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  • Gente in Aspromonte | Le amazzoni greche di Samo e Natile

    Gente in Aspromonte | Le amazzoni greche di Samo e Natile

    Questa puntata tutta al femminile si svolge nella Calabria greca tra Natile di Careri e Samo e racconta la storia di due generazioni di donne, due imprenditrici dell’Aspromonte. Avevo già conosciuto Tiziana, nella due giorni di Samo. Tuttavia, la decisione di dare un “taglio” di genere è nato dopo l’incontro con Annamaria a Natile Vecchio, durante la salita a Pietra Cappa, il cuore dell’Aspromonte, la Madre.
    La prima è la Presidente della Pro Loco di Careri, la seconda la giovane Presidente della Cooperativa Aspromonte: hanno in comune senso di appartenenza e di comunità, amore per l’accoglienza e la bellezza, voglia di costruire a casa loro. E la tessitura. Su questi terreni si incrociano memoria, rapporto con le istituzioni, lavoro contro lo spopolamento, strategie di sviluppo.

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    Il monolite

    Annamaria, la promoter della montagna

    «Sono stata sempre una ribelle anticonformista e non mi sono mai arresa. Nasco nel 1964. Nella mia gioventù la montagna era off-limits.
    Le donne ci andavano solo con gli uomini per raccogliere le ghiande. Per il resto era considerata pericolosa, specie per le ragazze. Della montagna ricordo di aver sempre sentito il richiamo forse perché legato al senso del proibito, ma era l’era dei sequestri. Gli anni tra l’85 e l’86 sono stati quelli in cui con un picnic di Pasquetta organizzato in località San Giorgio, comune di San Luca, quasi per scherzo, abbiamo aperto le porte della montagna.
    E poi piano, piano si è strutturato un giro di appassionati, grazie ai primi pionieri: il professor Domenico Minuto, Alfonso Picone Chiodo, l’avvocato Francesco Bevilacqua che già frequentavano la montagna e, da studiosi, ci hanno fatto scoprire un patrimonio che nemmeno noi conoscevamo. Scoprire di esserne i custodi ci ha dato orgoglio e ha rafforzato il nostro senso di appartenenza. Da lì in poi è partito il mio impegno». Così esordisce Annamaria Sergi, sarta e promoter della sua terra.

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    Annamaria Sergi e Giuseppe Bombino

    Natile, la speranza dopo l’abbandono

    Siamo sotto Pietra Cappa, in località Natile Vecchio, nella famosa vallata delle Grandi Pietre, pregna di sacro, già battuta dagli eremiti. Ci sono Demi d’Arrigo di Aspromontewild – la nostra guida -, Nino Morabito di Legambiente, il prof Giuseppe Bombino.
    Frazione del comune di Careri e figlio della arcaica Pandore, Natile è una comunità evacuata e sradicata, segnata dai terremoti del 1783 e del 1908 e ferita dall’alluvione del 1951. Dopodiché a tutti gli effetti “delocalizzata”. É la stessa storia che ho sentito ripetere ad Africo Vecchio.
    Il monolite domina su di noi. Le lame d’argento della luce di mezzogiorno ci catapultano in una dimensione quasi lunare: intorno a noi la macchia mediterranea si inerpica ai costoni di roccia lucente.
    Il cuore dell’Aspromonte pulsa con il suo ritmo nascosto, il battito ancestrale di primavera che sale direttamente dalle viscere della terra e percuote tutta la vallata. Qualche falco pellegrino volteggia. Pietra Cappa, Pietra Lunga e Pietra Castello sembrano essere piovute dal cielo, conficcate come enormi chiodi nel terreno.

    Il picnic diventa un ristorante

    «A Natile manca tutto, non ci sono servizi, né punti di ristoro, né strutture ricettive. Abbiamo cercato di trasformare le criticità in opportunità.
    Allora ci siamo inventate il ristorante all’aperto: organizziamo picnic in montagna e rispolveriamo tutto quello che le nostre nonne facevano quando andavamo a mietere il grano: mettevano tutto nella cesta e partivano.
    Facciamo cultura a tavola, accompagnando il nostro piatto con la storia della nostra comunità e delle nostre famiglie, quella di una cultura povera, contadina e accogliente. E raccontare il passato ci consente di ricrearlo nel presente, riattualizzandolo. Non siamo le servette. Siamo le donne che dominano la tavola.
    Per me è un onore condividere il mio sapere con gli altri. Non mi sono mai fatta ingabbiare in certi stereotipi. Il mio obiettivo è dare nuove opportunità alla mia terra, aprendo opportunità di crescita e lavoro», mi dice Annamaria al nostro rientro dal monolite. Assieme alle donne della sua Pro Loco ha preparato il pranzo picnic.
    C’è il tovagliato, posate di metallo e bicchieri di vetro «perchè il plastic free è il futuro e al futuro si va educati tutti, specie chi viene a visitare il nostro territorio». Il menu è fatto di preparati a chilometro zero. Il pranzo, che è il suo modo di prendersi cura, diventa occasione di scambio, confronto e racconto.

    Escursionisti a Pietracappa

    Una Pro Loco per cambiare

    «La mia missione è accogliere. Vengo da un passato all’interno della parrocchia: sono stata catechista, corista e membro del consiglio pastorale. É stato il mio impegno fino a quando mi sono accorta che forse c’era più bisogno di me fuori dalla Chiesa.
    La storia della nostra Pro Loco inizia a ottobre del 2014, grazie alla vacanza della sede di Careri. Veniamo avvisate con pochissimo anticipo.
    In tre giorni istituiamo la nuova associazione. I tempi stretti ci hanno impedito di effettuare tutta la procedura di evidenza pubblica. Chi non è stato coinvolto si è sentito escluso. Quella di Natile è una Pro Loco fatta prevalentemente da donne, che hanno deciso di mettersi a servizio della loro comunità, nonostante gli scetticismi di tanti. Anzi proprio quel pensare “sunnu fimmini, c’hannu a fari?”, quel sottovalutarci, ci ha consentito di agire al meglio».
    Perché Annamaria è ciò che fatto: già vicepresidente regionale e coordinatrice delle Pro Loco reggine, nove anni di impegno sul territorio a contatto con le scuole, con i turisti, gli studiosi, gli artisti. Ha organizzato seminari di studio sulla tradizione greco-bizantina di Natile, laboratori didattici con le scuole, eventi culturali. Un punto di riferimento sul territorio per ricercatori e turisti.

    Cibo e tessuti: piccole economie aspromontane

    «Assistiamo gli escursionisti che vengono da fuori, divulghiamo e promuoviamo la nostra terra e i suoi prodotti a chilometro zero. Quando organizziamo un pranzo quello che presentiamo deve essere di altissima qualità.
    Questo ci consente di coinvolgere le nostre famiglie, i nostri produttori, aziende agricole e piccole realtà trasformative che realizzano i prodotti di nicchia che ordiniamo per i pasti: pane, olio, ortaggi, formaggi, salumi, carne, frutta, dolci.
    Non presentiamo nulla che non sia stato valutato. Perché tu sei noi e noi ci mettiamo la faccia. Abbiamo anche realizzato dei laboratori di tessitura in alcuni “catoi” del paese. Il telaio, come in molti altri borghi della zona, era parte fondamentale della nostra cultura». E non manca la citazione dotta: «Le vostre donne si vestivano di nero perché portavano il lutto a vita, ma sognavano a colori. Se voi aprite i vostri bauli le coperte che tessete sono zeppe di verde smeraldo, giallo ocra, blu mare, rosso scarlatto». Questa frase a effetto, riferisce Annamaria, proviene da Tito Squillace, medico, attivista, presidente dell’associazione ellenofona Jalò tu Vua di Bova.

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    Un telaio domestico

    Imprenditrici in Aspromonte contro l’abbandono

    Cura, ospitalità, istanze di rete: sono gli ingredienti di Annamaria per contrastare il senso di sfiducia e abbandono appiccicato ai natilesi come un lenzuolo bagnato: «Il medico condotto che veniva a fare ambulatorio una volta a settimana non viene più. Viviamo in un territorio isolato che porta ancora le cicatrici della stagione dei sequestri.
    Ai tempi di Cesare Casella, Natile fu invasa. Lo Stato inviò la cavalleria dei carabinieri: ragazzini impreparati e terrorizzati dall’idea di stare nel cuore della ’ndrangheta.
    Sono giunti e hanno spaccato tutto quello che dovevano spaccare, facendo di tutta l’erba un fascio e commettendo un errore: imporsi con violenza senza curarsi dei legami e dei meccanismi di una piccola comunità sempre abituata ad arrangiarsi e proteggersi con i propri mezzi.
    Si è avuta la sensazione di uno Stato mai percepito come garante o collante. Una madre presente per giudicarti, senza accompagnarti. La mancanza dello Stato nelle sue articolazioni ha minato anche la fiducia dell’essere parte di una collettività che insieme può costruire qualcosa di migliore. Perché stai dando risposta alle esigenze di tutti.
    Questo ha inciso negativamente sulla capacità di fare comunità. A un livello economico si è tradotto nella riduzione della percentuale del fenomeno cooperativo che, di per sé, si basa sulla fiducia. Noi, poi, non siamo stati capaci di reagire. L’assistenzialismo ha fatto il resto: se a Natile 48 famiglie su 50 hanno la sicurezza del posto fisso alla Forestale, è più facile accomodarsi che prendere iniziative economiche. Io questa sono e non ho intenzione di fermarmi».

