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  • Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Ho viaggiato nell’estate grecanica con la voglia di capire e scoprire. Un viaggio di incontri, sorprese, amicizie e sconforti. Vacanze esaltanti e memorabili. Ho ancora negli occhi i bagliori dei fuochi e il cielo dantesco oltre il crinale dei colli che accompagnano al mare la fiumara dell’Amendolea, in una notte di mezzo agosto. Ma ho negli occhi anche le scogliere di Capo Vaticano e il profondo blu di Praia di Fuoco o i ruderi viventi di Roghudi. Bellezze paesistiche e opere dell’uomo si mimetizzano nelle infinite sfumature di verde di una terra che amo fin da quando ero studente.

    Rarità potenti, violentate dal triste spettacolo che a tratti, secondo una logica apparentemente gratuita si affaccia, dietro una curva fra gli ulivi, sotto forma di sacchi di plastica sventrati, esplosi in una sequenza horror. Come se la spazzatura segnasse il territorio. Inneschi, mimetizzati da pattume, pronti agli scopi dei fuochi criminali. Così, bellezza e degrado, cultura e incuria, luci e ombre sono stati il leitmotiv del tempo sospeso e meraviglioso delle mie vacanze nella Calabria Ulteriore. Tempo assolato e affascinante, tempo di letture del paesaggio, di meditazioni e di parole leggere, improvvise, ma capaci di arrivare al punto. Tempo di discorsi intorno a un tavolo tra persone appena conosciute.

    Il paradiso perduto

    La Calabria ci ricorda che l’Eden delle foreste incontaminate, delle acque limpide, delle spiagge aperte ai “naviganti”, il reame incantato dei borghi che ancora conservano il tepore domestico dei modi meridionali dell’abitare e le vestigia di una civiltà che affonda le proprie radici nel tempo immemorabile degli ancestrali, è a rischio. Un rischio grave, concreto, palpabile.

    Questo paradiso dello sguardo, che unisce in un inestricabile connubio la natura e la cultura si può trasformare improvvisamente nell’inferno dei boschi carbonizzati. Un’ecatombe arborea di cui porteremo il peso sulla coscienza per anni. Nella desolazione consumistica delle discariche estemporanee. Nel disordine urbanistico si annida un male antico, il male di vivere dell’indifferenza. È come se l’ignavia si fosse impadronita di un territorio lasciato a sé stesso, senza una guida degna di questo nome.

    Sventolano i panni stesi dell’abusivismo

    La qualità eccelsa del saper costruire nei borghi di Stilo, Badolato, Gerace, Ardore, e in moltissimi altri paesi si scontra con la miseria delle scatole di cemento spuntate non si sa come nelle periferie delle città o lungo i binari della ferrovia. Dove c’erano le pinete a protezione delle colture di bergamotti e di gelsomini adesso sventolano i panni stesi dell’abusivismo.

    La cura tenace, assidua degli uliveti e la geometrica perfezione dei giardini di Condufuri e delle vigne di Palizzi si contrappone al caos edilizio degli scali ferroviari lungo il mare, dove la pietra è stata sostituita dal fallimentare sodalizio tra i forati in laterizio e tondino. Tronchi di ferri e mattoni che arpionano l’orizzonte marino facendo sembrare le case relitti di una guerra fra poveri. Scempio che, per la verità, interessa non solo la Calabria, ma che lì fa più male perché il contesto ambientale è invece bellissimo.

    Qui non c’è, per così dire, l’attenuante delle periferie delle megalopoli. Lo scenario è mosso, vario, sempre diverso fra poggi e falesie, fiumare e castelli. Mentre nel regno vegetale prevale un ordine antico e sapiente, nei quartieri della speculazione domina l’arbitrio, l’improvvisazione e la prepotenza. L’elenco dei punti in cui le contraddizioni in Calabria sono plateale rischia tuttavia di rispolverare vecchi stereotipi, lamentele sapute e risapute, tic linguistici che coprono, con una coltre di trite doglianze, la ragione profonda di questi sintomi.

    Il lume antico e la barbarie

    In Calabria, nello stesso luogo, convivono il lume antico di civiltà millenarie e l’ombra della barbarie. Basta parlare con le persone per capire che il tessuto civile è contaminato da qualcosa che non si vede, non appare, ma si percepisce. Una mano invisibile che comanda, ma non si fa stringere, conduce il gioco protetta dal non detto. Dello Stato si parla come di un’entità metafisica, lontana e ostile, forse inesistente. La stessa Unità d’Italia e l’impresa dei Mille – per la verità non senza ragioni storiche – sono oggetto di critiche e sarcasmi.

    L’ombra del potere

    In ogni dove si aggira lo spettro dell’abbandono e del tradimento. Le istituzioni pare che abbiano lasciato mano libera a un potere invisibile, ma solerte e determinato. Un potere grigio le cui sfumature vanno dal tenue e sfumato clientelismo, fino al grigio piombo della malavita organizzata. Un potere silente, ma onnipresente che condiziona la vita dei cittadini e dunque i loro comportamenti, così il morale si piega allo sconforto. Un’entità sfuggevole, che potremmo chiamare, con un eufemismo, “l’ombra del potere”, oscura i cieli limpidi di questa catena di montagne piantate in mezzo al Mediterraneo.

    Un ponte di civiltà verso il sud, al quale la politica dovrebbe prestare estrema attenzione. Ma si sa che la politica politicante cerca il consenso facile. E così il serpente si morde la coda. I voti facili, basati sullo scambio avvelenano la politica. Un corto circuito suicida al quale i politici non badano, presi come sono da logiche di spartizione e di volontà di potenza. Le cronache e le inchieste su questi temi del malaffare di stampo politico sono alla portata di chiunque voglia informarsi.

    La guerra delle persone in carne ed ossa

    Basta parlare con un imprenditore per venire a sapere che ogni giorno deve scegliere il campo di battaglia: se combattere per l’acqua indispensabile alle colture e deviata per ragioni legate al consenso, oppure difendere la propria azienda da attacchi illegali. Basta parlare con il custode del museo per scoprire che i pochi addetti in servizio sono costretti a turni impossibili, mentre il clientelismo premia l’assenteismo e i musei restano chiusi. Basta guardare il viso di un negoziante in Aspromonte per capire che il rispetto per il cliente che ha di fronte va oltre ben lo zelo commerciale. Basta parlare con un abitante per scoprire che c’è del metodo della seminagione dei rifiuti.

    Però poi basta chiedere un’informazione a un passante per scoprire di essere un interlocutore gradito al quale si risponde con un sorriso e una serie di precisazioni e approfondimenti che fanno le veci del più convenzionale e spicciativo “Benvenuto!”. Gentilezza e garbo accompagnano il viaggiatore che, anche nelle località più affollate, non ha mai l’impressione di essere preso all’amo. Se parli con chi ti ospita scopri che l’arte dell’arrangiarsi è teorizzata con enfasi come l’unico modo che l’individuo ha per salvarsi dall’indigenza o dal servaggio.

    Una luce nel buio

    Che fare dunque? A nulla valgono le lamentazioni, le recriminazioni storiche, le pie illusioni. Per dissipare le ombre di un potere oscuro che uniforma tutto e tutto ammanta con una coltre infida di sospetti, dubbi e rinunce l’unica arma è la verità dei fatti. La denuncia permanente delle malefatte, spiegata ai quattro venti e minuziosamente descritta con dovizia di particolari. Molti alzeranno le spalle, qualcuno si volterà dall’altra parte, altri negheranno l’evidenza, ma i fatti messi nero su bianco resteranno a futura memoria.

    Basta luoghi comuni sulla Calabria

    Bisogna raccontare la verità non solo ai calabresi, ma anche a tutti gli italiani che troppo spesso parlano della Calabria come figlia di un dio minore. Va raccontata la verità e non la storiella stucchevole e ammiccante dello spot al bergamotto e al peperoncino come armi di seduzione turistica. È profondamente ingiusto blandire o stigmatizzare utilizzando luoghi comuni, bisogna invece scoperchiare i sepolcri imbiancati di chi lucra sulle macerie della convivenza civile. Purtroppo, contro le tenebre non esiste altro rimedio che la luce.

    Basta il lume di una candela tenuta accesa da un’intelligenza vigile per metter in crisi l’ombra del potere che si nutre di non detto, di parole a mezza voce, di sguardi sfuggenti e di agguati. Certo ci vuole coraggio e anche astuzia per gridare al mondo che il re è nudo anche qui alle falde dell’Aspromonte che nell’etimo grecanico significa Monte Bianco per nulla aspro o impervio. Non impraticabile dunque ma bianco come le crete che finiscono a mare tra Bova e Palizzi dove i greci attingevano la materia prima per i celebri vasi attici. Parliamo di cultura, di ambiente, di paesaggio per dire che questa terra non è solo una spiaggia, ma un enorme deposito di storia e bellezza tutta da scoprire.

    Giuliano Corti
    Scrittore e autore di testi per opere multimediali

  • La monnezza fa parte del paesaggio umano calabrese

    La monnezza fa parte del paesaggio umano calabrese

    Questa non è solo l’estate degli incendi appiccati a comando e dell’olocausto rituale e paramafioso di boschi e foreste. Come se non bastasse. Ci sono anche le monnezze, le discariche a cielo aperto, i cumuli di rifiuti urbani abbandonati per mare e monti a fermentare sotto il sole per mesi, anni. Un’esplosione di scarti dispersi e seminati ovunque da mano umana per paesi, città e strade più o meno trafficate. Polluzione nociva da cui non si salvano affatto boschi, riserve, aree verdi, parchi nazionali. Anzi. Succede specie quando vanno tutti in vacanza, e i servizi ai cittadini sotto la voce Tari latitano.

