Tag: ambiente

  • Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Non è retorico parlare di un processo infinito per i fatti di Legnochimica, la ex mini Fiat cosentina trasformatasi in ecomostro dopo la fine della produzione.
    Il processo, in corso dal 2016 davanti al Tribunale di Cosenza, è l’esito di una serie di inchieste giudiziarie iniziate nel 2009, in seguito agli incendi sospetti scoppiati in quel che resta dell’ex fabbrica di pannelli in Ledorex a partire dall’agosto del 2008.
    Tredici anni di indagini: un po’ tanti per un sospetto disastro ambientale.
    Purtroppo, rischiano di non essere retoriche altre espressioni, con cui viene bollato l’ex sito industriale di contrada Lecco, nel cuore di Rende, circa trenta ettari schiacciati tra lo stabilimento di Calabra Maceri e quello di Silva Team, un’azienda specializzata nella produzione di peptina: “terra dei fuochi calabrese”, “Ilva cosentina” e via discorrendo.

    Tre indizi faranno una prova?

    Ancora oggi c’è chi contesta la pericolosità del sito. Lo hanno fatto alcuni funzionari dell’Arpacal, sentiti come teste nel 2019 durante il dibattimento in cui è rimasto alla sbarra un solo imputato: il commercialista Pasquale Bilotta, ex liquidatore dei beni della società di Mondovì, attualmente in fallimento per incapienza.
    E, dall’altro lato, c’è chi insiste sulla pericolosità estrema di questi terreni, soprattutto perché gli indizi e le suggestioni non mancano, purtroppo.

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    Le acque nere di uno dei laghetti nei terreni dell’ex Legnochimica a Rende

    C’è l’odore nauseabondo che promana dai terreni e dai tre laghi artificiali in cui fino all’inizio del millennio venivano trattati i materiali. Ci sono le fiamme, che si levano alte e inquietanti dalle acque di questi bacini non appena sale la temperatura.
    E ci sono le morti sospette. Dieci in un anno e mezzo circa. Tutte per tumori alle parti molli. Tutte nella stessa zona: via Settimo, un angolo di un chilometro e mezzo che cinge l’ex stabilimento.
    L’ultima parola, con ogni certezza, spetterà ai magistrati cosentini.
    Vogliamo scommettere su come andrà a finire?

    La storia delle inchieste

    Nessuna dietrologia e nessun complotto. La Procura di Cosenza ha indagato su due elementi distinti ma collegati: l’ipotesi di disastro ambientale, attribuibile senz’altro all’attività di Legnochimica, e, ovviamente, la ricerca del colpevole.
    Il presunto colpevole, Pasquale Bilotta, in questo caso è quello che è rimasto col classico cerino in mano.

    Infatti, Bilotta ha una sola responsabilità: aver rilevato il ruolo di commissario liquidatore che fu di Palmiro Pellicori, tra l’altro l’ultimo amministratore di Legnochimica.
    Pellicori è stato il primo indagato in questa vicenda complessa. L’inchiesta a suo carico, avviata dopo le denunce dei residenti e delle associazioni che li rappresentavano (il comitato Romore e l’associazione Crocevia) si fermò nel 2012, in seguito alla sua morte per leucemia.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Questa inchiesta ha lasciato un’eredità pesante e, finora, insuperata: la perizia di Gino Mirocle Crisci, geologo di vaglia e all’epoca non ancora rettore dell’Università della Calabria. Questo documento, importante e inquietante allo stesso tempo, finì archiviato con l’indagine. E si è risvegliato con l’indagine riaperta a inizio 2016.
    Nel frattempo, nessuno ha prodotto un altro documento valido o fatto quel che si poteva (e doveva) fare: un piano di caratterizzazione credibile ed efficace e avviare la bonifica. Sempre nel frattempo, gli abitanti della zona industriale, ma anche quelli della vicina e popolosa Quattromiglia, sono stati investiti dai miasmi. E, come già detto, alcuni hanno iniziato a morire di tumore.

    Occorre, a questo punto, fissare bene un concetto: una cosa è una ctu, cioè una consulenza tecnica redatta per conto della Procura che indaga; un’altra un piano di caratterizzazione, cioè una relazione tecnica sulle condizioni della zona su cui si sospetta l’inquinamento e di cui si intende promuovere la bonifica.
    Nel caso di Legnochimica, la ctu e i tentativi di caratterizzazione non solo non coincidono, ma arrivano quasi a risultati opposti. Secondo la prima, l’area dell’ex stabilimento sarebbe praticamente compromessa, per i secondi, invece, l’inquinamento c’è, ma non sarebbe pericoloso.

    La perizia Crisci

    Non è il caso di scendere nei dettagli tecnici, che ci si riserva di approfondire.
    In estrema sintesi, è sufficiente dire che la perizia di Crisci è un elaborato di non troppe pagine (circa una quarantina) zeppe di dati, con cui l’ex rettore dell’Unical relazionava all’autorità giudiziaria i risultati della sua indagine.
    I contenuti sono spaventosi: Crisci riferisce di quantità di cloro, metalli pesanti, ferro, zinco e nichel in quantità abnormi, superiori fino al centinaio di volte i limiti massimi stabiliti dalle normative ambientali.

    Attenzione a un dettaglio: già nel 2005 e nel 2008 i primi rilievi affidati ai tecnici dell’Arpacal parlavano di forte concentrazione di sostanze cancerogene nell’area.
    E allora una domanda è spontanea: come mai l’Arpacal ha cambiato idea?
    Ma prima di procedere è doveroso rispondere a un’altra domanda: come ha fatto Crisci a ottenere questi risultati?