    Tiziana: dal sociale alla microimpresa

    Su questa ancestrale filoxenia punta anche Tiziana Pizzati, attivista e imprenditrice, quando usa l’immagine dell’abbraccio: accogliere significa abbracciare.
    Tiziana rappresenta la generazione più giovane: poco più che trentenne, a Samo ha creato un sistema di accoglienza diffusa e una cooperativa per la trasformazione di prodotti agroalimentari.
    Collabora con le Guide del Parco e con gli operatori del turismo montano.
    «Ho avuto la fortuna di poter lavorare alle Poste nella mia terra, ma volevo fare di più. Ho preso una laurea in Scienze turistiche con una tesi sul brand Aspromonte e sulla sua drammatica bellezza: un’istantanea su come è oggi la nostra terra, sulle sue prospettive di sviluppo e su ciò su cui dobbiamo investire. Paradossalmente il nostro essere rimasti indietro, oggi ci porta a essere un passo avanti. Voglio rendere vivo quello che ho studiato realizzando un nuovo storytelling».

    Samo: un altro pezzo di antica Grecia

    Ci troviamo a Samo, 300 metri sul livello del mare a 13 km da Bianco. All’ingresso del paese campeggia una stele di metallo con il toponimo grecanico. Anche Samo è un borgo delocalizzato che si allunga come la punta di una lancia nel Parco dell’Aspromonte.
    Fondato intorno al 432 a. C. in località Rudina a ridosso della fiumara La Verde, allora navigabile, da coloni dell’isola di Samos, il paese onora questo passato ed è gemellato con il suo omonimo greco.
    Invaso e distrutto dai Saraceni, teatro di terremoti, è stato più volte spostato fino all’abbandono dell’insediamento di Precacore per assumere i connotati attuali.
    «Sentiamo forte la nostra grecità. Lavoriamo per valorizzare il nostro passato: cerchiamo di renderlo seducente e contemporaneo. Ciò significa creare nuovi posti di lavoro contro lo spopolamento. Sogniamo non un Aspromonte fisico, ma culturale. Un orizzonte condiviso».

    Imprenditrici in Aspromonte: restanza al femminile

    Tiziana, e Annamaria sono le “restate” che combattono: rappresentano la forza, l’orgoglio e la resilienza delle donne d’Aspromonte, quelle che la letteratura ha descritto sempre come un passo indietro.
    Sono il volto umano del femminino sacro che da Persefone è transitato nel mondo cristiano. Bova, con le sue Pupazze, è l’emblema. Sono restanti e persistenti. Incarnano il doppio e l’unità: due donne, due leader, la Madre e la Figlia. Rappresentano i due passaggi di crescita: una ancora immersa nell’associazionismo, l’altra transitata nel sociale e poi saltata verso la piccola imprenditoria.

    Tessuti di Samo

    Creare per non partire

    «Quando ti ritrovi a vivere con un gruppo di coetanei in un paese di settecento anime hai due possibilità: spostarti o creare qualcosa. Noi abbiamo scelto la seconda strada: ci siamo riuniti, abbiamo formato la Pro Loco e per sei anni abbiamo promosso il territorio. Poi ci siamo accorti che col sociale puoi fare tante cose, ma solo fino a un certo punto».
    Così nel 2016 «abbiamo fondato la Cooperativa Aspromonte. Il lavoro fatto dal prof Bombino durante la sua presidenza all’Ente Parco portò a un fiorire di cooperative giovanili. Oggi sento che manca quel meccanismo capace di lavorare a più livelli e per chi, come me, collabora sia col Parco che con i Comuni per la manutenzione di sentieri e segnaletica, è triste». Si riferisce al lavoro fatto per la candidatura dell’Ente Parco Aspromonte a Global Geopark Unesco.

    L’ospitalità (green) prima di tutto

    «Siamo partiti con l’idea di creare ospitalità diffusa per camminatori ed escursionisti: per noi era naturale prenderci cura dello straniero. Poi con i risparmi di questa attività abbiamo creato un laboratorio di trasformazione dei prodotti alimentari. A parte le conserve, realizziamo il Kypris, liquore al mirto locale raccolto e lavorato in giornata. Abbiamo molte idee, pochi soldi e la burocrazia non ci aiuta».
    Nel 2018 la cooperativa ha chiesto un contributo per l’acquisto dei macchinari per il laboratorio di trasformazione agroalimentare a valere sui fondi per i giovani inseriti nelle azioni per le aree svantaggiate del Piano di Sviluppo Rurale.
    Il progetto, approvato nel 2022 non è stato finanziato in attesa dei ricorsi per l’aggiornamento delle graduatorie: «nel frattempo abbiamo acquistato tutto di tasca nostra».

    Una tessitrice grecanica

    Quelle belle stoffe bizantine

    E poi c’è la tessitura, perché Samo è la capitale del ricamo bizantino a motivi floreali: «Nell’area della Calabria greca fino alla prima metà del Novecento il telaio era fonte di reddito. Fimmina di telaru, gioa e onuri di lu focularu. Si può dire che in ogni casa ci fosse un telaio. A Samo però venivano realizzati ricami più complessi: le geometrie si alternavano ai tipici motivi floreali intrecciati con con ginestra, lino o seta. Oltre che per le coperte, Samo è conosciuto per le sue pezzare e le sue strisce: filati fino a undici metri dati in dote e preparati per essere stesi all’ingresso della sposa in chiesa».
    Si tratta di un’arte che sta scomparendo e su cui lei punta: «con il progetto Telaio in Aspromonte abbiamo mostrato alle scuole il processo completo di lavorazione della ginestra per la tessitura, dalla pulitura all’orditura, come avveniva fino alla metà degli anni Cinquanta. Mi piacerebbe realizzare una scuola di tessitura per tramandare una competenza che sta per estinguersi, ma da cui provengono manufatti tessili di altissima qualità».

    La cantastorie e la tessitrice

    Tiziana ha mostrato l’arcano e il contemporaneo.
    Prima mi ha introdotto a casa di Agata, superstite cantora di età indefinibile, una stufa a legno, la tv a tutto volume e la memoria di Pico della Mirandola, capace di recitare storie e leggende dell’antica Samo in un poema epico dialettale direttamente ispirato alla Chanson D’Asperomont.
    Poi mi ha introdotto a casa di Maria, la mastra tessitrice di cui vedete i lavori in foto. Quindi ha filmato è ha realizzato una story acchiappaclic per arricchire di contenuti il profilo Instagram della cooperativa, 1.835 follower. Una risorsa che prima non c’era.
    Una recente ricerca dell’Unical sulle condizioni delle quattro aree pilota calabresi della Snai rimarca un difficile accesso ai servizi, una desertificazione sanitaria e un invecchiamento misto al calo della popolazione.

    La vallata delle Grandi Pietre

    Salvare la Calabria greca? Si può

    La riqualificazione della vita di queste aree non può passare solo attraverso il turismo: ci vogliono i servizi e una nuova strategia gestionale. E poi ogni altra forma di politica territoriale possibile, turismo e animazione culturale compresi. Serve una visione.
    Il 28 luglio 2021 la Regione ha approvato il Sistema di gestione e controllo per l’utilizzo dei fondi nazionali della Strategia nazionale aree interne Snai che «punta a rafforzare la struttura demografica dei sistemi locali delle Aree Interne (intese come sistemi intercomunali) e ad assicurare un livello di benessere e inclusione sociale dei loro cittadini, attraverso l’incremento della domanda di lavoro e il miglior utilizzo del capitale territoriale».
    Vi rientra a pieno titolo l’area Grecanica. Il modello d’azione della Snai prevede «di favorire la piena attivazione degli attori locali (istituzioni, imprese, associazioni, ecc.), che sono chiamati ad assumere ruoli e responsabilità centrali nella definizione delle politiche di intervento».
    Vedremo se e quanto questo approccio multistakeholder verrà rispettato.

    Tiziana Pizzati

    Imprenditrici che resistono in Aspromonte

    Nel frattempo Annamaria e Tiziana lavorano sui territori per cambiare il senso di rabbia e di abbandono in gratitudine, aumentare il livello di consapevolezza dei loro concittadini, accrescere fiducia e opportunità, creare prospettiva di sviluppo.
    Entrambe reclamano attenzione alle aree interne da parte delle istituzioni: chiedono strade, servizi, fondi, affiancamento. Entrambe lavorano per aggregare e per ricreare. E in questa tensione tra l’appartenere, il riconoscersi, il ricreare e il fare c’è l’eterno dilemma del pendolo che oscilla tra autentico e mitopoietico: il secondo è necessariamente destinato a sostituire il primo laddove i vissuti e i saperi scompaiono. Uno storytelling che non si scrosti al primo imprevisto deve raccontare non una vetrina ovattata, ma tradizioni, vite, quotidianità autenticamente presenti.

  • Protezione Civile: venerdì da allarme rosso, ma solo per finta

    Protezione Civile: venerdì da allarme rosso, ma solo per finta

    Sarà allarme venerdì prossimo, 7 luglio, a mezzogiorno. Ma niente paura, è solo un test. La Regione Calabria è, infatti, capofila insieme a Sicilia, Toscana, Sardegna ed Emilia-Romagna, in una sperimentazione del dipartimento nazionale di Protezione Civile: It-alert, un nuovo sistema di allarme pubblico. Servirà ad avvertire la popolazione di una determinata area geografica di un’emergenza climatica in arrivo o una catastrofe naturale in corso.

    It-alert sarà operativo dal 2024 sull’intero territorio nazionale, una volta chiusa la fase di test in tutte le regioni italiane. Dopo quelli del 28 giugno in Toscana, del 30 in Sardegna, e del 5 luglio in Sicilia toccherà dunque alla Calabria, venerdì 7 luglio alle ore 12.
    A mezzogiorno sui telefoni cellulari di tutte le persone che si trovano, anche in transito, sul territorio calabrese apparirà il seguente testo: «Questo è un messaggio di test del sistema di allarme pubblico italiano. Una volta operativo ti avviserà in caso di grave emergenza. Per informazioni vai sul sito www.it-alert.it e compila il questionario». Che è un form, accessibile dall’home page del sito It-alert, per raccogliere i feedback dei cittadini utili a implementare il sistema.

