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  • STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    STRADE PERDUTE | Le vie misteriose che portano a Castroregio

    Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.

    Piano a: Castroregio via Albidona

    La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
    Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato.
    Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.

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    Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)

    Piano b: Castroregio via Oriolo

    La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
    In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
    Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
    Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
    Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.

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    I ruderi della masseria Maristella ad Albidona

    I portali di Castroregio

    In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
    Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
    Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.

    Preti e magia a Castroregio e non solo

    Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
    Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
    E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.

    I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)

    Due parole sull’Arbëria

    Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
    Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
    Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.

    Quanti sono gli arbëreshe?

    È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
    Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.

    L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca

    Ritorno alla base

    Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
    L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
    Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
    Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Ripartire da Bova per salvare la cultura greca

    GENTE IN ASPROMONTE | Ripartire da Bova per salvare la cultura greca

    Bromu. Parpatulu: Pari ca veni d’a paddecaria. Zotico [Villano. Vagabondo. Sembra tu venga dalla terra dei greci. Zotico] : è la condizione in cui i grecanici hanno vissuto il progressivo sfilacciamento – e il vilipendio – della loro cultura.
    Bova, Vua, ne è la capitale, prima per tradizione, ora per vocazione. Raccontarla oggi non è semplice. Oltre al rispetto verso la sua storia, Bova è l’emblema del pieno e del vuoto, dei suoi conflitti. Dei suoi accatastamenti culturali. È simbolo dell’orgoglio delle minoranze, della lotta per la sopravvivenza contro il degrado, della fierezza del riconoscersi.
    A Bova ho viaggiato molto e ogni volta ho incontrato attori diversi: amministratori, attivisti, professionisti, operatori della cultura, commercianti e turisti.
    Ognuno mi ha fornito un punto di vista diverso per comprendere. Il mio intento era raccogliere storie di restati e ritornati per capire se esistesse davvero il “modello Bova” e se potesse essere utilizzato per ispirare strategie di sviluppo delle aree interne. Poi ho avuto il contatto di Alessandra e alle categorie dei restati e dei ritornati si è aggiunta quella degli arrivati.

    Alessandra Ghibaudi: da Genova a Bova

    «Vivo a Bova dal 2004, sono esperta di sviluppo locale e sono consulente del Gal (Gruppo di azione locale) Area Grecanica. Non sono un’oriunda. Sono nata a Genova e fino ad allora avevo vissuto a Como. Sono capitata qui per caso, dopo un master in sviluppo locale all’Università di Milano che offriva la possibilità di farvi uno stage. Poi ho deciso di rimanere. Adesso mi considero calabrese. Mio marito è un greco di Calabria».
    Nella sua casa, che è anche un b&b affacciato sui costoni dell’Aspromonte, Alessandra usa la prima persona plurale. Noi. E nelle sue parole si riflette lo sguardo di chi ha saputo guardare questo territorio isolato con gli occhi delle opportunità.

    La storia di un arrivo 

    «La dimensione a misura d’uomo, il patrimonio naturalistico e culturale, il fermento di rinnovamento che percepivo nei ragazzi del luogo mi hanno affascinata. Mio marito era uno di questi. Guida ufficiale del Parco Aspromonte, aveva realizzato la cooperativa San Leo che si occupa di ricettività, enogastronomia e trekking in montagna. Con lo stage mi è stato chiaro che Bova aveva una strategia di sviluppo. Ho capito che sarebbe diventata la mia nuova casa. Per chi sapeva oltrepassare le narrazioni discriminatorie e stereotipate che l’hanno caratterizzata, la Calabria, e quest’area in particolare, era una terra piena di opportunità inesplorate».
    Una narrazione poco mutata e ancora replicata che passa dai sequestri, alle maxi-inchieste, alle serie tv, al sottosviluppo.
    «Tutti i miei – continua Alessandra – biasimavano la mia scelta. Me ne sono fregata forte delle mie competenze sulla progettazione con i fondi pubblici. Sono stata fortunata, perché, a distanza di tempo, ho potuto constatare che la Calabria non è meritocratica e forse anche questa è una concausa dei suoi ritardi. Ma i valori di prossimità, la sussidiarietà tra le persone, il senso di comunità mi hanno rapita».

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    La Rocca di Bova

    Ospitalità internazionale made in Bova

    Una porta si apre. Entra un ospite straniero. Alessandra si alza e fornisce qualche indicazione sulla ristorazione in inglese.
    «Nonostante e proprio perché mi occupassi di sviluppo locale, con mio marito, abbiamo aperto un b&b. Questo ci permette di avere scambi interessanti con i tanti che scelgono Bova come meta di turismo, attratti dalla sua storia, la sua lingua, la possibilità di sperimentare itinerari di nicchia, quasi esotici, combinati con esperienze naturalistiche vissute in Aspromonte. È un elemento importantissimo per il nostro lavoro: ci aiuta a comprendere ciò che realmente un turista esperienziale cerca. Questo mi dà molti spunti per pianificare progetti a vantaggio di tutta la comunità. Mi fa mantenere lo sguardo sempre vigile e aggiornato sui bisogni e sulle opportunità».

    L’impegno nel Gal

    Alessandra è una progettista: traduce idee in processi, azioni, opere, servizi finanziabili.
    «Il mio è un lavoro che incide. Si opera in team per e con la comunità: Comuni, associazioni, enti del terzo settore, imprese. Gal Area Grecanica è una società consortile pubblico-privata che lavora come un’agenzia di sviluppo. Conta nella sua governance i Comuni dell’area, diverse aziende, associazioni del versante agricolo e culturale. Partecipiamo ai bandi regionali con approccio Leader. Questi assi riguardano lo sviluppo locale rurale: in particolare, la misura 19 dell’ultima programmazione regionale. Sono bandi tarati su piccoli territori, simili alle linee di intervento del Programma di sviluppo rurale. È essenziale sapere come muoversi. Il che significa non disperdere le energie applicandosi a tutte le call, ma individuare quelle che collimano con la strategia di sviluppo dei territori interessati. E Bova ha questa strategia».

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    Una targa in lingua grecanica

    Bova tra ieri e oggi

    Nonostante i suoi limiti, oggi Bova rappresenta un modello di proto-sviluppo.
    Ha solo 500 abitanti e i servizi essenziali a rischio chiusura. Non ha un presidio medico ma ha un endemico deficit del mercato del lavoro. Tuttavia, la piccola comunità grecanica è inserita nella rete dei borghi più belli d’Italia. Quindi è quella a cui “dovremmo guardare per capire come fare”.
    Mi hanno ripetuto questo refrain in quasi tutte le realtà con cui sono venuto a contatto.
    Arroccata a oltre 900 metri sul mare, la capitale dell’antica Bovesìa è il centro nevralgico della cultura della Calabria greca e un esempio cui molti operatori e amministratori dell’area grecanica guardano.
    Tra Bagaladi, Bruzzano Zeffirio, Cardeto, Ferruzzano, Montebello Ionico, Palizzi, Roccaforte del Greco, Roghudi, San Lorenzo e Staiti, Bova spicca. Fucina di contaminazioni in cui si incrociano Oriente e Occidente, cattolicesimo ed ebraismo, negli anni ha dimostrato come un paese sperduto dell’Aspromonte, con tortuose vie di accesso, abbia lavorato sul proprio rilancio.
    Oggi a Bova si fa turismo: è nata una rete di ospitalità diffusa. Inoltre, esistono due musei – quello della lingua greca dedicato a Gherard Rohlfs e quello della Paleontologia e delle Scienze naturali dell’Aspromonte -, una biblioteca, una giudecca e progetti per la rivitalizzazione del grecanico, di cui mi occuperò a parte.

    Bova e non solo: Naturaliter in prima linea 

    In questo processo è stata determinante Naturaliter, cooperativa con sede a Bova dedicata al turismo escursionistico, all’ospitalità e all’offerta di pacchetti cuciti su misura.
    La sua formula è inedita: il coinvolgimento attivo della comunità nelle dinamiche di accoglienza.
    In particolare vuole favorire e implementare la cooperazione tra le comunità locali nelle aree scarsamente popolate del Mediterraneo, sulla base di uno sviluppo eco-compatibile e di occasioni di interattività socio-culturale con i viaggiatori della natura.

    Andrea Laurenzano

    Il sentiero dell’Inglese

    Spiega Andrea Laurenzano, uno dei fondatori: «Il lancio del Sentiero dell’Inglese ha dato una grande spinta. Per noi è essenziale puntare sul coinvolgimento di chi abita i territori. Questo coinvolgimento consente un’esperienza immersiva a 360 gradi e dà impulso alle economie locali. In secondo luogo contribuisce a promuovere i territori ospitanti per chi arriva, dall’altra fa capire agli autoctoni il valore delle terre che abitano, invogliandoli a investire e a crederci. Perché se arrivano turisti dalla Svizzera, dalla Baviera o dal Nord Europa significa che qualcosa di bello ci deve essere. Qualcosa che a volte noi stessi non siamo più capaci di – o non siamo stati abituati a – vedere. Perciò, ad esempio, per i servizi logistici, preferiamo sopportare costi superiori, ad esempio per il noleggio di transfer, piuttosto che fornirci da una singola ditta. Ad oggi siamo una delle poche agenzie di viaggi a piedi con sede all’interno del Parco Aspromonte».