    In realtà, il primo a essere insoddisfatto di questa perizia è proprio il suo autore: in più occasioni l’ex rettore ha dichiarato che le sue ricerche sono state incomplete per l’insufficienza dei fondi a sua disposizione. Ma, a dispetto di questa insufficienza, ha lavorato tanto: ha effettuato prelievi d’acqua fino a dieci metri di profondità e prelevato porzioni di terreno fino a trenta metri.
    Crisci avrà fatto poco, ma gli altri, cioè l’Arpacal e i tecnici incaricati da Legnochimica, hanno fatto di meno. Per il primo, il sito è pericoloso. Per gli altri no.

    La perizia alternativa

    Nel 2014 Rende cambia. L’amministrazione comunale guidata da Marcello Manna inizia un rapporto delicato e pericoloso con la società di Mondovì per arrivare alla bonifica in tempi brevi.
    Il costo della bonifica sarebbe di circa sei milioni e mezzo, ma l’azienda prende tempo e propone soluzioni che definire low cost è davvero poco: dal Piemonte arrivano proposte di interventi per un massimo di 650mila euro. Più che un divario, un burrone. E Bilotta, ovviamente, difende gli interessi dell’azienda che rappresenta.

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    La sede del Comune di Rende

    Il balletto dura fino al 2016, quando la Procura, sommersa dalle denunce, riapre l’inchiesta e recupera la perizia di Crisci.
    Tutto risolto? Neanche per sogno, perché la perizia viene messa in discussione.
    La procuratrice aggiunta Marisa Manzini nomina un nuovo consulente: è il chimico Giovanni Sindona, anche lui docente dell’Unical e già protagonista dell’inchiesta sull’ex Pertusola di Crotone, altro grave disastro ambientale tutto calabrese.

    Purtroppo, Sindona fu al centro di un’altra inchiesta, non proprio bellissima: riguardava una presunta truffa ai danni dello Stato.
    Per amor di verità, è doveroso dire che la posizione del prof di Arcavacata fu archiviata. Ma, sempre per amor di verità, è importante ricordare che in quell’inchiesta finirono in manette otto persone, alcune delle quali legate proprio all’ex Legnochimica.

    La perizia Sindona non è mai uscita. Sei mesi dopo il ricevimento dell’incarico, il chimico dell’Unical si limitò a dire che i lavori procedevano a rilento ma che comunque i primi risultati erano diversi da quelli ricavati da Crisci. Risultato: la Procura revocò l’incarico a Sindona e riprese la perizia Crisci tal quale.
    Quali fossero le differenze tra questo lavoro incompiuto e la relazione dell’ex rettore non è dato sapere. Né può spiegarlo Sindona, passato a miglior vita all’inizio del 2020.

    La relazione Straface

    Nel frattempo, l’amministrazione Manna non è stata con le mani in mano. Non avrebbe potuto, anche perché il sindaco, il suo assessore all’Ambiente e il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune erano finiti sotto inchiesta assieme a Bilotta.
    Ma per fortuna, a differenza del commercialista, le loro posizioni furono archiviate.
    Il Comune di Rende, nel 2017 erogò una borsa di studio a favore dell’Unical, da cui è derivata la perizia del professor Salvatore Straface, anch’essa un esempio di incompletezza, tra l’altro giustificata: i cinquantamila euro messi a disposizione dal municipio sono bastati sì e no per alcuni prelievi e scavi superficiali.
    I risultati? Neanche a dirlo, completamente divergenti dalla perizia Crisci: l’inquinamento c’è, ma non è pericoloso. Peccato solo che i pochi mezzi non giustificano risultati così perentori.

    Un finale annunciato?

    È il momento di riprendere la scommessa fatta all’inizio. Il processo a carico di Bilotta potrebbe finire in una maniera tipicamente all’italiana: certificherebbe un disastro senza colpevoli, perché la strategia della difesa, a quanto si è appreso dalle cronache, mira più a sfilare l’imputato dall’accusa di disastro ambientale che a negare il disastro.

    Sarebbe l’ennesima beffa per i cittadini di Rende e per tutti coloro che hanno a cuore l’ambiente. Legnochimica è andata in fallimento, non potrà provvedere alla bonifica in nessuna misura. E difficilmente potrà farlo il Comune, le cui casse sono in crisi da anni.
    Intanto altre persone della zona sono morte, sempre di tumore, accrescendo il bilancio macabro che riguarda gli abitanti della zona e gli ex dipendenti dell’azienda, tra cui le neoplasie hanno mietuto non poche vittime.
    Ma queste sono altre storie, su cui si ritornerà a breve.

  • Calabria a fuoco, cronaca di una apocalisse annunciata

    Calabria a fuoco, cronaca di una apocalisse annunciata

    Sono le 23 di sera, di un normale martedì di agosto, fa ancora molto caldo e le povere cicale, stordite dai nuovi cicli termici, ancora esplodono tutto il loro canto rauco verso la notte. Mi affaccio sul terrazzo di casa ad Acri, dove vivo la stagione estiva cercando refrigerio dal gran caldo delle città dense di asfalto, traffico, smog e dunque altro calore. Ma anche qui, da alcuni anni, quel maglioncino da indossare per il fresco serale, quasi silano, resta nel cassetto: a queste latitudini il cambiamento climatico si fa sentire pesantemente, come altrove. Così, in vedetta, in una sorta di allerta estiva permanente, non impiego molto tempo ad avvertire un forte odore di fumo. Tempo di scorgermi dal terrazzino, e intravedo i bagliori di un incendio che noto da subito furibondo, sulla cresta del “Colle di Dogna” uno dei luoghi alti a confine con l’area presilana, molto vicino alla casa di campagna urbanizzata (da altri) che abito.