    Un messaggio per due milioni di persone

    Secondo le stime, a ricevere il messaggio in contemporanea saranno circa due milioni di utenze. Con tutti i problemi del caso. Si legge in una nota della Protezione civile calabrese: «Risulterà molto impattante sia sul piano visivo che sonoro e potrebbe comportare, per un breve lasso di tempo, il blocco delle attività e delle funzionalità degli smartphone». Volendo, «è comunque possibile disattivare precedentemente, a seconda della tipologia degli smartphone, le notifiche relative a It-alert seguendo alcuni passaggi indicati nelle impostazioni del telefono cellulare». E, com’è ovvio, «il messaggio potrebbe non arrivare nel caso in cui sia impostata la suoneria silenziosa o se i telefoni sono spenti o privi di campo».

    Le funzioni di It-alert

    A cosa serve It-alert? Ridurre i rischi singoli e collettivi in una situazione di emergenza, favorendo l’adozione dei comportamenti adatti.  Col nuovo sistema si potranno diffondere tempestivamente allarmi pubblici attraverso i cellulari, raggiungendo praticamente chiunque.
    È ancora la Protezione civile a spiegare che «ogni dispositivo mobile connesso alle celle delle reti degli operatori di telefonia mobile può ricevere un messaggio “It-alert”. Grazie alla tecnologia Cell-broadcast (letteralmente, trasmissione di cella) i messaggi It-alert possono essere inviati all’interno di un gruppo di celle telefoniche geograficamente vicine, capaci di delimitare un’area il più possibile corrispondente a quella interessata dall’emergenza».

    It-Alert e la Protezione Civile in Calabria: il precedente

    In realtà per qualche calabrese il test di venerdì 7 luglio non sarà una novità assoluta. «La Calabria – ha dichiarato il direttore generale della Protezione civile, Domenico Costarella – è stata la prima Regione che si è resa protagonista in ambito nazionale della sperimentazione del test di It-alert in occasione dell’esercitazione Sisma dello Stretto 2022 che si è svolta – dal 4 al 6 novembre 2022- tra Calabria e Sicilia».
    In quell’occasione ci fu la simulazione di un terremoto di magnitudo 6 con un significativo livello di impatto su abitazioni e popolazione. Oltre mezzo milione le persone coinvolte in quell’occasione nell’area dello Stretto, la più grande esercitazione antisismica della storia italiana.

  • Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Colonia Federici, un tesoro in Sila tra speranze e abbandono

    Qual è l’animale (uomo escluso) che uccide più persone ogni anno sul nostro pianeta? Non pensate a feroci predatori: è la zanzara. Il primato era ancora più indiscusso fino a qualche decennio fa, quando la malaria imperversava anche dalle nostre parti. Non c’era ancora il DDT, le aree paludose da bonificare erano tante e per curare le febbri trasmesse dall’insetto il chinino non era abbastanza per tutti.
    Nell’Italia post unitaria, a cavallo tra ‘800 e ‘900, la poverissima e incolta Calabria era tra le regioni più colpite. Così si decise di curare in una colonia la malaria con… l’aria della Sila. E centinaia di bambini si salvarono. Succedeva tra Camigliatello e Moccone, in un posto splendido e abbandonato da anni: la Colonia Silana Federici.colonia-silana

    La nascita del sanatorio

    Siamo a fine giugno del 1910 quando la Colonia apre i battenti, il terreno – tre ettari – su cui sorge l’ha donato il Comune di Cosenza, che aggiunge anche le spese per arredi e trasferimento, personale sanitario e un contributo annuo di 3.000 lire. Nonostante gli aiuti, però, le cose non sono semplicissime all’inizio. Come ricostruisce Francesca Canino in un articolo di qualche anno fa, la farmacia più vicina dista 20 km, mancano illuminazione e riscaldamento e per avere l’acqua tocca rifornirsi alle fontanelle disseminate nella zona. Ma quelli che hanno dato vita alla colonia non demordono e le cose presto migliorano. Proprio a Federici negli anni ’40 arriveranno i primi termosifoni di tutta la Sila.

    A mandare avanti le cose ci sono cosentini come il dottor Domenico Migliori, cui per un periodo sarà intitolata la Colonia Silana Federici, ma un ruolo di assoluto rilievo lo hanno i piemontesi: Bartolomeo Gosio, luminare della lotta alla malaria, che ha voluto quel centro in Sila e, soprattutto, Virginia Angiola Borrino e Giuseppina Le Maire.
    Borrino è una pediatra, prima donna titolare di una cattedra universitaria di Medicina, che Gosio ha voluto sull’altopiano calabro per occuparsi dei bambini malarici messi peggio. Le Maire, invece, un’educatrice e attivista che collaborerà a lungo con Umberto Zanotti Bianco per il riscatto del Sud Italia e della Calabria. Giuseppina, fonderà anni dopo anche una scuola rurale a Cetraro, e a Camigliatello insegnerà ai bambini le elementari regole d’igiene a loro ignote.

    La malaria in Calabria e la colonia in Sila

    In Sila, insomma, la malaria si sconfigge anche attraverso l’educazione dei più piccoli e, di riflesso, dei loro familiari. Fino a quegli anni, infatti, i principali rimedi contro le febbri si richiamavano alla medicina tradizionale, se non alla magia. Barbieri e magare praticavano salassi, ai malati si davano da bere infusi di vario genere. Qualcuno beveva gusci di noce tritati e bolliti nel vino con limone e bergamotto. Altri mettevano fichi d’India vicino al focolare o facevano pipì al mattino sui cucuzzielli acriesti maturi, pensando di trasferire alle piante la malattia. A Castrovillari i devoti si rivolgevano così alla Madonna d’Itria in cambio della guarigione: «Madonna mia ‘i l’Itria, chi stai ‘nganna a’sta jumara fammi passà ‘sta freva ‘i quartana c’u jurnu tuju non vugghiu mangia’ panu».colonia-malaria-sila

    I metodi della Colonia Silana Federici non tardarono a mostrarsi più efficaci. E la struttura crebbe di anno in anno, grazie alle donazioni che arrivarono. Ci furono contributi dalla regina Elena in persona, così come dalla Croce Rossa, dalla Fondazione Carnegie, dal Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, dall’Associazione Donne di Cremona, dalla marchesa Lucifero di Crotone. Il marchese Berlingieri offrì un padiglione, un altro lo regalò l’ingegnere Barrese. Le Maire donò una campana e la contessa Adorno fece erigere una chiesetta in legno per ricordare suo figlio Enrico, aviatore morto nel corso di un’esercitazione.

    Malaria o tubercolosi, si va in colonia in Sila

    La Colonia Silana Federici nel frattempo era diventata un ente morale e il fascismo aveva sostituito l’intestazione a Domenico Migliori con una al quadrunviro Michele Bianchi. I bambini guarirono a centinaia e si andò avanti così anche dopo la guerra, quando nella struttura iniziarono a occuparsi anche di tubercolosi. La malaria, in Sila come nel resto d’Italia, era ormai praticamente scomparsa. Salvo rari casi isolati di viaggiatori di ritorno da qualche paese africano, l’abbiamo debellata definitivamente nel 1970.

    Sarà forse per questo che proprio in quel decennio a Camigliatello la struttura ha iniziato lentamente a andare in malora. Per un po’ ci ha tenuto corsi di formazione la Regione, poi si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero proprietario della struttura. Vandali e scorrere del tempo nel frattempo hanno fatto il loro mestiere, con la colonia sempre più malridotta.
    Sindaci hanno dato vita a petizioni online, giornalisti e associazioni hanno sollevato periodicamente il problema del deterioramento progressivo degli immobili. Che hanno un valore notevole, non solo dal punto di vista storico e sociale. Per anni però non si è mosso nulla.

    Una nuova vita, ma senza fretta

    Poi, a inizio 2021, sulle pagine web dell’Ente Parco e di vari quotidiani locali arriva l’annuncio: il ministero dell’Ambiente ha stanziato oltre 3 milioni di euro per il recupero della struttura. Che è del Comune di Spezzano, ma ad occuparsene, sarà, appunto il Parco. Nuova vita per l’ex colonia? Le premesse non mancherebbero. A Federici, si legge nei comunicati di due anni e mezzo fa, dovrebbe nascere «una Scuola di formazione della montagna, destinata alla specializzazione degli operatori, ma pure allo studio e al monitoraggio del bosco, al fine di completare l’Inventario Forestale del Parco Nazionale della Sila». Il tutto condito da efficientamento energetico, foresteria, un centro cultura.

    «Siamo pronti – assicurò il Parco per l’occasione – a iniziare questa sfida bellissima, l’ufficio tecnico è già al lavoro sulla progettazione». Trenta mesi dopo, però, a Federici non c’è traccia di cantieri, se non una rete di protezione che col recupero della struttura non ha nulla a che vedere. I soldi, ci hanno assicurato dal Parco, non sono a rischio, il finanziamento è confermato ma è arrivato solo di recente. La progettazione va invece per le lunghe. Il ritardo di Roma nell’erogazione dei fondi ha impedito di fare granché finora. E le parole di gennaio 2021? «Annunci», appunto, ci confessano con un certo candore. Sperando che i fatti li seguano presto.

    Le immagini all’interno dell’articolo sono tratte dalla pagina Facebook dell’associazione culturale Mistery Hunters o dagli archivi fotografici dell’Istituto Superiore di Sanità.

  • Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    Santi, filosofi e vaccari: la Sila di Aghia Sophia

    ‘A Sila va capita. Sentirete questo ritornello a Cosenza ogni qual volta si chiama in causa il Gran Bosco d’Italia. È un modo per dire che l’altopiano calabrese non è un posto per tutti, non è il solito divertimento effimero stile “costa tirrenica”, dove – a parte la bellezza universale del mare quando si ha la fortuna di trovarlo pulito – si replicano abitudini e si frequentano le stesse persone incontrate la mattina precedente in città. Insomma, non è la solita minestra. Sulla verità di questa affermazione c’è chi ha qualcosa da obiettare. Io non ho nessun dubbio, invece. Difendo la bellezza di un posto unico, con l’aria più pulita del mondo. Lo dice una ricerca giapponese. I nipponici, come sapete, sono precisi e affidabili. Gli credo sulla fiducia.