    Il ruolo muto dell’Aspromonte

    Che il Parco rappresenti un’opportunità è noto. Secondo i dati raccolti da Naturaliter nel 2013 (gli unici oggi disponibili) il nuovo turista è un viaggiatore adulto, esigente in termini di standard di qualità, con interessi legati a percorsi culturali, religiosi gastronomici e sensibile all’ecosostenibilità.
    Tra il 2013 e il 2014 le presenze turistiche sono balzate dalle 4 alle 5 mila presenze, così ripartite: 60% italiani, 20% francesi, 15% svizzeri e 5% americani, inglesi e tedeschi.
    Questi numeri, come conferma Andrea senza stime ufficiali, continuano a crescere. L’Aspromonte è il centro di questo movimento.
    «Bova è già all’interno del Parco ed è lo snodo di antichi sentieri che collegano tutti i paesi grecanici. Nel bene e nel male l’Aspromonte – dice Alessandra – è la storia di questo luogo. Una storia che ha permesso di vivere a queste comunità e nel frattempo le ha mortificate. Quando comunicavo a mia suocera che saremmo andati a fare un giro ai campi di Bova, per prima cosa si chiedeva quale disgrazia fosse successa. Credo che la nascita del Parco abbia lanciato un nuovo messaggio: pensiamo e agiamo questa montagna in modo diverso. Ho imparato, attraversandola, che non è un luogo scontato, con tappe obbligate, ma un posto in cui, quando raggiungi una meta, hai l’impressione di essere l’unico e il solo. E questo è il segreto del suo grande fascino. Tutti elementi che le nuove generazioni hanno compreso molto bene».

    Santo Casile alla Festa delle Pupazze

    Quale strada per Bova: il parere di Santo Casile

    Che Bova abbia saputo indicare un percorso è assodato. Filippo Paino, neo-sindaco di Condofuri e Presidente del Gal, indica un dato: «il reddito di Bova cresce».
    Su Bova fa il punto Santo Casile, primo cittadino e greco-parlante: «Ho in mente una strategia legata al turismo.
    Siamo già parte della rete dei Borghi più belli d’Italia e questo ci ha dato una grossa mano. Abbiamo una buona rete di ospitalità, il turismo escursionistico funziona bene e il bagaglio della cultura grecanica e della sua promozione fa il resto.
    Bova è inoltre beneficiaria di un finanziamento di 1.500.000 di euro sul Por 2013-2020 per il progetto Borgo della Filoxenia che stiamo finendo di implementare. Abbiamo movimentato investimenti pubblici per circa 5 milioni di euro. La metà dei lavori è stata già consegnata.
    Di questi 1 milione e 250 mila sono serviti a irregimentare le risorse idriche rurali. 2 milioni e 700 mila per interventi contro il rischio idrogeologico. Ma i problemi sono tanti e riguardano diversi aspetti. Con l’inverno demografico che stiamo vivendo, Bova sparirà in dieci anni. Come sta succedendo a Staiti, dove ha chiuso anche il museo delle icone bizantine. O a Roccaforte del Greco».

    Servizi a rischio e poco lavoro

    Dei 500 abitanti del paese, 140 sono ultraottantenni. Manca completamente un presidio medico stabile, i servizi, (le poste, ad esempio) sono a rischio chiusura perché il numero di abitanti rischia di andare sotto soglia.
    Il lavoro, organizzato in unità produttive e filiere scarseggia ed è una delle cause di una continua emorragia demografica che le statistiche hanno fotografato senza pietà: in Calabria in 10 anni la popolazione si è ridotta del 5,3% .
    Nel frattempo nell’ultimo decennio, secondo i dati della Snai (Strategia nazionale per le aree interne)-Area Grecanica, la Calabria ha perso il 21% di aziende agricole e i comuni grecanici sono arrivati a meno 25,12%.

    Un dettaglio del borgo di Bova

    Casile sottolinea che «L’unico investimento produttivo partito riguarda la filiera del suino nero di Calabria: 3 milioni e mezzo per installare un allevamento che, nelle migliori prospettive, creerà appena 20 posti di lavoro. Nel frattempo l’agricoltura resta al palo a causa della mancanza di acqua. E la persistenza di allevamenti è spesso solo dovuta al contributo statale dato agli allevatori: 1.200 euro per capo all’anno. I nostri cittadini reclamano una maggiore attenzione ai loro diritti costituzionali, come quello alla salute che è poco garantito. Con la Snai verrà realizzata una Casa della Salute in uno dei tre vecchi capannoni di un ex corpo di fabbrica del territorio. La paura maggiore riguarda gli anziani: in caso di emergenza, rischiano di morire perché non esiste un presidio medico vicino».
    Non dimentico nemmeno le parole di Pasquale Faenza che mi aveva ammonito su ristrutturazioni selvagge del patrimonio architettonico o sulla promozione di un greco più pubblicizzato che vivo. Questa denuncia non è nuova: l’aveva fatta anni addietro Paolo Martino nel suo articolo “L’affaire Bovesía: un singolare irredentismo”.

    Snai Area Grecanica: una goccia nel mare

    Bova e l’intera area grecanica rappresentano un pezzo importante della Snai.
    Sono una delle aree pilota in cui il governo investe con fondi regionali, nazionali e comunitari. A questi si aggiunge il Pnrr.
    Filippo Paino chiarisce: «La Snai locale, a rilento nell’attuazione, punta a rafforzare i servizi essenziali che negli anni sono scomparsi. La domanda di fondo è: riusciamo a rallentare e invertire la desertificazione? Nella nostra idea questi fondi devono creare le condizioni per cui sia di nuovo appetibile abitare queste aree.
    L’obiettivo a lungo termine è riportare residenti. Cerchiamo di farlo investendo nel potenziamento dei servizi sanitari e scolastici e, parallelamente, finanziando infrastrutture di collegamento tra i territori.
    Un esempio per tutti è il progetto di Smart School a Bagaladi: una struttura che rafforza l’offerta scolastica per l’intero comprensorio in termini di prestazione, qualità e prossimità. E con la quale coprire il fabbisogno di istruzione della zona del Tuccio. Bagaladi dovrebbe ospitare studenti di Roccaforte, Chorìo e Fossato. Perciò abbiamo previsto un finanziamento che realizzi una strada tra quel paese e Fossato con una coerenza negli investimenti.
    A prescindere dal criterio di economicità. Bova oggi, con la nuova strada, è meglio collegata alla marina. Arrivarci e spostarsi è più agevole e veloce. Però bisogna anche avere l’ardire di restare e di dare il buon esempio».

    Carmen Barbalace

    Le condizioni per restare

    Per restare, tuttavia, serve il lavoro. Che manca.
    Nonostante Paino mi abbia annunciato che il Gal ha promosso 2 cooperative di comunità e che altre 5 siano pronte a essere finanziate, Casile dice di non vedere al momento altra strada percorribile se non il turismo. Che comunque non può arrivare a creare massa critica per lo sviluppo strutturale di un territorio.
    La vera strategia sarebbe diversificare, puntando su settori complementari.
    Carmen Barbalace, dirigente della Regione Calabria per il settore Borghi, è molto chiara: «Dobbiamo fare in modo che i fondi già spesi o in procinto di esserlo per gli interventi programmati rappresentino davvero un investimento senza diventare una mera spesa che poi resterebbe un vuoto a perdere. Abbiamo necessità di definire in modo chiaro cosa è un borgo, che è quello che è mancato nella vecchia programmazione. Dobbiamo perseguire la formazione e la transizione digitale».
    Ma per operare nell’economia digitale servono le infrastrutture: copertura capillare della rete e banda larga. In Calabria il progetto Bul punta a dotare la Regione della banda larga. Ma, i dati di Infratel sull’avanzamento al 31 agosto 2023, raccontano un forte ritardo per l’area.
    Tra i comuni collaudati per l’area grecanica c’è solo Condofuri.

    Veduta di Gallicianò

    Ripartire dagli stranieri per riportare gli altri

    Attendere la realizzazione e l’impatto degli investimenti programmati potrebbe voler dire arrivare troppo tardi. I tanti braccianti o invisibili immigrati che vivono nelle aree interne potrebbero rappresentare un tassello importante.
    Senza buonismi o pauperismi. Con il pragmatismo che serve a elaborare un piano di inclusione reale: ad esempio partendo dal loro coinvolgimento, insieme ai pochi giovani rimasti, nei progetti di aging attivo già sperimentati con successo dalla Regione. O dalla promozione di cooperazione mista tra italiani e stranieri per creare posti di lavoro. Nei piccoli paesi, colmi di terre abbandonate o a rischio abbandono, nei piccoli centri dove è più facile instaurare solide relazioni sociali all’insegna dell’apprendimento e del riconoscimento reciproco, forse questa potrebbe essere una via per fermare il trend. In attesa che investimenti, opere, servizi ed effetti delle attuali strategie portino il resto dei loro frutti.

  • Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino fino alla grotta della Morca, nella Turchia meridionale, per salvare l’americano che era lì era rimasto ferito ed intrappolato a mille metri di profondità.
    Francesco Ferraro è un giovane calabrese in forza al Corpo nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico della Puglia. È un “tecnico specialista in recupero”, vale a dire la qualifica formazione più alta che un soccorritore in grotta possa vantare. Ed è per questo che quando è avvenuto l’incidente a Mark Dickey, impegnato nella esplorazione della Morca, Ferraro è stato tra i membri del CNSAS allertato per intervenire in quanto membro dell’Ecra (European cave rescue association).

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    Il salvataggio dell’americano in Turchia (foto del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico)

    Così, nell’arco di poche ore, un aereo dell’Aeronautica ha trasportato una quarantina di tecnici italiani in Turchia e poi l’esercito turco li ha condotti all’ingresso della grotta dove da giorni altre squadre di soccorso internazionali erano già all’opera. Il salvataggio dell’americano è stato un successo grazie alla collaborazione tra i diversi gruppi e malgrado le grandissime difficoltà.

