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  • GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    GENTE IN ASPROMONTE | Trekking, terme e sentieri poco battuti

    Il racconto del fenomeno escursionistico in Aspromonte è una storia che intreccia diversi operatori e altrettante generazioni. Ciò che le unisce non è solo la passione per i sentieri. È il senso della riscoperta, del riconoscimento e della ricerca di uno sviluppo altro che esula dalla logica del consumo di massa. Questo viaggio che comincia ad Antonimina, passa da Bocale e finisce a Reggio Calabria.

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    Uno scorcio del centro storico di Antonimina

    Racconta di tre generazioni di escursionisti che, inconsapevolmente, stanno fornendo un contributo cruciale alla valorizzazione e alla crescita dei territori dell’Aspromonte.
    Si tratta di Nicola, di Diego e di LucaRitornati o restati che, dal 1995 ad oggi, si sono messi in cammino prima soli e poi seguiti da un pubblico sempre più attratto dai cammini e dal trekking.
    Era già stato Luca Lombardi ad ammonirmi dal non pensare che l’Aspromonte conservasse questa verginità. Dalle storie di questi tre protagonisti è sortito un quadro che ha una storia trentennale. E che, col tempo e il mutare di certi stili, ha creato un comparto in cui operano molteplici realtà. Il viaggio di questa puntata non risiede tanto nello spazio, quanto nel tempo.

    (San) Nicola di Antonimina

    Appena sopra Locri, aggrappata alla montagna è appollaiata Antonimina. Un toponimo greco, un luogo “ricco di fiori” di 1.200 abitanti, con il suo culto per San Nicola di Bari e la sua varia di legno massello, un ritmo di vita quieto sopravvissuto ai terremoti del 1783 e del 1908. Antonimina è terra di pastorizia, uliveti, acque termali e caciocavallo, fratello del più famoso di Ciminà.
    Arrivo lì con Luca Lombardi ai primi di marzo in una giornata umida e annuvolata. Me la trovo di fronte come un grazioso presepe dominato a sinistra dal maestoso Monte San Pietro.
    Nicola Pelle, fondatore di Boschetto Fiorito e guida ambientale, ci aspetta in piazza. Il suo sorriso lo precede: «Benvenuti! Andiamo a prendere un caffè, prima di tutto».

    Non so bene se Nicola sia un restato o un ritornato, ma mi dice che questa è la sua nuova vita. «Ho una laurea in ingegneria informatica all’Unical, i miei programmi erano di partire per il Nord. In effetti ho vissuto fuori, convinto di dovere seguire uno schema che è il topos dei ragazzi calabresi. Poi ho scelto di tornare ad Antonimina. Collaboro ancora con il settore fotovoltaico di Siderno, ma punto a vivere solo di montagna. Adesso sono felice perché sono pagato per fare quello che mi piace».

    Nicola Pelle e Luca Lombardi

    Luca ride mentre camminiamo tra i viottoli che si imbudellano fin quasi nel ventre dell’Aspromonte. Li seguo arrancando. «Antonimina è un paese che, come molti altri, ha subito la piaga dello spopolamento. L’accoglienza diffusa, il nostro primo motore realizzato sfruttando la possibilità di creare ospitalità nelle nostre seconde case, ha riportato nuova vita. Chi viene qui è alla ricerca del selvaggio, dell’incontaminato, quasi dell’esotico. La sciura milanese che abbiamo ospitato qualche tempo era rimasta sbalordita dal fatto che la sconosciuta vicina di casa le avesse bussato alla porta con una tazza di caffè caldo da offrirle. Non riusciva a capacitarsi di un gesto simile. La ricchezza di Antonimina e delle esperienze che regaliamo è anche questa».

    Aspromonte trekking: Boschetto Fiorito

    Nicola, assieme a un gruppo di amici, appassionati di escursionismo, è tra gli animatori dell’associazione Boschetto Fiorito che promuove pacchetti dedicati a quello che definisce il turismo lento: «Accompagnando gruppi di italiani e stranieri che battevano i sentieri aspromontani, avevamo necessità di dare ospitalità. La ritrosìa dei miei compaesani guidati dal presupposto de “la casa è mia e non la do a nessuno”, ha piano piano ceduto il passo all’entusiasmo e agli affari. Siamo partiti così. A questo si sono affiancate le attività escursionistiche, il noleggio di attrezzature e materiale outdoor – ciaspole, tende e mountain bike elettriche per il cicloturismo – e l’accompagnamento in percorsi dedicati al turismo naturalistico, complice la vicinanza con il Monte San Pietro. Con un bando siamo riusciti a prendere in gestione una vecchia casermetta della forestale costruita ai primi del ‘900 e successivamente ristrutturata dal Comune in zona Zomaro. Un punto nevralgico per chi percorre il Sentiero Italia o la ciclovia, data la carenza di ricettività. Da lì non ci siamo più fermati, continuando ad arricchire la nostra offerta con le escursioni domenicali».

     

    Dalla montagna al museo di Reggio

    Arrivati a una terrazza che domina la vallata di fronte a cui svettano i Tre Pizzi del Monte San Pietro, Nicola di Antonimina si affaccia e il suo sguardo si perde. D’improvviso si volta e mi chiede: «Guarda quelle rocce. Non ti viene voglia di arrivare fin lì? Io ci salgo almeno una volta alla settimana e ogni volta mi chiedo come mai i locali siano così poco interessati al loro territorio. Per me è paradossale che lavoriamo più con gli stranieri che con gli autoctoni, pigri e meno curiosi. Ma parte del nostro lavoro è anche quello di incuriosire, di ravvivare la memoria, come i nostri genitori hanno fatto con noi. Stuzzicare i palati stranieri con l’esca dell’esotico è più semplice, vuoi perché il loro diventa più facilmente un viaggio dello spirito, vuoi perché il fascino del selvaggio e dell’incontaminato per popoli nordici come gli scandinavi, abituati a una montagna più curata e antropizzata, scaturisce naturalmente. La pandemia ha invertito il trend. Abbiamo avuto meno stranieri e più italiani. Il nostro modello di escursionismo non si limita alla montagna per la montagna, ma arriva alle visite al Museo Archeologico della Magna Grecia di Reggio Calabria dove sono custoditi molti reperti rinvenuti in questi territori, a Locri o Ianchina. Facciamo fare un viaggio a tutto tondo per compenetrare appieno i luoghi battuti. Un turismo che non è solo lento, ma bifronte: prevede una parte paesaggistica e una culturale capace di connettere biunivocamente entrambe le esperienze».

    Il mare a due passi dalla montagna: meraviglie del trekking d’Aspromonte

    Il fortino greco di Bregatorto

    Nicola è tra coloro che nel 2015 hanno partecipato come volontari ai sondaggi di scavo che hanno scoperto l’esistenza del Fortino di Bregatorto, tra le più vaste fortificazioni greche mai rinvenute nell’area della Magna Grecia. Si tratta di una struttura militare nell’area del Puntone di Bregatorto posizionata sul percorso che collegava l’antica Locri alle sue colonie tirreniche.
    Lo studio (qui la versione in inglese) pubblicato dal professor Paolo Visonà sulla rivista Fastionline dell’Associazione di Archeologia Classica, spiega che la fortificazione fu costruita per sorvegliare il passaggio che conduceva alle subcolonie locresi sull’altro versante. Simili strutture furono realizzate dai Greci di Rhegion e Kaulonia a Serro di Tavola (Sant’Eufemia), San Salvatore (Bova Superiore) e Monte Gallo (Placanica).

