrale. Altre regioni avrebbero trasformato quest’antico manufatto in una meta turistica, creando un indotto economico. L’idea di costruire un’industria culturale non è cosa che pare appartenere ai calabresi: meglio piangersi addosso o emigrare.

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    Rifiuti abbandonati ai piedi del Ponte della Cona

    L’eterno rattoppo

    Il Viadotto del Cannavino è nato sotto una cattiva stella: due operai nel 1972, durante la costruzione, persero la vita a causa di un cedimento del ponte. Da allora il viadotto non è mai stato sicuro, presenta un’accentuata deflessione che preoccupa. Fiumi di denaro pubblico continuano a essere spesi per incessanti manutenzioni che, con molta probabilità, non riusciranno mai a rendere sicura la struttura. All’orizzonte si prospetta, addirittura, l’ipotesi di un abbattimento e un rifacimento. Chiusure totali o parziali e aperture temporanee non fanno altro che peggiorare la già difficile situazione viaria di una regione sempre più dissestata e violata da politiche territoriali inconcludenti e incompetenti.
    Diciamo pure che per il momento il Cannavino barcolla ma fortunatamente non molla.

    Così lontane, così vicine

    E per finire la ciliegina sulla torta: un fantascientifico ponte che possa collegare in maniera diversa, più moderna – almeno così dicono – la Calabria alla Sicilia. Non bastano i pareri di esperti che, in tutti i modi, cercano di dimostrare i rischi di un’opera tanto dispendiosa quanto tecnicamente pericolosa. Senza scendere in tecnicismi da addetti ai lavori, a noi comuni mortali basta solo dire che l’economia calabrese per ripartire non ha bisogno dell’apertura di utopistici cantieri attorno ai quali potrebbero concentrarsi ulteriori interessi di malaffare. Si avverte, invece, il bisogno di una politica dignitosa in grado di dare un minimo di normalità a questa terra.

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    Una delle ipotesi progettuali per il mai realizzato ponte sullo Stretto

    Non abbiamo bisogno di avvicinarci alla Sicilia, anche perché non siamo mai stati lontani. C’è, però, la necessità di collegare i piccoli centri alle città, di avere la certezza che le strade interne non siano il luogo dove fare la conta dei “caduti”. Servirebbe avere finalmente la tranquillità di sapere che un’ambulanza potrà raggiungere un ospedale nel minor tempo possibile. Non abbiamo bisogno di dimostrare al mondo di essere capaci di avviare opere faraoniche se non abbiamo prima strade, ferrovie e aeroporti sicuri e funzionanti.

    I ponti che servono alla Calabria

    Si avverte il bisogno di valorizzare il nostro patrimonio storico, naturale e artistico, compreso il Ponte della Cona, perché è anche su questo che dovrebbe basarsi la nostra economia. I calabresi hanno la necessità di percorrere il Viadotto del Cannavino senza doverlo fare col fiato sospeso.
    La Calabria ha bisogno di un unico grande ponte capace di congiungere la dignità politica con la bellezza di un territorio in balia di brame personali. Un ponte che faccia transitare le persone sulla strada della consapevolezza e dell’autocritica, perché tutto ciò che noi abbiamo è il frutto delle nostre singole scelte. Ogni calabrese è responsabile della costruzione di tutti i ponti di collegamento tra il personale e il politico.
    Solo questa consapevolezza potrà ristabilire condizioni di autodeterminazione, libertà e dignità personale e collettiva.

  • Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    L’allarme tsunami diramato in tutta fretta dalla Protezione civile il 4 dicembre scorso ha mandato in fibrillazione tutti i comuni della costa tirrenica. Hanno chiuso scuole, uffici, bar e tutto ciò che si trova sul lungomare. Poi, cessato l’allarme, i residenti hanno cominciato a porsi domande. Basta la caduta di un costone dello Stromboli per diramare un allarme tsunami? Basta un’onda di un metro e mezzo per chiudere scuole e attività produttive? E le mareggiate invernali con onde fino a 9 metri, come quelle di qualche settimana fa, dove le mettiamo? È fin troppo logico e chiaro che qualcosa nelle nostre coste è cambiato, e di molto. Il problema sta tutto nell’erosione costiera che colpisce l’intera Calabria da almeno venti anni. Procede rapida, ma poco o nulla hanno fatto i nostri amministratori pubblici per cercare di fermarla o, almeno, arginarla.