    Francesco Ferraro, o in grotta o sui tralicci

    Oggi Ferraro è tornato in Calabria e alla sua professione. Lui che per passione scende a mille metri nel ventre della terra, per lavoro si arrampica sui tralicci dell’alta tensione, ad oltre trenta metri. Insomma, una vita passata indossando casco, imbrago e moschettoni di sicurezza. Ma quando non si prende cura di cavi da centinaia di migliaia di Volt, allora non resiste e parte per qualche grotta.
    La sua passione inizia a Verzino, piccolo paese della provincia di Crotone e precisamente attorno al mistero che su di lui esercitavano gli ingressi bui della grotta della “Grave” (Grave grubbo) e dello Stige. Nel 2011 inizia a praticare la speleologia, seguendo persone con maggiore esperienza e imparando come una spugna. Rapidamente acquisisce tecniche e competenze, ma soprattutto il suo motore è la curiosità: «Si deve uscire dal proprio recinto, confrontarsi con realtà diverse, solo così si migliora nella speleologia», dice sicuro.

    Dal Marguareis all’Iran

    E infatti presto la Calabria con le sue grotte gli stanno strette. Cerca esperienze nuove. Va nel tempio della speleologia italiana, il Marguareis, visita il gigantesco complesso carsico che si dipana in chilometri di grotte. Impara di più, impara meglio, si affianca ai nomi più autorevoli della speleo italiana. Poi lo sguardo curioso si sposta più in là, di parecchio. Francesco Ferraro nel 2018 parte per l’Iran, partecipa a una spedizione internazionale composta da 10 italiani e 16 polacchi, oltre che un certo numero di speleo iraniani.
    «La zona dove si svolgeva la spedizione era molto inospitale. Ci aspettavano 10 ore di cammino, 1.600 metri di dislivello, fino alla cima posta tra i 2.800 metri e i tremila con una infinità di inghiottitoi e ingressi».

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    Ferraro nelle grotte del Marguareis

    L’associazione che ha messo assieme i componenti della spedizione è La Venta probabilmente tra le più importanti realtà di esplorazioni geografiche. Francesco Ferraro ha fatto il salto definitivo. Torna in Iran per completare l’esplorazione l’anno successivo, intanto ha trasferito la sua passione nel Soccorso. Acquisisce nuove competenze, «perché essere bravi in grotta non basta, si deve imparare a portare soccorso, mettere in sicurezza il ferito, trovare la via più sicura per portarlo fuori, avere cura dei compagni di squadra».
    È un percorso di responsabilità, di conquista di maturità, di consapevolezza e senso di solidarietà. Perché altrimenti non ti svegli all’alba la domenica, magari d’inverno, per partecipare a una esercitazione.

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    La spedizione in Iran

    Francesco Ferraro e Il Buco di Frammartino

    Il valore di Francesco Ferraro viene successivamente riconosciuto anche da Michelangelo Frammartino, regista del film Il Buco, sulla scoperta ed esplorazione dell’abisso del Bifurto. In quella occasione Francesco assieme ad altri esperti speleo calabresi, come Nino Larocca, fornisce assistenza alle riprese, trasportando nei pozzi le attrezzature e garantendo la sicurezza degli attori. Pur se calabrese entra a far parte del Soccorso Alpino e Speleologico Puglia e lì, dopo un lungo periodo di formazione diventa, Specialista nelle tecniche di recupero. Un traguardo che premia la costanza e la passione, ma pure una acquisita maturità sui compiti di un soccorritore.

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    Francesco in una grotta

    Le grandi esplorazioni non lo hanno separato da Verzino, dove con un gruppo di amici cerca di promuovere la pratica della speleologia, di tenere in vita il fascino della scoperta tra i ragazzi del paese.
    «Per me descrivere la speleologia è difficile – spiega sorridendo Francesco Ferraro – per tanti uno è sport, per altri un laboratorio scientifico, per altri ancora una frontiera da esplorare in un mondo che visualizza la realtà tramite il display di un telefonino. Credo sia la somma di tutto questo e certamente è stato il modo per conoscere tante persone, costruire amicizie solide, relazioni umane sulle quali puoi contare. Che poi è il senso profondo del Soccorso Alpino e Speleologico, perché l’evento in Turchia mi ha fatto riflettere su una cosa, che in parte già sapevo, ma il cui senso è diventato più forte: Non importa chi tu sia, se sei uno speleo e sei in difficoltà, altri speleo faranno di tutto per aiutarti».
    È l’etica dei soccorritori, se sei in difficoltà in un ambiente remoto e impervio, ci saranno sempre tecnici preparati che faranno di tutto per salvarti.

  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

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    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

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    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

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    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.

  • Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    «Il Parco per me è un ritorno». Pino Putortì, dallo scorso settembre nuovo direttore dell’Ente Parco Aspromonte, descrive così il reincarico alla guida amministrativa dell’Ente.
    Già direttore sotto la presidenza di Tonino Perna, un passato alla direzione generale dell’Asp di Palmi prima dell’accorpamento con Reggio, Putortì parla con franchezza della situazione del Parco.

    Dalla stampa e da varie testimonianze, si ricava l’impressione che il Parco sia in perenne polemica con operatori ed esperti del settore. La dura nota dello scorso 28 luglio non lascia dubbi.

    «Credo che l’attuale Ente Parco non sia amato».

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    Pino Putortì, il direttore dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Parliamo degli incendi?

    «Quest’anno, non appena è scoppiato quello in zona Polsi, ci sono stati interventi immediati: cinque canadair hanno impedito che l’incendio diventasse “di chioma”.
    Il Parco può lavorare sul Piano antincendi, cosa che già fa. Non ha però competenze di intervento né risorse dedicate. Soprattutto, non possiede il patrimonio che custodisce.
    La sua funzione è fare da pungolo. E può operare in vari modi. Ad esempio, con incentivi ai privati e risorse ai Comuni per la pulizia dei boschi.
    Torniamo ai roghi. I dati a disposizione consentono di individuare un andamento ciclico del fuoco. Al riguardo, si può attuare una serie di azioni che rafforzino il monitoraggio e la prevenzione.
    Una delle criticità del 2021 ha riguardato i Dos (direttori operativi dello spegnimento). Mi era stato riferito che era personale formato da poco e con poca esperienza. Ma non posso averne certezza».

    L’intervento per limitare i disastri è solo l’ultimo anello di una catena che si è comunque rivelata debole. Ma la prevenzione è tutt’altro e dovrebbe essere la priorità…

    «Bisogna ricordare che ogni incendio è una storia a sé e dipende da variabili diverse. In ogni caso, Calabria Verde quest’anno ha fatto il proprio lavoro».

    Un canadair in azione durante i roghi dell’estate 2021

    Prima no?

    «Io lavoravo in Prefettura. Leo Autelitano, attuale presidente del Parco in carica dal 2018, chiese il nostro intervento. Assieme ai vigili del fuoco, abbiamo preso la situazione in mano. Purtroppo, devo ricordare un problema non proprio leggero. Stando a quanto riferitomi da terzi, Calabria Verde forniva coordinate errate per cui i mezzi antincendio scaricavano acqua dove non era necessario».

    Sempre nella nota di luglio l’Ente Parco ha illustrato una serie di attività.

    «Siamo partiti con il progetto Pastori custodi, esperienziali ed enogastronomici, volto a valorizzare l’antica cultura della transumanza e sensibilizzare il territorio al rispetto ed alla difesa della natura e della montagna».

    [Nda: Questa linea risulta già percorsa in passato, nelle gestioni di Tonino Perna e di Giuseppe Bombino, con il progetto pilota Pastori custodi. Quest’iniziativa puntava sulla prevenzione. Infatti, nel 2017, mentre Sila e Pollino bruciavano, in Aspromonte non ci furono disastri. Alla presentazione di quel progetto partecipò anche il prefetto. Nel 2018, con l’avvicendamento alla presidenza tra Bombino e Leo Autelitano, quella sperimentazione, che sarebbe dovuta finire nel Piano Antincendi, cadde].

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    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Il funzionamento dei Parchi può essere migliorato?

    «Ritengo che gli attuali strumenti a disposizione non garantiscano appieno le finalità della legge 394 del 1991.
    Di più: lo stesso sistema dei Parchi in Italia meriterebbe una seria revisione. Certo, il legislatore ha avuto una buona intuizione sulla governance, e ha creato un certo equilibrio di pesi e contrappesi. Tuttavia, una statistica recente rivela che in 19 parchi su 20 si registra uno scontro tra direttori e presidenti».

    Anche all’Ente Parco dell’Aspromonte?

    «Ci sono momenti di forte dialettica. Ma è nell’ordine delle cose».

    Entriamo più nel dettaglio: come funzionano i Parchi?

    La governance dei parchi è fatta di diversi organi. Tra questi, presidente, consiglio direttivo e direttore amministrativo. L’ultimo propone, i primi due dispongono».

    Tonino Perna, ex presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    E qual è il rapporto tra il Parco e gli enti locali?

    «La Comunità del Parco è costituita da Regione, Città Metropolitana e Comuni del Parco. Questa designa quattro componenti del consiglio direttivo.
    La norma prevede che i componenti designati siano esperti. Laddove, invece, sono sostituiti dai sindaci può capitare che qualcuno tenda a perorare le proprie cause o a favorire il proprio territorio».

    Sempre la politica di mezzo…

    «Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica e quello dell’Economia sono organi vigilanti. C’è sempre un gioco della politica. Inevitabile che a volte si siano chiusi gli occhi e si siano avallate azioni da evitare».

    Questo può valere per tutte le nomine. Compresa quella del direttore. Lei che ruolo ha?

    «Il direttore fa da garante e mette le firme».

    Come interpreta il suo ruolo?

    «Voglio fare in modo che il Parco faccia un salto di qualità e che tutti – organi dell’ente, operatori, associazioni, esperti, sindaci, comunità – capiscano che occorre lavorare insieme in una visione condivisa.
    È necessario restituire l’Aspromonte ai suoi protagonisti. Alcune guide del Parco, ad esempio, sono un nostro patrimonio. Il Parco ha il dovere di dialogarci.
    Non bisogna disperdere l’eco positiva a livello internazionale che abbiamo riscontrato dopo la partecipazione alla Bit di Verona. Dobbiamo tutelare la bellezza e promuovere le economie».