    Lo studio ha fatto ipotizzare che i Locresi si servissero di un sistema di difesa del territorio basato su una serie di punti di controllo, situati alla periferia della Chora e protetti da massicci circondati di mura. Le indagini topografiche condotte tra il 2013 e il 2015 da un team della Foundation for Calabrian Archaeology e dell’Università di Kentucky miravano a verificare questo modello e ad identificare altri siti simili.
    Me lo racconta mentre saliamo al rifugio: «Sono stati rinvenuti resti di fortificazioni, vasellame, e scarsamente metallo, data l’estrema umidità della zona. Alla fine è stato tutto reinterrato. Era impossibile partire con una vera e propria campagna di scavi senza fondi».

    A spasso tra i sentieri innevati in Aspromonte

    Il Turismo Lento come orizzonte di crescita

    La carenza di fondi, la cattiva suddivisione delle competenze, la mancanza di una chiara strategia di sviluppo e valorizzazione del territorio e dei suoi patrimoni contribuisce a rallentare un processo di rinascita che è in atto sottotraccia da anni e che contrasta con la disattenzione delle istituzioni.
    Basti pensare alla questione dei caselli e dei rifugi che resta una ferita aperta. Esiste una molteplicità di strutture spesso abbandonate o in rovina e suddivise per competenza tra Comuni, Comunità Montane, Calabria Verde e, collateralmente, Ente Parco. La mappatura più completa è stata curata da Alfonso Picone Chiodo, autore veterano della montagna, e realizzata dal CAI.

    Un patrimonio per il quale mancano spesso i fondi e le responsabilità di gestione vengono rimbalzate da un ente all’altro anche a causa di procedure burocratiche farraginose in cui è complesso districarsi.

    «In Aspromonte ci sono tante realtà che forniscono servizi di qualità. Parlo di piccole imprese e di associazioni che hanno costruito un modello dal basso tarato sulle caratteristiche di un territorio che non insegue il consumo del turismo, ma che ha comunque necessità di crescere economicamente. Se è vero che la Calabria ha una vocazione turistica, non è possibile né corretto calare dall’alto format preconfezionati che non le si addicono. Il modello aspromontano è quello del turismo lento, fatto di qualità prima che di quantità, di incontaminato, di selvaggio, di borghi, di natura, di memoria. Dobbiamo mantenere, non snaturare. La connessione tra tutti noi operatori dimostra nei fatti che, anche se un sistema di cooperative non esiste formalmente, la collaborazione spontanea e il mutuo soccorso non mancano. Puntiamo a un turismo di nicchia, ma sappiamo bene che per raggiungere certi obiettivi servono almeno tre elementi: il coordinamento con le istituzioni, la conservazione della memoria e la trasmissione dei nostri patrimoni. Credo che l’operazione più riuscita sia oggi la Ciclovia dei Parchi della Calabria – 545 km di percorsi ciclabili ben realizzati dal Dipartimento Tutela dell’ambiente della Regione Calabria e il settore regionale Parchi -. A parte questa iniziativa le istituzioni appaiono distanti anni luce dalla realtà che viviamo. Senza dialogo e sinergia, per me che sono anche una guida, è impensabile raggiungere obiettivi comuni e condivisi. Così come è impossibile avviare un modello cooperativo strutturato. Mi chiedo perché».

    Diego Festa

    Misafumera, Aspromonte trekking

    Nicola e il suo gruppo sono partiti dalla sensibilizzazione e dalla formazione, specie dei più giovani: giornate ecologiche, attività coi bambini, escursioni di promozione del territorio. «La parte economica è venuta dopo e non è ancora soddisfacente, mentre quella sociale continua ad esserci. Sono i nostri due polmoni, camminano di pari passo e l’uno è vettore dell’altro». La storia che mi racconta è il prosieguo di quella di Diego Festa, antesignano e memoria dell’escursionismo aspromontano, attivista e fondatore della srl Misafumera. Diego è un restato.
    «Nato alla marina di Bocale, ho iniziato a frequentare l’Aspromonte nel 1995 con il CAI e dal primo giorno sono rimasto folgorato dal tesoro che ho trovato. A quel tempo chi presidiava il territorio erano le organizzazioni GEA, Gente in Aspromonte, e CAI. Nel 1997 ho frequentato il corso per Guida Ambientale Escursionistica legata a Sentiero Italia. Eravamo agli albori e io sono entrato in punta di piedi: la montagna non era frequentata e noi venivamo guardati come alieni. Tutto è cominciato con l’incontro di Antonio Barca e Aldo Rizzo. Abbiamo costituito un’associazione e siamo partiti. I pochi che allora andavano a camminare erano impreparati sotto ogni punto di vista. Man mano, attraverso il CAI, iniziarono ad arrivare i primi gruppi di escursionisti dal Nord Italia. Così è cominciato tutto».

    L’esplosione dell’escursionismo in Aspromonte

    Oggi Misafumera è un ente economico che si occupa di escursionismo in tutto il Sud Italia, dalla Costiera Amalfitana a Lampedusa, ma conserva l’anima sociale da cui è partito. Negli anni si è battuto per la tutela del territorio e la difesa del suo ambiente, partecipando a campagne antibracconaggio, al rilievo, catasto e manutenzione dei sentieri in Aspromonte. Ha realizzato diversi progetti di educazione ambientale con le scuole del territorio reggino e partecipato a varie iniziative per la sua tutela.

    «Negli anni l’escursionismo in Aspromonte si è trasformato: si è abbassata l’età media, è fiorito il senso per la montagna. Nell’ultimo decennio c’è stato uno stravolgimento: dal 2016 una vera e propria esplosione della domanda raccolta dai tanti gruppi come Boschetto Fiorito che abbiamo incoraggiato ad operare. Non c’è dubbio che Internet abbia spinto molto questo processo. Ciò ha favorito uno sviluppo culturale che è oggi tutto in mano alla nuova generazione. Seppur più lentamente che in altri territori, il cambiamento è in atto».

    I colori dell’Aspromonte

    Le istituzioni assenti

    Diego è tra quelli che biasima le istituzioni. Ed è convinto che chi fa da sé faccia per tre: «Parlare di interesse degli enti locali o di amministrazioni per la montagna è una follia. O meglio, l’interesse c’è ma è collegato alle nomine. Un esempio per tutti, ormai datato, il ridimensionamento del Parco approvato dal Ministero e dall’Ente Parco: 10.000 ettari in meno, con un’area a tutela integrale che oggi lambisce il confine esterno del Parco e i territori dei Comuni che creano corridoi fin dentro il suo cuore. Spesso mi chiedo come stia proseguendo il progetto per la reintroduzione del Nibbio reale del 2021, a che punto sia la programmazione per altre progettualità, che strategia abbiano i Comuni e la Città metropolitana. Non riesco a darmi una risposta. Percepisco piuttosto un deficit di comunicazione e di confronto, una difficoltà a coinvolgere gli operatori nella co-progettazione. A quanto posso vedere l’unica cosa ben fatta e riuscita è la Ciclovia. Talmente ben fatta che è citata in diverse guide di settore. Non succede così spesso per la Calabria».