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    Un’eruzione dello Stromboli ha destato allarme sulla costa tirrenica calabrese

    La speculazione edilizia sulla costa tirrenica

    Paghiamo il prezzo della speculazione edilizia degli anni ’80, quando la sabbia del mare servì per costruire villaggi e alberghi. E paghiamo anche il saccheggio dei fiumi. Milioni di metri cubi di sabbia trasportata per millenni dai corsi d’acqua servirono per costruire ogni sorta di edificio. Poi la prima grande mareggiata portò a gettare a mare migliaia e migliaia di massi di cemento. Sarebbero dovuti servire a difendere la linea ferroviaria e, naturalmente, tutto ciò che di abusivo si era realizzato lungo le coste. Ditte legate alla cosca di Cetraro bucarono montagne e colline per trasportare massi che non servirono a fermare la furia delle mareggiate che anno dopo anno divoravano decine di metri di spiaggia. Poi, in nome del turismo, ecco la nascita di chioschi e stabilimenti balneari che tolsero altra spiaggia. Un disastro annunciato.

    La febbre dei porti

    Come se non bastasse, arrivò la corsa ai porti. Negli anni ’90 la portualità ricevette dall’Europa e dai governi milioni a non finire. A lucrarci su furono tanti, i risultati positivi pressoché nulli. L’erosione continuava, ma bracci a mare distrutti poi dalle mareggiate nascevano comunque. Cittadella del Capo, Diamante, Belvedere, Scalea, Fuscaldo, Paola, Campora San Giovanni: ogni Comune presentò un progetto per avere il proprio porto. Alcuni ebbero anche qualche autorizzazione che li indusse a gettare massi per costruire i bracci, ma solo i comuni di Campora e di Cetraro riuscirono a costruirli. Peccato che non lo abbiano fatto nel migliore dei modi, tant’è che ogni anno si registrano insabbiamenti, con relativo esborso per liberare i pescherecci incagliati.

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    Una ruspa in azione all’imbocco del porto di Cetraro per evitare che le barche si incaglino

    Costa tirrenica, arrivano le dune

    Adesso arrivano le dune a difesa di caseggiati e lidi balneari, chissà se tutte autorizzate. I lidi, lasciati soli, fanno da sé. Ed ecco in azione decine di ruspe che per km, lungo tutte le spiagge, si mettono al lavoro per alzare dune di difesa. Questo vuol dire un grave danno alla vegetazione dunale, alle stesse dune naturali. Così facendo, paradossalmente, si favorisce ancora l’erosione costiera. Il mare non trova alcun ostacolo e avanza, inglobando pezzi interi di spiaggia.

    Franano le colline

    Il prolungarsi delle piogge rende i terreni collinari più fragili; massi e pietrame si staccano e ostruiscono la linea ferroviaria e le strade. La tragedia di Ischia ha portato a riflettere (speriamo) sulla speculazione edilizia su quell’isola, ma il problema riguarda l’intero Sud ed i cambiamenti climatici stanno mettendo in evidenza tutte le criticità. Due frane hanno interessato altrettanti paesi della costa nei giorni scorsi. Una si è verificata a San Lucido: è crollato un costone roccioso che sovrasta il tracciato ferroviario della galleria San Lucido-Paola e ha rischiato di interrompere il traffico ferroviario. L’altra è avvenuta a San Nicola, con Italia Nostra a organizzare un sit-in lungo la strada provinciale per smuovere le autorità.

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    La frana a San Nicola vista dall’alto

    L’associazione ambientalista, in un comunicato del 12 dicembre scorso, spiega che «la Provincia di Cosenza nella persona del dirigente Gianluca Morrone e del responsabile del Servizio tecnico viabilità, Settimio Gravina interviene sulla questione specificando che “l’evento franoso che ha causato l’interruzione della SP n.1 è dovuto allo smottamento di un gran quantitativo di materiale terroso di riporto ed usato come riempimento di un impluvio naturale per la realizzazione di un’area di parcheggio di proprietà della Società Immobiliare Mediterranea S.P.A”».