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Quali sono oggi le grandi criticità del Parco Aspromonte?

    «Sono di tre ordini: governance del territorio, pianificazione e programmazione e risorse umane. Oltre a un forte deficit di comunicazione».

    Spieghi…

    «Quando parlo di governance mi riferisco a una oggettiva difficoltà di gestione di un territorio vasto e complesso come l’area protetta del Parco. Questa difficoltà impatta direttamente sul secondo aspetto, la necessità di revisione di strumenti di pianificazione».

    Quali strumenti?

    «Il piano del Parco, il regolamento, il piano di sviluppo socioeconomico e la zonizzazione, su cui stiamo cercando di intervenire con fatica,
    Alcune linee guida erano state messe insieme, forse un po’ sommariamente. Bisogna rafforzare tutta la pianificazione e intervenire in modo serio su un nuovo perimetraggio delle zone che bilanci protezione, tutela e sviluppo del territorio.
    Non è pensabile, ad esempio, che zone di diversa tipologia confinino in maniera diretta, come accade ora. Questo produce confusione e alimenta gli ostacoli alla governance dei territori. Il danno è stato compiuto anni fa. Recentemente abbiamo approvato il Piao (Piano integrato di attività e organizzazione) 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione».

    Giuseppe Bombino, altro ex presidente del Parco dell’Aspromonte

    [Nda: sotto la precedente presidenza Autelitano, l’allora ministra dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, sentito il parere di Regione, Provincia e Comuni competenti, emanava un decreto che riperimetrava il Parco: dai 76.000 ai 64.153 ettari attuali. Quest’operazione diminuiva l’area protetta, e ne ridisegnava la geografia con quella zonizzazione su cui oggi si vuole intervenire]

    Ha detto «a fatica»: perché?

    «L’organigramma dell’Ente Parco è ridotto all’osso. Attualmente, e con difficoltà, riusciamo a coprire solo l’ordinario.
    Il parco ha perso nove risorse per provvedimenti di mobilità concessi in regime di finanza invariata. Ciò significa che non ci sono i fondi per assumere nuove risorse se non sostituendole con la mobilità in entrata.
    il Parco allo stato attuale è depauperato in modo quasi irreversibile. Stiamo tentando di risalire la china. Sono poi in corso questioni che non è il caso di approfondire in questa sede».

    Di nuovo: perché?

    «La situazione è delicata».

    [Nda: che lo sia davvero risulta da diverse fonti. Da notizie riservate, sarebbe in corso una serie di accertamenti presso i ministeri competenti e l’Avvocatura dello Stato su mobilità e assunzioni.
    In particolare, sulle procedure di stabilizzazione degli lsu volute dal presidente. Questi, a sua volta, avrebbe presentato un altro esposto alla Procura della Repubblica.
    Inoltre lo stesso Piao fotografa uno stato dell’ente non in perfetta salute.
    Durissima la parte del documento dedicata alla situazione del personale: «Si è venuta evidenziando una scarsa conoscenza delle competenze del personale e l’assenza di una banca dati delle competenze». Inoltre, «resta di particolare attenzione il monitoraggio del benessere interno ed il clima lavorativo all’interno dell’organizzazione, specie a fronte di una evidente conflittualità interna». Questo quadro la dice lunga, in attesa delle pronunce degli organi competenti e delle valutazioni della Procura].

    Alberi dell’Aspromonte a due anni dell’incendio

    Quale idea vuole portare avanti?

    «Un Parco per tutti. Lavorare su quello che può garantire il futuro e proteggere la bellezza anche attraverso lo sviluppo delle comunità locali. Bisogna dare piena attuazione agli obiettivi delineati nella legge 394. Il fine della conservazione per me è questo».

    Cosa dobbiamo attenderci?

    «Sono in corso una serie di attività e una proficua interlocuzione con la Regione. Abbiamo presentato alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali quattro schede per un valore tra i 6 e i 7 milioni. In più, dopo un’attenta revisione del bilancio, risulta un avanzo di 5 milioni e 200mila euro che verranno allocati per diversi interventi».

    La sfida più grande?

    «Accessibilità e sistema della mobilità verso il Parco in un’ottica di intermodalità».

     Come si vede tra un anno?

    «Se le operazioni che sto cercando di realizzare andranno in porto, sarò dove mi trovo adesso. Altrimenti, ormai vicino alla pensione, sarò felice di dedicarmi alla pesca».

    È stanco?

    «Conduco una battaglia quotidiana e non nascondo le mie difficoltà».

  • Disastri naturali, la Calabria è la più vulnerabile d’Europa

    Disastri naturali, la Calabria è la più vulnerabile d’Europa

    Non succede, ma se succede… in Calabria farà più danni che in tutto il resto d’Europa.
    Parliamo di disastri naturali e degli effetti sul territorio e sugli esseri umani a tutti i possibili livelli. L’allarme stavolta proviene direttamente dalla Commissione europea che dall’ottobre del 2022 pubblica uno studio in costante aggiornamento. L’ultimo upgrade risale al mese scorso e i risultati sono a dir poco inquietanti per la Calabria.
    Emerge, infatti, come in Europa l’Italia sia il paese più vulnerabile alle catastrofi naturali insieme a Bulgaria, Romania e Grecia. Tuttavia, mentre in prospettiva le cose negli altri tre paesi appaiono in lento miglioramento, in Italia la situazione sembra destinata a rimanere stabile.

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    La mappa della vulnerabilità delle province italiane

    Perentoria l’indicazione per il nostro territorio: «Italiani sono anche altri due primati: la regione più fragile del continente è la Calabria e la provincia è Reggio Calabria».
    Scopo dello studio è avvisare gli amministratori locali e nazionali per correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
    Il governatore Occhiuto, insomma, è un “avvisato speciale”, visto che la Calabria è la zona con i peggiori indici di vulnerabilità in caso di disastri naturali.

    Irpinia e Giappone: un confronto impietoso

    Quattro i fattori che determinano l’indice di vulnerabilità totale: economico, sociale, ambientale e politico. Per capire meglio bisogna pensare ai tanti fenomeni naturali di forte impatto quali terremoti, inondazioni, siccità, tempeste e altri eventi di tipo atmosferico, frane ecc. Questi avvenimenti in zone pericolose sono molto più probabili ma a parità di pericolosità le zone più vulnerabili sono quelle dove poi si verificano i danni maggiori per la scarsa organizzazione locale e le ripercussioni sui cittadini provocano disastri nei disastri.

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    Il tragico terremoto in Irpinia del 1980

    Il terremoto in Irpinia, ad esempio, e i terremoti in Giappone spiegano bene di cosa parli lo studio della Commissione europea. Zone più pericolose come il Giappone con terremoti superiori in magnitudo a quello dell’Irpinia hanno avuto moli meno danni a cose e persone. La Calabria ha il massimo punteggio di vulnerabilità in Europa e il capoluogo regionale il peggiore di tutte le province dell’Ue. Questo il dato sui cui tutti i calabresi devono riflettere e a partire dai quali gli amministratori devono darsi da fare sin da subito. Prima che sia troppo tardi.

    Disastri naturali: lo studio europeo

    Il Disaster Risk Management Knowledge Centre (Drmkc) del Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea ha pubblicato uno studio con l’obiettivo di accendere un faro sulla vulnerabilità ai disastri naturali dei paesi europei. Rappresenta un primo tentativo di indagare, attraverso la definizione di un indice, sulle possibili conseguenze di calamità.
    Il Drmkc ha sede nel Jrc di Ispra, alle porte di Varese. È un laboratorio europeo che, grazie a una impressionante ricchezza di dati, consente la gestione in tempo reale delle crisi provocate da disastri naturali.
    Non tutti i beni, i sistemi o le comunità con lo stesso livello di esposizione a un pericolo specifico sono ugualmente a rischio: conoscere la vulnerabilità, perciò, è fondamentale per determinare il livello di rischio.

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    Reggio Calabria risulta essere la provincia più vulnerabile d’Europa

    Asset molto esposti possono avere una vulnerabilità molto bassa, quindi essere considerati a basso rischio: in una zona sismica un edificio tradizionale è più vulnerabile di uno costruito con criteri antisismici. Per queste ragioni, dunque, la vulnerabilità è la componente fondamentale di cui tener conto nella definizione delle politiche e delle azioni per la riduzione del rischio di catastrofi. Ridurre la vulnerabilità e l’esposizione dei territori e delle comunità è la via più efficace per ridurre il rischio, dal momento che non è sempre possibile ridurre la gravità e la frequenza dei pericoli naturali. Ancora di più, se si considerano gli impatti dei cambiamenti climatici.

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    Tra le regioni europee è ancora la Calabria a guidare la classifica dei peggiori

    Le colpe dell’uomo

    La funzione dell’indice e della mole di dati raccolti è anche quella di aiutare gli amministratori a prendere le decisioni. Per ridurre la vulnerabilità è necessario identificare e affrontare i fattori di rischio quasi sempre derivanti da scelte e pratiche di sviluppo economico e urbano inadeguate. Essi hanno, infatti, un legame con il degrado ambientale, la povertà, la disuguaglianza, le istituzioni deboli.
    I governi possono applicare strategie e politiche per ridurre la vulnerabilità introducendo misure precise, progettate per ridurre sia la componente “indipendente dal pericolo” (dovuta essenzialmente all’azione dell’uomo) che quella “dipendente direttamente dal pericolo” (legata agli eventi naturali).

    In particolare, la vulnerabilità indipendente dal pericolo, su cui si concentrano gli indici costruiti dal JRC, tiene conto degli ostacoli che indeboliscono le capacità di un sistema o di una comunità di resistere alle sollecitazioni poste da qualsiasi pericolo. Descrive la suscettibilità a potenziali perdite o danni delle comunità indipendentemente dalla loro esposizione ai vari pericoli. Si basa su molteplici fattori che caratterizzano una comunità situata in un determinato territorio.