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    Franco “Bifo” Berardi

    Bifo e gli altri

    Tutte queste parole per dire che oggi 24 e domani 25 giugno è in programma la terza edizione di Aghia Sophia Fest. Un programma di tutto rispetto: da Franco Berardi, in arte Bifo – agit prop e intellettuale eretico -al talk con la coppia Rezza-Mastrella che dialogherà con l’attore e drammaturgo Ernesto Orrico. Poi musica (tanta), laboratori di fumetti, escursioni, attività per grandi e piccoli. Il programma completo è sulla pagina Facebook del festival.

    Da Corazzo a quasi Lorica

    Lo scorso anno era a Corazzo, tra i ruderi gioachimiti, oggi Aghia Sophia Fest sbarca nel Parco nazionale della Sila, a pochi chilometri da Lorica. E la possibilità di incrociare quegli splendidi esemplari di cuazzi nivuri, teste nere avvistate in determinati periodi tra quei boschi. Non parlo di giganti della montagna né lupi, ma di prelibati porcini che i cercatori di funghi trovano tra i pini del luogo. Chi va per Aghia Sophia può imbattersi anche in loro se è fortunato. Ma non si avventuri troppo lontano, in quota il rischio di perdersi con facilità è sempre dietro l’angolo. Buona regola applicabile a tutte le latitudini.

    Il capitolo “origini” ci porta all’Unical. Giuseppe Bornino, direttore artistico di Aghia Sophia Fest ex aequo con Silvia Cosentino, spiega come tutto ebbe inizio: «In principio fu Il filo di Sophia, collettivo di studenti e studentesse che nel 2008 ha iniziato a fare attività autogestite e poi si è trasformato in associazione culturale partita all’ateneo di Arcavacata e poi transitata al teatro dell’Acquario».

    Il lago Arvo

    Heidegger in Sila

    «Siamo in un territorio particolare, – argomenta Bornino – la Sila Grande. Terra di santi, filosofi e vaccari. Si riesce in maniera serena e tranquilla a isolarsi da impegno, bulimia, performance. La Sila risponde molto di più al principio del piacere che a quello di prestazione per citare Freud e Marcuse. Si fanno delle cose per il pure piacere di farle». Si vede che Bornino è un prof di filosofia. Al liceo di Amantea, sottolinea.
    Continua la lezione: «La Sila è un territorio mistico dove il rapporto con il divino, che non è solo di natura religiosa, si sente e si vive. È un posto disseminato di sentieri interrotti come direbbe Martin Heidegger. Ti imbatti in una radura che si apre improvvisamente». Heidegger non poteva sapere che la sua radura si traduce con liberino nel dialetto degli autoctoni come me. Non di rado tra i liberini spuntano proprio i già citati e amati funghi per chi ha occhi e fiuto per scovarli.

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    Giuseppe Bornino, co-direttore artistico di Aghia Sophia Fest

    Aghia Sophia Fest: baldoria e riflessione

    Al fondo Aghia Sophia Fest non è solo quei due giorni di baldoria e riflessione. Bornino sottolinea in una specie di sindacalese condito di ironia: «Vogliamo creare una piattaforma culturale a vocazione silana che rimanga». Sembrano parole di un politico. Non si candiderà, però. Poi spunta fuori la componente antagonista: «La nostra è un’azione di stampo anticapitalistico, non abbiamo come mira il guadagno. Obiettivo è l’emancipazione culturale del territorio. Per noi è essenziale il rapporto gli autoctoni: il commerciante, l’ente, l’istituzione, ma anche il cittadino comune».

    E cosa resterà? «Qualcosa di importante» – dice: «Stiamo lavorando al primo ecomuseo dedicato ai diritti sociali». Artisti provenienti da diverse parti del mondo verranno in residenza nella zona di Lorica, dialogheranno con gli abitanti e il paesaggio, realizzeranno opere site specific. Ci crediamo molto. E intanto ci godiamo questi due giorni.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    «Ancora, a distanza di anni, non capisco come si potesse sparare dalle terrazze e dai balconi della città migliaia di colpi contro i falchi pecchiaioli e di come non venisse attivato un servizio di garanzia dell’ordine pubblico. Questura e Prefettura dov’erano?».
    Quegli spari stridevano con ciò che Nino Morabito, dirigente di Legambiente e ambientalista reggino di lungo corso chiama «il silenzio che regnava sovrano». Nino ha tanto contribuito ad abbattere del 99% il fenomeno della caccia illegale dei cosiddetti adorni durante la migrazione riproduttiva.

    È uno dei partecipanti all’uscita verso Pietra Cappa, che racconterò nella prossima puntata, ed è un ex consigliere dell’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte. Non ha mezzi termini sulle condizioni della media valle e della montagna: «Vedo, a dispetto degli obblighi di legge, intere aree prive dei controlli minimi, in piena zona A (tutela integrale, ndr.). Cose che, con le opportune scelte del caso, l’accesso culturale, col supporto delle guide, sarebbe sacrosanta. Ancor oggi comanda lo scempio del pascolo abbandonato, delle stalle abusive e delle attività illegali che dovrebbe essere punito e represso».

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    Cacciatori (regolari) all’opera in Aspromonte

    Rapaci migratori: dallo Stretto all’Aspromonte

    La storia di oggi riguarda lui e il movimento creato a tutela dei rapaci che ogni anno, a primavera, passano dallo Stretto di Messina sorvolando l’Aspromonte per dirigersi a nord fino in Scandinavia e a est, in Europa centro-orientale, sulla rotta del Conero e delle Prealpi orientali. Questa storia ha radici antiche ed è figlia degli anni Ottanta, quando Reggio somigliava più a Beirut che a una qualsiasi città italiana.
    Sono gli anni della guerra di mafia, della passeggiata del Lungomare Falcomatà ancora inesistente, dei soldi facili, dell’eccesso. A Reggio in primavera si spara. Anche in piena città. Dalle terrazze e dai balconi.

    Migliaia di rapaci transitano per la riproduzione da sud a nord con picchi di passaggio di migliaia di esemplari selvatici tra il 20 aprile e il 20 maggio di ogni anno. La migrazione è da sempre un momento critico nella loro vita: c’è un alto rischio di morte che per alcune specie supera anche il 50% della loro popolazione.
    Siamo negli anni Ottanta e «sul solo versante calabrese ci sono dalle 13mila alle 15mila persone che sparano».

    Lo stretto di Messina, insieme al Canale di Sicilia, al Bosforo e allo Stretto di Gibilterra, è uno dei crocevia nella migrazione dei rapaci sull’asse Nord-Sud/Sud-Nord.
    Questo perché «per oltrepassare il Mediterraneo senza disperdere troppe energie necessarie per il lungo viaggio, i rapaci – che oltretutto non sono uccelli acquatici e non possiedono il piumaggio reso impermeabile da secrezioni di apposite ghiandole – devono attraversare il mare utilizzando i corridoi più stretti per sfruttare le correnti ascensionali favorite dalla presenza non della superficie omogenea dell’acqua, ma dalla diversità della terra sottostante», racconta Nino.

    «Il fenomeno è facilmente osservabile nel «territorio che va da Pellaro a Palmi a seconda delle condizioni meteo. A meno che non subentrino venti intensi sul canale di Sicilia dai quadranti di Sud e Sud-Est particolarmente proibitivi per attraversare 150-200 km di mare per i rapaci. Questo li costringe ad attendere anche diversi giorni consecutivi nel versante tunisino e libico senza lasciare la costa, in attesa del momento giusto per partire», chiarisce Nino.

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    Nino Morabito

    Reggio città occupata

    Negli anni Ottanta Reggio è un territorio in emergenza e lo resterà per buona parte dei Novanta. Faide e attentati spingono lo Stato a mandare contingenti di bersaglieri a presidiare una città che appare fuori controllo.
    La caccia illegale all’adorno è un fenomeno più che diffuso. «Era una consuetudine delle vecchie generazioni legata alla tradizione delle cacce primaverili rese illegali dopo il 1977, dato che era biologicamente errato cacciare la fauna selvatica che si spostava per riprodursi. C’era poi una componente simbolica legata a forme di goliardia e competizione così come di iniziazione maschile, che sconfinava fino a veri e propri atti di dominio sul territorio. Non è un caso che una buona percentuale dei fermati negli anni, sparasse con un’arma con la matricola abrasa».

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    Rapaci in Aspromonte (foto di Peter Horne)

    «Tutto questo non doveva per forza significare che i soggetti in questione fossero propriamente malavitosi, ma che si aggirassero in certi coni d’ombra di confine, questo sì. Più in generale mi sono accorto che vigeva una sorta di impercettibilità di una pratica che, pur illegale, veniva considerata come qualcosa a cui proprio non si poteva rinunciare. Mentre le forze dell’ordine restavano immobili», aggiunge Nino.

    Inizia la battaglia per i rapaci

    Quella che sarebbe diventata la battaglia di Nino inizia in Sicilia nel 1984 con le denunce dell’appena quindicenne Anna Giordano, determinata figlia dell’allora direttore del Cnr di Messina. Parliamo di una giovane appartenente a una famiglia di cultura elevata che ha sostenuto le sue scelte.
    Anna, assieme a un’altra ragazzina poco più piccola, Deborah Ricciardi, denuncia lo sterminio di rapaci e comincia a lottare. Il 1984 è l’anno in cui si svolge il primo campo di attivisti per il monitoraggio e la tutela della migrazione dei rapaci, dove è presente anche la Lipu cui Anna, assieme ad altri attivisti siciliani, ha aderito. Contemporaneamente sul versante calabrese, si formano i primi gruppi con le stesse procedure: adesione alla Lipu e organizzazione dei primi presidi che sfociano nel primo campo calabrese. Siamo nel 1985.