    L’apocalisse di fuoco

    Acri, località dal paesaggio un tempo ameno, è una piccola, estesa città senza soluzione di continuità, oggi densamente urbanizzata, circondata da boschi inselvatichiti e terreni agricoli incolti, che ogni estate, da oltre un decennio, si conferma funestata da furiosi incendi che sottraggono piante e coltivazioni alla natura e ne alterano i paesaggi.
    Il violento rossore intravisto, sarà solo l’inizio di quella che diventerà un’apocalisse di tre giorni micidiali, in cui gli assassini della natura si sono accaniti come mai su ettari di boschi a ridosso delle aree abitate di Acri e verso la Sila.

    Il contadino antico

    Proprio per questa ormai cronica, violenta attività incendiaria, da anni seguo la vasta letteratura che su di essa si addensa. Cerco di capire non tanto le ragioni antropologiche e sociali di un fenomeno che investe soprattutto il Mediterraneo, ma immaginare come esso nasce e come oggi non riusciamo a venirne fuori. Nei giorni successivi, durante i quali gli assassini da ergastolo proseguono la forsennata opera distruttrice, appiccando più inneschi e spostando il fuoco in più punti, cancellando intere estensioni di piante anche centenarie, la prima cosa che mi sovviene è che in questo stesso luogo di campagna che oggi abito, Gigi, il contadino antico, che aiutava mio nonno nel coltivare il vigneto e il piccolo uliveto, da solo teneva in perfetta pulizia, con la zappa, circa due ettari e mezzo di superfice, persino scoscesa.

    E il contadino moderno

    Quindi deduco che la sola tecnologia, i mezzi meccanici, non riescono a sostituire ancora il lavoro dell’uomo, che per esempio riusciva a pulire anche le parti più impervie, e che quella autentica, necessaria attività di manutenzione di fossi, scoli, boschetti, radure, balze che manteneva un magnifico equilibrio ecologico e geologico, oggi non c’è più. Non c’è più la costanza, la cura, la sicurezza che tutto questo garantiva, e malgrado ogni anno il potente trattore di Salvatore, contadino moderno, passi a rendere “non infiammabile” la terra, sono ormai alcuni decenni, a fasi alterne, che mi ritrovo nel fuoco, perdendo giovani piante d’ulivo, frutta e storiche viti, in una sorte che accomuna me a tanti!

    Tante scartoffie, nessun fatto

    Mi sono dato alcune semplici spiegazioni, di questa prevedibile, ed evitabile, apocalisse, che valgono ovunque, oltre ad interessi mirati, di natura economica, di nuovi poteri dei farabutti piromani, gruppi organizzati di nuova mafia che in diversi modi lucrano su queste tragedie. I terreni confinanti, pure con tutte le ordinanze sindacali, restano completamente in balia del fuoco perché invasi da sterpaglie che già da giugno ardono come fiammiferi.

    Nessun sindaco mi risulta abbia redatto un catasto dei suoli bruciati. Nessuno di loro fa rispettare le ordinanze. Però esistono giungle di provvedimenti legislativi regionali, di una genericità imbarazzante. Così come per l’urbanistica, che avrebbe dovuto garantire città belle e accoglienti con i suoi tanti – troppi – regolamenti, la giungla di norme per la prevenzione incendi, produce da anni solo burocrazia, scartoffie, nessun piano operativo, ma un’apocalisse di boschi distrutti.

    Lo Stato paga i Canadair, non i pompieri

    Lo Stato è assente, se non con un esborso ingente di costi dei Canadair che l’Italia noleggia da società private, piuttosto che attrezzare i vigili del fuoco, i quali sono i soli in questa lotta ad essere davvero capaci di misurarsi con il fuoco, ma sono mal pagati e con turni massacranti. Il resto delle persone, qui come altrove, sono squadre di volontari, protezione civile e di Calabria Verde, assolutamente scoordinati, malissimo attrezzati e che si formano sul campo, spesso a scapito delle situazioni in cui vengono impiegati, dove le decisioni devono essere lucide, rapide e chiare perché il nemico è velocissimo! Come è stato in questi giorni, sostenuto da un vento che è arrivato a spirare fino a 38 nodi orari, il più grande alleato, suo malgrado, degli assassini della natura.

    Serve cambiare cultura

    Così mi faccio persuaso che non ci sarà alcun rimedio a questa battaglia senza fine e senza quartiere se non ci sarà una nuova cultura ambientale, ecologica, la stessa che eviterebbe le spiagge luride di spazzatura. Se non si abbatte la giungla di responsabilità burocratiche. Se non si crea una sola autorità statale, e poi regionale, con un coordinamento tra regioni più colpite, e non si torna a formare contadini antichi come Gigi, dotati di mezzi moderni, ma soprattutto di buon senso. Se non smette l’omertà con cui troppe volte si coprono tutte le responsabilità di chi sa e non dice, e di chi avrebbe dovuto agire e non ha agito. Anche di magistrati, che presi da altri interessi mettono da parte le inchieste sui roghi e le lasciano marcire in qualche cassetto, mentre potrebbero infliggere eclatanti pene.