    La monnezza non sparisce mai

    Le spazzature oramai sono presenze incombenti, entità materiali e simboliche, “oggetti” che non spariscono dal nostro paesaggio neanche quando i servizi migliorano, la raccolta differenziata viene messa in opera correttamente. Le monnezze restano, troppe e insolubili, anche nei casi migliori di civismo e buone prassi. Perché non è solo un problema di politiche di smaltimento arretrate, di discariche e inceneritori che dominano le scelte delle politiche regionali sul ciclo dei rifiuti. E allora? Il guaio è la prevalenza delle monnezze abbandonate negli spazi pubblici, le discariche fuori controllo, la presenza macrofisica e microfisica di resti ingombranti, rimasugli, avanzi. Buste di spazzatura e rifiuti urbani si impongono così, malgrado le buone eccezioni, come nuovo e significativo oggetto-monumento-documento: sono un carattere del paesaggio e dello spazio pubblico contemporaneo in Calabria. Stanno lì, sotto gli occhi di tutti, e ci interrogano. Su cosa? Un fenomeno esorbitante come questo non può non dirci qualcosa sul senso civico e le mentalità diffuse tra i nostri corregionali.

    Una passeggiata tra i rifiuti nel centro storico di Cosenza (Foto Alfonso Bombini)
    Siamo noi i colpevoli

    Come per gli incendi boschivi, gli operatori di questi scempi ambientali non sono gli altri. Non sono soggetti estranei o truppe d’occupazione, ma nostri concittadini: autoctoni, indigeni, calabresi doc. Sono i nostri vicini di casa, siamo noi, nessuno si senta escluso. La pantopologia delle monnezze non risparmia un angolo che sia uno della regione: paesi, province o città metropolitane. La Calabria espone le sue scorie e suoi scarti ingombranti, polverosi, sporchi e olezzanti, ovunque a cielo aperto. Come fossero le installazioni di un artistico museo en plein air di Trash Art. Ma non lo sono, e non lo diventeranno. Sono altro.

    Produciamo più monnezza di una metropoli asiatica

    Su un piano di realtà viene seriamente da chiedersi. Come sia capace la regione dichiaratamente più povera, disamministrata e più disperata d’Europa per la disoccupazione e l’emigrazione crescente, quella con la miseria preindustriale dei suoi redditi medi e i sostegni a pieni mani dei redditi di cittadinanza, ad accumulare in proprio, per poi e sparpagliarla ovunque, tanta monnezza superconsumista? Già, perché la monnezza significa una cosa sola: eccesso di consumi, di beni superflui, di cibo in eccesso, di plastica, di imballi e di tutto il resto. Insomma è prova flagrante di sovrabbondanza, dismisura, eccedenza. Lo spirito del capitalismo che si manifesta in rumenta al 38° parallelo. Perché quello che si butta via e che si mette disinvoltamente fuori, prima si acquista nei santuari del consumo di massa: supermercati, iper, centri commerciali. La Grande distribuzione organizzata in Calabria ha i suoi hub del consumismo piazzati ovunque e per tutti i gusti. Poi le merci che passano dalla GDO prima di finire in giro nei sacchetti di plastica scaraventati ovunque fuori la porta di casa, stanno dentro le case dei calabresi, quelle di paesi e città, al mare o in montagna: riempiono i frigoriferi, le dispense, i ripostigli, gli armadi. Ecco un altro dei misteri ingloriosi che ben rappresentano lo stigma autoinflitto della società calabrese contemporanea. Una società di poveri che consuma in eccesso. E fa più monnezza di una metropoli asiatica.

    Murales e rifiuti a pochi metri dal fiume Crati a Cosenza (foto Mauro F. Minervino)
    I rifiuti sono un oggetto reale e simbolico

    Come antropologo che lavora sul campo temo che in questa regione si debba  considerare l’evidente e ormai annosa supremazia degli scarti e degli ingombri inquinanti abbandonati nei luoghi pubblici, con le irreparabili conseguenze dei danni procurati su paesaggio antropico e natura (insieme alle cattive abitudini civiche correlate), come un “oggetto reale” che è parte del progetto politico (consapevole, sempre meno inconsapevole) dello spazio pubblico realizzato, e quindi come documento della dimensione etica, culturale e simbolica condivisa e praticata nei comportamenti dalla media larga dei cittadini di questa regione. Le monnezze oggi sono lo status symbol distorto e socialmente malvagio del raggiunto benessere e dell’iperconsumismo democraticamente distribuito tra classi e gruppi sociali. Da sobri e parchi che furono quando erano poveri, nel 2021, in piena emergenza globale pandemica e climatica, i calabresi-medi ribadiscono oggi spargendo rifiuti e monnezze dove capita, e a colpi di spazzature allegramente scaraventate dai finestrini delle auto in corsa, una sorta di posizionamento sociale “selvaggio” che si dichiara nelle forme riottose e sprezzanti di un diffuso respingimento di codici di condotta e prassi condivise che sono fondamento di ogni elementare regola civica e di convivenza responsabile tra i cittadini.

    L’arte del rifiuto

    Da documento-status symbol del raggiunto benessere, i resti le spazzature abbandonate e le scorie accumulate negli spazi pubblici per via di questa distorsione divengono un oggetto-monumento che manifesta simbolicamente il problema indigesto che più in generale la modernità, con tutto il corteo delle sue flagranti disfunzioni, in Calabria configura. L’esorbitanza di resti, scarti e monnezze diviene così esibizione drogata e oscena dei nuovi status symbol del consumo fine a se stesso. Questa sorta di esibizione abborracciata che si situa tra le installazioni di land art, l’insulto sistematico all’ambiente e l’arte popolare dell’accumulo, ha conquistato in termini di maggiore evidenza il luogo esibitivo per eccellenza di questa regione: la strada, ovvero il nervo più lungo di tutto lo spazio pubblico, lo spazio pubblico e infrastrutturale che collega e connette i diversi territori e omologa tutti i luoghi del paesaggio vecchio e nuovo di questa regione.

    Dentro pulito, fuori sporcizia e cumuli di rifiuti

    Dalla casa pulita alla strada sporca in Calabria il passo è breve. Dentro lo spazio privato lindo e scintillante di detersivi e igienizzanti, e fuori quello pubblico oppresso dai cumuli di scarti, buste di spazzatura e congerie di rifiuti. Ecco servita un’altra schizofrenia sociale, dopo la malvagità altrettanto sociale degli incendi boschivi. Dentro puliti, fuori sporchi. “Robb’a i tutti jettala allu jjum’e” non sostiene un forse un vecchio adagio popolare? La necessaria riconsiderazione della strada e dei luoghi dello scarto come condensatori di tracce e di informazioni sociali e antropologiche problematiche ma preziose, è una conseguenza dell’entropia scaturita dalla crescita incontrollata dei consumi, dall’intreccio irrisolto nella complessità dei processi di modernizzazione e dalla spinta crescente all’urbanizzazione che hanno costruito la realtà di questa regione negli ultimi cinquant’anni.

    Rifiuti abbandonati tra i boschi della Sila Grande. Fago del Soldato, Parco Nazionale della Sila
    Non ci resta che ragionare sul riuso

    Sono circostanze così pesantemente reali e cariche di conseguenze che dovrebbero indurre la Calabria a ragionare collettivamente non solo su una nuova coscienza del riuso e degli orientamenti da adottare nelle politiche regionali del ciclo dei rifiuti, ma anche a riflettere su una nuova immaginazione progettuale, in grado di ridisegnare il ruolo degli spazi pubblici e dei beni comuni per città, paesi, aree naturali e trasporti più adeguati alla geografia del contemporaneo di questa regione. Considerando lo scarto come uno degli oggetti del progetto politico e civico dello spazio pubblico a venire, e non come destino. Sublimare lo scarto fino a renderlo oggetto di trasformazione dello spazio pubblico contemporanea è ovunque il progetto delle città contemporaneo che investono intelligenza e applicano risorse su questi temi. Per ora, invece, una enorme rimozione culturale e simbolica (oltre che materiale) giace sotto i cumuli di rifiuti e le discariche incontrollate che costellano a cielo aperto il paesaggio e le strade della Calabria di adesso. Questo resto indigesto e ingombrante, questo nuovo oggetto sociale che si insedia nelle spazzature abbandonate, visibile ma oscuro, che si accumula e avanza come un inarrestabile blob fuori dalle porte di casa e per strada ai lati della nostra vita pubblica, siamo noi stessi. Un mucchio selvaggio di segnali e di informazioni utili per lo studio dell’evoluzione della società, della città e del territorio, della regione che siamo e di quella che come cittadini vogliamo costruire.

    L’anarchia della monezza come sfregio

    Il nostro irrisolto rapporto con la modernità passa dalla spazzatura forse più che dai libri. Esso costituisce il dato esperienziale e di una nuova drammaturgia umana e sociale che non trova per ora forme di rappresentazione che non siano quelle prive di forma ma cariche di evidenza, del rifiuto irredento. L’anarchia dello sfregio tale e quale.
    Occorrerebbe invece rapportarsi al tema dello scarto affrontandone il geroglifico antropologico e culturale che vi resta insediato. Ciò che in esso mistifica e semplifica i caratteri identitari delle più antiche resistenze e riottosità etniche dei calabri mescolandole al conformismo iperconsumista di oggi, decostruendo così le ragioni di quel posizionamento “selvaggio”, a cui prima alludevo, per venirne finalmente a capo.