    PerlAspromonte: tutelare e riscoprire i patrimoni

    Misafumera è qualcosa che ritorna anche nella storia di Luca Laganà, cestista professionista reggino con un passato a Reggio Emilia e un presente a Reggio.
    È un ritornato, fondatore dell’associazione PerlAspromonte che, i prossimi 13 e 14 maggio, organizza a Gambarie il Festival Mana GI. É tra gli ultimi arrivati nel settore dell’escursionismo. «Mi trovavo a Monte Misafumera, avamposto Nord della montagna, quando ho incrociato quelli che oggi sono diventati i miei soci. Si è cominciato a parlare di cosa potessimo fare per il nostro territorio durante la stagione degli incendi. Siamo partiti con una raccolta fondi in crowdfunding con cui abbiamo acquistato attrezzi, guanti, scarponi antincendio da fornire a chi era impegnato nelle spegnimento. E abbiamo promosso la campagna di sensibilizzazione “Artisti Uniti per la Calabria”, producendo insieme a Christian Zuin, dj veneto trasferitosi a Monasterace il brano Per Rinascere . Oltre all’escursionismo, lavoriamo per formare e sensibilizzare la cittadinanza assieme alle Guide del Parco, Plastic Free e tante altre realtà. Il trekking non è solo un’attività diportistica, ma uno strumento per divulgare la memoria e la ricchezza culturale del nostro territorio. Il prossimo week-end sarà l’occasione per condividere esperienze e rafforzare una rete che c’è, ma è ancora troppo chiusa e deve crescere. Bisogna investire di più in cultura e tutela del patrimonio. Non a caso, uscirà presto il mio primo libro Cara Reggio, ti presento…, dedicato ai reggini che vogliono riscoprire il loro territorio. Non può esserci futuro senza consapevolezza del passato».

    Le risorse del tutto nel niente

    Questo paradigma del vuoto e del pieno – che da una parte ha tolto e dall’altra ha custodito -, del tutto nel niente, della ricchezza nell’abbandono, delle radici, della memoria è il filo rosso che collega le storie e le esperienze di Nicola, Diego e Luca. Tra attività sociali e ricerca di un modello di crescita economica disegnato sulle caratteristiche proprie dei loro territori, il turismo lento si fa strada. Diventa una cultura diffusa con cui riscoprire da dove veniamo, chi siamo e dove stiamo andando.
    Servono ancora molti tasselli per comporre il puzzle. Bisogna dissipare certe ombre per portare più luce, formando alla bellezza, al rispetto e alla tutela. Prima di tutto però serve chiarezza: attendiamo di capire come si siano concluse le indagini sugli incendi del 2021 e come sia stato affrontato il problema dello smaltimento abusivo di amianto con discariche abusive individuate nel 2014, nel 2019 e ancora nel 2021.

    Un problema che rischia di distruggere l’immaginario di incontaminato per cui l’Aspromonte viene visitato e desiderato. E l’escursionismo, con le sue generazioni che si passano il testimone battendo migliaia di ettari di territorio palmo a palmo, tra ricchezze naturalistiche e patrimoni culturali troppo spesso dimenticati e sottovalutati da istituzioni ed enti locali, può tracciare un sentiero da percorrere.
    Nelle scorse ore, e proprio mentre scrivevo, è stata messa in atto la più importante operazione internazionale contro la ‘ndrangheta mai realizzata. Oltre 200 arresti con esponenti di spicco finiti in galera in tutta Europa e i titoli delle pagine dei giornali di mezzo mondo dedicati alla criminalità dell’Aspromonte che, dalla Locride, allungava le sue braccia in mezzo mondo. É ormai noto come la strategia dei boss sia quella di tenere un basso profilo a casa: i territori di appartenenza devono versare nel sottosviluppo per restare schiavi del dominio criminale. Sostenere e narrare la vivacità della nuova economia che ho raccontato può invece segnare un punto a favore di crescita e legalità.

  • Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    «Oggi gli spazi esterni sono troppo “minerali” (cementati, ndr). Le superfici costruite e coperte in calcestruzzo producono un’isola di calore attraverso l’assorbimento di energia solare. Questa situazione dovrebbe essere rovesciata togliendo il calcestruzzo e creando un’isola fresca grazie alle superfici alberate».
    A parlare è l’architetto paesaggistico belga Bas Smets in un’intervista apparsa su Pianeta 2030 del Corriere della Sera. Di recente il team che guida si è aggiudicato, insieme agli studi GRAU e Neufville-Gayet, il concorso indetto dalla Città di Parigi per riqualificare l’area circostante Notre Dame.

    Un giardino per Notre Dame

    Lo stesso Smets collabora, per la parte relativa al verde, con lo studio LAN che ha vinto il Concorso di idee per il Grande MAXXI a Roma. La giuria ha scelto il progetto per «il rapporto con il contesto urbano, la presenza di un giardino pensile generoso e accessibile e allo stesso tempo di forte valore architettonico». Per quanto concerne Notre Dame, nel progetto è previsto un piazzale-sagrato circondato da un bosco con cento alberi; un sistema di irrigazione che rinfrescherà la piazza con uno strato d’acqua di 5 millimetri. Una fontana orizzontale, utilizzando l’acqua piovana raccolta, ridurrà la temperatura di parecchi gradi. Insomma, una piccola oasi verde in grado di migliorare il microclima. Tutto ciò entro il 2027, per una spesa di 50 milioni.

    L’isola climatica al Grande MAXXI di Roma

    Passiamo al Grande MAXXI di Roma, il cui progetto esecutivo sarà completato entro quest’anno. La parte che qui interessa è quella che prevede la cosiddetta rinaturalizzazione dello spazio tutto attorno all’edificio – realizzato su progetto di Zaha Hadid – fino a coinvolgere il quartiere Flaminio. Bas Smets e il suo team hanno proposto una soluzione non solo e non tanto estetica; parchi e giardini e orti produttivi, certo, ma anche la realizzazione di un sistema in grado di «creare un’isola climatica che migliorerà le condizioni di vivibilità dell’area».

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    Il progetto dello studio italo-francese LAN, vincitore del concorso internazionale di idee per il Grande MAXXI a Roma

    Secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, intervistato da Pianeta 2030 del Corriere della Sera, «Il MAXXI ha grandi superfici in cemento impermeabile completamente esposte a luce solare e nessuna ombra, frutto di una progettazione di un tempo in cui non si immaginava che il riscaldamento globale sarebbe arrivato a cambiare le nostre vite in un tempo così breve. Uno dei problemi fondamentali degli edifici con funzione sociale in città sarà di svilupparsi in un modo che ci aiuti a sfuggire alle ondate di calore».

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    Come cambierà l’interno del MAXXI

    E ancora: «Bas ha previsto un enorme numero di alberi in grado di ombreggiare e allo stesso tempo raffreddare una grande superficie non solo attraverso l’ombra: gli alberi assorbono acqua e la traspirano attraverso le foglie rinfrescando l’ambiente circostante, con un processo identico a quello dei condizionatori in casa. Con una progettazione adeguata e un uso studiato degli alberi in ambiente urbano si può pensare di ridurre la temperatura in città anche di 7-8 gradi centigradi».

    330 milioni di euro per 14 città metropolitane

    Perché tratto queste due progettazioni? Scrive la Commissione europea che «la promozione di ecosistemi integri, infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura dovrebbe essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana, comprensiva di spazi pubblici e infrastrutture, così come nella progettazione degli edifici e delle loro pertinenze».
    Il PNRR, dal canto suo, prevede lo stanziamento di 330 milioni di euro per le 14 città metropolitane per «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, mediante lo sviluppo di boschi piantando 6 milioni e 600mila alberi».