    Acri, la Calabria, il Sud, che pagano molto di più il disastro di quanto non sarebbe costata la buona prevenzione, piuttosto che leccarsi le ferite devono agire già da ora, senza attendere la prossima, drammatica apocalisse incendiaria, prevenendo con lungimiranza e coinvolgendo tutti, le scuole, i cittadini, forze dell’ordine, pubbliche amministrazioni.

  • La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Sardegna quest’anno rischiava di soffiarci il campionato dei roghi. Che di solito è calabrese. C’entra poco il caldo e la scusa del global warming non basta. La Calabria brucia. È la regione più ustionata d’Italia, ci sono stati già adesso più di 1200 incendi boschivi. La provincia più colpita negli anni scorsi è stata quella di Cosenza, con ben 413 kmq di aree percorse dal fuoco, l’equivalente di 60.000 campi di calcio, 45,8 kmq di boschi in cenere, come succede ormai quasi ogni anno, da troppi anni. Comunque è buona abitudine che la Sila e il Pollino brucino per mesi durante estati sempre più torride e arse. La Calabria è un lungo ininterrotto barbecue silvestre. Un olocausto verde. L’ustione più vasta di tutta l’Europa continentale.

    Ma quale autocombustione?

    I boschi qui non sono mai bruciati per autocombustione e comportamenti distratti. La montagna in Calabria è stata il regno dei mistici e dei briganti, il deserto spirituale dei santi ecologisti in fuga dal mondo e il rifugio preferito di furfanti e irregolari in lotta col potere.
    La storia della Calabria dice che qui la gente non ama la natura che regna per sé. Le montagne che incombono incontrastate sui paesi dalla marina alla Sila fanno paura, e i boschi e le foreste un tempo fitte ed estese sono stati considerati sin dall’antichità un danno più che una ricchezza, «terra rubata» all’agricoltura.

    I tagli dei boschi per far legna e il debbio, l’incendio regolato di porzioni del manto forestale per far posto alle coltivazioni e ai pascoli, sono sempre stati praticati da contadini e pastori per limitare l’estensione delle superfici considerate improduttive.

    Cancellata la più grande risorsa di questa regione

    La più grande risorsa pubblica di questa regione, la terra e le aree protette, negli ultimi 50 anni è stata cancellata e immiserita in nome della speculazione continua e degli scambi incrociati del consenso. Il settore della forestazione in Calabria è un’altra delle piaghe dolorose della crisi civile di questa regione.
    Le inchieste sulla corruzione dei dirigenti sono all’ordine del giorno. Chi appicca i roghi delle aree verdi che ogni anno a centinaia divorano con ordine geometrico macchie e boschi in ogni contrada della Calabria? Non c’è forse una regia occulta anche per gli incendi che scoppiano ogni estate in questa regione in cui tutto ormai è occulto e trasversale? Chi ha interesse a bruciare, e perché?

    La Calabria brucia, ma non è solo colpa della mafia

    La colpa è, solo, della mafia? E gli speculatori che dopo i roghi incettano biomasse per le centrali, gli intermediari che a vario titolo si disputano fette di territorio per i loro comodi? E i costruttori senza scrupoli di nuovi slums abusivi, e i vecchi pastori di una perduta arcadia che fanno terra bruciata per ridurre i boschi a pascolo per pecore e capre? E gli stessi forestali, che (si dice sempre sottovoce) bruciano quello che loro stessi piantano per assicurarsi il lavoro sui cantieri di rimboschimento?

    In prossimità delle centrali a biomassa

    Un dato soprattutto fa riflettere: praticamente tutti gli incendi estivi in Calabria si sviluppano da anni in prossimità delle centrali a biomassa, disposte ad anello rispetto ai roghi. Si consideri che in situazioni normali non è possibile tagliare nemmeno un ramo all’interno dei parchi, mentre in caso di incendi si ottiene un permesso speciale per la potatura degli alberi. E in questi casi parliamo di alberi carichi di resina, cioè facilmente infiammabili.

    Il doppio ruolo di Calabria Verde 

    L’azienda che in Calabria si occupa dello spegnimento dei roghi è poi la stessa che è incaricata della bonifica delle aree incendiate: Calabria Verde (che con legge regionale 25 del 2013 ha sostituito le funzioni delle Comunità Montane). Altro dato anomalo registrato dalla Protezione Civile calabrese, è il boom di iscrizioni di nuove ditte boschive nate negli ultimi 5 anni. Non poche sono in odore di mafia.

    La favola dell’autocombustione

    Sarà pure l’estate più calda del secolo questa, ma riesce sempre difficile credere all’autocombustione (puntiforme), ai piromani isolati, ai fanatici del fuoco in gita di piacere, ai mozziconi gettati distrattamente dai finestrini. Forse il totale che assomma i fuochi che estate su estate divampano incontrastati è il risultato di tutte queste scelleratezze messe assieme. C’è un bel mucchio di persone che appiccano incendi dolosi conto terzi.