    Lo stato di natura in Calabria

    C’è una pagina sorprendente di un grande filosofo del secolo dei lumi che in un apologo sulla libertà metteva in valore il carattere esotico e primordiale, lo stato di natura dei fieri calabresi di un tempo: “… Tutte le istituzioni politiche, civili e religiose. Esaminatele a fondo: o io mi sbaglio terribilmente, oppure in esse vedrete la specie umana sottomessa di secolo in secolo al giogo che un pugno di furfanti ha voluto imporle…E i Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto.
    A – E questa anarchia della Calabria vi piace?
    B – Mi appello all’esperienza, e scommetto che nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà. Le tante nostre piccole scelleratezze equivalgono all’atrocità dei loro grandi crimini di cui si mena tanto scandalo. Io vedo gli uomini non civilizzati come una grande riserva di forze sparse e isolate. Senza dubbio potrà accadere che qualcuna di queste forze si scontri con un’altra, e o l’una o l’altra andrà in pezzi, o magari accadrà a entrambe…, e in questa macchina chiamata società tutte le forze furono messe in azione, pressate incessantemente ad agire e a reagire l’una contro l’altra, tanto che se ne frantumarono di più in un giorno nello Stato retto da leggi che in un anno nell’anarchia dello stato di natura!..
    A – Dunque, voi preferite lo stato di natura bruto e selvaggio?
    B – In verità non oserei dirlo, ma so che si è visto spesso l’uomo di città spogliarsi e tornare alla foresta, mentre non si è mai visto l’uomo della foresta vestirsi e andare a vivere in città”.

    Il viaggio di Monsieur de Bougainville e quella certa anarchia

    Certo, siamo in tempi post-illuministici e lo scetticismo è di moda. Nessuno di noi oggi vive nelle foreste silane e qualche comodità, come mostrano le montagne di spazzatura che sparpagliamo ovunque, nel frattempo ce la siamo pure guadagnata. Questa pagina del passato però stupisce e interroga alla stregua di un autorevole paradosso. Colpisce, non solo perché riprende il mito irredentista del calabrese “tutto natura”. Un “buon selvaggio” che sopravvive in una sorta di riserva indiana sul bordo estremo della vecchia Europa, refrattario alle regole della società e dello stato moderno: “I Calabresi sono forse gli unici sui quali le lusinghe dei legislatori non hanno avuto effetto”. Dice, anche, purtroppo, qualcosa di oggi. La pagina, sconosciuta ai più, ruffiana e bellissima, compare in un dialogo immaginario che si trova in un’opera minore, il Supplemento al viaggio di Monsieur de Bougainville del grande Diderot, uno dei padri dell’Illuminismo. Un tempo lo stato di natura era pieno di speranze. La storia no. E noi siamo ora più che mai dentro la storia. Quella di adesso. Davanti a tutte le nostre monnezze per strada chi può più dire dei calabresi di oggi che “nella loro barbarie ci sono meno vizi che nella nostra civiltà”?

  • Mare monstrum, 40mila kg di pesca illegale in Calabria

    Mare monstrum, 40mila kg di pesca illegale in Calabria

    Il mare Mediterraneo è malato. A dirlo sono le eloquenti immagini che ogni estate ci pongono di fronte alla squallida realtà dell’acqua sporca e di turisti in fuga. Ma adesso sono anche i dati diffusi da Legambiente.
    Inquinamento, abusivismo edilizio e pesca illegale sono le cause del grande male che affligge il nostro mare. Anche e soprattutto in Calabria dove il mare, se tutelato e valorizzato, potrebbe essere l‘elemento chiave di una rinascita economica e turistica della regione.

    Il lockdown non ha fermato la mattanza

    Sui problemi della depurazione e sull’abusivismo che deturpa le coste si sono scritti fiumi di inchiostro, mentre poco o nulla è stato detto sulle conseguenze della pesca illegale per l’ecosistema marino e non solo. Neanche un anno di lockdown è servito ad arginare l’aggressione criminale alle coste e al mare: i sequestri effettuati dalle Capitanerie di porto e dalle Forze dell’ordine, hanno fatto segnare numeri in costante crescita.

    Reti illegali sequestrate dalla Guardia costiera
    Pesca fuorilegge

    Per inquadrare il potenziale impatto della pesca illegale è necessario operare una prima distinzione tra pesca professionale e pesca sportiva.
    La prima, regolamentata dal consorzio Mably, rileva i dati di cattura e sbarchi per conto del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali e avviene tuttavia su base campionaria e attraverso il dichiarato dei battenti che è obbligatorio solo per i natanti superiori ai 10 metri. Questi però rappresentano solo il 38% della flotta da pesca esistente in Italia.

    Una rete di controllo dalle maglie davvero troppo larghe che diventano voragini quando si parla di pesca sportiva. Basti solo pensare che la Federazione italiana operatori pesca sportiva, che rappresenta oltre 600 negozi di articoli da pesca, dichiara due milioni di pescatori sportivi e ricreativi. Un numero in crescita esponenziale che sfugge ad ogni tentativo di controllo e monitoraggio.

    Il bianchetto: l’oro del mare

    Nel 2020 la Calabria è stata la quarta regione d’Italia per numero di infrazioni accertate (324) pari al 7,2% del totale nazionale con 470 persone denunciate o arrestate e 280 sequestri effettuati.
    La Capitaneria di porto, solo nel 2020, lungo i 715 km di costa calabrese ha sequestrato la bellezza di 40.446 kg di prodotti ittici. Sono dati emersi da Mare monstrum 2021, il rapporto annuale di Legambiente.

    In Calabria novellame, tonno e pesce caviale

    Ogni regione ha le sue specialità. In Calabria la maggior parte degli illeciti riguarda la pesca illegale di pesce caviale, tonno e novellame. In Sicilia, Campania e Puglia la pesca illegale si concentra invece su datteri di mare, crostacei e molluschi.
    La pesca del novellame di alice e sarde, detta anche neonata, bianchetto o rosamarina, è una tradizione tutta calabrese che arreca un danno alla fauna marina di proporzioni enormi.

    Il medico veterinario Santi Spadaro ha indicato la portata di questo scempio: «È una pesca che crea un danno biologico devastante, ogni chilo di novellame corrisponde a 2 quintali di pesce adulto».
    Un business difficile da individuare e da contrastare. Un kg di novellame può essere acquistato dai 13 ai 15 euro per poi essere rivenduto nella ristorazione con ricavi importanti.

    “No driftnets”

    Le Capitanerie di Porto e la Guardia Costiera sono da sempre impegnate a contrastare la pesca illegale soprattutto quando questa avviene attraverso l’utilizzo delle reti da posta derivanti che non vengono ancorate al fondo ma sono lasciate libere di muoversi in balìa delle correnti, intrappolando ogni tipo di specie marine senza possibilità di distinzioni.
    Nel 2021, dal 15 aprile al 15 luglio, il Centro di controllo nazionale pesca ha pianificato a livello nazionale l’operazione “No Driftnets” (nessuna rete derivante).

    Nella nostra regione i controlli sono avvenuti nel Tirreno Cosentino con la nave Gregoretti impegnata nello specchio d’acqua antistante le Isole Eolie e la nave Cavallari a largo di Amantea. La prima ha sequestrato attrezzi e reti da posta per oltre 10 chilometri. La seconda ha individuato invece 2,5 chilometri di rete illegale che aveva intrappolato anche delle mante (una specie protetta), una della quali di circa mezza tonnellata.
    Altri interventi sono stati svolti dai militari in località San Lucido di Cetraro, dove sono state ritrovate altre 3 reti lunghe circa 3,8 chilometri.
    Tutte le attrezzature sono state sequestrate e i trasgressori sanzionati.

    Depauparamento del Mediterraneo

    Atti internazionali e della Unione europea hanno messo in guardia l’Italia sul sovrasfruttamento degli stock ittici e sulle crescenti minacce alla sopravvivenza di molte specie di pesci e di altre specie marine.
    Ma nessun vero deterrente normativo è in atto, quasi come se i dati sullo sfruttamento del mare e l’impatto della pesca amatoriale non fossero sufficientemente allarmanti.
    E al danno si aggiunge la beffa. La nuova legge 27 del 29 marzo 2019 “Capo IV Bis – Misure a sostegno del settore ittico” ha di fatto ridotto molte delle sanzioni amministrative in vigore e prevede sanzioni per la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, principalmente in via amministrativa con sanzioni pecuniarie non deterrenti attribuendo rilevanza penale solo in un residuale numero di ipotesi.

    Il grido di Legambiente

    Sembra quasi un incentivo alla pesca illegale. Duro il giudizio di Legambiente: «È necessario rafforzare il sistema normativo e dotare di strumenti idonei gli organi inquirenti per consentire di contrastare la pesca illegale e per assicurare l’effettiva tutela delle specie oggetto di pesca e dell’ambiente marino».

    Al vuoto normativo si somma quello culturale. Fino a quando i menù dei ristoranti saranno pieni di frittelle di bianchino e fritture di “fragaglia”, i retrobottega delle pescherie di vasetti di tonno pescati illegalmente nei mari calabresi, il mare nostrum diventerà sempre più mare monstrum.