    Reggio Calabria, gli alberi e il cemento

    E veniamo alla città di Reggio Calabria. Partendo dalla centralissima Piazza De Nava, adiacente al Museo nazionale della Magna Grecia, proseguendo con il Waterfront, con il Museo del Mare, con l’area parcheggio posta accanto al Cimitero cittadino, con il taglio indiscriminato di alberi in spazi pubblici posti in via Pio XI e accanto all’Istituto d’Arte. Ebbene, in tutti questi casi, cosa ne è dell’impostazione oramai accettata e promossa in tante città europee (ad Arles, in Francia, l’ex area industriale è stata trasformata in un parco cittadino, introducendo 80.000 piante di 140 specie diverse) e della quale i due riportati sono gli esempi più eclatanti? Nulla!

    Tutto è figlio dell’improvvisazione, dell’assuefazione ad un modello vecchio. Dice ancora Mancuso: «(Le città) sono state costruite, immaginate, esclusivamente per essere il luogo degli uomini, dove essi vivono e abitano. Una cosa antica, che risale ai primi insediamenti umani, questo dividere, separare con mura e fossati il luogo di vita da una natura percepita come ostile».

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    Reggio Calabria, pini ancora sani abbattuti nei pressi del cimitero di Condera per far spazio al cemento (foto Italia Nostra)

    Noi continuiamo a costruire case e città alla stessa maniera, anche se oggi non è più la natura ad essere ostile nei nostri confronti, ma noi ad essa. «Dovremmo perciò immaginare città in cui la natura, gli alberi, entrino per permeazione nel tessuto urbano. Oggi la copertura arborea media di una città europea è intorno al 7 o all’8 per cento. Invece dovremmo puntare ad arrivare al 40% di superficie arborea. E non per motivi estetici ecologici ma di pura sopravvivenza; specialmente nelle città italiane che stanno nella cosiddetta area hot spot (si riscalda più in fretta). Se vogliamo continuare a vivere in queste città dovremo per forza di cose immaginare delle soluzioni vegetali».

    Alberi o ancora il dio calcestruzzo?

    Bisogna, insomma, eliminare l’hardscape (il paesaggio di infrastrutture e cemento) ed allargare il softscape «per aumentare la permeabilità dello strato di terra al fine di immagazzinare l’acqua piovana in loco. Anche il deflusso proveniente dalle piazze e dagli edifici potrebbe essere mantenuto in loco. Nuovi prati e alberi aiuteranno a riportare l’umidità nell’aria e a creare un microclima esterno più fresco».
    Gli effetti del cambiamento climatico nelle aree urbane56% della popolazione mondiale adesso, 70% entro il 2050 – li viviamo ormai quotidianamente. L’Istat ha rilevato che nel 2020 nei capoluoghi di regione la temperatura media annua è aumentata di 1,2 gradi rispetto al valore medio del periodo 1971-2000, arrivando a 15,8°.

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    Uno scatto da “Cemento amato”, progetto del fotografo Angelo Maggio sul non finito calabrese

    Davanti a queste evidenze, e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai fondi disponibili, non è più rinviabile un cambiamento di paradigma. Tra l’altro, come possiamo pretendere la preservazione e la non entropizzazione per fini di coltivazione ed altro, ad esempio, della foresta amazzonica, se noi non facciamo la nostra parte?
    Non ci possiamo permettere di essere ancora e sempre governati dal dio calcestruzzo. È ormai acclarato che questo modello non regge, rende brutti i nostri centri urbani e ne peggiora la vivibilità. Prendiamone atto, una volta per tutte.

    Nino Mallamaci

  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

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    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

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    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

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    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

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    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

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    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

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    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

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    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

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    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Amori bestiali, eroi e magie: un fiume di leggende chiamato Crati

    Nell’antichità il Crati era uno dei corsi d’acqua più citati da poeti, filosofi e storici antichi. Aristotele, Ovidio, Strabone, Vitruvio, Agatostene, Licofrone, Teofrasto, Diodoro, Leonico, Isacio, Plinio, Esigono, Sotione, Timeo, Euripide e altri raccontavano delle sue acque prodigiose che davano ogni ben di dio agli uomini.

    I miracoli del Crati

    Metagene scriveva che il Crati trasportava a valle enormi focacce d’orzo che s’impastavano da sole e il Sibari trascinava carni e razze bollite che si rotolavano nelle acque. Nell’uno scorrevano rivoli di calamaretti arrostiti, pagri e aragoste, nell’altro salsicce e carni tritate. Nell’uno bianchetti con frittelle, nell’altro tranci di pesce che già cotti si lanciavano in bocca o finivano davanti ai piedi mentre focacce di farina nuotavano intorno.
    In un idillio di Teocrito, Comata, che pascolava le capre di Eumara sibarita, e Lacone, pastore di pecore, dopo un vivace battibecco fitto di accuse, provocazioni e ripicche, si sfidarono in una gara canora. Il primo immaginava che il Crati rosseggiasse di vino e i giunchi mettessero frutti. Il secondo che nel Sibari scorresse del buon miele per la gioia delle fanciulle.

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    Il Crati nella pianura di Sibari

    Da Troia alla Calabria

    Nelle Troiane, le prigioniere che formavano il coro alleviavano l’angoscia con la visione di lontani paesi felici e, fra gli altri, vagheggiavano la regione «vulcanica etnea» che stava di fronte a Cartagine e la terra vicina allo Jonio, irrigata dal Crati che imbiondiva le chiome e rendeva con le sue mirabili acque i campi rigogliosi.
    Ovidio scrive che, in seguito al dolore per la morte di Didone dopo la partenza di Enea da Cartagine, la sorella Anna fuggì dalla Libia. Al termine di un estenuante peregrinare, alla vista delle splendide terre del Crati, ordinò al nocchiere di approdare su quel lido. Già le vele erano ammainate quando una tempesta respinse la nave nell’ampio mare. Licofrone narra che, allorché i Greci sbarcarono alla foce del Crati per rifornirsi d’acqua, le prigioniere troiane, istigate da Setea, bruciarono le imbarcazioni per costringere i guerrieri a fermarsi in quel luogo meraviglioso dove poi sorse la potente Sibari.

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    La foce del Crati oggi

    Crati vs Sibari

    Alcuni scrittori sostenevano che le acque del Crati erano piene di frammenti d’oro e di pesci. Per questo motivo era chiamato auriferus et piscolentus. Per altri, come Aristotele, aveva la proprietà di imbiondire i capelli di chi si lavava nelle sue acque, mentre il Sibari atterriva i cavalli che vi si abbeveravano. Ovidio riferiva che anche le acque del Sibari, come quelle del Crati, mutavano i capelli simili all’elettro e all’oro. Euripide confermava che il prodigioso Crati accendeva le bionde chiome e nutriva beneficamente col suo corso divino la regione di gente forte.

    Plinio, citando Teofrasto, affermava che Crati e Sibari avessero contrarie virtù. Se il primo conferiva biancore a buoi e pecore che vi si abbeveravano, il secondo generava colore nero. Anche gli uomini risentivano della differenza di effetti provocati dalle acque. Quelli che si dissetavano al Sibari diventavano scuri di carnagione, duri nel carattere e con i capelli ricci. Quelli che si dissetavano al Crati erano chiari, deboli e con la chioma fluente. Strabone assicurava che l’acqua del Sibari rendeva ombrosi i cavalli e i pastori, per proteggerle, tenevano le pecore lontane dal fiume. Il Crati, invece, aveva acque capaci di curare diverse malattie e le persone che vi si bagnavano s’imbiondivano.