    Nessuno sa più come custodire i boschi

    Il fatto è che nessuno sa più come custodire i boschi. Nessuno più sa come si fa. Non più i forestali riformati, con il nuovo Corpo Forestale (diventati Carabinieri, sono scarsi di mezzi e con poca esperienza), non gli eclettici volontari-disoccupati delle squadre antincendio. Sapeva come farlo la gente di montagna. Che in montagna, spopolata da tempo, non vive più. La buona volontà di ambientalisti e gruppi ecologici è un palliativo da fine settimana en plen air. Una volta lo facevano pastori, i boscaioli e i «mannesi», gli operai forestali di un tempo. E persino i carbonai sapevano come trattare e accudire il fuoco nei boschi.
    Di questi tempi invece non bastano i Canadair, le squadre di vigili del fuoco e gli interventi antincendio della Protezione Civile a mettere fine a questo scempio di roghi incontrollati che da anni fa olocausto dei boschi e dei monti della Calabria che brucia.

    La Calabria va a fuoco

    La Calabria va a fuoco, in tutti i sensi. Il nostro è un mondo democraticamente caduto nella follia dei roghi autostradali e dell’olocausto incurante di boschi e foreste. Si bruciano i boschi secolari, si brucia la Sila, il Pollino, l’Aspromonte, si bruciano i parchi nazionali e le oasi naturalistiche da cui dovremmo, si dice tra l’altro, ipocritamente, saper trarre opportunità di sviluppo per un “turismo sostenibile”.
    La verità è che qui la tragedia della natura è il seguito degli altri disastri di una democrazia senza qualità, degenerata in abuso, governo caotico di un blocco di potere disordinato, tetragono e quasi privo di regole intellegibili.

    Il sacco del territorio

    Domani pagheremo di nuovo con le frane e con le alluvioni ciò che il fuoco ha distrutto in estate. Con il seguito dissimulato e peloso di pretese e lamentazioni rituali. La pianificazione del territorio in questa regione continua ad essere una piaga. Si costruisce ovunque, sparisce la campagna, il sacco del territorio favorisce l’espansione senza limiti. Il paesaggio è abusato senza soste, la bellezza dei luoghi stuprata di continuo.

    Il delirio nichilistico

    La natura stessa, in tutte le sue molteplici manifestazioni, resta cosa dissacrata, spazio da occupare, materia denudata a disposizione di ogni sfregio: res extensa. Non più natura vivente al centro di pratiche e sapienze tramandate provenienti dal passato e dalla spiritualità popolare. E, quel che è peggio, nemmeno argomentata da ragioni e strumenti di un pensiero del moderno che possa dirsi tale.
    La Calabria continua a bruciare. Brucia per il delirio nichilistico di una volontà umana ebbra e devastante.

  • VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    Fa acqua da tutte le parti. Con l’aggravante che si tratta di acqua sporca, che fuoriesce dagli scarichi fognari attraverso troppe tubature non regolarmente collettate e finisce direttamente e abusivamente nei corsi d’acqua che sfociano a mare. Da anni il sistema di depurazione calabrese minaccia – e l’inchiesta Archimede ne è una prova – lo stato di salute del mare degli oltre 800 km di costa tra Jonio e Tirreno. Proprio sul litorale ovest molto spesso appaiono enormi chiazze, strisce e bollicine giallastre, che inibiscono i bagnanti dalla voglia di fare un tuffo e, in generale, rischiano di tenere lontani i turisti.

    Le istituzioni minimizzano, i cittadini si indignano

    E così sono ripartite le polemiche, tra social network, comunicati e conferenze stampa di assessori e sindaci che accusavano i cittadini indignati di fare «cattiva pubblicità» al Tirreno calabrese con la diffusione di «immagini di mare sporco non veritiere». Non si tratta di «merda», ha spiegato Fausto Orsomarso, ma di semplice e naturale «fioritura algale» e chi dice il contrario rischia una denuncia.

    Il giudizio dell’esperto

    Una analisi approfondita prova a farla un veterano dell’ingegneria idraulica dell’Università della Calabria. Il professor Paolo Veltri spiega che «il mare calabrese è di tipo oligotrofico, cioè presenta pochi nutrienti e, anche in presenza di alte temperature, non dà luogo a fioritura di alghe. Può succedere – sostiene Veltri – ma non è di certo un fenomeno sistematico». Il problema dell’acqua marrone del Tirreno resta quella depurazione finita a più riprese nel mirino della magistratura.

    Promesse e protocolli

    Intanto, mentre Capitano Ultimo ha promesso lo sblocco dei fondi – circa 70 milioni di euro – per sanare le procedure di infrazione e i depuratori malfunzionanti, si aspetta l’adesione di tutti e 21 i Comuni del Tirreno cosentino al protocollo d’intesa promosso dalla Provincia di Cosenza su input determinante del comitato “Mare Pulito”. Si chiede soprattutto monitoraggio costante e la trasparenza sui dati dei sistemi di depurazione. 

  • Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Lavoro, amianto e voti sulla strada che porta alle fabbriche del Tirreno cosentino. Qui a Nord della Calabria non solo il turismo ha creato un po’ di reddito e tanta ricchezza per pochi. Migliaia di uomini e donne erano impiegati in quelle che adesso sono soltanto  archeologia industriale. Operai nelle fabbriche della Marlane e Lini e Lane di Praia a mare, donne alla camiceria di Scalea, alla Foderauto di Belvedere, alla Emiliana tessile di Cetraro. Di tutto questo lavoro oggi non rimane niente.