    Disastri naturali e vulnerabilità: il caso Calabria

    Nel 2022 la regione europea più vulnerabile ai disastri naturali in assoluto era la Calabria, seguita dalla Ciudad de Melilla (città autonoma spagnola situata sulla costa orientale del Marocco). Un graduino del podio più giù, altre due regioni italiane: Campania e Sicilia.
    Nella classifica delle province, il poco invidiabile primato è di Reggio Calabria e dei primi 30 nomi più della metà sono di altre province italiane. La maggior parte si trovano nel Mezzogiorno, ma non solo: ci sono anche Latina, Frosinone, Fermo, Pesaro-Urbino, Pescara, solo per citarne alcune.

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    Le medie nazionali di vulnerabilità e i cambiamenti negli anni, regione per regione

    Nel confronto rispetto alla media nazionale, sorprendono alcune situazioni specifiche. In positivo la Puglia, il cui indice è in costante e moderata discesa sotto la media italiana, come la Val d’Aosta. In miglioramento anche la Sicilia, mentre sono in netto peggioramento Trento e Bolzano che partivano da situazioni molto virtuose. Nessun progresso, invece, per la Calabria
    Le aree più vulnerabili pagano soprattutto la fragilità economica e ambientale: in Calabria 4 province su 5 segnano il massimo di vulnerabilità ambientale. Quanto all’indicatore di vulnerabilità sociale, vede livelli molto bassi in tante province del Sud e delle isole. Peggio di così è difficile fare.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    L’Aspromonte ha avuto un suo Rinascimento. Qualcuno direbbe che ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo di quello italiano.
    Pochi sanno infatti che i borghi della Montagna Lucente ospitano un vero e proprio patrimonio diffuso di beni storico-artistici, spesso celati, comunque poco conosciuti. O addirittura sequestrati perché all’interno di immobili inaccessibili o a rischio crollo.
    Che i beni artistici italiani non siano valorizzati a dovere è noto. Ma che l’Aspromonte nasconda opere scultoree di rilevanza nazionale e mondiale, lo sanno in pochi. Anzi pochissimi Pasquale Faenza, storico dell’arte e già direttore del Museo Rohlfs della Lingua Greca di Bova, ha aperto a me e a molti questa finestra.
    Partito con l’intento di scandagliare il cosiddetto modello Bova e di inserire il suo museo in una più ampia narrazione della capitale della Calabria greca, avevo sondato qualche conoscenza per ampliare lo spettro della mia ricerca.
    Tra i contattati c’era Pasquale. Con lui il discorso è caduto sui beni culturali che rendono l’Aspromonte di per sé opera d’arte, quasi un museo a cielo aperto.

     

    L’arte d’Aspromonte: dal Rinascimento al Barocco

    È una torrida mattina di luglio. Il sole è già implacabile e l’aria comincia a rarefarsi. Seduto davanti a una tazza di caffè troppo calda, tra il vociare degli astanti, ascolto Pasquale.
    «Proprio dall’Aspromonte sorge il Rinascimento. Boccaccio e Petrarca imparano il greco attraverso Barlaham di Seminara, padre dell’Umanesimo, e Leonzio Pilato, tra i primi promotori dello studio della lingua greca nell’Europa occidentale e traduttore di Omero.
    È il tempo in cui la Calabria con il suo monachesimo è très d’union tra Costantinopoli e l’Europa cristiana.
    In questo contesto l’Aspromonte ottiene un ruolo di primo piano. Grande contenitore di legname e pece e sito di produzione della seta, è una terra florida per commerci e interscambi, sede di cenacoli culturali pari a quelli del Centro Italia.
    Fioriscono botteghe, vengono prodotte e fatte circolare opere d’arte di pregio per arricchire i moltissimi luoghi di culto che insistono su quei territori. Tutto questo ci porta a comprendere il ruolo che ha avuto questa montagna non solo per la Penisola, ma per l’intera area mediterranea».

    Un passato eterno tra riti e simbologie 

    Pasquale si riferisce al periodo tra ’400 e ’600. In questa epoca la Calabria ha un ruolo centrale nella crescita demografica ed economica del Paese.
    È un momento in cui «esisteva un’economia che oggi non c’è più, ma che è stata fondamentale per la nascita di questi movimenti culturali».
    Le tracce di questo passato, oggetto di una devozione popolare estremamente radicata, si riflettono nei culti mariani e nella rappresentazione dei santi guerrieri e degli elementi che li corredano.
    Ad esempio, San Leo con la palla di pece in mano, o le varie Madonne che ostendono le mele, ’i pumiceddhi, tipiche di queste latitudini. O San Teodoro e San Michele, miliziani, emblema di difesa dalle invasioni saracene.
    Questa simbologia svela le ricchezze e le criticità di un intero territorio, fino ad arrivare al culto pagano della Grande Madre e della fertilità, cristallizzato nell’effige della Madonna di Polsi. O nelle Pupazze di Bova. Oppure nella raffigurazione di Sant’Anna e sua figlia.

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    La Madonna con Bambino di Giuseppe Bottone

    Arte d’Aspromonte: capolavori nascosti

    Insieme alla Fondazione Scopelliti, Pasquale promuove Capolavori d’Aspromonte. questo progetto, a sua volta, deriva da Rinascimento di Aspromonte, ideato e gestito qualche anno fa insieme a Giuseppe Bombino, allora presidente del Parco.
    «Tutto è iniziato col restauro dell’Annunciazione di Gagini nella chiesa di Bagaladi condotto assieme all’antropologa Patrizia Giancotti e promossa poi con la realizzazione di contenuti digitali collegati a un QR code. È stato un grande successo».
    Capolavori d’Aspromonte, continua Pasquale, «parte da quell’esperienza e nasce per valorizzare il patrimonio storico-artistico poco noto e diffuso in tutto l’Aspromonte.
    Ogni centro storico possiede un’opera d’arte databile tra ’400, ’500 e ’600.
    Da Gagini, a Montorsoli a Pietro Bernini, i nostri borghi traboccano di opere importantissime che ci consentono di creare percorsi di conoscenza e riscoperta per rileggere il Rinascimento italiano sotto una nuova luce. Attraverso una lente che esce dal seminato del toscano-centrismo.
    La storia dell’arte è stata letta partendo dalle grandi capitali degli Stati italiani, ma quello che conosciamo è solo una parte».

    Arte d’Aspromonte: un percorso tra i borghi

    La lista dei siti dove sono presenti sculture marmoree databili tra XV e XVII secolo è lunga e articolata.
    Passa dalle ultime colline che diradano verso il mare fino al cuore della montagna.
    Sono cinquantadue borghi che vanno da Bova a Pentedattilo, da Scilla a Seminara, da Bagaladi a Roccaforte del Greco, da Gallicianò ad Africo Vecchio, da Caulonia a Stilo, da Oppido Mamertina a Terranova, da Sant’Eufemia a Palizzi.
    In alcuni di questi siti sono state già organizzate escursioni e molte altre sono già programmate.
    In un luogo in cui germinano le proto-filiere del turismo lento, Pasquale ha un obiettivo: unire i percorsi e arricchire le escursioni naturalistiche con un’offerta più sfaccettata.
    «La meta finale è potenziare la fruizione turistica coinvolgendo le guide turistiche. In particolare, le guide del Parco, che conoscono l’Aspromonte e lo battono quotidianamente.
    La Fondazione finanzierà la redazione della guida che sto compilando in due versioni, cartacea e digitale. Una volta tracciati i siti e individuati i percorsi, le guide diverranno veri e propri moltiplicatori di nuovi viaggi di senso. La creazione di sentieri della cultura attorno a percorsi naturalistici già battuti, apre scenari nuovi. Questi sono collegati a un Rinascimento aspromontano sconosciuto. Ciò rappresenta di per sé una notizia e, in seguito a studi dedicati, potrebbe riservare grandi sorprese», prosegue Pasquale.

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    La Madonna della Candelora di Giuseppe Bottone

    Tutti gli ostacoli da eliminare

    Proprio lo studio e la ricerca sono il primo ostacolo.
    «Sul territorio mancano gli enti che se ne occupino. Non mi pare che le Università calabresi abbiano mai aperto un filone di studio e ricerca sul tema né che l’Accademia di Belle Arti di Reggio abbia prodotto pubblicazioni dedicate.
    Guarda invece l’escursionismo naturalistico: molte tra le guide hanno solidi studi di agraria alle spalle e l’Università Mediterranea ha sempre fatto la sua parte.
    La carenza di approfondimento scientifico sui beni culturali in Aspromonte intacca l’avvio di un percorso che punta alla valorizzazione e all’apertura di nuovi comparti del mercato turistico».
    A ciò si aggiungono altre criticità non proprio secondarie: i siti che ospitano tale patrimonio artistico sono spesso inaccessibili.
    Sono chiese secondarie, a volte fatiscenti, che soffrono la mancanza di parroci e personale.
    «Nelle chiese dei territori più isolati, tutto va gestito con cautela. Ma l’indotto economico potrebbe diventare uno sprone per far riaprire quei luoghi. Basta vedere quello che è successo a Pietrapennata di Palizzi».
    Nella chiesa dello Spirito Santo è conservata la Madonna dell’Alica, un gruppo marmoreo cinquecentesco attribuito ad Antonello Gagini nel periodo della maturità.
    «La chiesa era inaccessibile e pericolante. Con il coinvolgimento del Fai, della comunità e del parroco di Palizzi, abbiamo puntellato il tetto pericolante e abbiamo organizzato delle escursioni.
    E poi, grazie al tramite di una guida, alcune donne del luogo hanno preparato e venduto le colazioni. Tutto molto alla buona, ma questo inizio ha fatto comprendere il ruolo di traino che un bene turistico può esercitare. Il web, poi, può fare il resto».
    Lo stesso meccanismo è stato avviato anche ad Ardore con la Madonna della Grotta di Bombile, o ad Oppido con le opere custodite nella diocesi, dove due parroci hanno incentivato la valorizzazione di questi patrimoni.