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    Ponte di legno a Sibari (Saint-Non, 1778)

    Per Licofrone gli animali feriti guarivano se si lavavano nelle acque del Crati, mentre bevendo quelle del Sibari erano scossi da starnuti, costringendo i pastori a tenere mandrie e greggi distanti dalle sponde. Riguardo al Sibari, Leonico scriveva che bastava spruzzare la sua acqua su una persona per farla diventare casta. Galeno sosteneva che diminuiva gli ardori della carne e rendeva i maschi puri e incapaci di generare.

    Vitruvio asseriva che i pastori portavano le pecore che si preparavano a partorire a bere ogni giorno le acque del Crati. Per questo motivo, sebbene fossero bianche, procreavano figli di colore grigio o nero corvino.

    Paese che vai, leggenda che trovi

    Il viaggiatore Bartels, che arrivò a Cosenza nel 1787, era propenso a pensare che tali leggende non avessero alcun fondamento. Probabilmente, quella del fiume d’oro aveva origine dalla tinta giallognola che le acque assumevano nei pressi della città. Il tempo e la fantasia dei poeti avevano fatto il resto. In realtà, molti racconti mitici sul Crati erano presi in prestito da altre narrazioni.

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    Veduta di Cosenza (Saint-Non, 1778)

    Plinio scriveva che in Estiotide scorrevano le fonti Cerona e Neleo: le pecore che si abbeveravano alla prima diventavano nere, quelle alla seconda bianche, quelle a entrambe chiazzate. In Macedonia, invece, i pastori che desideravano pecore chiare conducevano le mandrie all’Aliacmone e quelli che le volevano scure all’Assio. Sempre Plinio ci informa di fontane e ruscelli che davano memoria o oblio, sensi fini o ottusi, fecondità o sterilità, canto o mutismo, sanità mentale o follia, dolcezza o ferocia, ubriachezza o lucidità, salute o malattie. Fornendo queste notizie, precisava che non si trattava di assurdità ma di fatti veri, poiché il mondo della natura era pieno di cose che suscitavano meraviglia.

    Fantomatiche virtù

    Nel 1599, descrivendo le proprietà miracolose di Crati e Sibari, il medico Tufarello di Morano raccontava di avere constatato che il primo rendeva le trote color oro. Il secondo, invece, convertiva in pietre le foglie e i rami che cadevano nelle sue acque. Negli stessi anni, alcuni eruditi scrivevano corposi saggi in cui elencavano decine di fiumi le cui acque avevano virtù di cui non si poteva «render ragione alcuna».

    In un trattato su venticinque grandi fiumi, Plutarco assicurava che lungo i loro argini crescevano erbe il cui succo proteggeva dalle fiamme, neutralizzava i freddi intensi, faceva cadere in un sonno profondo, impediva alle tigri di uscire dalle grotte e proteggeva la verginità delle donne; piante che mosse dal vento creavano stupende melodie, tenevano lontani fantasmi e divinità malvage, curavano la follia, trasformavano il vino in acqua e sanguinavano se toccate dalle vergini.

    Il biografo greco scriveva inoltre che alcune pietre di notte brillavano come il fuoco, suonavano se si avvicinava un ladro, facevano vaneggiare gli uomini, liberavano le persone dalla sfortuna, lenivano le sofferenze di chi si sottoponeva all’evirazione, guarivano gli indemoniati, si muovevano al suono di tromba, divenivano nere o bianche a seconda se si diceva il vero o il falso, evitavano i dolori del parto, saltavano sui campi come locuste, proteggevano dalle bestie feroci e sanguinavano se intaccate dal ferro sacrificale del sacerdote.

    Amori proibiti

    Anche la storia che il Crati prenda il nome dal pastore omonimo, spinto nelle acque del fiume da un caprone geloso perché l’uomo amoreggiava con la capra più bella del gregge, non era originale. Molti fiumi del mondo antico, come scrive Plutarco, avevano il nome di persone che si erano gettate nelle acque per la vergogna di avere avuto rapporti contrari alla natura.

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    Un busto di Plutarco

    Nel citato saggio, narra di giovani che si erano suicidati nel fiume per avere consumato, senza saperlo, rapporti sessuali con la madre o con la sorella, di padri che avevano amoreggiato con le figlie e madri con i figli, di persone che violentarono fanciulle, di giovani che avevano voluto conservare la purezza, di gente impazzita per avere inveito contro qualche divinità che aveva violentato le loro donne. Altri corsi d’acqua avevano preso il nome da persone affrante dal dolore per la morte di qualche congiunto, per avere ucciso persone innocenti, per avere perso disonorevolmente in battaglia e per avere sacrificato parenti in cambio della vittoria in guerra.

    Il Crati che non c’è più

    Conosco bene il Crati e la pianura di Sibari. Da ragazzo andavo con mio padre e mio fratello a caccia di beccacce, beccaccini e anitre e a pesca di trote, cavedani e anguille. Ricordo che il fiume aveva rive coperte da una folta vegetazione. In inverno s’ingrossava paurosamente travolgendo ogni cosa e in estate diventava un fiumiciattolo che a fatica riusciva a sfociare nel mare. Quella zona coperta da pantani, canne grigie e alti giunchi di giorno era insopportabile per il caldo torrido e i nugoli di moscerini e al tramonto era avvolta da un inquietante silenzio interrotto solo dal rumore delle acque.
    Celebrato da tanti scrittori antichi come il fiume dell’oro e dalle acque irruenti, il Crathis è stato domato e il mondo fantastico che stava intorno a esso è scomparso.

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    Ponte sul Crati a Cosenza (Rilliet 1852), le donne lavano i panni lungo il fiume

    Nessuno immagina di intravedere satiri nascosti tra le canne che insidiano ninfe con capelli color argento o verde sparsi sugli omeri. Nessuno ha paura d’incrociare basilischi neri come la pece, con una corona in testa e fiato e sguardo letali. E nessuno sente più storie di santi che combattono con i diavoli.
    Non si vedono più lungo gli argini lupi, lontre, orsi, cervi, gatti selvaggi e grandi mandrie di capre, pecore e buoi portate dai pastori in inverno dalle montagne. Non s’incontrano lungo le rive donne battere i panni sulle pietre, passatori portare sulle spalle viandanti, contadini pescare col tasso, sanpaolari frugare con i bastoni il terreno per catturare vipere, gente scuotere alberi per raccogliere cantaridi e cacciatori inseguire a cavallo tori selvatici.

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    Cosenza e il Crati

    Gli uomini e la Natura

    Il Crati, fiume che i contadini chiamavano scorzone poiché strisciando lentamente a forma di esse al momento di aggredire era rapido e velenoso, sembra essere stato finalmente reso innocuo. I terreni coperti un tempo da putride acque infestate dalla malaria oggi sono diventati campi di grano e giardini di agrumi. Sotto Tarsia hanno costruito una diga per l’energia elettrica. Lungo le sponde sono sorti decine di cantieri per il calcestruzzo. Il corso d’acqua è sovrastato da numerosi punti, stade e stradelle costeggiano il fiume e nei pressi della foce c’è un attrezzato porto turistico. Grazie alla sua forza e perseveranza il Crati continua a scorrere zigzagando verso il mare, ora rapido ora tranquillo, ora limpido ora torbido. Ma gli uomini non hanno più il tempo di sentire la voce della sua corrente in piena o il dolce mormorio del suo scorrere.