    Le fabbriche abbandonate
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    Il vecchio stabilimento abbandonato della Lini e Lane

    La Foderauto di Belvedere e la Lini e Lane sono abbandonate, la Emiliana di tessile riconvertita ad altro, la Marlane ancora invasa da rifiuti tossici sotterrati. E sembra incredibile che una struttura di questa grandezza, maestosità, imponenza, totalmente in preda al degrado stia al centro di una cittadina, considerata turistica, come Praia a Mare. Uno scheletro enorme emerge fra campi ancora coltivati, il vicino cimitero, palazzi per turisti e residenti. Si entra da un lato, quasi nascosto, proprio alle spalle del cimitero. Di fronte c’è la linea ferroviaria, dall’altra parte scorre la strada provinciale che delimita un altro scheletro: quello della famigerata Marlane.

    Era una fabbrica con 400 operai

    Quando entri nello stabilimento della Lini e Lane campeggia gigantesco, sulla sinistra, a mo’ di guardiano un enorme serbatoio in cemento e amianto. Una discarica invisibile che non vede nessuno, né il sindaco Praticò, né l’Asl. I tetti sono in amianto, così altre strutture. I topi sono dappertutto. Il silenzio è rotto solo dai treni che passano e che rimbombano all’interno vuoto della vecchia fabbrica. Negli anni Sessanta, questo capannone, era il fiore all’occhiello di tutta la Calabria con 400 operai. Da qui uscivano lenzuola, ricami, fazzoletti, tovaglie per tutta Italia.

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    Il vecchio serbatoio della “Lini e Lane”
    Dalla fabbrica uscivano voti alla Dc

    Lo Stato di allora, i governi di allora, i vari panzoni, forchettoni democristiani venivano a visitarla periodicamente rivendicandone nuovi finanziamenti e nuovi incentivi. Così come alla Marlane e in tutte le fabbriche tessili dell’epoca, a Castrovillari come a Cetraro ed a Scalea, da qui non uscivano solo lini e lane, ma anche voti a profusione per la DC. Basta leggere le interrogazioni parlamentari, finte, che gli stessi democristiani calabresi rivolgevano ai loro stessi governi democristiani. Le facevano dimostrando interesse per gli operai e poi in parlamento votavano per le dismissioni. Le interrogazioni del 1967 portano la firma di Mariano Luciano Brandi, socialista saprese, di area manciniana che fu deputato dal 1968 al 1972. Le altre del 1979 portano la firma di Romei, Buffone, Cassiani, Pucci. Democristiani doc che hanno fatto la storia del partito e della Calabria.

    I sindacati reggevano il sacco ai partiti

    I sindacati non disturbavano i partiti. Si accontentavano di esistere con le loro tessere ed anche loro ne approfittavano per ottenere qualche indotto lavorativo. Come avveniva alla Marlane dove la “triplice” si era spartita tutto l’indotto esterno della Marzotto costituendo cooperative guidate proprio dai segretari di Praia a Mare. Loro sapevano che quelle industrie tessili si reggevano solo con i cospicui finanziamenti delle varie Isveimer, Imi, Gepi, Cassa del Mezzogiorno.

    Non avevamo mai visto uno stipendio mensile

    Sono gli operai che non lo sapevano. Operai che provenivano tutti dal mondo contadino, che non avevano mai visto uno stipendio mensile, e che per loro anche una cifra modesta ricevuta ogni mese, serviva loro per incentivare i loro sogni. Vedere il figlio laureato, pagare qualche debito, comprarsi l’auto, magari una Cinquecento o un tre ruote per andare il pomeriggio in campagna, finirsi la casa costruita mattone per mattone da loro stessi.

    Quel che resta delle fabbriche

    Oggi tutto è ridotto a scheletri industriali. Potrebbero diventare musei questi fabbricati. Ma il loro destino è ben altro. Nonostante le denunce fatte dal Comitato cittadino per le bonifiche dei terreni, nessuno è intervenuto. Il Comune dice di non poter intervenire in quanto l’area apparterrebbe ad un privato di Scalea, il privato non ha soldi per intervenire e cerca un compratore. Intanto la struttura continua a vivere mangiando i rifiuti che solerti cittadini praiesi avvezzi alla differenziata continuano a portarle.

     

  • Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    La realtà è sotto gli occhi di tutti quotidianamente: l’acqua appare sporca in molti tratti del Tirreno cosentino. Chiamatelo come volete questo sporco: polvere della spiaggia, fioritura algale, mare mosso, detersivi dei fondali. Il dato è che la voglia di fare un bagno è sempre meno. I turisti sui social sono scatenati. Furiosi, pubblicano foto da ogni spiaggia tirrenica con il mare tutt’altro che limpido. E ne hanno piena ragione: una settimana in un hotel o casa privata presa in affitto arriva a costare fino a 1500 euro. Aggiungete il costo dei lidi, dei parcheggi e del sostentamento e alla fine ci si ritrova con una bella spesa.

    Bandiere Blu

    L’esborso si sosterrebbe anche volentieri se si potesse fare un bagno nel Tirreno in tranquillità. Ma se si arriva sulle spiagge e si trovano sporche e il mare, in più, non è balneabile allora ci si sente truffati. Se poi si è venuti in questa zona spinti dalle nuove Bandiere Blu, la sensazione aumenta. Già, le Bandiere Blu: Per ottenerne una – è scritto sul sito che le assegna -, bisogna rispondere a ben 35 criteri che vanno dall’accesso dei disabili alle spiagge al controllo sulla depurazione, passando per l’affissione pubblica dei dati sulla balneabilità. Criteri forse rispettati altrove, mentre ad oggi in nessun paese sul Tirreno cosentino che abbia ottenuto la bandiera Blu tutto ciò si è avverato.