  • Amianto, Calabria all’anno zero

    Amianto, Calabria all’anno zero

    È cancerogeno e la Legge 257 del 1992 lo ha messo al bando, ma in Calabria l’amianto è ancora molto diffuso. La nostra regione è in ritardo nello smaltimento rispetto al resto del Paese e questo ha causato numerosi decessi per tumore polmonare secondo le stime dell’Airc.
    A spiegarci meglio la situazione locale riguardo al censimento, la rimozione e la bonifica del territorio è Giuseppe Infusini, ingegnere chimico, vicepresidente dell’ONA, Osservatorio Nazionale Amianto.

    Cos’è cambiato in Calabria in merito alla presenza di amianto rispetto al passato?

    «Quando nel 2011 ci siamo insediati come sezione provinciale, ho constatato scarsa considerazione e mancanza di conoscenza sull’argomento. Abbiamo cercato di fare informazione, sensibilizzando la nostra comunità, anche con progetti didattici rivolti ai giovani. Il più grosso ostacolo è la lentezza delle istituzioni locali nel dare seguito alle norme nazionali, che risalgono alla prima metà degli anni ’90. La legge regionale del 2011 è arrivata molto in ritardo rispetto a quella delle altre Regioni. E il PRAC (Piano Regionale Amianto, ndr), pubblicato l’8 maggio del 2017, è assolutamente inefficace riguardo agli adempimenti di quella legge».

    Ci può fornire qualche numero?

    «Dal rilevamento regionale è emerso quanto avevamo riferito in Commissione Ambiente nel 2013 e nel 2016: 12 milioni mq di amianto, riguardanti solo il compatto, ossia un impasto cementizio a cui si aggiunge l’amianto per dare più consistenza. Come ONA vogliamo lavorare a fianco delle istituzioni, solo così si può risolvere una situazione tanto grave».

    Quanto è esteso e pericoloso il problema?

    «L’amianto è presente a macchia di leopardo in Calabria, soprattutto negli opifici e nelle centrali termoelettriche. È un materiale cancerogeno primario che causa tumori come il mesotelioma e il cancro ai polmoni. Dove c’è una copertura in degrado si sono verificate morti sospette. Anche se non c’è un nesso di causalità tra questi decessi e l’amianto, questo concorre comunque con altri fattori cancerogeni all’abbassamento delle difese immunitarie, dando origine a forme tumorali letali».

    Esiste un elenco delle morti correlabili ad esposizione all’amianto in Calabria?

    «In Calabria dal 1994 ad oggi ci sono stati 120 decessi per cancro, parlo dei casi censiti. Sicuramente è una sottostima del dato reale, denunciato da molti familiari. Non c’è una soglia al di sotto della quale la malattia non possa generarsi, per questo occorre eliminare il problema alla radice. Per usufruire dei finanziamenti statali, la Calabria avrebbe dovuto fare una mappatura dei siti da bonificare, ma non ha fatto il censimento delle zone su cui intervenire. La nostra Regione è stata l’unica a non avere inviato i dati al Ministero dell’Ambiente, non ricevendo pertanto alcun contributo».

    Applichiamo le disposizioni sulla valutazione del rischio, la manutenzione, il controllo e la bonifica dell’amianto?

    «Mai trovato un solo detentore di manufatto che abbia attuato il programma di controllo e di manutenzione previsto dal decreto del ‘94. Ricevuta una segnalazione di pericolo da un privato, in virtù del PRAC, il sindaco deve prima verificare se siano state eseguite le giuste misure, poi individuare le azioni da adottare. A differenza di altre Regioni che rilevano lo stato di degrado e di copertura periodicamente, qui siamo all’anno zero. Sono pochi i comuni in regola. Ma la lotta all’amianto è come una catena di montaggio dove tutti gli attori – Regione, Provincia, Comune e cittadini – devono fare la propria parte».

    E le norme e le procedure per lo smaltimento?

    «Nella nostra regione non ci sono siti di smaltimento dell’amianto. Ve ne sono in Puglia e in Basilicata e ho saputo di una discarica in Germania dove questi materiali, mediante degli impianti di inertizzazione, si riescono a denaturare. Dopo la nostra osservazione, il PRAC ha inserito un contributo del 60% per la rimozione dell’amianto, impegno a tutt’oggi disatteso. Questo favorisce lo smaltimento abusivo operato da balordi che interrano illecitamente tali rifiuti, mettendo in pericolo la salute di tutti i cittadini e l’ambiente.

    Nessuno ha ancora attuato è Piano Comunale Amianto, nonostante andasse fatto entro tre mesi dall’8 maggio 2017. Per usufruire dei finanziamenti regionali e statali è necessario che il Comune abbia effettuato censimento, mappatura e PCA, anche per stabilire un ordine di priorità di intervento».

    Ha notato maggiore attenzione nell’affrontare il problema a seconda di chi governava la Regione?

    «Rispetto alle altre Regioni siamo molto indietro. Nel 2020 ho inviato a tutti i governatori un programma con delle proposte operative per eliminare il rischio amianto dal nostro territorio. Proponevo attività che un Dipartimento regionale moderno dovrebbe avviare. Nessuno mi ha mai ricontattato».

    Crede sia un problema di risorse?

    No, i costi di bonifica sono facilmente ammortizzabili con i fondi europei e nazionali. È inammissibile come, pur essendoci un bando da 42 milioni di euro – il 100% di finanziamento – per la bonifica negli edifici pubblici, solo 28 comuni su 404 vi abbiano aderito. Anche dopo la rimodulazione del medesimo bando scaduto il 3 giugno scorso, ancora una volta, queste risorse non potranno essere utilizzate».

    Ci sono comuni calabresi che si sono distinti nella lotta all’amianto?

    «Posso parlare dei Comuni che hanno aderito all’Ona: Acri, Cerisano, Cerzeto, Mandatoriccio, molto attivo su questo fronte, Mormanno, Cassano, Saracena e Cosenza. Stanno tutti emanando le ordinanze necessarie per verificare la presenza di amianto degradato sul proprio territorio. Non è necessario attendere il sopralluogo dell’Asp, dell’Arpacal o del Prac, spesso in conflitto di competenza, per emettere provvedimenti sul punto. Gli altri Comuni sono ancora sprovvisti di un PCA: ne deduco che non abbiano neanche legiferato sul tema».

    Mirella Madeo

  • Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    Il sacco dei boschi nella Calabria degli incendi

    «L’attacco criminale al patrimonio naturale della terra di Calabria ha interessi precisi e individuabili. C’è necessità di massimo impegno nel controllare il territorio ed individuare mandanti ed esecutori di questa tragedia». Il sindaco di Napoli e candidato alla presidenza della Regione, Luigi De Magistris, ne è sicuro. Dietro l’ondata di incendi che, ormai da settimane, investe la Calabria, vi sarebbero una strategia e un disegno. De Magistris, tuttavia, non indica alcunché di ulteriore rispetto alla grave affermazione. Elementi che, al momento, non sembrano essere concreti.

    I boss e la montagna

    Ma c’è un dato certo: da decenni, ormai, i boschi calabresi sono stati conquistati dal crimine. Comune e organizzato. Non può essere dimenticato il sangue versato nell’ambito della “faida dei boschi” scoppiata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 tra le famiglie di ‘ndrangheta nel territorio montano a cavallo delle province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Che poi ha avuto una recrudescenza anche negli anni 2000, con gli ultimi delitti fino al 2013.

    Gli incontri riservati

    Negli anni e progressivamente, lo Stato ha lasciato, centimetro dopo centimetro, ettari ed ettari di macchia calabrese. Che è diventata terreno congeniale per effettuare incontri riservati di ‘ndrangheta, come dimostrato fin dal 1969 con il summit di Montalto, dove cosche e destra eversiva progettavano piani criminali. O per nascondere latitanti. Magari per sotterrare armi ed esplosivi. O per installare enormi e fiorenti coltivazioni di marijuana. I ritrovamenti, da parte delle forze dell’ordine, sono pressoché quotidiani. Ed è quindi, impossibile, fornire un quadro d’insieme su un fenomeno gigantesco.

    Le vacche sacre

    L’intervento sui boschi, in Calabria, ha percorso due strade. Prima l’antropizzazione delle campagne. Con interventi che le hanno disboscate e devastate. Poi la desertificazione del territorio, che, quindi, ha portato a migliaia di ettari sostanzialmente incontrollati. O, meglio, controllati dal crimine organizzato, soprattutto. La ‘ndrangheta. Anche il fenomeno delle “vacche sacre”, sempre in maggiore aumento, si inquadra in questo sistema in cui i boschi e le campagne sono ormai lasciati alla mercé del crimine e del malaffare.

    Il re della montagna

    Non è un caso che, negli anni, l’Aspromonte, più che scenario di bellezze paesaggistiche, ambientali e animali, sia stato prima teatro di numerosi sequestri di persona. Dove, peraltro, si sono sperimentate le peggiori alleanze e trattative tra Stato e ‘ndrangheta. Poi ambienti ideali dove nascondere i latitanti. E, infatti, uno dei boss più importanti che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, Rocco Musolino, era soprannominato il “re della montagna”. Il suo feudo era Santo Stefano in Aspromonte, lì dove Gambarie doveva diventare una grande meta turistica e sciistica. E dove, in alta stagione invernale, non funziona nemmeno la seggiovia. Don Rocco Musolino, massone, in contatti di affinità con alti magistrati, è morto alcuni anni fa. Senza condanne definitive per ‘ndrangheta. Nel proprio letto, come nelle migliori tradizioni criminali.

