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  • Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Rifiuti raddoppiati tra vigne e uliveti? Siderno sfida la Regione

    Case che diventano aziende agricole, nuovi capannoni che si nascondono dietro anglicismi tattici, limiti ambientali cancellati d’imperio, strade che non esistono e su cui dovrebbero passare decine di camion al giorno: è finito, inevitabilmente, a carte bollate il braccio di ferro tra la Regione e il comune di Siderno sul “rinnovo” dell’impianto di trattamento dei rifiuti di San Leo. Un ricorso al Tar, presentato sull’ultima curva disponibile dalla terna commissariale che regge la cittadina jonica dopo l’ennesimo commissariamento per mafia, che mira a una sentenza sospensiva per i previsti lavori di profonda ristrutturazione dell’impianto gestito da Ecologia Oggi, società del gruppo Guarascio che in provincia di Reggio già gestisce il termovalorizzatore di Gioia Tauro.

    Il ricorso ai giudici amministrativi che potrebbe avere sviluppi già nei prossimi giorni. Presto gli si affiancherà quello che i cittadini dell’associazione «Siderno ha già dato» stanno preparando a supporto e integrazione del primo. Una battaglia che tra riunioni infuocate, consigli comunali aperti e manifestazioni di protesta, covava da mesi. E che è esplosa quando dal dipartimento di Tutela ambientale della Regione, è arrivata l’autorizzazione all’ampliamento.

    Le tappe

    Quella del raddoppio dell’impianto di San Leo è una storia vecchia. Dal dicembre 2016 – quando il Consiglio regionale approvò il Piano regionale di gestione dei rifiuti – incombe su un pezzo di Calabria sottratto alla fiumara e piazzato a poche centinaia di metri dal mare, più o meno a metà tra i territori di Siderno e Locri, i centri più grandi dell’intero comprensorio. Nel piano originario approvato a Palazzo Campanella nel 2016, San Leo sarebbe dovuta diventare un eco-distretto attraverso la creazione di nuove linee di produzione per i rifiuti differenziati e l’adozione della tecnologia anaerobica per il trattamento della forsu e del “verde” per la produzione di biogas.

    Una trasformazione profonda a cui si misero di traverso cittadini e amministrazione comunale in un braccio di ferro durato fino all’aprile del 2018. All’epoca la struttura regionale fa parziale marcia indietro accogliendo le istanze del territorio e limitando i lavori previsti nel centro di San Leo ad un profondo restyling che passava attraverso la riqualificazione delle linee di trattamento dei rifiuti e il potenziamento delle sezioni di aspirazione e biofiltrazione.

    Un progetto differente

    Quando la pratica per i lavori al centro di San Leo sembrava essere finita stritolata negli elefantiaci ingranaggi burocratici della cittadella di Germaneto, nel 2020 c’è una decisa accelerazione dell’iter. A settembre, sull’onda dell’interminabile emergenza monnezza, sul sito del Dipartimento Ambiente spunta la pubblicazione del progetto: un progetto che però, sostengono gli uffici comunali della cittadina jonica, si differenzia in maniera sostanziale dalla bozza venuta fuori durante la conferenza di servizi e gli incontri con i cittadini e a cui la terna prefettizia risponde quindi con parere sfavorevole ai lavori.

    Quel parere non ferma però gli uffici regionali che, lo scorso 12 agosto «decretavano il provvedimento autorizzativo n° 8449» per la trasformazione dell’impianto di San Leo. Un muro contro muro che, inevitabilmente, è finito in tribunale con i giudici amministrativi chiamati a valutare il ricorso presentato dalla terna prefettizia lo scorso primo ottobre.