    L’inchiesta sulla depurazione

    Cade come un macigno a mezza estate l’inchiesta del procuratore Bruni sulla depurazione, un macigno grande come un palazzo che ha sconvolto tutti i centri del Tirreno. In particolare, i comuni di Diamante, Buonvicino e San Nicola, paesi sui quali vigeva la legge dei gestori dei depuratori e di funzionari degli uffici tecnici, forti tutti dall’appoggio di un infedele tecnico dell’Arpacal che li avvertiva dell’arrivo di eventuali ispezioni ai depuratori. Il sistema scoperchiato da Bruni dà l’idea di individui presi da delirio di onnipotenza per il tanto danaro che ricevevano dai Comuni con delibere a cadenza mensile. Quasi fossero sicuri dell’impunità, parlavano liberamente fra loro sui cellulari delle loro malefatte e dei traffici in atto.

    https://www.facebook.com/456580921189432/videos/745458892971276

    Dall’inchiesta apprendiamo cose che confermano i timori di quanti da anni lottano per avere un mare pulito individuando le cause della sporcizia e proponendo i metodi per eliminarle. Nell’indagine è finito anche un video che i militanti dell’associazione ambientalista Italia Nostra avevano effettuato a San Nicola Arcella filmando in diretta la rottura della condotta sottomarina e la conseguente fuoruscita dei liquami in mare. Quel video, appena apparso su Facebook, aveva allarmato le ditte, i tecnici, il sindaco di San Nicola, che immediatamente erano corsi ai ripari. Con buona pace di quegli amministratori che vedono negli ambientalisti l’equivalente di un’invasione di cavallette o altre sciagure.

    Magorno come Orsomarso, querele per chi dissente

    L’ultimo ad intervenire in questa direzione è stato proprio il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno. Il renziano, infatti, ha stigmatizzato l’intervento di Italia Nostra che ha mostrato proprio il mare sporco fra Diamante e Belvedere in una bellissima giornata. E con una delibera subito approvata dalla giunta ha messo in guardia le associazioni per future querele da parte dell’ente a tutela di un mare pulito per decreto. Neanche due settimane dopo e l’inchiesta di Bruni ha cambiato le carte in tavola.

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    La delibera della Giunta di Diamante firmata meno di due settimane fa dal sindaco Ernesto Magorno

    Gli arresti scattati dopo l’operazione Archimede hanno messo in pausa la questione, con il sindaco che ha commentato l’accaduto lanciando uno striminzito comunicato di appoggio all’azione giudiziaria, come se la cosa non lo riguardasse. Ma il tecnico ai domiciliari è del suo comune, così come i vari responsabili delle ditte in questione. Sono presenti da decenni a Diamante, non solo per il depuratore, ma anche per altre gestioni. Quella dell’acquedotto, per esempio, sulla quale sembra che penda un’altra inchiesta, o quella di diversi appalti su opere pubbliche. Sono sempre gli stessi a vincere le gare e sono sempre gli stessi a poter lavorare.

    Un problema diffuso

    Nei mesi scorsi altre inchieste hanno riguardato ulteriori comuni tirrenici come Maierà, Tortora, Scalea, Praia a mare. Un filo unico che la Procura di Paola sta cercando di portare a galla dopo anni ed anni di acquiescenza . Ma nell’inchiesta c’è di più. Ed è davvero grave.

    I fanghi depurati del depuratore di Buonvicino finivano sotterrati in terreni agricoli e a portarceli erano propri i dipendenti della ditta, autorizzati dal loro capo. Operazioni senza scrupoli che mettevano in pericolo le falde acquifere del territorio circostante oltre che i terreni stessi e le coltivazioni che vi erano. Un’attività criminale scoperta da poco, ma che secondo gli inquirenti andava avanti da tempo. E che si spera l’inchiesta blocchi immediatamente.

  • Archimede, indagati e destinatari delle misure cautelari

    Archimede, indagati e destinatari delle misure cautelari

    Archimede è il nome dell’operazione coordinata dalla Procura di Paola -guidata da Pierpaolo Bruni – e condotta dai carabinieri della compagnia di Scalea, sotto il comando del capitano Andrea Massari. In dieci sono i destinatari di misure cautelari. Gli inquirenti ipotizzano una serie di condotte collusive e fraudolente. Compreso il ricorso ad appalti spezzatino e allo smaltimento dei fanghi di depurazione senza adeguato trattamento nei terreni agricoli.

    In quattro agli arresti domiciliari

    Quattro persone sono finite agli arresti domiciliari: Tiziano Torrano, Pasqualino De Summa, Giuseppe Maurizio Arieta e Maria Mandato. Coinvolta in Archimede anche il sindaco di San Nicola Arcella, Barbara Mele. Per lei obbligo di presentazione e firma alla polizia giudiziaria. Albina Rosaria Farace e il tecnico dell’Arpacal, Francesco Fullone, sono stati sospesi dall’esercizio del pubblico ufficio per 12 mesi.

    Per Enzo Ritondale e Renato La Sorte disposti rispettivamente il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione per 12 mesi e per 6 mesi. Vincenzo Cristofaro raggiunto dal divieto di esercitare la professione di ingegnere per 12 mesi. Sono indagati a vario titolo anche Alberto De Meo, Francesco Astorino, Giovanni Amoroso, Giovanni Palmieri, Giuseppe Oliva, Vincenzo Perrone, e Virgilio Cordero.

  • Orsomarso pronto a denunciare la Procura?

    Orsomarso pronto a denunciare la Procura?