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    La diga di Tarsia

    Il paesaggio descritto da tanti viaggiatori e studiosi non c’è più, ci sono però tratti e colori che ancora resistono e provocano una stretta al cuore. L’uomo si sente il padrone del mondo e come tale non deve difendersi dalla natura ostile ma è la Natura che deve difendersi dall’uomo ostile.
    L’antico paesaggio del Crati sembra essersi estinto per sempre, ma la natura che appare sopraffatta e mortificata si è solo nascosta. Aspetta pazientemente di ritornare e, a volte, mostra la sua rabbia.

  • Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    Caso Marlane: un’altra sentenza ristabilisce la verità

    La vicenda Marlane continua a far notizia. Dopo le assoluzioni importanti del primo processo penale, e in attesa degli esiti definitivi del secondo ancora in corso, la giustizia civile dà le prime risposte alle vittime e ai loro familiari.
    I giudici della Corte d’Appello di Catanzaro stanno ribaltando le sentenze di primo grado relative ad alcuni ricorsi dei congiunti di persone nel frattempo decedute per i tumori contratti mentre lavoravano nello stabilimento di Praia a Mare.

    Marlane: verità per un’altra vittima

    La più recente di queste decisioni (ma negli ultimi 12 mesi si contano sulle dita di una mano le sentenze sul caso Marlane) riguarda il marito di una delle 120 persone che si sono ammalate di cancro per essere venute a contatto con materiali tossici di varia natura (ad esempio cromo esavalente e arsenico).
    L’uomo nel 2009 aveva presentato una richiesta di indennizzo all’Inail come previsto dalla normativa nel caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale.
    Per i giudici del Tribunale di Paola questa richiesta era prescritta perché proposta oltre il termine. Infatti, i magistrati avevano ritenuto che il termine di tre anni si dovesse calcolare dal 1999, quando i medici avevano diagnosticato alla donna un carcinoma mammario. Già allora, secondo i giudici di primo grado, la lavoratrice era in grado di sapere che la sua malattia derivasse dal lavoro svolto presso Marlane.

    Il Tribunale di Paola

    La norma

    È il caso di approfondire un po’, a partire dalla normativa. L’articolo 112 del dpr 1124 del 1965 (il testo unico che regola gli indennizzi) stabilisce che l’azione per ottenere il riconoscimento della malattia professionale si prescrive in tre anni dal giorno della manifestazione della malattia stessa. Tuttavia, le successive pronunce della Cassazione hanno chiarito altrimenti e in modo inequivocabile il momento in cui deve scattare il countdown di tale prescrizione.

    Marlane: il processo a Paola

    La dinamica di questa vicenda è piuttosto singolare. Il marito della lavoratrice, infatti, aveva fatto ricorso al Tribunale di Paola contro l’Inail, che aveva negato l’indennizzo all’operaia, nel frattempo deceduta.
    Come già detto, i magistrati di primo grado non erano entrati nel merito, ma si erano limitati a rigettare il ricorso perché tardivo e presentato oltre i termini di prescrizione (che secondo loro scadevano nel 2001).
    Al riguardo, è illuminante un passaggio della sentenza: «Era stato lo stesso ricorrente ad assimilare la condizione lavorativa della defunta moglie a quella di un suo collega, il quale aveva contratto, anche lui come altri 120 lavoratori del medesimo stabilimento industriale, una patologia neoplastica che, in sede giudiziale, a seguito della denuncia da questi presentata nel 1999, era stata riconosciuta di origine professionale. Sicché, secondo il tribunale, quando gli era stata diagnosticata la malattia tumorale, il ricorrente non poteva non essere consapevole quanto meno della potenziale genesi lavorativa della malattia. È pertanto inverosimile che abbia appreso solo nel 2008 della vicenda giudiziale del suddetto collega per poi presentare la domanda all’Inail il 5 novembre del 2009».

    La Corte d’Appello di Catanzaro

    L’appello

    Il vedovo appella la sentenza di Paola del 2012. Allo scopo, sostiene che sua moglie (poi defunta) era venuta a conoscenza solo nel 2008 del fatto che l’Inail aveva riconosciuto al suo collega la dipendenza del carcinoma dalle sostanze tossiche presenti dello stabilimento. Prima, invece, non aveva informazioni che lo rendessero capace di identificare l’origine professionale della sua malattia.
    I giudici di Catanzaro gli hanno dato ragione. Cosa che d’altronde hanno già fatto gli scorsi mesi per altri casi simili. sempre legati alla Marlane.

    Marlane: la sentenza di Catanzaro

    Ecco il passaggio chiave della sentenza con cui la Corte d’Appello ha dato ragione al vedovo: «La decisione impugnata va riformata perché il collegio non condivide il giudizio espresso dal tribunale in ordine alla sufficienza, ai fini dell’esordio della prescrizione, della teorica conoscibilità che l’odierno appellante poteva avere dell’origine professionale della malattia diagnosticata alla signora nel 1999».
    Questa sentenza si basa su una pronuncia della Cassazione del 2018. La Suprema Corte, a sua volta, aveva applicato un’indicazione della Corte Costituzionale, secondo la quale la prescrizione può ritenersi verificata quando la consapevolezza della malattia, la sua origine professionale e il suo grado invalidante, «siano desumibili da eventi obiettivi esterni alla persona dell’assicurato, che debbono costituire oggetto di specifico accertamento da parte del giudice di merito».marlane-corte-appello.ordina-risarcite-vittime

    Il risultato

    L’aspetto materiale e privato di questa vittoria, non è trascurabile. Infatti, il coniuge (e vincitore in giudizio) otterrà il 50% della retribuzione effettiva annua della defunta moglie, più gli arretrati, gli interessi e la rivalutazione a partire dal 2009.
    Più un assegno funerario di 10mila euro circa.
    Certo, non basta a restituire una persona amata. Tuttavia, la sentenza ha un altro merito, forse superiore: è un contributo in più alla verità. Quella processuale, si capisce.

    Punto e a capo

    I giudici d’Appello hanno fatto chiarezza per l’ennesima volta sugli esiti tragici e di lungo periodo della vicenda Marlane.
    Tutto questo mentre il secondo processo penale entra nel vivo.
    Quest’ultima sentenza è un ulteriore tassello di verità storica che entra nelle carte processuali. Resta lecita una domanda: quando potrà calare davvero il sipario sull’affaire Marlane?

  • Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Squali di venti metri, balene e giraffe: le (altre) meraviglie di Tropea

    Tropea è senza dubbio la città turistica calabrese più famosa al mondo. Storica e amata meta del turismo italiano, europeo e globale, Tropea ha legato le sue fortune al mare turchese che la bagna e a una virtuosa tradizione ricettiva, supportati egregiamente dalle sue bellezze artistiche e architettoniche – il Santuario di Santa Maria dell’Isola sull’omonimo promontorio, la cattedrale con l’icona della veneratissima Vergine di Romania, i sontuosi palazzi nobiliari.