    Attivisti in azione contro i bracconieri

    La caccia illegale di rapaci in Aspromonte

    La caccia illegale di rapaci è un fenomeno complesso fatto di dimensioni diverse e intersecate che permeano le comunità: sociale, economica, culturale. Nino mi racconta che «durante la migrazione di ritorno, tra agosto e settembre, i rapaci tengono quota e possono essere scorti solo dall’Aspromonte. Invece in primavera, all’andata, gli uccelli perdono quota nell’attraversare lo Stretto».

    «I rapaci passano a migliaia e puoi vederli vicinissimi, anche a sei o sette metri di distanza, specialmente da Archi, Gallico, Catona e Campo Calabro. Sono facili prede. In passato, tra retaggi culturali, simbologie, goliardia, il fenomeno, almeno all’inizio, generava un’economia di scala. Le migliaia di tiratori affittavano postazioni di tiro, compravano colazioni, avevano disposizione rudimentali laboratori di tassidermia abusiva, spesso nel retro delle stesse armerie che vendevano loro fucili e cartucce». «Inoltre si era sviluppata un’economia indiretta di accompagnamento perché molti dei borghi e delle frazioni in cui si svolgeva la caccia allestivano veri e propri eventi finali con tanto di teatrini e feste di paese dove si celebrava il migliore e si dileggiava il peggior cacciatore», prosegue Nino.

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    Un volontario inglese antibracconaggio

    I feroci bracconieri degli anni Ottanta

    Negli anni Ottanta «la tensione era altissima: insulti e aggressioni verbali e fisiche erano all’ordine del giorno. Battevamo a macchina i comunicati stampa e li inviavamo via fax. Il Corpo forestale dello Stato raccoglieva personale da diverse parti d’Italia e lo convogliava in Calabria. La resistenza sociale era diffusa e si respirava un clima di guerriglia. Anche noi, come altri attivisti, ci siamo ritrovati le automobili distrutte a bastonate».
    L’impegno di Nino inizia durante la sua formazione universitaria a Parma, ateneo allora noto per nomi di altissimo profilo legati all’etologia: Danilo Mainardi, più conosciuto come divulgatore di Quark, ma anche Sandro Lovari per gli ungulati, Sergio Frugis per l’ornitologia, Gandolfi per l’ittiologia.

    «Coinvolsi alcuni colleghi a venire a darci una mano e, tra chi aderì, ci fu il figlio di un senatore democristiano che avrebbe poi dovuto proseguire la propria ricerca naturalistica in Africa. Durante un’uscita del nostro gruppo sopra l’acquedotto di Gallico, un gruppo di sei o sette bracconieri, raggiunti i volontari, distrusse la loro auto a colpi di pietre e bastone. Ogni giorno gli elicotteri scortavano le pattuglie che smontavano e dovevano fare rientro al quartier generale della Forestale allestito a Gambarie. Fino al 1995 le forze dell’ordine avevano l’ordine di presentarsi in assetto antisommossa: casco, giubbotto antiproiettile, mitraglietta. Quell’episodio ha cambiato la percezione del problema e del rischio», spiega il dirigente di Legambiente.

    Stormo di uccelli migratori

    L’attentato di Gambarie contro la Forestale

    Nino si riferisce all’attentato a colpi di lupara diretto contro la camionetta dei forestali, nel quale uno degli agenti, colpito alla gola, ha perso l’uso delle corde vocali e ha rischiato la vita.
    «Prima dell’88 eravamo assediati. Facevamo osservazione e monitoraggio in zona Santa Trada con decine e decine di persone che ci insultavano, mentre annotavamo numeri e passaggi: “Scrivilu, curnutu! 10 falchi… scrivattillu, sifiliticu!”. Noi eravamo lì a preservare il territorio e i bracconieri, che ci consideravano un corpo estraneo, ci sfidavano, ci osservavano, come facevamo noi, e studiavano le nostre mosse. Dopo aver pernottato in una struttura a Catona ed esserci ritrovate le auto distrutte abbiamo cambiato strategia: le macchine le affittavamo e ci spostammo a dormire a Lazzaro. Io facevo questa vita un mese e mezzo all’anno. Senza il nostro pungolo non ci sarebbe stata la reazione del territorio e delle Istituzioni».

    Mi racconta la sua versione Stefania Davani, attivista romana che incontro un pomeriggio di metà maggio trascorso sulla media valle del Reggino per assistere al passaggio dei migratori.
    «Ricordo benissimo quel periodo. La tensione, la paura, gli assalti». Erano gli anni del monitoraggio strutturato, dei gruppi vasti divisi in diverse postazioni di osservazione da nord a sud dello Stretto. «Durante uno di questi scontri con i cacciatori un gruppo di attivisti stranieri inseguiti fino in spiaggia, fu costretto sotto una sassaiola a gettarsi in mare con i vestiti addosso e uno di loro rischiò di annegare», spiega Stefania.

    Una migrazione sullo Stretto

    Gli stranieri contro i cacciatori

    Gli stranieri sono l’altra parte di questa storia. Stefania è sposata con uno di loro, l’inglese Peter Horne, che viene da anni in Calabria per monitorare i rapaci.
    «Mi occupavo già di tutela dell’avifauna in Gran Bretagna. Con mia moglie abbiamo questa comune passione. I primi anni qui sono stati terribili, Oggi, rispetto all’inizio, gli attacchi a Reggio e in Sicilia sono molto diminuiti. Questo è frutto di un lavoro congiunto fatto da attivisti e Carabinieri forestali. I rapaci non sono dei calabresi, dei siciliani, dei tedeschi o degli inglesi. Sono un patrimonio comune, europeo e mondiale, da difendere tutti insieme. Anche loro rappresentano il nostro futuro».

    Gli attivisti stranieri sono il grimaldello che Nino ha usato per piegare il bracconaggio: «Avevamo contattato organizzazioni amiche e gruppi di attivisti stranieri sensibili al tema. Li abbiamo di quanto stavamo facendo e gli abbiamo chiesto aiuto. Loro avevano aderito e le strutture competenti dei loro Paesi di provenienza avevano comunicato alle rispettive ambasciate che cittadini inglesi, tedeschi, svedesi, ecc. si stavano recando a Reggio Calabria per fare attivismo. Le stesse ambasciate avvisavano le autorità italiane che i loro cittadini potevano trovarsi in situazioni di rischio. Lo Stato fu chiamato a intervenire. Fu questa strategia l’arma bianca che ci fece ottenere una vittoria impensabile».

    Gli anni Novanta

    Le aggressioni fisiche sono proseguite anche negli anni Novanta.
    «C’erano ancora zone impraticabili e rischiose, tipo Rosalì o Calanna. Eppure, qualcosa cambiava. Lo Stato si muoveva, c’erano maggiore sensibilizzazione e consapevolezza, i rapaci erano protetti dal 1972, l’Unione Europea era intervenuta nel 1979 con la Direttiva Uccelli e l’Italia aveva promulgato la relativa ultima legge confermativa 157/1992».
    «Il dibattito pubblico nazionale e internazionale su questi temi si era imposto, il contrasto tramite fermi di polizia e sanzioni era serrato. Il risultato fu che, dopo i primi anni ’90, la partecipazione alle cacce diminuì. Molti che sparavano senza capire bene i rischi di varia natura (ordine pubblico, minaccia alla biodiversità, illegalità, sanzioni) si erano improvvisamente svegliati dal loro torpore e avevano preso coscienza».

    A colpi di arresti e di interrogazioni parlamentari la situazione si è normalizzata: «La normativa europea ci ha molto aiutato. I maggiori controlli e pressione, il monitoraggio e il lavoro degli attivisti hanno permesso grandi risultati. E, una volta diminuiti i tiratori, abbiamo cominciato a muoverci più agevolmente. In pochi anni il 50% dei bracconieri ha smesso di sparare».

    Tra gli episodi assurdi che Nino ricorda due in particolare rendono la consistenza del fenomeno. Innanzitutto, i mandati di consigliere comunale e regionale svolti dall’avvocato Francesco Tavilla dal ’95 al 2000 «con il solo proclama “viva la caccia agli adorni”», già ampiamente vietata. Poi l’interrogazione parlamentare «a seguito del decesso per infarto di un tiratore su una terrazza di Reggio Calabria, provocato – a dire degli onorevoli – dallo spavento per il sorvolo di un elicottero della Forestale».

    Attivisti di Legambiente

    La situazione oggi

    «Oggi rimangono un centinaio di irriducibili, comprese le aree interne (Solano, Villa Mesa, Calanna). Il fenomeno è stato abbattuto del 99%».
    I risultati sono eloquenti: «Il falco pecchiaiolo è ricresciuto in maniera significativa; sono tornate le cicogne, che erano quasi scomparse e hanno ricominciato a nidificare. Lo stesso dicasi per i falchi di palude, i grillai, le albanelle minori, il cuculo, il lodolaio», mi racconta Nino.

    La guerra però non è vinta: «Il bracconaggio è abbattuto ma cova sottotraccia. Bisogna tenere alto il controllo. Dato che il fenomeno è contratto, siamo organizzati in modo diverso: operiamo in modo dinamico e con azioni veloci. Raccogliamo indizi in diverse aree per fornire il quadro più completo possibile alle forze dell’ordine».
    Gli episodi ci sono ancora: «Quello beccato l’anno scorso era uscito dalla galera da sei mesi dove era finito per associazione mafiosa». La battaglia è importante perché colpisce i simboli, «toglie finestre di espressione con cui si può pretendere e presupporre che l’illegalità vinca. Non ha più un valore economico, ma sociale. È come le vacche sacre: un simbolo potente da debellare», chiarisce Nino.