    Il business dei terreni

    Quando, poco prima di Ferragosto, il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, è sceso in Calabria per monitorare la drammatica situazione di quei giorni, ha stimato in circa 11mila gli ettari bruciati sul territorio. Ovviamente, nei dieci giorni successivi il dato è certamente aumentato. Anche se non possediamo cifre ufficiali.

    È indubitabile che la maggior parte dei roghi sia di origine dolosa. Ma è ormai sempre più marginale il fenomeno dei piromani isolati, che appiccano il fuoco a causa della loro patologia e che amano crogiolarsi nel disastro causato. Molto più preoccupante è ciò che può riguardare i tentativi di lucro sui terreni. E, ovviamente, un territorio in larghi tratti incontrollato e disabitato, dove è ormai saltato da anni il sistema di controllo, anche un piccolo focolaio viene scoperto in enorme ritardo. Quando la situazione è già ampiamente compromessa.

    Le autorizzazioni in Regione

    Poco più di un anno fa, gli investigatori hanno effettuato un accesso agli atti degli uffici della Regione Calabria, per verificare se i tagli effettuati nei boschi calabresi siano in numero superiore rispetto alle autorizzazioni rilasciate. Un meccanismo abbastanza rodato è quello delle aste boschive per poter lucrare sulla vendita del legame.

    Le ‘ndrangheta tra i boschi della Sila

    L’altopiano della Sila e suoi boschi sono zone franche. I controlli pressoché inesistenti. E, quindi, bocconcini succulenti per la ‘ndrangheta.  Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro avrebbe dimostrato come i boschi della Sila fossero nella loro totalità ad appannaggio delle cosche di ‘ndrangheta. Con il monopolio del taglio boschivo. Perché l’enorme fenomeno di disboscamento abusivo delle foreste calabresi non indica un’assenza di controllo di quei luoghi. Bensì l’esatto opposto. Se si taglia, se si disbosca, se si porta via la legna, è perché qualcuno lo permette. Accadeva in Sila con gli imprenditori Spadafora, coinvolti nel maxiprocesso “Stige”. Anche grazie alla presunta complicità del maresciallo Carmine Greco, ex comandante della stazione forestale di Cava di Melis, nel Comune di Longobucco. Un soggetto attorno a cui ruotano vicende torbide che hanno coinvolto o sfiorato anche magistrati.

    Il lucro sui terreni bruciati

    Proprio dalle carte raccolte sul conto di Greco, emergerebbe il ruolo degli Spadafora in un affare che riguarda l’acquisizione di un bosco molto grande. Che era stato recentemente aggredito da un incendio. Ecco il meccanismo di lucro sui terreni bruciati. L’area, per essere tagliata, aveva bisogno di una autorizzazione regionale. Che doveva poi prevedere anche la possibilità di una nuova semina per il rimboschimento. L’interesse dei gruppi criminali sui terreni interessati dagli incendi è fatto notorio, anche attraverso stime al ribasso dei terreni. Dietro il disastro che ad agosto ha (fin qui) causato sei vittime in Calabria, potrebbe esserci proprio questo business. Sempre in uno dei filoni d’indagine sul conto di Greco, degli Spadafora e della ‘ndrangheta dei boschi, è stata ritrovata contabilità occulta riguardante i profitti realizzati col traffico di materiale nelle centrali a biomasse.

    Un forestale ogni 190 abitanti

    Figure mitologiche. Al centro di scandali, ma anche tanta ironia sul web. Sono gli operai forestali calabresi. Uno studio di qualche anno fa, aveva dimostrato come fossero in un numero più elevato rispetto ai Rangers canadesi. Con proporzioni tragicomiche: un forestale ogni 190 abitanti, a fronte di un Rangers ogni 7800 abitanti.  Figure istituite per risanare il suolo calabrese, devastato dalle alluvioni degli anni ’50. Ma la Sila, l’Aspromonte e il Pollino non sembrano aver beneficiato di tali figure. Anzi. Ogni anno il governo centrale doveva rifinanziare il settore e, ciclicamente, si aveva notizia di sprechi, malversazioni. Infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle schiere infinite.

    Clientele e prebende

    Trenta, forse quarantamila i forestali calabresi nei tempi d’oro. Come in ogni grottesca vicenda calabrese, la realtà si mischia alla leggenda. Attualmente sarebbero 3.000 gli operai che dipendono da Calabria Verde, l’azienda regionale che ha assorbito l’Afor. E poi circa altre 1700 unità tra i Consorzi di bonifica e i parchi. Insomma, molti di meno rispetto al passato. Ma costerebbero ancora circa un milione e mezzo di euro all’anno. E hanno un’età media di 60 anni. Segnalati, raccomandati. Talvolta con precedenti penali. Imboscati. Nel vero senso della parola. Al di là delle cifre, il problema è concettuale. I boschi calabresi (e ciò che ruota attorno a essi) sono stati, ancora una volta, una camera di compensazione per piazzare i propri uomini. Per fare clientele e pagare prebende. E, ovviamente, anche la ‘ndrangheta ha pasteggiato.

    Le nomine dei Parchi

    Le nomine dei presidenti dei Parchi, di scelta politica, spesso non mettono al riparo dalle ingerenze del potere. E tutto ciò, poi, porterebbe a una gestione talvolta carente, talvolta pedestre. Se si pensa che il Piano Antincendi del Parco Nazionale dell’Aspromonte, oggi presieduto da Leo Autelitano, verrà completato solo il 6 agosto scorso. Quando già le fiamme avevano avvolto ettari ed ettari di territorio. Degli 11mila ettari in fumo comunicati da Curcio prima di Ferragosto, ben 5.400 sarebbero quelli bruciati solo in Aspromonte.

    Le presunte pressioni sul presidente del Parco

    Sono di alcuni mesi fa le dichiarazioni rese in aula nel processo “Gotha” dall’ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino. Ha riferito delle presunte ingerenze dell’allora consigliere regionale della Calabria e oggi deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro, per la nomina del Direttore del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Sponsorizzando un soggetto, nonostante questi non avesse i requisiti necessari per essere inserito nella terna di persone da sottoporre al Ministro per la nomina. Bombino avrebbe ricevuto pressioni sia da destra che da sinistra, anche su un soggetto ritenuto vicino all’ex assessore regionale, Demetrio Naccari Carlizzi: «Non volevo una persona locale alla direzione del Parco, perché temevo che più che rispondere al territorio potesse rispondere ai propri sponsor» – dirà in aula.

    Attività predatoria sui fondi

    Sempre in quell’occasione, l’ex presidente del Parco parlerà di una «assegnazione clientelare dei fondi» gestiti dall’Ente Parco. Secondo il suo racconto, in passato, le attività non venivano promosse secondo piani organici ma, al contrario, erano i singoli Comuni che, tramite associazioni e/o cooperative, richiedevano finanziamenti per attività di loro esclusivo interesse.  L’ex presidente del Parco parlerà anche di «attività predatoria» sui fondi e di un metodo per «fregare l’ente pubblico per interessi localistici».

    Forse il disastro dei boschi calabresi potrebbe avere come causa anche questo tipo di dinamiche.

  • Quattro soldi per difendere il Parco d’Aspromonte dagli incendi

    Quattro soldi per difendere il Parco d’Aspromonte dagli incendi

    Canadair che non si trovano  e quando si trovano può capitare che, nel bel mezzo di un intervento, debbano tornare a Ciampino per il cambio turno dell’equipaggio. Soccorsi che non conoscono la montagna e alla difficoltà dell’intervento devono aggiungere quelle per trovare la strada giusta. Piromani agguerriti al soldo di interessi senza fine e attivi H24. Autobotti e pick up disseminati col contagocce, e bilanci dedicati alla prevenzione che, per entità dei fondi, se la giocano con la sagra della melanzana porchettata.

    L’Aspromonte brucia da settimane: ettari e ettari di boschi e memorie persi per sempre, che riaprono vecchie ferite e che riportano a galla vecchi problemi. Dopo anni di relativa quiete, le fiamme hanno riaggredito la montagna su più fronti come nell’estate del 2012, l’ultima in ordine di tempo in cui si sono registrati danni simili a quelli di questi giorni. In dieci anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.

    Il fuoco corre veloce

    «Quando un incendio non viene contrastato efficacemente nelle prime ore, poi è difficile riuscire a domarlo. Le nostre montagne sono impervie, in molti punti quasi inaccessibili. È difficile intervenire quando il vento si alza e le fiamme diventano alte. A San Lorenzo il canadair si è visto dopo due giorni. Troppo tardi». Pietro è un vecchio operaio travasato dall’Afor a Calabria Verde, una vita passata nelle squadre antincendio che operano nel parco. «Il vero problema resta la prevenzione. Una volta eravamo in centinaia ad occuparci del bosco, ora nella mia squadra siamo in 19 quasi tutti anziani come me e prossimi alla pensione. Noi facciamo il nostro, ma il territorio è gigantesco».

    Il Parco d’Aspromonte avrebbe le carte in regola

    Sono 64 mila ettari spalmati dal Tirreno allo Jonio passando per i 2000 metri di Montalto, un patrimonio naturale inestimabile, uno scrigno di storie e di memorie. In poco più di venti giorni, di questa meraviglia tutta calabrese, sono andati in fumo quasi 5 mila ettari. Un disastro che solo per caso non ha distrutto anche le faggete vetuste di San Luca, fresche di nomina a patrimonio dell’umanità e che ha reso evidente come più di qualcosa, nei meccanismi a tutela del parco stesso, non sia girata per il verso giusto. E non solo per colpa dei canadair.