    Una goccia nel mare di cemento

    La cosa, si legge ancora nel comunicato, ha portato la stessa Provincia a diffidare l’azienda affinché provveda «ad eseguire con la massima urgenza i lavori di messa in sicurezza della scarpata sovrastanti la strada provinciale , mediante la realizzazione di tutte le opere necessarie al consolidamento del versante». In caso contrario, «qualora si dovessero prorogare i tempi di ripristino della viabilità la Provincia si determinerà ai fini giuridici per la richiesta di eventuali risarcimenti anche per il disservizio creato all’utenza», riporta ancora Italia Nostra.

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    La protesta a San Nicola dopo la frana

    Ma non basterà mettere una toppa a San Nicola, perché tutto il territorio collinare è stato devastato. Basta guardare le nostre colline per vedere a che livelli di cementificazione si è giunti. E lo capiremo meglio nei prossimi mesi se il maltempo non si fermerà.

  • Stretto di Messina: una marea di energia contro la crisi

    Stretto di Messina: una marea di energia contro la crisi

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    L’attuale crisi energetica legata alle tensioni tra Europa e Russia ha palesato i limiti del sistema energetico europeo e italiano, e accelerato la necessità di trovare fonti alternative per non dipendere solamente da quelle fossili. A rendere la situazione più incombente, recenti studi prevedono che per il 2050 l’Italia avrà bisogno annualmente di più del doppio dell’energia elettrica richiesta oggi per un valore stimato di circa 700TWh rispetto ai 300TWh odierni. Avere un piano energetico nazionale capace di affrontare e rispondere a questa sfida è quindi una priorità.

    I rischi con eolico e solare

    Negli ultimi anni, la proliferazione sul territorio nazionale di campi eolici e solari, non sempre realizzati rispettando l’ambiente e le normative, hanno contribuito a sostenere la domanda di energia, ma da soli non saranno sufficienti a soddisfarla nel lungo periodo. In questo contesto, come recentemente illustrato da Geppino De Rose sulle colonne di questo giornale, la Calabria produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Se non si vuole continuare ad installare campi solari ed eolici a spese di aree destinate all’agricoltura (soprattutto al Sud) con il rischio di stravolgere equilibri sociali e economici delle comunità locali, solitamente rappresentati da territori che già soffrono di mancanza di lavoro e spopolamento, compito del Governo è quello di sostenere la ricerca di fonti alternative e di processi che possano aiutare ad aumentare la produzione energetica e ridurre l’impatto climatico limitando le ricadute ambientali e sociali degli stessi.

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    Pale eoliche nel Crotonese

    L’energia dalle maree

    Bisogna quindi sostenere finanziariamente e promuovere delle politiche di transizione energetica che spazino su vari campi per massimizzare le potenzialità del nostro territorio.
    Un sistema per produrre energia verde, usato in altre nazioni (es. Canada, Cina, Francia, Galles, Giappone e Scozia) e che sta riscontrando negli ultimi anni un aumento dell’interesse da parte dei governi, ma poco investigato in Italia, è l’energia tidale legata ai flussi di marea.
    Le maree sono lo spostamento di larghi volumi di acqua legati all’attrazione gravitazionale prodotti dalla Luna e dal Sole. Processo che produce due alte maree e due basse maree ogni giorno. Questo significa che in aree caratterizzate da forti flussi di marea, possiamo trasformare parte di questa energia usando turbine sottomarine che girano al passare dell’acqua, simili alle pale eoliche a cui siamo ormai abituati, generando elettricità.

    Vantaggi e svantaggi

    Contrariamente alle incertezze legate alla presenza di vento e sole necessari per far funzionare pale eoliche e pannelli solari, il vantaggio delle maree risiede nella previsione della loro forza e capacità di produrre energia basata sull’osservazione della rotazione della Terra e della Luna, permettendo di prevedere la produzione elettrica con un anticipo di giorni, settimane e perfino anni permettendo una pianificazione di medio-lungo periodo.
    Ad oggi però, il principale limite dell’energia tidale è legato ai costi di produzione generalmente più alti rispetto all’eolico e al solare dovuti ai maggiori costi e rischi nel dover lavorare in un ambiente marino rispetto alla superfice. Esiste inoltre un problema ambientale legato alla possibile collisione di animali con le pale delle turbine o l’impatto delle stesse sulla circolazione delle acque, importante per la produzione dei nutrienti in ambienti marini.