    Uccelli migratori nel tramonto

    Una battaglia di civiltà tra ambiente, legalità e turismo

    Un valore sociale che fiorisce nelle mani delle nuove generazioni. Secondo Peter «c’è un fattore culturale legato all’avvicendarsi delle nuove generazioni: loro hanno ben chiaro che il mondo ha risorse limitate e che quello che abbiamo va salvaguardato». Ancor di più oggi, davanti agli stravolgimenti climatici, alle alluvioni e alle siccità ampiamente documentate.
    Il birdwatching e il monitoraggio dell’avifauna sono un presidio di legalità ed educazione per un intero territorio. Già: dimostrare che lo Stato pone un argine ai fenomeni illegali è un segnale importantissimo per territori come il nostro. Rappresenta la speranza di una comunità che non deve arrendersi. Un comparto su cui costruire nuovi percorsi turistici dedicati a un spettacolo visibile in pochissime aree al mondo, in cui lo Stretto e l’Aspromonte dominano.

  • La morte torna sul fiume: Denise e la tragica lezione del Lao

    La morte torna sul fiume: Denise e la tragica lezione del Lao

    Ora che attorno alle acque potenti del Lao si stanno spegnendo i clamori, dopo il ritrovamento del corpo della povera studentessa caduta dal gommone e quei luoghi stanno tornando alla loro primitiva solitudine, vale la pena provare a dare uno sguardo meno frettoloso alla vicenda, le cui responsabilità vanno assai oltre quelle della sola guida alla quale Denise Galatà e i suoi compagni erano stati affidati.

    Le cause della tragedia vanno cercate lontano dalle rapide bianche del Lao e molto prima del giorno della tragedia, ma sin dentro le aule di un liceo che decide di mandare i propri ragazzi a fare la “gita scolastica” in uno dei posti più belli della Calabria, ma che nella seduzione della natura selvaggia conserva un margine di pericolosità che è ben conosciuto.

    La scuola che si sposta

    La “gita scolastica” è un modo di dire improprio, quasi gergale. In realtà si tratta di viaggi di istruzione. Non è una finezza semantica, è un cambiamento di senso. Il viaggio d’istruzione è la scuola che si sposta, che va in un luogo diverso dalle proprie aule, che continua a svolgere il proprio compito di crescita ed educazione alla bellezza. È una lezione che si fa senza le mura attorno.
    Per questo non deve essere fatta per forza come una volta dentro un museo – anche se resta sempre un’ottima idea – ma anche cogliendo la lentezza di una passeggiata in un bosco. Oppure il passo svelto che richiede un sentiero di montagna un poco più impervio, affidandosi magari a una guida dei nostri parchi, in grado di spiegare i luoghi, dare voce agli spazi, dire i nomi dei posti e degli alberi.

    Il Lao e le responsabilità nella morte di Denise Galatà

    Il Lao è cosa diversa. È una bellezza severa, di quelle non addomesticate. Abbaglia gli occhi, ma può fare male. Molto. Era già successo, forse non troppo distante da dove Denise Galatà è scivolata dal gommone nel Lao. Un’altra ragazza era caduta e si era persa ingoiata dai vortici. Il ministro Valditara ha annunciato una ispezione, una richiesta di informazioni su come quella gita sia stata organizzata.

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    Denise Galatà, la 19enne morta nel fiume Lao

    È quasi certo che non troverà falle tra le carte, né errori procedurali. Resta da capire come sia stato possibile immaginare una discesa del Lao quando le scuole nell’organizzare le uscite sono responsabili perfino dell’efficienza dell’autobus su cui viaggiano gli studenti e la così detta Culpa in vigilando, ovvero l’omissione di tutela e vigilanza dei docenti verso gli studenti, durante un viaggio è molto più opprimente che durante una normale giornata scolastica. Poi entra in gioco il grado di responsabilità della compagnia di rafting, che ha considerato praticabile la discesa, malgrado i giorni di pioggia continui.

    Non si torna indietro

    Il Lao ha tre percorsi, da Laino alla Grotta del Romito, poi da questa a Papasidero e infine fino ad Orsomarso. Il primo tratto è quello più bello. Gole alte dove l’acqua corre potente, disegnando percorsi tortuosi, fatti di rapide in successione, salti, massi da aggirare, cascate. Luoghi dove non c’è la possibilità di arrivare senza un kayak o appunto un gommone, dove non è previsto di tornare indietro: si deve per forza procedere. La bellezza della natura nella sua forma più autenticamente primitiva.

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    Rafting sul Lao

    Fino a qualche anno fa il percorso intermedio era caratterizzato da un enorme macigno crollato da una delle pareti e questo ostacolo costringeva le guide a far scendere i turisti, porre i gommoni in verticale e farli passare attraverso la strettoia. Era una fatica disumana e a un certo punto il macigno scomparve liberando il percorso. Le dicerie raccontano che il tappo fosse stato fatto saltare con l’esplosivo.

    La tragica lezione della Natura

    Oggi le varie associazioni di rafting che operano in quella zona e che godono del fascino del luogo alimentando un flusso turistico notevole, fanno quadrato. Spiegano che sì, l’acqua era alta, ma il fiume praticabile, i rischi bassi e certamente le guide sono tutte esperte e puntuali conoscitori di ogni passaggio d’acqua, di ogni rapida.gommoni-lao
    Il timore è che il Lao venga chiuso come accaduto per il Raganello, fermando per l’ormai prossima estate i moltissimi i gommoni i cui differenti colori sono rappresentativi delle diverse associazioni che operano lungo il fiume, carichi di gioiosi turisti, spesso anche famiglie divertite. Solo che certe volte la natura ci ricorda che non è un luna park.

  • Acque pulite in Calabria? Solo retorica: per l’Ue siamo i peggiori

    Acque pulite in Calabria? Solo retorica: per l’Ue siamo i peggiori

    La primavera si è vista poco ma prima o poi arriverà l’estate, quindi ferie e week end al mare. Vogliamo scommettere che, anche quest’anno terranno banco, in Calabria, la depurazione e i suoi problemi?
    Gli ultimi dati regionali ufficiali si trovano nell’annuario di Arpacal sull’ambiente.
    Lo scorso marzo il governatore Occhiuto ha dichiarato l’inizio della tolleranza zero su quest’argomento, che inevitabilmente tocca i cittadini e, va da sé, i turisti.

    Sos depurazione in Calabria: la regione “avvisa” i sindaci

    Alla dichiarazione è seguito il classico colpo d’avvertimento. In questo caso, una nota del 23 marzo, con cui, Salvatore Siviglia, il direttore generale del Dipartimento regionale territorio e tutela dell’ambiente, si rivolgeva ai sindaci. Ecco il testo: «Al fine di migliorare il grado conoscitivo degli impianti di depurazione presenti nella Regione Calabria con la presente si chiede ai signori sindaci in indirizzo di provvedere, con l’ausilio dei propri uffici tecnici, alla compilazione di un apposito form».
    Questa discovery non è proprio immotivata. Si pensi che nell’ultimo dossier di Arpacal del 2022 su 102 depuratori controllati 36 erano risultati irregolari, 25 non conformi per parametri chimici non regolari e 29 non conformi per presenza fuori quota di escherichia coli.
    Arpacal, si legge nell’annuario ambientale (che potrebbe e dovrebbe essere molto più chiaro e specifico), ha trovato nei depuratori incriminati tracce irregolari di sostanze chimiche, soprattutto derivate da concimi e fertilizzanti, e tensioattivi di origine organica.

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    Le infrazioni europee nel trattamento delle acque

    Depurazione in Calabria: tutte le strutture irregolari

    In provincia di Catanzaro sono risultati irregolari 5 depuratori, a Cosenza 11, a Crotone 6, a Reggio Calabria 6 e a Vibo 8. Totale: 36 depuratori non regolari per diversi motivi. La balneazione, al momento, è messa bene. Almeno sulla carta. Basterebbe confrontare i dati del 2022 con quelli dell’anno precedente. Da questo paragone si ricava che le acque di balneazione nel 2022 sono state ritenute “eccellenti” per l’88,47%; “buone” per il 6,81%, “sufficienti” per il 2,31%, mentre restano “scarse” il 2,41% delle acque esaminate.
    Il podio va alla costa catanzarese, che si estende per circa 102 km, con acque che Arpacal considera “eccellenti” al 100%. Ma lievi miglioramenti si sono registrati tra i dati del 2021 e quelli del 2022, sulle coste del vibonese (87,82%) e del cosentino (81,14). Sostanzialmente stabili invece le condizioni delle acque balneabili nel reggino (84,44%) e nel crotonese (99,09).

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    La mappa dei controlli dell’Arpacal

    Calabria maglia nera nella depurazione

    Ma in Calabria ancora troppe zone sono sotto procedura d’infrazione europea. Per rendersi conto, basta un’occhiata al sito del Commissario straordinario unico per la depurazione, dove risultano ancora 155 procedure aperte contro la Calabria, che fa a gare con la Sicilia per il numero maggiore di infrazioni.
    Inoltre, interi agglomerati urbani non sono collettati alla rete e scaricano a cielo aperto. Perciò, in alcuni tratti il mare resta ancora inquinato. Non finisce qui: mancano alla conta le zone interne.
    Saremo pure in leggero miglioramento, ma c’è ancora troppo da fare.
    Se ne sono accorti ai piani alti di Germaneto, visto che la Giunta regionale ha stanziato gli scorsi giorni 18,5 milioni di euro.
    «Tra depuratori da sostituire o ammodernare», si legge in una nota della Regione, «per accogliere anche le acque di scarico dei Comuni che ne sono privi, saranno oltre 500 gli interventi programmati, quasi tutti sulla fascia Tirrenica, la più danneggiata dalla mala depurazione, ma anche la più frequentata dai turisti grazie all’alta velocità, l’aeroporto e l’autostrada che la collegano al resto d’Europa». Questo con buona pace delle vecchie polemiche di Fausto Orsomarso.