    Eppure, almeno a livello teorico, il parco d’Aspromonte ha tutte le carte in regola. Dettagliatissimo il piano quinquennale anti incendi boschivi. Al suo interno le linee guida per gli interventi di prevenzione e spegnimento degli incendi con tanto di tabelle storiche, fattori di rischio, idee per la salvaguardia del territorio da realizzare a braccetto con chi quel territorio stesso lo vive. Ma quello che splende sulla carta, a volte, non brilla della stessa luce nella realtà.

    Il Parco difeso da sei autobotti

    «La rapidità dell’intervento deve essere assicurata sia da una corretta e omogenea dislocazione delle squadre e dei mezzi antincendio – si legge nel piano Aib del parco nazionale d’Aspromonte – e sia dall’esistenza e corretta percorribilità delle vie di comunicazione». Passati ormai i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor – diventata negli anni, suo malgrado, ricettacolo di clientele e favoritismi – la realtà del 2021 si scontra con una penuria di mezzi e uomini disarmante.

    Nel territorio del parco svolgono servizio 5 autobotti dell’azienda Calabria Verde – a cui si devono aggiungere quelle dei vigili del fuoco che operano nelle caserme comprese entro i confini del parco – più una del consorzio di bonifica. Sei mezzi in totale, dei quali quattro stazionano in aree di competenza dell’ente e due sono invece parcheggiate, rispettivamente, a Reggio e Roccella, decine di chilometri lontani dalle montagne.

    La localizzazione delle autobotti attive nel Parco nazionale d’Aspromonte
    La localizzazione delle autobotti e della altre strutture A.I.B. nel Parco del Pollino

    Stesso discorso per i pick-up, i mezzi in genere in forza alla protezione civile e che hanno comunque una capacità di una cisterna ridotta che varia tra i 300 e i 500 litri. Nel parco d’Aspromonte sono sette, disseminati un po’ a pelle di leopardo e per fare rifornimento, spesso devono fare tragitti di ore con tempi morti che posso risultare decisivi. Il confronto con la forza schierata dal parco nazionale del Pollino – per buona parte ricadente in Calabria – è disarmante.

     

    Il prezzo della sicurezza

    Tra una sagra al fantomatico km zero culinario e uno spot tra vecchi con la coppola storta, i fondi destinati alle cose serie sono andati via via scemando e così, anche il parco d’Aspromonte si è trovato a fare i conti con la nuova realtà. Una realtà così striminzita che ha portato l’ente a stilare un piano di spesa antincendio di 120mila euro l’anno valevole fino al 2022. Una somma ridicola – solo mandare in tv durante le Olimpiadi il mortificante spot targato Muccino è costato cinque volte di più alle casse pubbliche – che comprende le spese per le attività di previsione, prevenzione, avvistamento, acquisto macchine e attrezzature, attività informative, sorveglianza e interventi di recupero.

    Sintesi economica del piano A.I.B. del Parco d’Aspromonte

    In soldoni, fanno circa due euro per ettaro speso in prevenzione e spegnimento. Un recinto striminzito, stretto tra 100mila di fondi propri e 20mila bollati come «altri fondi» che per oltre metà (70mila euro) viene investito per pagare le squadre di sorveglianza e che lascia alle attività di prevenzione (interventi di silvicoltura, piste forestali, punti d’acqua) una mancia di 30 mila euro.

  • Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Caminia, il paradiso perduto dice basta al cemento abusivo

    Dal 1969 ad oggi un abuso lungo 52 anni segna la storia di uno dei tratti di costa più suggestivi della Calabria. Caminia, provincia di Catanzaro, comune di Stalettì, è una lingua di terra costeggiata da macchia mediterranea e da un mare caraibico.
    Un paradiso che si è riusciti a deturpare stuprandolo con abusi di ogni tipo: costruzioni “ignoranti” ammassate una sull’altra, casette poggiate sulla spiaggia a pochi metri dal mare, canaloni di scolo di cemento armato da cui non scola più niente perché non hanno mai visto neanche un’ora di manutenzione.

    Un mostro sul mare

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    Ci sono voluti più di 45 anni perché qualcuno, in questo caso la Procura di Catanzaro, accendesse un faro su questa vergogna nazionale.
    Inizia tutto nel 2015 con il progetto per la costruzione di un megavillaggio proprio sopra la baia di Caminia. Arrivano le ruspe e fanno il loro lavoro. Scavano e producono detriti, una enorme quantità di detriti, che vengono gettati a valle e ostruiscono i 2 canaloni di scolo che costeggiano un villaggio vacanze. Sono nove piccoli bungalow e un parcheggio sorti sul demanio marittimo proprio sotto il costone del fondo Panaja di Caminia.

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    L’area recintata al cui interno sorgevano i bungalow demoliti e quel che resta degli arredi interni

    È a questo punto che Caminia esce dal cono d’ombra e si scopre, grazie all’indagine coordinata da Nicola Gratteri, che si tratta di un’area demaniale di 5.000 mq sottoposta a vincolo paesaggistico e identificata come zona a rischio frana, alluvione e inondazione dal Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico Regionale.
    Il 17 dicembre 2020 i proprietari di un villaggio e i residenti di una settantina di villette a schiera a pochi metri dalla spiaggia di Caminia ricevono il provvedimento di sequestro dei fabbricati.
    Passano altri 6 mesi e, il 22 giugno scorso, la Procura della Repubblica di Catanzaro invia il provvedimento esecutivo. Le demolizioni iniziano il 20 luglio e terminano come da cronoprogramma il 16 agosto 2021.

    Il deserto degli abusivi

    Oggi il paesaggio è spettrale: i bungalow sono stati rasi al suolo e uguale sorte dovrebbe toccare a tutte le villette che dal “villaggio Aversa” arrivano alla fine della spiaggia di Caminia. Una schiera interminabile di casette – tutte rigorosamente abusive – abbandonate in fretta dai proprietari che dopo la comunicazione dell’Autorità giudiziaria non possono più abitarle anche se hanno presentato un ricorso in Tribunale per bloccare l’esecutività delle demolizioni. Ci vorrà del tempo, ma la sorte, anche per queste costruzioni, dovrebbe essere la stessa.

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    Case abusive sotto sequestro a pochi metri dalla spiaggia di Caminia

    In un primo momento i proprietari del villaggio hanno tentato la strada della mediazione con l’aiuto di un legale. A quanto è dato sapere la famiglia Aversa era anche riuscita ad arrivare a un compromesso. Avrebbe dovuto sborsare oltre 2 milioni di euro per arrestare l’iter delle demolizioni senza la certezza però di acquisire la proprietà del terreno. Un incognita per il futuro e un rischio troppo grosso.
    Hanno desistito, anche su consiglio del procuratore Mariano Lombardi, storico frequentatore della spiaggia di Caminia.

    E gli Aversa, che oltre al villaggio abbattuto gestiscono lo stabilimento balneare lido Panaja, quest’ultimo perfettamente in regola per concessione e pagamento dei tributi, hanno preferito prendere in locazione una vasta area nella zona di Pietragrande, a poche centinaia di metri da Caminia, da adibire a parcheggio. Da lì, con le navetta, accompagnano i clienti alla spiaggia.

    Il Comune in cerca di idee

    Il futuro comunque qualche porticina la lascia aperta. Si parla di un bando del comune di Stalettì per la gestione dell’area in cui sorgeva il villaggio. Notizie precise ancora non ce ne sono. Sulla questione il sindaco di Stalettì, Alfonso Mercurio ci ha detto: «Stiamo lavorando a un concorso di idee per l’area oggetto di demolizione. Il bando sarà pubblicato in autunno e il miglior progetto sarà scelto da un’apposita commissione e riceverà i finanziamenti previsti dalla Regione Calabria».

    La baia di Caminia, il golfo di Copanello, le vasche di Cassiodoro sono solo tre dei tesori naturali del Comune di Stalettì. «Siamo un piccolo comune – precisa Mercurio – e non abbiamo le risorse sufficienti. Per portare a reddito e rendere attrattive queste aree abbiamo bisogno di contributi pubblici. Ben vengano dunque le risorse stanziate dalla Regione per il rifacimento delle fognature e per il ripristino della zona archeologica Fonte di Panaja».

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    La baia di Caminia vista dall’alto

    Ma perché solo uno dei villaggi presenti sul demanio è stato raso al suolo? «La Cabana – spiega Mercurio – è titolare di concessione. Gli Aversa, invece, hanno costruito senza mai riconoscere la proprietà del demanio a differenza di quanto fatto con lo stabilimento balneare Panaja».

    Legambiente teme il bis

    La presidente di Legambiente Calabria, Anna Parretta, commenta così la vicenda: «Restiamo in attesa della demolizione di tutte le villette abusive, incluse quelle ancora sub iudice, un vero ecomostro diffuso per come è stato definito, e del conseguente recupero ambientale effettivo del territorio. Non vogliamo che restino ferite aperte come quella, ben visibile, rimasta a Stalettì dopo l’abbattimento di parte di villaggio Lopilato, seguito ad anni di lotte ambientali». Nei progetti dell’amministrazione il rilancio di Caminia passa da «un adeguato piano parcheggi e da una mobilità sostenibile. E quando arriveranno le risorse del Recovery plan noi saremo pronti».
    Speriamo che non abbia in mente un’altra colata di cemento.