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    La Tropea da cartolina

    Una mare di Museo a Tropea

    Tropea ha con il suo mare un legame indissolubile che oggi trova una originale narrazione – con una sfumatura inusuale e, lo capiremo presto, del tutto inaspettata – al Museo civico del Mare.
    Inaugurato nel 2019, il Museo civico del Mare di Tropea (MuMaT) si trova all’interno del complesso di Santa Chiara – già convento e ospedale della cosiddetta perla del Tirreno –, in pieno centro storico, a pochi passi dall’Antico Sedile dei Nobili e dalla celebre balconata sul mare.
    Il MuMaT è gestito dal Gruppo paleontologico tropeano. L’ente, sorto col fine di valorizzare il patrimonio paleontologico della provincia di Vibo Valentia, è composto da Francesco Barritta (direttore del Museo), Giuseppe Carone (direttore scientifico e presidente del Gruppo), Vincenzo Carone (architetto che ha curato il progetto di allestimento), Luigi Cotroneo (curatore della sezione paleontologia), Francesco Florio (curatore della sezione biologia marina) e Tommaso Belvedere (responsabile delle collezioni).

    Undici milioni di anni fa

    Il sito culturale di Tropea espone i reperti recuperati nel corso delle trentennali indagini lungo la Costa degli Dei fino alla valle del fiume Mesima, con aree che hanno riservato eccezionali sorprese come la ricca falesia di Santa Domenica di Ricadi e il sito paleontologico di Cessaniti, un’autentica miniera per i paleontologi. Distante da Tropea circa venti chilometri, il giacimento di Cessaniti presenta sedimenti marini risalenti al Tortoniano, stadio stratigrafico del Miocene, compreso fra sette e undici milioni di anni fa, in cui si registrò un progressivo abbassamento del livello del mare.

    Resti di un cetaceo esposti nel Museo civico del mare a Tropea

    Una balena a Cessaniti

    È proprio nell’area del comune di poco meno di tremila abitanti dell’entroterra vibonese che dagli anni settanta in poi – con gli scavi avvenuti “usufruendo” del massiccio sviluppo edilizio della regione – si sono susseguite stupefacenti scoperte; su tutte, il rinvenimento dei resti di una balena (un esemplare della specie heterocetus guiscardii) risalenti a circa sette milioni di anni fa. Leida – così è stato battezzato il leggendario cetaceo – è riemerso nel 1985 a seguito degli scavi del Gruppo archeologico “Paolo Orsi”.

    La conservazione per questo infinito lasso di tempo è stata possibile grazie alla sabbia dei fondali mediterranei che ha innescato il processo di fossilizzazione dello scheletro e lo ha preservato sino ai nostri giorni. La balena, pezzo pregiato del Museo, si presenta assai più piccola rispetto agli esemplari del nostro tempo e all’epoca, date le ridotte dimensioni, rappresentava ancor di più un cibo prediletto per animali del mare più grossi quali il grande squalo bianco e l’orca.

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    Un Mediterraneo popolato da strane creature nelle sale del Museo civico del mare a Tropea

    Le giraffe di Calafrica

    Fra i reperti più importanti conservati al MuMaT ci sono anche due scheletri di sirenio (metaxytherium serresii), un mammifero acquatico erbivoro progenitore dei lamantini e dei dugonghi – mammiferi tipici degli oceani Atlantico e Pacifico – e probabilmente imparentato, alla lontana, con gli elefanti. E a proposito di mammiferi terrestri, per certo strabilierà il visitatore imbattersi nella vetrina che contiene un dente fossile di stegotetrabelodon syrticus, un elefante nordafricano distinto da quattro zanne lunghissime, e l’astragalo di un esemplare di bohlinia attica, un giraffoide vissuto nel Miocene superiore. Animali che non si penserebbe mai siano stati di passaggio nel nostro territorio. Si tratta di sbalorditivi ritrovamenti che supportano la tesi di un possibile combaciamento, in tempi remoti, fra le coste della Calabria e quelle dell’Africa settentrionale.

    Il riccio di mare dedicato al direttore del museo

    Una esposizione particolarmente ricca è quella dei clypeaster – dal latino clypeus (scudo tondo) e aster (stella) –, antenati miocenici dei ricci di mare che, come sostiene Giuseppe Carone, rappresentano un po’ il simbolo della paleontologia calabrese per la loro capillare diffusione sulla nostra fascia costiera. Assai ben conservati, questi organismi risultano molto utili per la datazione degli strati geologici. E parlandoci dei ricci, Carone, con deliziosa timidezza, ci rivela un dettaglio di cui andare orgogliosi tutti: il direttore scientifico del Museo è il solo paleontologo in vita cui è stato dedicato un fossile di riccio di mare. Il nome del resto animale in questione è amphiope caronei.

    Una conchiglia di grandi dimensioni fra le teche del museo

    Una teca di assoluto fascino, poi, è quella dedicata alla malacofauna. Qui sono esposti circa cento esemplari di conchiglie, talune estremamente rare come il guscio di un argonauta argo, mollusco discendente diretto della celeberrima ammonite, estinta circa 66, 65 milioni di anni fa, a braccetto coi dinosauri.

    Lo squalo di 20 metri 

    Cattureranno l’attenzione del pubblico anche i denti fossili di un megalodonte, squalo scomparso circa 2,6 milioni di anni fa che poteva raggiungere la lunghezza monstre di venti metri, e di uno squalo bianco, il carcharodon carcharias, il più grande pesce predatore del pianeta terracqueo. Beni paleontologici che ci raccontano di un Mediterraneo decisamente diverso da come lo vediamo oggi, di un mare tropicale in cui nuotavano animali i cui discendenti non circolano più nel nostro bacino.
    La meravigliosa biodiversità conservata e in mostra al Museo del Mare di Tropea non può che sorprendere il visitatore, ma allo stesso tempo lo stimola a instaurare un rapporto più consapevole con l’ambiente che lo circonda e, non dimentichiamolo mai, lo ospita. Temporaneamente.
    Presto il MuMaT, luogo straordinario in cui scoprire il Mediterraneo antico, si amplierà con ulteriori tre sale: due dedicate all’esposizione di altri reperti; un’altra, invece, vedrà sorgere una biblioteca dedicata al mare e alla paleontologia e biologia marina, accessibile a curiosi e studiosi da tutto il mondo. Prevista, inoltre, l’apertura di un cortile interno che ospiterà eventi e presentazioni di libri.

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

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    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

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    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

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    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

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    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

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    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.

     

  • Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe, poi l’incuria: sos per il castello di Amantea

    Prima le bombe poi l’abbandono. E nessuna soluzione in vista per il castello di Amantea, un rudere maestoso che domina la collina a strapiombo sul mare.
    Il castello e la torre – o meglio, i resti di entrambi – sono solo una parte, la più vistosa, di un problema più ampio: il pianoro su cui sorge l’antica roccaforte, circa 36mila metri quadri di terreno agricolo.
    L’insieme è un’unica proprietà privata, divisa tra tre eredi: Giuseppe, Giovanni e Giacinto Folino, che ne hanno quote diseguali.
    Dov’è il problema?

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    Il rudere della torre sullo sfondo del mare

    I problemi del castello di Amantea

    Ricapitoliamo: una grossa proprietà limitata da due vincoli pesanti. Il primo è la sua natura agricola, che consente un’edificabilità molto limitata.
    Il secondo è dovuto alla presenza dei ruderi, che ovviamente sono classificati come beni d’interesse storico-culturale.
    Mantenere questo popò di roba senza metterla a frutto è un problema per chiunque.
    A tacere dei costi di manutenzione, effettuata poco o nulla nell’ultimo ventennio e non per responsabilità dei proprietari. Cosa si aspetta ad acquisirla nel patrimonio pubblico?
    Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, un po’ di storia.