    Fausto Orsomarso l’ha detto e ripetuto: è pronto a denunciare chiunque oserà dire che il mare calabrese è inquinato. Il motivo? La buona qualità delle acque è certificata dai controlli dell’Arpacal. E le chiazze marroni che vi galleggiano sopra? Altro non sono che fioritura algale.

    Poco importa che agli occhi (e spesso al naso) dei comuni mortali quelle macchie ricordino più lo sterco che fioriture. O che queste ultime, qualora la versione dell’assessore venisse confermata in toto, non siano esattamente le beniamine dell’associazione Dermatologi italiani. O, ancora, che tra le possibile cause delle fioriture ci sia anche l’inquinamento. Trascurabili dettagli.

    Questa mattina, però, a mettere in dubbio la bontà delle affermazioni di Orsomarso sono stati proprio coloro che avrebbero dovuto raccogliere le sue eventuali denunce, ossia magistratura e forze dell’ordine. Con la prima che se l’è presa, tra i tanti, proprio con un tecnico dell’Arpacal, reo secondo gli inquirenti di aver taroccato i controlli delle acque in modo da farle risultare più pure di quanto siano in realtà.

    Fossimo in un sillogismo aristotelico l’enunciato sarebbe semplice: Orsomarso denuncia chi dice che il mare è inquinato, la Procura dice che il mare è inquinato, Orsomarso denuncia la Procura. La logica, però, quando c’è di mezzo la politica calabrese non sempre è applicabile.

    Dal maestro Scopelliti al discepolo Orsomarso

    Qualche anno fa, ad esempio, l’allora governatore Scopelliti si presentò in enorme ritardo a una conferenza stampa presso la Confindustria bruzia. Si giustificò spiegando di aver passato le ore precedenti sorvolando in elicottero il Tirreno cosentino insieme agli esperti regionali e la Guardia costiera. Dal volo avevano tratto una conclusione (secondo lui) rassicurante, che enunciò con solennità: «Il mare calabrese non è inquinato, è sporco». Se fosse impolverato o altro non lo chiarì, nonostante gli sguardi curiosi dei suoi ascoltatori.

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    Fausto Orsomarso insieme al celebre dj Bob Sinclar

    Orsomarso, che di Peppe Dj è stato fido discepolo al punto da intrattenersi in consolle con Bob Sinclar l’estate scorsa, ha usato più o meno la stessa tecnica. Solo che l’operazione della Procura di Paola gli ha scombinato i piani. La minaccia gli si è ritorta contro, mentre sui social fiorivano i commenti ironici sull’accaduto. Una figura degna delle celebri profezie di Fassino. O, per restare in tema, una figura di fioritura algale.

     

  • Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
    Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

    Un disastro ambientale su scala

    Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
    Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

    Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
    Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

    La chiusura di Legnochimica

    Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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    Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

    Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
    Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

    La guerra delle perizie

    Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
    La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
    La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
    Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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    L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

    Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
    La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
    Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
    Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

    La nuova inchiesta

    La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
    Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

    Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
    Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

    La bonifica della discordia

    Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
    Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

    Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

    Ancora lutti a Rende

    Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
    E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

    Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
    A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.

  • Depurazione, dieci misure cautelari nel Tirreno cosentino

    Depurazione, dieci misure cautelari nel Tirreno cosentino

    Stamane i carabinieri della compagnia di Scalea hanno eseguito dieci misure cautelari. Coinvolti anche un sindaco, un tecnico dell’Arpacal, imprenditori e tre funzionari degli uffici tecnici dei Comuni dell’Alto Tirreno cosentino.
    L’indagine, coordinata dal procuratore di Paola, Pierpaolo Bruni, riguarda una serie di illeciti in relazione a procedure ad evidenza pubblica nel settore della depurazione.

    Si ipotizzano condotte collusive e fraudolente finalizzate ad avvantaggiare uno o più operatori economici con riguardo ad appalti e affidamento di servizi in diversi comuni dell’Alto Tirreno Cosentino, anche in violazione dei criteri di rotazione nell’affidamento di lavori e aggirando il dovere di effettuare indagini di mercato.

    Dalle indagini emerge la condotta di taluni imprenditori che avrebbero violato gli obblighi contrattuali assunti con comuni della fascia tirrenica con riguardo ad appalti afferenti la gestione e la manutenzione dell’impianto di depurazione e degli impianti di sollevamento e hanno smaltito fanghi di depurazione senza adeguato trattamento nei terreni agricoli anziché mediante conferimento in discarica autorizzata, talora anche attraverso lo sversamento del refluo fognario in un collettore occulto.

    In alcune circostanze sono state immesse nelle acque sostanze chimiche in assenza di un preciso dosaggio rapportato alle caratteristiche microbiche delle acque, con la finalità di occultare la carica batterica delle acque prima dei previsti controlli, la cui esecuzione veniva in anticipo e preventivamente comunicata al soggetto da controllare da parte di un tecnico dell’Arpacal che, violando il segreto d’ufficio, concordava direttamente con i gestori degli impianti di depurazione le modalità di esecuzione dei controlli, oltre che la scelta del serbatoio da verificare, così determinando una alterazione della genuinità delle analisi effettuate.

    I dettagli dell’operazione saranno spiegati questa mattina alle 11:00 in una conferenza stampa alla quale parteciperanno il procuratore della Repubblica di Paola, Pierpaolo Bruni, il comandante provinciale di Cosenza, colonnello Piero Sutera, ed il comandante della Compagnia di Scalea, capitano Andrea Massari.