  • «Il fuoco si è spento da solo» nell’Aspromonte ferito

    «Il fuoco si è spento da solo» nell’Aspromonte ferito

    «Nessuno ha spento il fuoco. Si è spento da solo, quando non c’era più niente da bruciare». Pietro e Nino sono nati a San Lorenzo, 150 abitanti appollaiati a 800 metri d’altezza sul versante jonico d’Aspromonte. Nell’ultima settimana hanno visto, impotenti, la loro montagna bruciare. Ettari e ettari di castagni, pini (zappini li chiamano da queste parti), querce, ulivi, abeti.

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    Cenere e desolazione nel Parco d’Aspromonte dopo i terribili incendi dei giorni scorsi
    Zio e nipote divorati dalle fiamme

    Le fiamme si sono mangiate tutto, scendendo e risalendo i costoni delle montagne fino a sfiorare quota 1200, a due spanne dalle foreste di faggi e minacciando da vicino anche i borghi di Roccaforte del Greco, Bagaladi e Roghudi. È qui, nella valle che aggira il paese e ridiscende verso il mare, che si sono registrate le prime due vittime dell’estate degli incendi. Cercavano di mettere in salvo il loro uliveto: sono morti a pochi metri di distanza, zia e nipote, sorpresi dalle fiamme nel cuore grecanico del parco d’Aspromonte.

    A Santa Maria, piccola frazione appena fuori dal centro abitato, le fiamme hanno annerito i muri di due case distruggendo un deposito di legna e un paio di mezzi agricoli: «Qualche settimana fa il proprietario di quel capanno è morto per essersi ribaltato con il trattore mentre ripuliva il suo fondo, ora il fuoco ha fatto il resto» racconta Nino Pellicanò, cinquantenne che da San Lorenzo non si è mai mosso e che le montagne le conosce come le sue tasche, mentre la strada comincia a salire e il panorama cambia in modo radicale.

    Le api sterminate dagli incendi dei giorni scorsi
    Gi animali non hanno avuto scampo

    Quello che sorprende è il silenzio. Un silenzio irreale coperto solo dal borbottio del pandino 4×4 che si arrampica sulla terra nuda. Non ci sono più uccelli a sorvolare le cime di questo pezzo di montagna spogliato di vita. Solo corvi, a decine: volano bassi e banchettano con i resti degli animali che non sono riusciti a scappare dalle fiamme. «Tassi, faine, scoiattoli, martore: i mammiferi più piccoli e più lenti non hanno avuto scampo ma sono morti anche cinghiali, volpi e lepri. Gli animali sono stati accerchiati dal fuoco e confusi dal fumo, non avevano scampo». È quanto racconta Pietro Luca, poco più di 30 anni, una laurea in scienze forestali in tasca e un lavoro da tecnico dei computer in Friuli, 1400 km dalle sue montagne.

    Il fuoco trasforma la montagna in un set lunare
    Il rogo risparmia solo la vecchia Lancia del medico

    La stradina risale il fianco occidentale della montagna e i danni del fuoco diventano sempre più evidenti. Scheletri di pini marittimi anneriti, carcasse di quelle che erano state ginestre: il fuoco ha attaccato duro, muovendosi su più fronti e rendendo vano anche il lavoro delle squadre dei vigili del fuoco e i lanci del canadair «che nei primi due giorni di incendio comunque non si è visto», dice ancora Nino.

    Sulla cima di Peripoli, c’è una piccola chiesa dai muri scrostati. Dentro, oltre alla lapide che ricorda la figura del vecchio medico condotto del paese a cui la chiesa è dedicata, c’è una vecchia Lancia Flavia. L’auto è parcheggiata dietro l’altare. La comprarono i cittadini di San Lorenzo al loro dottore che da quel giorno non dovette più andare a fare le visite a piedi e lì, accanto al suo ex padrone, è stata seppellita. Sono le uniche cose rimaste integre su questo cucuzzolo: la radura tra gli “zappini” in cui è stata costruita l’ha salvata dalle fiamme, il resto è terra bruciata su cui si affacciano le altre cime della montagna ormai spogliata dal fuoco.

    La pinete spazzata via

    Risalendo verso punta d’Atò, oltre i mille metri di quota, l’intera pineta che ricopriva la cima della montagna è stata letteralmente spazzata via. Qui le temperature hanno raggiunto picchi così alti che anche la terra sembra essersi liquefatta e anche muoversi a piedi diventa complicato. La stradina si inerpica tra migliaia di tronchi distrutti dal fuoco e sdraiati sul terreno molle.

    «Questi alberi tenevano in piedi la montagna – ci dice Nino, che con il parco d’Aspromonte in passato si è trovato anche a collaborare – per capire l’entità della tragedia che ci ha colpito basterà aspettare le prime piogge e contare i danni che si lasceranno dietro». «La mia paura è che nessuno raccoglierà quei tronchi – gli fa eco amaramente il giovane agronomo forestale – e quando il sottobosco ricrescerà e scoppierà un nuovo incendio, quei tronchi anneriti saranno ulteriore combustibile per la prossima tragedia».

    Anche un piccolo parco giochi per bambini divorato dalle fiamme in Aspromonte
    L’emblema del dissesto idrogeologico

    La strada sterrata riprende a salire mostrando vecchie armacere, muri a secco fino a ieri nascosti dalla rigogliosità della montagna. Sopra di esse una foresta di castagni, i tronchi anneriti, le chiome devastate dalle fiamme: «L’unica speranza è che qualche fronda, tra quelle in cima, sia rimasta integra. Solo così le piante potrebbero riprendersi, ma la situazione è davvero drammatica, è andato tutto distrutto». Nel silenzio artificiale di questa parte di Aspromonte ferito, rimbomba il rumore di un elicottero antincendio che vola verso i versanti più settentrionali della montagna dove ancora insiste qualche focolaio. Si allontana sorvolando la frana di Colella, diventata emblema del dissesto idrogeologico calabrese e simbolo stesso dello “sfasciume pendulo” che rischia di diventare l’Aspromonte.

  • Aspromonte in fiamme, cronache dall’inferno

    Aspromonte in fiamme, cronache dall’inferno

    Quello che ti colpisce immediatamente è l’odore: una cappa di fumo, cenere e plastica liquefatta che graffia la gola e ti impedisce di vedere a qualche decina di metri di distanza. La mattina successiva al grande incendio che ha messo in ginocchio i margini settentrionali del parco d’Aspromonte e messo a repentaglio la sicurezza stessa di due comuni della valle del Torbido, evacuati per precauzione, il panorama è cambiato profondamente. Delle querce alte come palazzi di tre piani e degli ulivi secolari con tronchi grandi come macine da mulino, resta giusto qualche moncherino fumante, a dominare un paesaggio ormai lunare che, imprevisti esclusi, impiegherà decenni a tornare in sesto. Impossibile ancora una prima conta dei danni, con i focolai che non lasciano tregua e i canadair che dalle prime luci dell’alba di giovedì hanno ripreso a fare la spola tra il mare e i primi anfratti della montagna.

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    Il paesaggio spettrale a Grotteria dopo l’incendio di ieri: il verde delle colline ha lasciato il posto al grigio della cenere
    Evacuati

    Martone, San Giovanni di Gerace, Grotteria: sono tre i micro paesi della Locride a pagare il tributo più alto al super lavoro dei piromani. «Una situazione mai vista prima – racconta Vincenzo Loiero, primo cittadino di Grotteria, poche centinaia di anime arroccate a poche spanne dal mare – a lungo abbiamo temuto che le fiamme raggiungessero le case. Siamo certamente di fronte all’opera dell’uomo. Troppi i focolai e troppo distanti l’uno dagli altri per pensare ad altre situazioni, questi sono certamente incendi di origine dolosa».

    La situazione è andata peggiorando con il passare delle ore ed è diventata così grave da convincere lo stesso sindaco a firmare, nel tardo pomeriggio di ieri, un’ordinanza di evacuazione del borgo che, nella sostanza però, quasi nessuno ha rispettato. Nessuno, o quasi, ha voluto lasciare le proprie case che rischiavano di finire divorate dal fronte dell’incendio che dalle montagne aveva raggiunto la prima periferia del paese.

    Da protettrice a protetta

    Alla fine saranno solo una decina le famiglie costrette ad abbandonare le proprie abitazioni in via precauzionale. Gli altri sono rimasti in paese, nel tentativo di dare una mano alle quattro squadre dei vigili del fuoco che per l’intera giornata hanno lottato per fronteggiare il muro di fiamme che marciava dai monti della Limina e che nel pomeriggio si era preso la vita di Mario Zavaglia, pensionato di 77 anni sorpreso dal fuoco mentre tentava di salvare i suoi animali in una casetta colonica.

    Con sifoni da giardino, con i secchi di plastica, con le pale: tutti si sono dati da fare per cercare di rimediare ad una devastazione che sembrava ormai inarrestabile. Quando le fiamme hanno raggiunto la rupe su cui si affacciano il municipio e la chiesa di San Domenico, sono stati i fedeli ad agire in prima persona per spostare la statua della Madonna di Pompei – patrona del paese – dalla sua nicchia e metterla in salvo. Sistemata inizialmente sul sagrato della chiesa, la statua è stata trasportata all’interno di un’abitazione privata che non era direttamente minacciata dall’incendio.