    Il castello e l’assedio di Amantea

    Il castello è legato a una vicenda storica importante: l’eroica resistenza dei manteoti, guidati dal capitano Rodolfo (o, secondo alcune fonti, Ridolfo) Mirabelli, alle truppe napoleoniche.
    L’assedio dura poco più di un anno tra alterne vicende.
    Alla fine i francesi, comandati dal generale Jean Reynier, espugnano il castello in maniera spettacolare.
    Dapprima, a fine gennaio 1807, bombardano a tappeto le mura e la cittadella interna con due cannoni pesanti e un obice, posizionati nelle colline circostanti.
    Poi, il 5 febbraio, arriva il colpo di grazia: una mina da 1.900 libbre (633 kg) di polvere da sparo esplode sotto una parete del castello, che crolla. A questo punto, chi può scappa e Mirabelli tratta con gli assedianti. Amantea capitola due giorni dopo. Tuttora la zona di questa prima breccia si chiama ‘a Mina.

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    I resti delle mura difensive

    Un lungo declino

    Tutto questo spiega perché il castello è un rudere. Ma non aiuta a capire come mai sia finito in mani private.
    Il motivo è semplice: già c’era. Infatti, i terreni protetti dalla rocca sono in origine proprietà, in larga parte, dei Frati Minimi che li coltivano addirittura a grano.
    Le successive espropriazioni favoriscono il passaggio di mano in mano del pianoro, ruderi inclusi, fino alla famiglia Folino. Ed eccoci di nuovo al XXI secolo.

    L’esproprio infelice del castello di Amantea

    Il primo che prova a espropriare è Franco La Rupa. Il votatissimo (e poi discusso e infine plurinquisito) ex sindaco di Amantea, ordina l’occupazione dell’area del castello il due ottobre del 2000.
    Per il Comune, l’occupazione è il primo step di un processo più complesso, che dovrebbe finire con l’espropriazione, per realizzare il rifacimento del centro storico della cittadina. Peccato solo che la procedura non sia a prova di bomba.
    Infatti, la famiglia Folino impugna il provvedimento e stravince.
    La prima volta al Tar di Catanzaro, nel 2001, e la seconda al Consiglio di Stato, nel 2006.
    Dalla duplice vittoria emerge un dato: il Comune ha occupato illegittimamente una proprietà privata.

    Il rudere della torre in primo piano

    Il duro negoziato

    Questa vittoria non comporta l’automatica restituzione del bene.
    L’era La Rupa è finita. Al suo posto c’è Franco Tonnara, che tenta un negoziato con la proprietà attraverso il proprio assessore ai Lavori pubblici: Sante Mazzei, che tra l’altro conosce bene il problema, perché è stato sindaco poco prima di La Rupa.
    Il Comune propone non l’acquisto, bensì l’acquisizione del castello ai proprietari.
    La differenza tra questi due concetti non è proprio leggera: l’acquisto è una normale compravendita, l’acquisizione, invece, è un esproprio soft. In parole povere: il Comune prende il bene con un decreto, ma lo paga secondo una stima effettuata da uno o più esperti.
    L’esperto ingaggiato dal municipio è Gabrio Celani, che valuta tutto. Ma, pare, in maniera insoddisfacente per i proprietari.

    Riprende il duello sul castello

    A questo punto, la faccenda, già non semplice di suo, si complica di brutto.
    Innanzitutto, per le vicissitudini politiche della giunta Tonnara, che subisce un commissariamento per mafia e torna in carica dopo un lungo duello giudiziario. Il quale, tuttavia, non serve granché: gravemente malato, il sindaco muore e si torna a una gestione provvisoria.
    Anche l’aspetto giuridico non è da meno, perché i Folino propongono un compromesso: il Comune acquisisca pure, loro faranno un ricorso solo per il prezzo.
    Ma anche quest’ipotesi salta.

    Le erbacce infestano il pianoro del castello

    La vittoria inutile

    Si arriva al 2021, un anno decisivo nella storia contemporanea del castello. Il 10 marzo 2021, la famiglia Folino, difesa dall’avvocato Stanislao De Santis, ottiene la sua terza vittoria contro il Comune, difeso dall’avvocato Gregorio Barba.
    Stavolta il Tribunale amministrativo mette nero su bianco che l’occupazione iniziata nel 2000 è illegittima.
    E mette il municipio con le spalle al muro: o acquisisce il bene oppure lo restituisce e paga i danni, che verranno quantizzati dal giudice, e i canoni, stimati nel 5% del valore commerciale del pianoro, del castello e della torre. Il risarcimento non si annuncia leggero, perché il valore commerciale non è piccolo.
    Nel frattempo, il rudere perde qualche pezzo e il terreno stesso denuncia un immediato bisogno di manutenzione. Che però i proprietari non possono assicurare, perché il bene risulta tuttora occupato.

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    Altri resti del bastione

    I nuovi negoziati

    I bene informati riferiscono di una ripresa dei contatti tra i proprietari e il Comune, che nel frattempo è uscito dal recente commissariamento per mafia ed è amministrato da Vincenzo Pellegrino, eletto lo scorso giugno.
    Non si sa a che punto sia l’abboccamento. Quel che è certo è che c’è un bene di grande valore culturale che dev’essere messo in sicurezza e – magari attraverso un restauro conservativo – potrebbe essere messo a frutto e restituito alla comunità.
    Certo, la situazione finanziaria di Amantea non è florida e i problemi politici sono all’ordine del giorno, come dimostra il recente tentativo di “secessione” di Campora, la frazione ricca e popolosa che confina con Falerna. Ma si apprende pure che i proprietari sarebbero disposti ad accontentarsi.
    La parola, a questo punto, dovrebbe passare al buonsenso.

    (Le foto dei ruderi del castello sono opera di Giuliano Guido. Le pubblichiamo su sua gentile concessione)

  • STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    STRADE PERDUTE | Fuga da Policastro

    Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:

    • la Marlane,
    • l’isola di Dino,
    • il Cristo di Maratea,
    • il disastro edilizio intensivo di Scalea,
    • il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.

    Il conte, il monte e il Cristo

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    La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro

    Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
    L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…

    Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.

    Un fallimento dopo l’altro, il pioniere piemontese lasciò in terra calabra ricordini non esemplari e scelse di farsi seppellire in una grotta praticamente inavvicinabile, in un anfratto dello sperone sotto al Cristo, mentre l’ENI acquistava il poco che era rimasto, con buona pace delle velleità del conte discendente in verità da agricoltori-fabbri-addetti ai telai. I ricordini di cui sopra sono i lanifici Rivetti poi passati sotto il nome di Marlane, a Tortora e Praia a Mare, ovvero quella fabbrica di veleni che ha regalato nel golfo di Policastro patologie incurabili, mortali, a decine di operai.

    Vestivamo alla marinara

    E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.

    Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.

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    Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino

    Nel frattempo? Parecchia immondizia. Reale e… reality. Fatevi un giro su Google Maps, ad ammirare legittimamente gli edifici sventrati, i rottami e gli orrori dell’incuria (persino automobili abbandonate…). Era un paradiso, poteva continuare ad esserlo. E invece no.

    La sfida degli ecomostri

    E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.

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    Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella

    Oceano mare (Tirreno)

    Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
    E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
    E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.

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    Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford

    Esoterismo e presepi viventi

    Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.

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    Torre Talao, primi del Novecento

    Erre come Livorno

    Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.

    Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…

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