    La relazione tecnica

    Sono tanti i punti critici evidenziati dalla dettagliata relazione degli uffici comunali contro il piano regionale per San Leo. A cominciare dalle nuove strutture da realizzare: da una parte il progetto regionale, che parla di «modeste modifiche all’attuale assetto morfologico dell’area interessata… che possono determinare un ulteriore moderato impegno di territorio necessario per garantire le nuove e più complesse funzioni operativi dell’impianto», dall’altra gli uffici comunali che, nero su bianco, rispondono «alla bizzarra tesi» avanzata da Catanzaro quantificando le modeste modifiche in «62mila metri quadri di nuova superficie pesantemente trasformata ed edificata che produrrà più di un raddoppio delle dimensioni fisiche dell’attuale impianto».

    Nella sostanza, dicono da Siderno, tutto quello che non era entrato dalla porta, sta rientrando dalla finestra. Quello delle nuove costruzioni rappresenta però solo la punta di un iceberg che rischia di mandare a monte l’intero programma regionale sui rifiuti: nel ricorso presentato al Tar infatti sono evidenziate tutte le criticità avanzate in conferenza di servizi e “superate” di forza dalla Regione.

    La monnezza tra le eccellenze

    L’impianto di San Leo è stato costruito infatti «nelle immediate vicinanze di un nucleo abitato» che nel progetto diventa invece magicamente «azienda agricola non residenziale» e, «adiacente alla fiumara Novito e quindi estremamente vulnerabile alla pericolosità idraulica della stessa». Ricade quasi interamente «all’interno dei 150 metri dalla fiumara e quindi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico». E poi l’impatto sulle produzioni agricole di pregio: la zona in cui sorge l’impianto di trasformazione dei rifiuti e che si troverebbe a dovere ospitare nuove strutture per 62mila metri quadri, ricade «in quella porzione di territorio comunale dove è più spiccata la presenza di produzioni di vino greco Doc, vino della Locride Igt e bergamotto, clementine e olio di oliva Dop».

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    Mariateresa Fragomeni si è imposta nel ballottaggio e guiderà il Comune di Siderno

    E ancora, la strada di collegamento – che sulle carte non esiste e che nella realtà è una mulattiera sterrata costruita su una lingua di terra strappata alla fiumara e divenuta nel tempo, discarica a sua volta – e il documento definitivo di impatto ambientale che non sarebbe mai stato presentato, per una rogna sociale prima ancora che legale, che rischia di esplodere nelle mani del nuovo sindaco di Siderno. Dal canto suo, la neo eletta Mariateresa Fragomeni prende tempo: «Sono sindaca da meno di 24 ore, nei prossimi giorni leggeremo tutte le relazioni e valuteremo come muoverci anche sentendo la Regione e la città metropolitana».

  • Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Territori da sempre in guerra e per questo incontrollati. L’Iraq e la Somalia da un canto. La Calabria, dall’altro. Guerre diverse, evidentemente. Ma lo stesso destino di vaste aree dove poter mettere in atto alcuni traffici illeciti. Sicuri che, soprattutto in quegli anni ’80-’90, tutto sarebbe rimasto sotto traccia. Avvolto nell’ombra e nel silenzio.

    Ilaria Alpi e Natale De Grazia: destini incrociati

    Iraq e Somalia sono anche i Paesi che incrociano il proprio destino con le indagini portate avanti sul traffico di scorie radioattive dai magistrati di Matera e Reggio Calabria. E incrociano i loro destini (e le loro tragiche fini) anche Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Due persone che – in luoghi diversi e con modalità diverse – probabilmente seguivano le stesse tracce.

    Documento desecretato in merito a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Muoiono a distanza di un anno e mezzo. Ilaria Alpi, giornalista del TG3, uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Con lei, trucidato anche l’operatore, Milan Hrovatin. Natale De Grazia muore in circostanze sospette il 13 dicembre del 1995, a Nocera Inferiore. Entrambi indagavano sulle cosiddette “navi dei veleni”. Carrette del mare. Imbottite di rifiuti tossici. Di scorie radioattive e nucleari.

    Navi che a volte giungevano fino all’Africa. Per scaricare in quei luoghi abbandonati il proprio carico di morte. Altre volte, invece, venivano fatte colare a picco al largo delle coste calabresi.    