    La Madonna della Grotta di Antonello Gagini

    Etnografia e arte in Aspromonte: oltre il turismo lento

    Alla base serve un lavoro amplio che va dallo studio alla catalogazione, dall’aggiornamento alla divulgazione.
    Con incursioni che si spostano dalla storia dell’arte all’etnografia. Perché il patrimonio diffuso in Aspromonte non ha solo un valore artistico, ma soprattutto etnografico.
    «Più che altrove, in Aspromonte sono rimasti una forte devozione popolare, un senso di comunità mai sopito e una ritualità che ancora si tramanda vividamente.
    Al valore storico-artistico del territorio si associa la devozione popolare che lo rende vivo e lo trasforma in vero e proprio bene immateriale.
    Sul settore etnografico la Calabria è scoperta. A parte il lavoro svolto all’Unical da Vito Teti, oggi in pensione, c’è stato poco. In questo momento ci saranno uno o due etnografi presso le Soprintendenze. Da direttore del Museo Rohlfs ho dovuto realizzare in autonomia le schede di catalogo. È un vero peccato: l’aspetto che potrebbe avere maggiormente successo è anche quello poco studiato».
    Il passaggio verso la valorizzazione etnografica – che oggi è il grande richiamo all’arcaico o all’esotico – è un percorso lungo e non facile.
    «Significa lavorare sulle e con le comunità, solitamente gelose e diffidenti se si sentono esautorate del ruolo di protagoniste assolute. È un lungo lavoro di preparazione, ascolto, confronto e persuasione.
    Ma quando inizi a comprendere il valore dell’effige di devozione che caratterizza il tuo paese, il ruolo che ha avuto, ad esempio, il tuo antenato, quello della tua comunità, fino ad arrivare a quello della Regione in un contesto mediterraneo allargato, riscopri un tesoro.
    Il fatto che una nuova generazione possa conoscere il proprio Rinascimento o il processo di sviluppo della Calabria, arricchisce i centri storici e i borghi che rischiano di diventare contenitori vuoti, pieni magari di neonate botteghe, ma privi di contenuti. È questo percorso che crea il valore aggiunto di un brand autentico».

    Arte: quale brand per l’Aspromonte

    In una recente intervista, Francesco Aiello, docente di Politica economica dell’Unical, è stato netto: non è possibile mettere a punto un sistema turistico basato solo sul turismo lento.
    In una breve conversazione telefonica con chi scrive, il prof di Arcavacata ha affermato: «Chi sostiene che il turismo lento possa arrivare a costituire il 13% del Pil regionale non dice la verità.
    Oggi registriamo una forchetta che va dal 4 al 5% con margini di miglioramento. Ma il bacino di utenza del turismo lento non può spingere la quota parte del nostro prodotto interno lordo a una doppia cifra.
    Serve piuttosto lavorare su strategie in grado di caratterizzare il sistema montagna, differenziandolo dall’offerta presente in altri territori. Perché scegliere Camigliatello o Gambarie invece di Roccaraso?»
    Questo induce una riflessione sul fatidico brand Aspromonte di cui avevo parlato con Tiziana Pizzati a Samo.
    Anche Pasquale insiste molto su questo tema: «La nostra cultura (e la conseguente narrazione) si è sempre fermata all’archeologia, ad una Magna Grecia più raccontata che “resuscitata”.
    Così quando arrivi in Calabria, in particolare nel Reggino, ti aspetteresti di vederla, ma non la trovi. Non puoi basare l’identità su un elemento commerciale, come sono vissuti i Bronzi di Riace a Reggio. Se a questo aggiungi che la popolazione calabrese, in media, ignora la propria storia, il cerchio si chiude».
    Quest’esperienza, quindi, rischia di sconfinare nella mitopoietica. Certo, un percorso di promozione turistica è iniziato. Tuttavia, questa lenta operazione ha una grande lacuna. Spiega ancora Pasquale «Non puoi pensare di creare una crescita turistica di lungo periodo se non hai portatori autentici di quel vissuto, testimoni viventi, presenti, narranti e agenti di una storia cristallizzata in opere, rituali e costumi di cui ignori origini e sviluppi.
    Non puoi permetterti di basare una strategia di sviluppo sull’idea del selvaggio e sul dramma dell’abbandono.
    Se invece lavori per potenziare questi luoghi, esaltandone la cifra culturale ed etnografica, puoi creare un modello autenticamente sostenibile con ampli margini di crescita. Puoi intercettare nuovi target e utenze: penso ad appassionati di arte, operatori del settore, e così via. Ecco perché è necessario insistere sulla formazione delle comunità e dei suoi membri. Solo questa riscoperta può scardinare un senso di inferiorità interiorizzato».

    Domenico Guarna

    La voce delle guide

    Su tale aspetto concorda Domenico Guarna, giornalista e guida escursionistica Agae: «Il turismo è una scienza sociale ed economica e da tale va trattata. Ciò implica studiare operazioni scientifiche basate su dati, proiezioni, valutazioni di mercato.
    Inoltre, occorre coinvolgere le comunità, altrimenti si rischiano danni. Resta il fatto che non conosciamo quello che abbiamo e quindi non siamo in grado di presentarlo».
    Domenico si riferisce a un fatto accaduto a Montebello Jonico. Lì era in programma il restauro della statua marmorea della chiesa madre. La comunità era stata informata e coinvolta in modo troppo blando.
    Ne scaturì una polemica, dovuta alla paura che l’opera fosse sottratta e mai restituita. Le posizioni si irrigidirono e, nonostante i tardivi incontri di mediazione, quel restauro non andò in porto.

    Raccontare la montagna: la forza del sapere

    «In territori come i nostri le guide hanno un valore specifico. Luoghi abbandonati, privi di elementi che ne facilitino la decodifica, hanno bisogno di un racconto competente. Serve un ripensamento del paradigma economico: oltrepassare il turismo lento o l’organizzazione di un evento culturale spot per costruire delle vere e proprie economie», continua Domenico.
    La parola chiave è mettere a sistema perché, ad esempio, ad oggi manca un circuito unitario dei beni storico-culturali: «L’inaccessibilità di certi posti non può più essere tollerata. Guarda cosa succede con l’area archeologica Griso Laboccetta di Reggio.
    Perché per quest’area, come per innumerevoli altre in città o in Aspromonte, non è stato studiato un sistema di ingresso a ciclo unico?
    E perché dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il bando guide emanato dalla Città Metropolitana, competente in materia turistica, nessuno è intervenuto per colmare il vuoto legislativo evidenziato? E dire che il numero delle guide turistiche in Calabria è talmente esiguo da necessitare un rimpolpamento», chiosa Domenico.

    L’Epifania di Giovambattista Mazzolo

    Aspromonte: il programma che non c’è 

    Che a tutto questo si sommi un deficit di pianificazione da parte degli enti pubblici non è una novità.
    Così, al riguardo, Pasquale: «Le istituzioni non sono mai riuscite a creare itinerari fruibili. Pensa che sui parchi archeologici avevo iniziato un lavoro per fare riemergere la biodiversità archeologica.
    Funzionava così: mentre si effettuava uno scavo, con il supporto di botanici e genetisti, venivano utilizzati i pollini rinvenuti per recuperare certe piante che poi dovevano essere coltivate.
    Questo ti permetteva di ricreare l’ambiente originario e di mettere a punto diverse produzioni (fichi antichi, nocciole, ecc) da vendere all’interno del parco stesso o presso i circuiti museali. Il parco stesso diventava un’azienda. Avevo proposto l’idea al Parco Archeologico di Locri. In diversi mi avevano risposto che non era una strada percorribile. Oggi lo sta facendo Pompei…», chiude Pasquale.

    Chiese Aperte

    Per parte sua, la Diocesi di Reggio, attraverso l’Ufficio per i Beni Culturali guidato da Don Mimmo Rodà, ha promosso il progetto Chiese Aperte.
    Dal 2012 al 2017 l’iniziativa ha formato circa 300 volontari nel quadro della valorizzazione degli edifici di culto di rilievo storico per farne operatori turistici delle loro stesse chiese di appartenenza.
    Il tutto con un obiettivo finale: spingere i beneficiari di quella formazione a realizzare cooperative e associazioni in grado di dare impulso al settore del turismo culturale e religioso.
    Secondo Lucia Lojacono, direttrice del Museo diocesano di Reggio Calabria, «non si è riusciti ad avviare queste forme organizzate.
    È necessario ripartire con forme di intervento diverse. Ad oggi restiamo una componente fondamentale nel sistema beni culturali: costituiamo la Consulta regionale in costante dialogo con Regione e Soprintendenza e siamo sollecitati a produrre elenchi dei beni su cui intervenire prioritariamente». Anche perché, spiega Don Rodà, «abbiamo una flessione importante dei proventi dell’8×1000, utilizzati per finanziare Chiese Aperte.
    Il deficit di fondi ci impedisce di intervenire come vorremmo e non siamo in grado di coprire da soli le spese per il restauro delle chiese secondarie. A maggior ragione abbiamo bisogno di un cofinanziamento da parte delle comunità residenti.
    Ma c’è una notizia: abbiamo sottoscritto un protocollo con la Regione che ci permette di partecipare ai bandi europei di finanziamento, impossibile fino a ieri perché, come enti ecclesiastici, non eravamo assimilati agli altri enti privati. Abbiamo aderito con convinzione al progetto Capolavori d’Aspromonte a cui partecipiamo attraverso le diocesi di Oppido-Palmi e Locri-Gerace».