    Scelte mirate per rispettare l’ambiente

    Sebbene studi scientifici indichino che questi problemi siano minori rispetto ai rischi legati ai cambiamenti climatici cui stiamo andando incontro che ci spingono ad investigare soluzioni alternative a quelle fossili, la scelta dei siti dove collocare le turbine richiede un accurato studio geologico, marino e ambientale per comprendere al meglio le caratteristiche geologiche dei siti, la circolazione delle acque ed evitare un impatto nell’equilibrio di ecosistemi marini. Questo significa che l’energia tidale non sarà in grado di sostituire le fonti energetiche correnti ma, in aree caratterizzate da forti correnti di marea, può sicuramente giocare la sua parte con potenzialità di crescita future.

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    La maxi turbina finanziata dal governo scozzese

    Recentemente, è stata prodotta la più potente turbina tidale al mondo grazie ad un finanziamento pubblico da parte del governo scozzese di circa 4 milioni di euro. Turbina che sarà installata nelle Isole Orcadi (arcipelago a nord delle coste scozzesi) per la produzione di energia elettrica destinato ad uso civile e industriale. Questo significa che ci sono margini di miglioramento per aumentare l’efficienza delle turbine, ridurre i costi e massimizzare l’energia prodotta dalle maree.

    Lo Stretto di Messina come le Isole Orcadi

    Guardando ai nostri mari, l’area mediterranea è caratterizzata da escursioni di marea (differenza tra alta e bassa marea) di pochi centimetri, non comparabile con altre aree come il Mare del Nord dove si registrano variazioni dell’ordine metrico. Ma, in particolari contesti come lo Stretto di Messina, si possono creare le condizioni per correnti forti abbastanza da creare energia. La presenza nello Stretto di Messina di pericolosi vortici e forti e repentine correnti con direzioni che cambiano durante il giorno è un fenomeno ben conosciuto dai marinai e che ha ispirato il mito di Scilla e Cariddi come custodi dei due lati dello Stretto.

    Questi processi sono legati alle forti condizioni mareali possibili grazie alla ridotta ampiezza dello Stretto di Messina che misura solo circa 3 km ed ha una profondità minima di circa 70 metri. In queste condizioni, si osserva l’amplificazione delle maree che coinvolge una larga massa di acqua il cui flusso è regolato da inversioni semi-giornaliere delle fasi di marea tra il lato Tirrenico a nord e quello Ionico a sud dello Stretto.

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    Credit: Longhitano et al., 2020

    La fase di alta marea su di un lato coincide con la fase di bassa marea dall’altro che provoca una differenza nel livello del mare creando forti correnti. In particolare, nello Stretto di Messina si registrano correnti superiori ai 2 metri al secondo capaci di produrre 125 GW/h all’anno di energia elettrica, sufficiente per soddisfare la richiesta energetica di città come Reggio Calabria o Messina.
    Le Bocche di Bonifacio tra Sardegna e Corsica e altre simili configurazioni morfologiche simili a ‘stretti’ presenti nei mari italiani capaci di amplificare e accelerare i flussi di marea potrebbero rappresentare altri possibili siti da investigare.

    Investire nella Ricerca

    Ci aspettano sfide importanti e tempi bui (sia metaforicamente che letteralmente legati alla probabile riduzione di energia elettrica disponibile) che richiedono decisioni tempestive, lungimiranza e investimenti nella Ricerca. In Italia abbiamo ricercatori eccellenti pronti ad offrire soluzioni e risposte alle domande correnti. Ricercatori che spesso si ritrovano a lavorare con limitati mezzi e risorse ma che, nonostante continui tagli ai fondi alla ricerca, continuano a produrre risultati eccellenti. Hanno solo bisogno di una classe dirigente capace di guardare al futuro che inizi ad investire nella ricerca, così come avviene in altre nazioni per ridurre la dipendenza energetica da partner stranieri e invertire la corrente tendenza.

     

     

  • Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Qualità della vita, province calabresi in fondo alle classifiche

    Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
    Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.

    Qualità della vita a Cosenza

    Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.

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    Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.

    I dati di Catanzaro

    A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.

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    (foto Antonio Capria)

    Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti

    A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.

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    Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.

    Vibo Valentia non è una provincia per donne

    Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.

    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.

    Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi

    Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.

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    Italia. Crotone 2013: Veduta della città: Crotone è circondata da colline di argillose che la dividono in due.
    (foto © Agostino Amato)

    Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.