    Il capitano Natale De Grazia
    L’ingegner Giorgio Comerio

    Un nome ricorrente è quello di Giorgio Comerio. Nel corso di una perquisizione nella sua abitazione a Garlasco, infatti, il pool di investigatori comandato dal capitano Natale De Grazia troverà un fascicolo con la scritta “Somalia”. In quella cartella, secondo quanto riferito, si sarebbe trovato del materiale riguardante la morte di Ilaria Alpi. Un certificato di morte o un lancio di agenzie. Le testimonianze sono discordanti. E il dubbio resta.

    La Somalia, quindi, entra a pieno titolo tra le rotte “calde” per il traffico di scorie radioattive. Le regioni del Nord Africa, infatti, sembrano essere la sede privilegiata di destinazione dei rifiuti altamente tossici. Il tema, dunque, è quello delle “navi a perdere”, in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall’ingegner Giorgio Comerio. Con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi.

    Documento desecretato in merito alla Oceanic Disposal Management

    Ingegnere con sede operativa a Garlasco, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare. Dello smaltimento delle scorie nucleari. Con la ODM Comerio ha un progetto: inabissare le scorie radioattive in acque dai fondali profondi e soffici, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori. Questi, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. Una proposta respinta da tutti gli Stati a cui l’ingegnere si rivolgerà. Almeno ufficialmente.

    Le indagini su Comerio e la sua ODM

    Ma secondo qualcuno Comerio avrebbe potuto mettere in piedi il proprio progetto in maniera autonoma. Secondo Legambiente, infatti, «Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo».

    Documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    La vita di Giorgio Comerio è piuttosto avventurosa. Negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina. Iscritto alla Loggia di Montecarlo, sarebbe un elemento legato ai servizi segreti. Anche se lui smentirà sempre fermamente. Maria Luigia Giuseppina Nitti è la compagna dell’ingegnere dal 1986 al 1992. Nel 1995 ai carabinieri che indagano sui presunti traffici di rifiuti radioattivi dichiara: «Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo in Italia, nella primavera del 1993, si assentò dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini». Ma anche in questo caso, per Comerio queste sarebbero tutte stupidaggini.

    Altro documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    Di Comerio parla anche quel Carlo Giglio, la fonte “Bill”, che ha raccontato alcuni dettagli, mai verificati giudiziariamente, su quegli anni. Giglio racconta di presunti rapporti con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”.

    Il pool di investigatori di Natale De Grazia perquisisce l’abitazione di Comerio, a Garlasco. E ritrova un serie molto lunga di dati: «Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi». È in quell’occasione che sarebbe stata anche recuperata la documentazione riferibile alla morte di Ilaria Alpi.

    La rotta somala

    Ed è qui che si incrociano le indagini di Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Un personaggio chiave sarebbe Giancarlo Marocchino. È lui uno dei primi a intervenire sul luogo del delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È uno degli ultimi a vedere il materiale di lavoro che Ilaria Alpi portava con sé. Che poi scomparirà nel nulla.

    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Marocchino, secondo alcune risultanze, avrebbe gestito un traffico di rifiuti in Somalia. Uomo molto influente in Somalia, attivo in una serie di affari e attività a Mogadiscio. Acquisendo un grande potere economico e militare: «Chiunque voglia andare in Somalia e rimanere vivo, segnatamente a Mogadiscio, deve farsi proteggere da lui» dirà in un’audizione uno dei magistrati che indagherà sull’imprenditore.

    Ancora dall’audizione: «Marocchino, da decenni operante con buon successo a quanto pare in Somalia, una realtà difficile nella quale credo che si debba essere bravi a operare, ma anche ad avere qualche forma di copertura istituzionale, sopravviveva benissimo. (…) Questo signore, in quel periodo e a mano a mano nel corso di quell’anno o due che seguimmo l’indagine, portava avanti la costruzione di un suo porto nella zona di El Man che avveniva sotto gli occhi di tutti in una zona che aveva poche insenature naturali. Una costa abbastanza piatta, formata a un certo punto da un serie di moli. I container erano posizionati tatticamente in modo perpendicolare alla linea litoranea di spiaggia. Riempiti, si dice, con inerti e protetti dall’erosione e dalla furia del mare, da montagne di macigni posti intorno».