    Niente più acqua potabile

    Solo verso la mezzanotte l’allarme è rientrato, con le fiamme che sono state respinte a pochi metri dal centro abitato che alla fine della giornata conterà una solo casa distrutta dalle fiamme. Peggio è andata invece nelle frazioni più interne dove il calore provocato dall’incendio ha letteralmente sciolto le tubature in plastica dentro cui scorre l’acqua potabile, lasciando decine di famiglie a secco. Il servizio idrico è garantito grazie al continuo via vai delle autocisterne.

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    Ciò che rimane della casa distrutta dalle fiamme a Grotteria
    Sedici famiglie allontanate

    Grave la situazione anche nel limitrofo comune di San Giovanni di Gerace: anche qui le fiamme hanno lambito le prime case del borgo e il sindaco è stato costretto ad allontanare 16 famiglie dalle proprie case che rischiavano di essere distrutte dall’incendio. La situazione è migliorata nel corso della notte, ma anche qui il verde aggressivo delle colline è stato sostituito con una brulla grigia che puzza di morte.

    Il cuore della montagna in fumo

    E se a Grotteria si tira un sospiro di sollievo dopo ore di angoscia, le preoccupazioni si spostano su Martone, appena una manciata di chilometri più a nord, dove il satellite segnala il fronte di fuoco più ampio attualmente attivo nel reggino. Ancora lontani dal centro abitato, gli incendi qui hanno colpito duro con decine di ettari di boschi andati distrutti: anche la pineta della Rina, consueto rifugio cittadino nelle giornate di canicola estiva, è stata spazzata via.

    E addentrandosi nel cuore della montagna le cose vanno ancora peggio. Nella serata di mercoledì solo l’intervento di alcuni volontari ha consentito di portare in salvo una mandria di mucche che rischiava di finire bruciata. Un lavoro pericoloso – la stalla è stata distrutta dalle fiamme pochi minuti dopo l’evacuazione – ma preziosissimo e che ha consentito di portare in salvo anche un grosso allevamento di api: piccoli segnali di ottimismo, sull’orlo di una situazione drammatica.

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    Mucche in quel che resta dei pascoli dopo l’incendio di ieri

    «Abbiamo provato a interrompere il fronte del fuoco servendoci anche della strada – racconta Renzo Calvi, giovane assessore all’Ambiente del comune – ma avevamo solo un idrante e la forza della nostra disperazione. All’inizio sembrava ce la potessimo fare, ma quando si è alzato il vento le cose sono precipitate e le fiamme hanno finito per tagliarci il passo. È andato tutto in fumo».

  • Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Forse, chissà, tra mille anni i reperti archeologici da cui si ricostruirà la storia della nostra epoca saranno pilastri grigi da cui fuoriescono barre di ferro tendenti al cielo. I tour virtuali tra i resti del cemento antico, magari, sostituiranno l’attuale feticismo fotografico dei tramonti e dei panorami. Le nuove rovine, gli edifici non finiti, sono ormai parte del paesaggio. Sono i segni lasciati da partenze e non ritorni. Sempre lì, fermi, come a narrare la necessità di rimandare all’infinito ciò che si voleva fare e che è rimasto incompiuto, una speranza che si rinnova e mai si realizza.

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    Tramonto con piloni a Taurianova (foto Angelo Maggio)
    L’anormalità diventa invisibile

    Se dovesse nascere davvero un giorno il culto del cemento la Calabria potrebbe divenirne la capitale e Angelo Maggio, fotografo di Catanzaro che da anni segue e immortala le tracce del «non finito calabrese», sarebbe una star. Ma quelli che fotografa, spiega lui stesso, sono dei «monumenti alle aspettative deluse» e non certo opere d’arte. Per capirne la dimensione sociale bisognerebbe parlare con quei padri che hanno alzato muri mai intonacati e piani interi rimasti vuoti. E con i figli che, per scelta, necessità o entrambe le cose, non li abiteranno mai.

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    Miss Italia sfila per le vie di Sinopoli (foto Angelo Maggio)

    Le foto del non finito restituiscono una realtà più cruda della realtà stessa. Non si sforzano di determinare il contesto fino a renderlo rispondente a un’idea precostituita ma, al contrario, ne illuminano le contraddizioni. Quegli edifici sono per noi così normali da risultare ormai quasi invisibili. Eppure raccontano, più di tante narrazioni stereotipate, più della retorica delle eccellenze e delle negatività, la storia della Calabria contemporanea, fatta di crepe che non si ricompongono mai. Di cemento e di vuoto.

    Annunci e stereotipi elettorali

    Ecco, cemento e vuoto non sono (solo) delle tracce antropologiche, ma elementi con cui misurare come e quanto sia lontana dalla realtà l’idea di paradiso naturale tracciata da molti attuali e aspiranti decisori politici che, statene certi, con la campagna elettorale già in corso rinverdiranno presto il filone con nuove e più immaginifiche dichiarazioni sulle «potenzialità inespresse» e sugli intramontabili «volani di sviluppo».

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    Belvedere Marittimo, un manifesto dell’ex assessore regionale ai Lavori pubblici Pino Gentile (foto Angelo Maggio)

    C’è un posto che è l’emblema di questa incompiutezza, un mausoleo di occasioni mancate: l’area industriale di Lamezia Terme, oggi nota per l’aula bunker del maxiprocesso Rinascita-Scott – prima ospitava un call center – e per la sede della Fondazione Terina. Era nata negli anni ’70 come sogno industriale della Calabria centrale – l’ex Sir in cui lo Stato mise bei miliardi ma che non partì mai – e oggi in mezzo a capannoni abbandonati e pecore che pascolano tra l’immondizia si promette di realizzare una specie di piccola Hollywood.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ma l’emblema, a pensarci bene, sono quasi tutti gli abusati «800 km di costa» soffocati dalla cementificazione, costellati di villaggi, residence, resort, lidi, lungomari e parcheggi. Come lo sono le (poche) città in cui i palazzi si mangiano i marciapiedi e le persone vanno in terapia per un parcheggio. E come lo è anche l’entroterra dei «borghi», dei piccoli centri storici fatti di pietra dove interi vicoli scompaiono perché piano piano, negli anni, allunga un muro di là e chiudi una tettoia di qua, qualcuno se ne appropria gli spazi. Li chiude, magari per farne dei nuovi vuoti.

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    Propaganda elettorale per Francesco Antonio Stillitani, ex assessore al Lavoro e alle Politiche sociali nella Giunta Scopelliti
    Un report che fa riflettere

    Si chiama consumo di suolo, un logoramento continuo che trasforma il territorio e causa la perdita di importanti servizi ecosistemici. Un rapporto ogni anno ne documenta lo stato di avanzamento e anche quello del 2021, che analizza cosa sia successo nell’anno della pandemia, non porta buone notizie. Lo realizza il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) grazie al monitoraggio congiunto di Ispra e delle Agenzie regionali come l’Arpacal.

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    Un ufficio della Provincia di Reggio Calabria in un edificio non finito (foto Angelo Maggio)

    Il Rapporto dice questo: «Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 kmq, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato, e fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole. Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali».

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    Mongrassano, religione e cemento (foto Angelo Maggio)

    Va detto che la Calabria è al di sotto della media nazionale ed è tra le 8 regioni che, quest’anno, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari. Nella nostra regione il cemento non è comunque andato in lockdown: il suolo consumato è oggi il 5%, ovvero 76.116 ettari, con un aumento di 86 ettari nel 2020 rispetto al 2019. Ma bisogna analizzare anche il contesto – la Calabria ha molte aree non edificabili – e il grado di urbanizzazione. Nel 2018 il nostro territorio rurale era di 13.155 kmq, nel 2019 è sceso a 13.150 e nel 2020 a 13.148. Crescono invece, di poco ma costantemente, le zone suburbane e quelle urbane.

    I primati della Calabria

    Altri dati interessanti. Da un’analisi effettuata attraverso il confronto con il Pil regionale emerge la distribuzione del consumo di suolo in relazione alla dimensione dell’economia: Calabria, Sardegna e Basilicata registrano i valori più alti di suolo consumato rispetto al numero di addetti impiegati nell’industria. L’agricoltura: nel periodo 2006-2012 la perdita di superfici a oliveto ha visto proprio in Calabria il valore più alto con circa 12mila quintali di prodotti in meno, mentre tra il 2012 e il 2020 si sono persi frutteti in grado di produrre potenzialmente quasi 40.000 quintali. Un altro primato poco desiderabile è quello della regione con la percentuale più alta di suolo consumato (13,4%) nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica. Infine, la Calabria ha una delle percentuali più elevate (5,8%) di suolo consumato tra le aree a pericolosità sismica molto alta.

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    Caulonia (foto Angelo Maggio)

    Il Report dell’Ispra restituisce un altro paradosso che non ha bisogno di grandi interpretazioni: due «perle» del turismo calabrese, Tropea e Soverato, sono tra i Comuni che al 2020 hanno le percentuali più alte di suolo consumato (il 35% la cittadina tirrenica e il 27% quella jonica). Dopo gli interventi legislativi approvati nell’ultimo ventennio (la legge urbanistica 19/2002, le “norme sull’abitare” 41/2011, il “contrasto dell’abbandono e del consumo di suoli agricoli” 31/2017) sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non abbia funzionato, a partire dalla mancanza di sistemi di monitoraggio, di abbandonare gli slogan e provare a capire come, perché e per responsabilità di chi succeda che un territorio storicamente violentato venga ancora sacrificato sull’altare di un finto progresso: il dato sul suolo consumato pro capite dice che, ad oggi, per ogni calabrese sono andati persi 402 mq.