    Don Mimmo Rodà, il direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Reggio Calabria

    Le amministrazioni facciano la loro parte

    Carenza di personale, poco coordinamento pubblico, esiguità di fondi, deficit di pianificazione, incapacità di promuovere sistemi di cooperative legate al privato sociale sono le principali criticità. Mescolare un approccio misto bottom-up e up-bottom potrebbe costituire una soluzione per rafforzare quanto già in atto e per cui è essenziale la regia delle amministrazioni pubbliche – Regione, Province, Comuni, Parco Aspromonte – soprattutto in termini di strategie e di processi a lungo termine di project financing.

  • Emergenza incendi: l’Aspromonte rinasce mentre Reggio brucia

    Emergenza incendi: l’Aspromonte rinasce mentre Reggio brucia

    Incendi a Reggio. Ricorderemo il 2023 come un nuovo annus horribilis. 
    Quasi negli stessi giorni in cui nel 2021 sono andati in cenere oltre 8.000 ettari di aree protette in Aspromonte, le fiamme hanno divorato vaste aree del Reggino e lambito tutto il perimetro del capoluogo.

    Incendi: a Reggio un record infame

    Alcuni dati elaborati da Legambiente sulle rilevazioni satellitari Effis sono utili a tracciare il disastro: su base nazionale le province più colpite risultano Palermo, Agrigento, Reggio Calabria, Messina e Siracusa. Messe insieme, fanno il 75,62% del totale distrutto da incendi di vegetazione dall’1 gennaio al 27 luglio di quest’anno.
    In questo stesso periodo, nella sola provincia di Reggio Calabria c’è l’86,44% di tutte le superfici arse nella nostra Regione.
    Il dato reggino fa ancora più impressione confrontato alle altre province italiane interessate dai roghi. Sono 6.388 gli ettari di vegetazione persi e corrispondono al 12,43% su base nazionale.
    È un triste primato, secondo solo a Palermo coi suoi 17.957 ettari distrutti (il 34,95% a livello nazionale).

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    Alberi dell’Aspromonte a due anni dell’incendio

    Incendi a Reggio: l’assemblea e la marcia

    Proprio a Mosorrofa, una delle aree più colpite nel Reggino, in queste ore si è tenuta un’assemblea pubblica di confronto sui danni verificatisi.
    La marcia per l’Aspromonte indetta per lo scorso 29 luglio dall’Associazione delle Guide Ufficiali del Parco e organizzata già dai mesi precedenti ha avuto la curiosa coincidenza di realizzarsi a ridosso dell’emergenza roghi 2023. Il fuoco, in questo caso (e per fortuna!) ha interessato solo relativamente l’area del Parco di Aspromonte. Ma ha inevitabilmente alimentato feroci polemiche sui soliti nervi scoperti: il sottodimensionamento di Calabria Verde e del corpo dei Vigili del fuoco, la carenza di mezzi, i ristori, l’abbandono percepito dalla cittadinanza.

    Aspromonte: una ripresa lenta

    Ho partecipato anch’io alla marcia, un’iniziativa per la memoria e un tentativo di fare comunità per rafforzare un presidio di tutela diffuso. Vedere con i propri occhi un prato di felci in cui svettano carcasse di vegetazione carbonizzata, un tempo foreste di pini larici ultracentenari, dà la misura del disastro occorso.
    È il primo passo di un lungo percorso appena iniziato, che mira al coinvolgimento di tutti gli attori del territorio, secondo quanto annunciato dall’Associazione delle Guide. Un passo per posizionarsi saldamente ai blocchi di partenza, ma che appare timido.

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    Escursionisti in marcia

    La testimonianza delle guide

    Secondo Luca Lombardi, presidente dell’organizzazione, non esistono ristori per un tale patrimonio andato perso. Tuttavia, qualcosa è cambiato: «Appena partiti gli incendi che hanno interessato l’area di San Luca, in via informale mi ha contattato un funzionario del Parco che, a margine di una conversazione privata, ha tenuto a informarmi delle azioni di contrasto al fuoco in corso. Una cosa mai accaduta prima».
    Giunti a ridosso di Roccaforte del Greco, dopo diversi chilometri di cammino abbiamo potuto toccare con mano cosa fosse rimasto dopo il passaggio del fuoco: nulla.

    Il parere della studiosa

    Piuttosto dura, al riguardo, la particolare testimonianza dell’entomologa Elvira Castiglione: «Al di là della perdita di un patrimonio inestimabile e al netto del fatto che la Natura ha capacità rigenerative ben superiori ai danni causati dall’uomo, la ricostituzione di quell’ecosistema sarà lunga e non è detto che produca gli stessi risultati». Così esordisce la studiosa, che si chiede: «Ci saranno le stesse condizioni che hanno portato ad avere delle foreste originarie con i caratteristici giganti di pino laricio distrutti?».
    «Come gruppo di ricerca del Laboratorio Lea del Dipartimento patrimonio architettura e urbanistica dell’Università di Reggio Calabria, abbiamo realizzato uno studio entomologico nell’area di Acatti», spiega Castiglione.
    Eccolo lo studio in dettaglio: «Abbiamo campionato insetti di tre aree diverse: una impattata dagli incendi di chioma, una di transizione e una incombusta. A due anni l’area è stata lentamente ripopolata da 19 specie di insetti contro le 28 precedentemente presenti nella parte incombusta e le 21 di quella di transizione».
    Il risultato non è esaltante: «Sono scomparse le specie più tipiche della foresta, oggi sostituite da quelle più comuni che rappresentano le cosiddette specie pioniere, i coleotteri stafilinidi del genere Ocypus meno specializzati. Gli Ocypus Italicus che sono la specie caratteristica della lettiera del bosco sono spariti completamente, sono invece arrivati i “fratellini” Ocypus Olens. Cioè la specie che troviamo nei nostri giardini, o nelle nostre cantine».

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    L’entomologa Elvira Castiglione (la seconda da sinistra)

    Parla il generale Battaglia

    Riusciranno questi insetti ad aprire la strada al nuovo ecosistema in formazione? Qualche segnale positivo lo danno le felci, a cui seguiranno le ginestre. A patto che l’area non sia interessata dal pascolo abusivo.
    Cosa che, purtroppo, è all’ordine del giorno: lo scampanio di vacche e capre in piena zona A (tutela integrale) ci ha accompagnato per lunga parte del nostro tragitto. Non è un dettaglio: svela, invece, lo scarso monitoraggio di una montagna per lo più desertificata.
    Lo ha detto chiaramente il generale Giuseppe Battaglia, già alla guida del comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, autore e escursionista esperto: «Il problema degli incendi è complesso e sfaccettato. Da una parte è vero che un territorio abbandonato diventa preda di piccoli e grandi interessi; dall’altra il principio di emulazione ha un forte impatto. Qualche anno fa arrestammo in flagranza un anziano. Davanti al giudice dichiarò che stava appiccando il fuoco per proteggere le centinaia di capi del suo bestiame dagli attacchi dei lupi. Non solo non aveva quel numero di animali, ma fu sostenuto da una testimonianza che attestava le sue affermazioni. Dopo aver affrontato la carcerazione domiciliare, fece causa per ingiusta detenzione e vinse. Danno e beffa».

    Incendi a Reggio: l’ipotesi di Bombardieri

    In un recente incontro pubblico il procuratore Giovanni Bombardieri ha inquadrato il fenomeno come particolare e variegato e non imputabile a una strategia complessiva delle criminalità. Dolo, colpa, errore umano, emulazione sono alla base di certi disastri. La scarsa prevenzione, unita alla difficoltà di individuare strategie investigative efficaci e a deficit culturali rendono il tema di difficile gestione. In poche parole non è sufficiente inquadrare la questione in termini investigativi e repressivi, ma formare alleanze tra tutti gli attori del territorio coinvolti.

    Un momento dell’escursione commemorativa degli incendi del 2021

    I guai di Calabria Verde

    Calabria Verde si porta dietro enormi problemi legati a una finanza dissestata, all’esiguità del personale (8.076 unità iniziali passate alle circa 5.800 di oggi con 4.000 di questi addetti alla forestazione) e alla carenza di ricambio generazionale.
    La storia dell’azienda è costellata di fallimenti operativi, scandali, dimissioni, commissariamenti, arresti.
    La proposta di una sua trasformazione in ente pubblico economico operante secondo il diritto privato potrebbe avere diversi risvolti.
    I sindacati, al riguardo, parlano dei pericoli dell’esternalizzazione. Tuttavia, il cambio di natura giuridica potrebbe risolvere altri problemi, tra cui l’ampliamento dell’organico.
    A causa del dissesto pluriennale – un buco da 80 milioni non rendicontati e un bilancio non approvato da almeno tre anni – mancano i fondi per le assunzioni. I sindacati oscillano tra il timore che vengano intaccati i diritti contrattuali e la paura che i fondi pubblici per il contrasto al dissesto idrogeologico finiscano altrove. Questi timori che potrebbero cadere ove la vigilanza dello Stato e del ministero competente funzionasse a dovere.

    L’intervento del Parco

    Lo scorso 28 luglio l’Ente Parco Aspromonte ha diramato una nota in cui vengono elencate le azioni intraprese a tutela della riserva naturale. Queste vanno dal monitoraggio, dai contratti di responsabilità con enti di protezione civile e del terzo settore, alle pianificazioni di settore, alla piattaforma per il potenziamento dell’intervento aereo per antincendio e soccorso pubblico.
    Una nota doverosa e minuziosa se non fosse per certi toni e una chiosa finale poco istituzionale.

    Incendi a Reggio: una coincidenza?

    I roghi di Reggio, va da sé, hanno caratteristiche diverse da quelli del 2021 in Aspromonte.
    Oggi, a parte l’incendio nel sottobosco di San Luca, il territorio del Parco non è stato intaccato. E comunque gli interventi tempestivi hanno contenuto i danni. Resta una domanda inquietante: perché gli incendi reggini sono esplosi proprio nei giorni del picco di calore e con il forte vento di scirocco? Cioè proprio quando le fiamme potevano fare più danni, com’è puntualmente avvenuto?
    Anche considerando tutte le variabili in gioco, si prova grande difficoltà a ritenere tutto questo una sfortunata ed aberrante coincidenza. O no?