    Il bastone e la carota: Occhiuto annuncia tolleranza zero

    Occhiuto e la depurazione: si accettano scommesse

    Roberto Occhiuto la settimana scorsa ha ripreso la “croce” della depurazione. E, al di là del consueto ottimismo, non ha nascosto i guai: «In Calabria abbiamo 539 depuratori, sono molti di più in rapporto agli abitanti equivalenti netti di altre regioni e poi abbiamo un sistema depurativo che non funziona. Evidentemente su, questo settore, per decenni in Calabria, non si è governato come era necessario».
    La domanda, a questo punto, è scontata: la nuova legge su Arpacal e gli interventi programmati da Occhiuto e soci basteranno a togliere alla Calabria la maglia nera sulla depurazione o se ne serviranno altri? Solo il tempo darà una risposta. Ora vediamo quel che accadrà nella stagione balneare tra poco alle porte.
    Per il resto, si accettano scommesse.

  • I villaggi della Riforma agraria in Sila

    I villaggi della Riforma agraria in Sila

    “I villaggi della riforma agraria in Sila”. È il titolo dello studio che sarà presentato mercoledì 24 maggio, alle ore 9,00,  nel Centro Sperimentale Dimostrativo ARSAC di Molarotta, a Camigliatello Silano, nel comune di Spezzano della Sila.

    Il lavoro, realizzato da un team di studiosi composto da Antonella Veltri, Sonia Vivona e Nelide Romeo dell’ISAFoM-CNR di Rende (CS), da Enzo Valente dell’IRPI-CNR di Rende (CS) e da Massimo Veltri, già professore ordinario Unical, offre una retrospettiva sugli interventi che hanno trasformato l’assetto sociale e ambientale dell’altopiano silano a partire dal dopoguerra, e sul ruolo svolto dall’Opera per la Valorizzazione della Sila, ponendo poi l’accento sull’opportunità di un rilancio agro-turistico delle strutture esistenti, anche alla luce delle normative e delle direttive europee tese a dare impulso a politiche economiche incentrate sul binomio ambiente/salute.

    Interventi multipli settoriali sul patrimonio della Riforma agraria in Sila all’interno di una strategia di sviluppo complessa ed articolata, avvalendosi anche delle risorse “offerte” dal PNRR. In questo senso, lo studio costituisce anche una sfida rivolta ai decisori politici. In una terra, la Calabria, piegata da una forte crisi demografica, con le sue aree interne soggette a spopolamento, che si allontana sempre più, dal punto di vista economico, dal resto del Paese.

    Il programma dell’incontro prevede gli interventi di Sonia Vivona, Antonella Veltri e Massimo Veltri, co-autrici e co-autore dello studio, di Franco Curcio, Presidente del Parco Nazionale della Sila, di Silvano Fares, Direttore del CNR-ISAFoM, di Gianluca Gallo, assessore all’agricoltura della Regione Calabria, di Bruno Maiolo, Direttore Generale ARSAC, di Paolo Palma, Presidente ICASIC, di Michele Santaniello, Presidente ODAF Cosenza e di Pietro Tarasi, Presidente del Consorzio patata della Sila IGP. I lavori saranno moderati dal giornalista Luigi Pandolfi.

  • Riciclare per vivere: il rifiuto diventa arte

    Riciclare per vivere: il rifiuto diventa arte

    Cosenza è la città dei Bruzi, dei sette colli, dell’imponente castello normanno, della stauroteca donata da Federico II di Svevia, dei natali del filosofo naturalista Bernardino Telesio. È un centro di interesse storico-culturale in una regione a vocazione turistica che nel suo corredo naturale vanta meravigliosi altopiani e coste marine a perdita d’occhio.

    Cosenza, però, è anche una città che ancora combatte contro i sacchi di immondizia abbandonati negli angoli delle strade. Un banale gesto di inciviltà che, nel quadro del più complesso tema della riduzione dei rifiuti, è tra le sfide che uniscono in battaglia un gruppo di attivisti provenienti da varie associazioni della città che, non a caso, è anche la capitale italiana 2023 del volontariato.

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    Rifiuti abbandonati nella parte vecchia della città di Cosenza (foto Francesco Bozzo)

    “Munnizza social club”

    Rifiuti è proprio il titolo di una recente mostra, voluta da un collettivo di associazioni e cooperative, denominato Munnizza social club, in collaborazione con GAIA (Galleria Arte Indipendente Autogestita), un suggestivo spazio dedicato all’arte, a pochi passi dal duomo romanico-bizantino, nel cuore della città vecchia. L’iniziativa presenta il lavoro di cinque artisti (Federico Scoponi Morresi, Antonio Spadafora, Nando Segreti, Francesco Bozzo e Rosanna Maiolino) interpreti, ognuno a suo modo, con fotografie, sculture e istallazioni, dei rifiuti, come parte residuale dello sfrenato consumismo da cui siamo costantemente corrotti”, ma anche come “negazione del margine e della periferia”. Il fotografo Francesco Bozzo, ad esempio, realizza un reportage dedicato ai cumuli di immondizia stipati negli angoli più disparati della città, forse dove un tempo c’erano i bidoni di conferimento del residuo urbano, ormai scomparsi con la raccolta differenziata.

    La differenziata dal basso

    Nonostante il nome informale e canzonatorio, Munnizza social club esordisce sul territorio bruzio presentando, nel giugno 2022, un documento dal titolo Proposte ed idee per il capitolato speciale d’appalto del bando per l’affidamento del servizio integrato di igiene urbana della città di Cosenza, rivolto all’amministrazione comunale e sottoscritto da numerose associazioni cittadine. Il documento contiene otto proposte concrete, dal piano di comunicazione alle modalità di conferimento nelle isole ecologiche, per migliorare il sistema di raccolta differenziata cittadino – specie nei quartieri periferici, lasciati, secondo i firmatari, in uno stato di abbandono – e per avviare attività di recupero e riuso dei materiali, in ottica circolare.

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    Un cartello non basta a fermare gli incivili (foto Francesco Bozzo)

    Il R-party entra nei quartieri

    Da allora, il club, anche se l’interlocuzione con l’amministrazione si è fermata alle parole, ha proseguito la sua azione sul territorio, con eventi dimostrativi e di sensibilizzazione sul tema della riduzione dei rifiuti e della cultura del riuso e della riparazione. Non a caso, la mostra Rifiuti, cornice di eventi a tema, come dibattiti e presentazioni di libri, ha chiuso in bellezza, il 7 maggio, con un R-party, che ha portato in piazza numerose realtà cittadine al motto di “ridurre riusare, riciclare”. Le associazioni radunate in piazza Piccola sono molte e varie. C’è chi si batte per la difesa dell’ambiente, ma anche per l’inclusione sociale, i diritti delle donne, la sicurezza alimentare, contro le discriminazioni e gli sprechi. Le attività vanno dai laboratori per bambini alla ciclofficina, senza tralasciare spazio per il cibo, la socialità e il divertimento.

     L’anima creativa dei bruzi

    La città ha una speciale vocazione alla creatività e alla contaminazione. Tra le originali iniziative dei R-Party trova spazio un mercatino Sbarattino, dove chiunque porta qualcosa che non usa più, ma che è ancora in buone condizioni, per essere barattato con qualcos’altro o venduto a prezzi popolari. Poi sono presenti le associazioni, tra queste, la Terra di Piero e Verde Binario. La Terra di Piero, impegnata tra le tante cose in attività umanitarie in Africa, propone la costruzione di un telaio artigianale per cucire una coperta gigante che andrà a coprire interamente piazza Bilotti, come atto dimostrativo contro l’infibulazione femminile. Verde Binario, realtà attiva già dal 2002, porta in piazza la pratica del “trashware”: in risposta all’obsolescenza programmata, vecchi computer vengono riparati e rimessi in funzione grazie all’utilizzo di software libero, salvandoli dal cassonetto.

    Conzalab: riparare vuol dire partecipare

    Tra le realtà che animano l’appuntamento R-Party, alla sua quarta edizione dal 2022, troviamo il ConzaLab, un laboratorio che promuove espressamente il valore della riparazione (conza vuol dire in cosentino “aggiusta”). ConzaLab è uno spazio, aperto al pubblico ogni sabato mattina dove, con la collaborazione di ex riparatori di professione e volontari, si può portare ad aggiustare di tutto, dal frullatore allo smartphone. Il laboratorio, alla stregue dei vari repair café in voga in molte città europee così come a New York, punta sulle potenzialità dello scambio di conoscenze e della partecipazione sociale, legate all’atto del riparare, in contrapposizione al solipsistico consumo usa e getta. Oltre al ConzaLab per riparare gli oggetti elettronici ed elettrici di uso comune e di piccole dimensioni, è presente anche il CuciLab per rattoppare e rammentare vestiti e tessuti ancora servibili.

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    Volontari di Plastic free impegnati a Cosenza (foto Francesco Bozzo)

    Plastic Free: i cittadini puliscono la città

    Ai party cosentini, spesso organizzati nei quartieri periferici, è abbinato anche un evento clean up di raccolta dei rifiuti organizzato dalla rete Plastic Free. Si tratta di un’associazione di volontariato nazionale, animata da responsabili locali, attiva dal 2019 con lo scopo di informare e sensibilizzare sulla pericolosità dell’inquinamento da plastica.

    I referenti cittadini riescono a  organizzare, tra i comuni di Cosenza e Rende, una decina di raccolte all’anno, oltre a realizzare giornate di sensibilizzazione nelle scuole con materiale messo a disposizione dall’associazione. L’ultimo evento cittadino si è svolto lo scorso 23 aprile lungo le rive del Crati nel centro storico della città, a pochi passi dalla confluenza dei due fiumi (Crati e Busento), dove la leggenda vuole sia seppellito Alarico e il suo tesoro. Al re dei Goti è dedicata in questo luogo anche una statua dell’artista Paolo Grassino. I volontari in questa occasione hanno rimosso dalla riva ben 55 sacchi di rifiuti e 10 pneumatici.