    All’ombra del Partito Socialista

    Affari che si sarebbero mossi all’ombra del Partito Socialista dell’epoca. Come racconta la Commissione parlamentare sul duplice delitto Alpi-Hrovatin. Quel Giampiero Sebri, per anni uomo di grande rilievo e vicino a Bettino Craxi. Sebri definisce così Marocchino: «Era un nostro uomo, uomo di fiducia si intende, chiaramente, per quanto riguarda i traffici di rifiuti tossici-nocivi e anche traffici d’armi».

    Marocchino ha sempre definito calunnie tali affermazioni. E non ha mai subito procedimenti giudiziari concernenti tali accuse. Dichiarazioni, quelle di Sebri, messe nero su bianco in atti parlamentari ufficiali. Ma che non troveranno sbocco giudiziario. Ed è una costante di queste storie.  Un altro personaggio particolare è, in tal senso, quel Guido Garelli, pugliese, ma ammanicato con mezzo mondo. Al pubblico ministero Francesco Basentini, un giorno Garelli dirà di essere stato ammiraglio di un non meglio precisato esercito dell’Autorità Territoriale del Sahara Occidentale. E dignitario di un servizio d’intelligence che avrebbe operato nell’interesse del Regno Unito. Con base a Gibilterra. Garelli è in possesso di tripla cittadinanza: jugoslava, italiana e del Sahara Occidentale. È testimoniato in atti giudiziari come entrasse a Camp Darby senza bisogno di particolari permessi. Camp Darby è una base militare statunitense in Italia, nel territorio comunale di Pisa. Sarebbe considerata dalla US Army il distaccamento militare più importante d’Europa. Il più grande arsenale Usa all’estero.

    Un uomo in contatto con i servizi segreti italiani, con quelli statunitensi e con quelli africani. Dopo la morte di Ilaria Alpi, Guido Garelli finisce anche in carcere a Ivrea per ricettazione. Nel periodo in cui è detenuto, rilascia alcune dichiarazioni piuttosto interessanti: «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent’anni. La regia di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde. Vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

    Le dichiarazioni di Francesco Fonti

    Di Marocchino parlerà anche il collaboratore di giustizia. Francesco Fonti. Oggi deceduto. Fonti dichiara di averlo conosciuto a Milano nel 1992. Il collaboratore, infatti, ricorda l’interesse della ‘ndrangheta nel traffico di rifiuti radioattivi. Tutto avrebbe inizio nel 1982 su iniziativa di Giuseppe Nirta che, all’epoca, era il boss del territorio di San Luca. Nirta ne avrebbe dunque parlato con Fonti facendo i nomi di alcuni importanti uomini politici dell’epoca che gli avrebbero proposto di stoccare bidoni di rifiuti tossici. E di occultarli in zone della Calabria da individuare.

    A quel punto, sempre secondo il collaboratore, vi sarebbero stati diversi summit in cui avrebbe partecipato il gotha della ‘ndrangheta. Dagli Iamonte di Melito Porto Salvo ai Morabito di Africo. In seguito a questi incontri, tra i luoghi scelti per gli interramenti, verrebbe esclusa la Calabria. Nella primavera del 1983 Fonti sarebbe stato poi mandato a Roma da Sebastiano Romeo, nel frattempo succeduto a Nirta, per incontrare Giorgio De Stefano. Si tratterebbe dell’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta. Ritenuto elemento di collegamento tra l’ala militare delle ‘ndrine e i mondi occulti. Servizi Segreti e massoneria.  