    Gli scheletri degli alberi carbonizzati nel Parco

    Un problema culturale

    Che ci sia un enorme problema culturale è palese. È lo stesso problema che tra gli anni ’80 e ’90 minacciava i rapaci migratori sullo Stretto.
    Le Guide hanno ribadito che, dentro o fuori dal Parco, Reggio e provincia vanno tutelate come aree a maggiore biodiversità di tutto il Mediterraneo. Zone collinari comprese, dove trovano rifugio flora e fauna specialistica di rilevanza europea. «Dal singolo cittadino ai massimi livelli, tutti sono coinvolti e devono ritenersi necessari nella tematica, dalla prevenzione allo spegnimento, fino alle indagini successive».

  • La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    La Calabria brucia ancora, cronaca (social) di un disastro annunciato

    Alle sei di questa mattina Reggio Calabria era avvolta dal fumo e dall’odore acre degli incendi ancora in corso che hanno divorato l’hinterland cittadino. Nonostante un morto, intere aree distrutte, la costa Viola sfregiata, l’emergenza è ancora in corso. Da tutto il giorno, e ancora mentre scrivo, l’eco dell’elisoccorso e dei canadair che volano senza sosta rimbomba in tutta la città. L’aria è irrespirabile, come lo era ieri e come lo è stata stanotte.

    Se non fosse chiara la dimensione del disastro che sta colpendo la Calabria e la Sicilia, è sufficiente andare a dare uno sguardo alle mappe del fuoco in tempo reale sul sito della Nasa. Non esistono ammende, riparazioni, mea culpa. Colpire un territorio con questi atti che devono essere inquadrati come vere e proprie condotte terroristiche significa causare danni irreparabili e permanenti che causeranno effetti per gli anni a venire. Non solo in termini di salvaguardia di flora e fauna (e basterebbe quello), ma di costi sociali che si riverberano in tutti gli ambiti.

    L’eterna litania sugli incendi in Calabria

    Adesso ricominceremo con le solite litanie circa le cause di questa ecatombe. In un indistinto e maleodorante vociare da bar, la sequela sarebbe più o meno questa, con alla base sempre il vile danaro: accesso ai fondi europei per la riforestazione, compensi per le missioni in emergenza delle flotte aeree dedicate, rigenerazione dei pascoli, lavoro dei forestali (la proposta di privatizzazione di Calabria Verde cade proprio a fagiuolo), riaccatastamento delle aree agricole e/o boschive in terreni edificabili (ipotesi lunare per la legislazione che tutela le aree ambientali), piromania, roghi colposi nati da errore umano e tramutatisi in disastro ambientale, criminalità organizzata e perfino micragnose ripicche tra vicini di casa per ragioni di varia natura tra cui il deprezzamento dei terreni coinvolti per una più conveniente compravendita.

    Un canadair in azione durante gli incendi dell’estate 2021 in Calabria

    Forse ognuno di questi punti contiene un pezzetto di verità. Ma la verità in questo caso serve a poco. Le indagini per il disastro del fuoco dell’estate 2021 in Aspromonte si sono chiuse con un nulla di fatto. Nessun colpevole, ma un rimpallo di eventuali responsabilità la cui scia arriva al fuoco di oggi, giorno in cui piangiamo un morto, diverse abitazioni minacciate, interi poderi divorati dalle fiamme, boschi ridotti in cenere, linee ferroviarie e arterie stradali interrotte.

    Gestire (male) l’emergenza, nulla più

    Ma il senso vero, la desertificazione delle aree interne, dei costoni di montagna, lasciati alla rovina dell’abbandono, battuti e vissuti più da nessuno, senza coltivazioni, senza uomini che le preservano, non si azzarda a tirarlo fuori nessuno. Parliamo del massimo comune denominatore che rende queste catastrofi sempre più drammatiche.
    Non c’è nessuno che abbia interesse a preservarle e tutelarle se non come cocci di una bomboniera che è comunque andata in frantumi. Territori senza uomini e vallate deserte continueranno a subire questa sorte perché nessuno ha la lungimiranza di programmare strategie adeguate e di lungo termine. Non ci sono droni che tengano. Ci si limita a cercare di gestire – male – l’emergenza. Fin quando non ci sarà più nulla da gestire.

    https://www.facebook.com/rbocchiuto/videos/266892979396507

    Nel frattempo in queste ore non ho sentito un politico, che sia uno, spendere una parola, manifestare solidarietà, o annunciare provvedimenti concreti. In compenso abbiamo tutti visto i video social del presidente Occhiuto alle prese con i droni davanti a una stazione di monitoraggio video. Ma si sa che oggi vale in comunicazione quella strana legge per cui un esempio, che è poi il pallido simulacro di una realtà falsa e distorta, diventa per antonomasia la scopa politica paradigmatica con cui mettere il resto della polvere sotto un tappeto di vuota sostanza. Il medium è andato ben oltre il messaggio.

    Terrorismo e social network

    Vorremmo invece vedere pienamente applicato l’articolo 423 bis del codice penale, inasprito con il DL 120/2021, che punisce gli atti incendiari boschivi con al reclusione da 5 a 10 anni. Vorremmo la certezza della pena, vorremmo indagini approfondite capaci di individuare e punire aspramente chi colpisce il nostro futuro. E non basta: vorremmo che, per la rincorsa che hanno preso gli stravolgimenti climatici che continuano ad essere negati da personaggi come il ministro Salvini (basta scorrere i suoi ultimi post social), simili atti fossero equiparati ad atti terroristici.
    Vorremo questo e tanto altro. Vorremo, ma ci limitiamo a postare.

  • Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Sul piazzale dell’ingresso agli impianti di risalita di Camigliatello –  fermi,  tra l’altro, per il consueto e irrisolto problema del collaudo dei cavi – ci sono numerosi alberi alti anche oltre venti metri. Su molti di essi qualcuno ha tracciato un numero con della vernice rossa. Generalmente questa procedura prelude a un solo destino: qualcuno abbatterà quegli alberi. Solo che nessuno, tra le autorità presumibilmente competenti (Ente Parco, Regione e Comune) è stato in grado di spiegare quale sarà il destino di ben 39 pini silani.

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    Il sindaco di Spezzano, nel cui territorio ricade l’area interessata, in una frettolosa telefonata ha rapidamente scaricato la responsabilità sulla Regione.
    Più disponibile a fornire spiegazioni, tuttavia insufficienti, è stato il direttore dell’Ente Parco, Ilario Treccosti. Al telefono ha chiarito che non può «essere informato su tutto», ipotizzando anche che gli alberi numerati siano quelli non destinati all’abbattimento. I sopravvissuti, in pratica. Poi ci ha invitati a scrivere una mail al Parco.
    E qui è partita la battaglia delle Pec.

    Gli alberi di Camigliatello e la battaglia delle Pec

    Una prima mail certificata l’abbiamo inviata al Parco il 21 giugno, restando senza risposta. Una seconda invece, anch’essa del 21, ha avuto come destinatario il settore “Parchi e Aree naturali protette” della Regione Calabria, da cui non abbiamo avuto repliche.
    Il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”, sempre della Regione, il 29 ci ha risposto a sua volta affermando che «In riferimento alla Pec in oggetto si fa presente che la richiesta pervenuta non è di competenza dello scrivente settore».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dalla Pec del settore “Agricoltura e forestazione”, invece, ci spiegano che la nostra richiesta di informazioni «si trasmette per competenza e per opportuna conoscenza». Destinatario della trasmissione è il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”. Lo stesso, cioè, che aveva negato ogni competenza quando lo abbiamo contattato. Visto, invece, che l’Agricoltura non ha coinvolto il dipartimento “Politiche della montagna, Foreste, forestazione e Difesa del suolo” abbiamo evitato di distogliere anche gli uffici in questione dal loro duro lavoro con una email.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Una Pec, per non farci mancare nulla, l’abbiamo mandata pure all’assessore Gallo. Certo, non apre lui stesso la posta, ma qualche suo assistente l’avrà pure trovata e letta, senza però degnarsi di fornire alcuna spiegazione. In questa specie di matrioska di competenze e ruoli, abbiamo mandato Pec pure a Calabria Verde. Anche lì la posta certificata deve risultare un seccante impiccio.

    Chi martella taglia

    Ma il bello viene adesso. Perché se numerare gli alberi vuol dire probabilmente segnare quelli da tagliare – o da salvare, secondo l’ipotesi di Treccosti – quanto si vede a Camigliatello è piuttosto bizzarro.
    Il modo corretto per realizzare il taglio di alberi in area boschiva è quello di procedere alla “martellatura”. È una pratica che impone l’apposizione di un sigillo col simbolo dell’Ente che ha scelto quanti e quali alberi abbattere, tramite appunto la martellatura da fare alla base del tronco dell’albero. Tutto questo al fine di conoscere sempre chi lo ha tagliato. Senza tale sigillo “martellato” adeguatamente dove tutti possano trovarlo, il taglio potrebbe essere opera di chiunque.

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    Uno degli alberi senza martellatura a Camigliatello

    Attorno a questi alberi numerati a Camigliatello fioriscono le ipotesi. Qualcuno parla di salvaguardia delle macchine poste sotto gli alberi, sulle quali d’inverno potrebbero cadere ammassi di neve. Altri sostengono si tratti di un semplice allargamento del parcheggio stesso. Non manca nemmeno chi con un’alzata di spalle assicura che ogni tanto qualcuno traccia numeri sui tronchi, ma poi nessuno li taglia davvero.
    Se però questa volta dovesse accadere, non sapremo mai chi l’ha deciso.