    Prossimi passi della rete dal basso

    La rete dal basso cosentina non vuole fermarsi, tuttavia, agli atti dimostrativi. Il dialogo con l’amministrazione comunale continua, specie sul tema del diritto alla riparazione e del riuso. L’ambizione è mettere insieme tutte le realtà attive sul territorio, incluse le istituzioni, per progettare un centro del riuso diffuso. A dimostrazione che si fa sul serio, a novembre del 2022 una delegazione del Munnizza Social Club è stata a Capannori (Lucca), per visitare il centro Daccapo, una dei primi esempi, in Italia, di organizzazione strutturata di un vero e proprio villaggio del riuso. La collaborazione per soluzioni innovative tra amministrazione comunale, società civile e gestore dei servizi di raccolta ha fatto di Capannori il primo comune “rifiuti zero” in Italia.

    Dai cumuli di immondizia ai “rifiuti zero” la strada è lunga, ma creatività, partecipazione e lotta, a Cosenza, non mancano.

    Nicoletta Fascetti Leon

  • STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    C’eravamo fermati a Torano Scalo e al cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti”, ora riprendiamo la vecchia strada regia per andare un po’ più a nord. L’inevitabile sosta al passaggio a livello di Mongrassano Scalo mi fa guardare le colline a destra e pensare a due cose: proprio lì, a Santa Sofia d’Epiro e dintorni – giusto sulla sponda opposta di quel Crati che d’inverno inondava le baracche dei deportati di Ferramonti – le SS appartenenti alla divisione Ahnenerbe (la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” fondata da Heinrich Himmler) si sarebbero cimentate in imperscrutabili scavi archeologici presso le sepolture dei nobili italo-albanesi Masci e Baffa-Trasci, proprietari dei vicini fondi Cavallo d’Oro, Grifone, Cozzo Rotondo e Suverano, legati alla leggenda della sepoltura del re Alarico, e dunque appetibili, agli occhi di certi retaggi, in termini di speculazione storico-antropologica.

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    Una lapide ebraica nel cimitero di Tarsia

    Meno dedizione, al contrario, è stata applicata negli ultimi decenni al cimitero di Tarsia. Restano pochissime lapidi – e in pessima condizione – di qualche deportato deceduto durante la prigionia a Ferramonti. Pare che qualcuna sia stata addirittura rimossa per far spazio a nuove cappelle private.
    Fa molta più scena, paradossalmente, quel cimelio automobilistico piazzato a pochi metri dall’ingresso del cimitero, allo svincolo che da una parte porta al paese e dall’altra alla diga: un’auto storica un po’ particolare, in quanto si tratta di un carro funebre. Esattamente: un vecchio carro funebre Fiat 2300 dei primissimi anni ’60 che fa mostra di sé in mezzo a un campo, stesso modello di quello ritrovato tempo fa nelle campagne laziali, altrettanto abbandonato e con tanto di bara (vuota) al suo interno.

    Roggiano, Malvito, notai e ricette

    La seconda cosa che mi sovviene sempre al passaggio a livello, lì a metà strada in linea d’aria fra Bisignano e Malvito, sono quelle due scivolate dello storico manuale di paleografia dei gesuiti De Lasala e Rabikauskas, dove bisunianensis diventava bisumanensis e Malveti diventava Malveci. Bazzecole? Mica tanto.
    Ho già parlato della strada che attraverso Contrada Cimino si spinge da Tarsia verso Roggiano e quindi non mi ripeterò. Qui però mi viene in mente un’altra stranezza: una curiosa ricetta contro la sterilità, ritrovata tra le carte di un certo notaio roggianese del Cinquecento, che recitava così: «Rimedio per fare che una donna sterile faccia figli. Piglia polipi picciolini, o siano polpi, sorte di pesce di mare, e falli arrostire senz’olio, e mangiali, che gioveranno; usando poi coll’uomo…».

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    Malvito. La vecchia chiesa di S. Michele Arcangelo agli inizi del Novecento (archivio L.I. Fragale)

    Chissà se a questo notaio si ricorreva pure per fatture. Chissà se la donna sterile era sua moglie. Oppure – vista la posizione della minuta a imperitura memoria – chissà che l’impotentia generandi non fosse proprio sua, e che il notaio tenesse a non farla passare per tale. Del resto, a proposito di impotenza, cento anni dopo un suo collega campano annotava tra i propri atti chella pecché lo meglio havea perduto / corze a scapezzacuollo a far lo vuto.
    Non sembri strano: i notai antichi si divertivano un sacco a imbrattare i registri (si possono trovare caricature cetraresi, disegni silani di uomini eleganti che brandiscono spade, scarabocchi, poesiole, proverbi).

    Un mondo scomparso

    E per strada la sensazione è sempre la stessa: che di tutto ciò non sia rimasto nulla. Perso, appunto, per strada. E forse era giusto così. Non è rimasto nulla di quella cultura contadina, che non era minimamente una cultura inferiore o un mero sapere “basso”. Né è rimasto alcunché – o è rimasto pochissimo – di certa aristocrazia, di certi cognomi, di certa economia, di tutta una società. Forse qualcosa è rimasto (il peggio) in certa mentalità.

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    La Riserva Naturale del Lago di Tarsia

    Nulla è rimasto persino dell’aspetto delle campagne, dei paesi e delle marine, mentre ci si bea che tutto sia stato sempre più o meno così e magari soltanto un po’ più poeticamente ricoperto da una patina di passato. No, anche il mero panorama era assai diverso: anche una campagna di due secoli fa era irriconoscibile rispetto a come la si vede oggi. Un mondo, fatto sta, è stato spazzato via. O s’è spazzato via da solo, a poco a poco, in virtù del fatale maggiorasco e di camaleontismi non sempre vantaggiosi.

    Boschi a perdita d’occhio

    Ma torniamo con le ruote per terra. Roggiano guarda le montagne: di qua la strada per Fagnano e Guardia, di là per Sant’Agata d’Esaro, dall’altra parte per San Sosti. Boschi, boschi, boschi. Una quantità di rami, di foglie, di tronchi a perdita d’occhio. Almeno fin quando non ci si mettono gli incendi: e penso alla leggenda urbana immortalata nel romanzo (e nel film) La versione di Barney, in cui un giovane scompare dopo aver fatto il bagno in un lago e il suo corpo viene riscoperto anni dopo, in costume, in mezzo a un bosco. Mentre faceva il bagno, infatti, un incendio cominciò a lambire la zona e i Canadair andarono a rifornirsi d’acqua proprio nel lago. D’acqua, e non solo…

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    Fagnano, primi del Novecento: lavorazione delle castagne (archivio U. Zanotti Bianco)

    E allora mi chiedo se i Canadair siano forniti di un sistema per non rovesciare sulle montagne incendiate i pesci – almeno quelli – imbarcati a mare e destinati alla grigliata dolosa. Tra migliaia di anni li scambieranno per fossili autentici? E i rifiuti galleggianti? Un po’ come scriveva André Leroi-Gourhan parlando delle religioni della preistoria, se tra diecimila anni resterà qualcosa (dubito) di una Barbie… penseranno al culto della bionda. E i dvd… piccoli mandala forati, recanti iscrizioni, spesso decorati… con un foro per essere appesi come ex-voto…

    San Sosti al British Museum

    Per fortuna, da queste parti, di ex voto ne abbiamo di ben più notevoli: l’ascia di San Sosti, ad esempio. Risale al 550 a.C., l’hanno ritrovata nel 1846 dalle parti di ciò che resta dell’antico abitato di Artemisia. Ora fa bella mostra di sé nientemeno al British Museum di Londra. Così, a memoria, mi pare che l’iscrizione sull’ascia recitasse «il vittimario Cinisco mi dedicò, come decima dei prodotti, al santuario di Hera che sta nel piano»: Hera, quindi: molto prima di rifarsi il maquillage come santuario della Madonna del Pettoruto. Votate alla fertilità, guardacaso, tutte e due le figure sacre.

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    L’ascia votiva di San Sosti

    Ma dicevamo dei boschi e degli incendi. Spettacolarizzati ormai anche quelli, specie se estivi, con bagnanti intenti a fotografarli, come i turisti che fotografavano l’attacco alle torri gemelle o gli abitanti di Chernobyl nelle prime scene della serie omonima.
    Poche ma meravigliose le strade attraverso queste selve: quella che lambisce il mini sistema lacustre dei Due Uomini (comune di Fagnano) e che è praticamente una strada gemella della più vecchia strada Fagnano-Cetraro. Solo che, camminando su un crinale ripidissimo, non finisce a Cetraro ma addirittura a Cavinia, passando per Torrevecchia di Bonifati, oppure a Cittadella del Capo attraversando le frazioni di San Candido, Pero, o la mulattiera di Cirimarco.

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    Guardia Piemontese: pomodori in siesta sotto l’antica torre di guardia (foto L.I. Fragale)

    Sant’Agata d’Esaro, premio alla serenità

    La stessa strada da Fagnano a Guardia, in cima ai monti, offre un bivio non meno splendido e inquietante al tempo stesso: quello che passando attraverso il Lago La Penna conduce a Sant’Agata d’Esaro, paese al quale offrirei un ipotetico premio alla serenità. In qualsiasi periodo dell’anno, a qualsiasi ora, la piazzetta in mezzo alla statale che lo taglia è piena di persone, di tutte le età, dalle carrozzine alle carrozzelle, tutte intente a chiacchierare placidamente o a passeggiare, d’estate, in fuga dai lidi torridi. Bravi.

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    Sant’Agata d’Esaro, il casino delle miniere

    Sant’Agata d’Esaro, con l’accento sulla e, anche se sulla cartografia storica sette-ottocentesca una delle montagne alle sue spalle, ricche di antiche grotte e miniere, è proprio indicata come Monte Isàuro. Toponimo che non ho mai più ritrovato. Monte Isauro… Qui siamo già però in terra di Pollino, siamo già in terra di pini loricati, i tormentati padroni di queste vette, con i loro tronchi contorti e straziati che farebbero la gioia di un Masahiko Kimura o di qualche altro maestro bonsaista dei più virtuosi. E non a caso, infatti, su una loro rivista specializzata trovai anni fa proprio un articolo sui loricati del Pollino: e il cerchio si chiudeva perfettamente. Estetiche di nicchia, fuori rotta.