    Secondo il collaboratore, De Stefano disse che il posto ideale per interrare i rifiuti tossici all’estero era la Somalia. E gli avrebbe organizzato un incontro con Pietro Bearzi, allora segretario generale alla Camera di commercio per la Somalia. Questi avrebbe garantito il suo aiuto. Anche Craxi – a detta del pentito – sarebbe stato al corrente della cosa. Ma non avrebbe seguito il tutto personalmente. Lasciando che se ne occupassero i servizi segreti. Alla domanda del pubblico ministero sul perché non avesse parlato prima di queste vicende, la risposta di Fonti è stata che non se ne era ricordato essendo tantissime le vicende da lui vissute.

    Anche per questo, probabilmente, Fonti sarà infine dichiarato del tutto inattendibile.

  • Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Sono crateri capovolti, piccoli vulcani artificiali che eruttano al contrario. Ogni tanto sbuffano, quasi sempre rilasciano sostanze nocive nell’aria, nei fiumi, nelle falde acquifere. In provincia di Cosenza esistono quattro “terre dei fuochi” dimenticate. Forse sarebbe più corretto definirli “fuochi nelle terre”, per quanto sono invisibili e nascosti nel sottosuolo. Nessuno s’azzarda più a misurare la febbre delle aree contaminate nostrane. Una certa stanchezza, frutto dell’impotenza, sembra prevalere persino tra gli abitanti di queste zone.

    Mobilitazioni e processi

    In passato, si organizzavano in comitati di protesta per denunciare l’elevato tasso di tumori e invocare le bonifiche. Col tempo, l’oblio ha fiaccato quelle mobilitazioni. E oggi a sollevare il problema rimangono in pochi. Così, tra archiviazioni, stralci, prescrizioni e assoluzioni, si sono dispersi in mille rivoli anche i procedimenti giudiziari che avrebbero dovuto accertare le responsabilità.

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    Una manifestazione ad Amantea per chiedere la verità sui danni ambientali nel territorio (foto Francesco Cirillo)

    Al momento, non c’è un solo politico, un ecomafioso, un imprenditore o uno dei loro servitori che abbia pagato per i disastri ambientali di Praia, Amantea, Montalto e Cassano. Non uno dei tanti imputati nei vari processi ha subito una condanna. Bravura dei difensori, inadeguatezza delle procure o sostanziale impunità per chi inquina? Sia in primo grado che in appello è arrivata l’assoluzione per tutti e 12 i responsabili della Marlane di Praia dalle accuse, a vario titolo, di lesioni gravissime, omicidio colposo plurimo e disastro ambientale. Negli anni Novanta, il primo a produrre inchieste su questa drammatica vicenda fu lo scrittore e mediattivista Francesco Cirillo.

    Un accordo con le famiglie dei morti

    Centinaia di operai si sarebbero ammalati di cancro a causa delle esalazioni dei coloranti adoperati nell’azienda tessile e dell’amianto presente nei freni del telai. In precedenza, Eni-Marzotto aveva stipulato un accordo con le famiglie degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parte civile, a ciascuna delle quali aveva versato tra i 20mila e i 30mila euro. Già il 4 aprile 2020, nel motivare l’annullamento, per gli effetti civili, della sentenza a suo tempo emessa dalla corte d’Appello di Catanzaro, la corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione di intervenuta prescrizione dei delitti di omicidio colposo pluriaggravato «è frutto di erronea applicazione della legge penale».

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    Il problema delle bonifiche

    Rimane comunque il problema della bonifica dei terreni che sarebbero stati interessati dai presunti scarichi abusivi di sostanze chimiche provenienti dalla fabbrica. Nel settembre 2017 la procura di Paola ha disposto nuovi accertamenti. A sollecitare un ulteriore approfondimento sono stati i comitati ambientalisti. Sul Tirreno cosentino, che si tratti delle migliaia di fanghi da depurazione scaricati in mare o delle perizie sulle sostanze inquinanti presenti nelle falde acquifere, serpeggia il sospetto che taluni soggetti istituzionali non vogliano o non riescano a vedere l’evidenza.

     

    Territorio in pessima salute

    Sebbene gli esperti, chiamati a pronunciarsi nell’ambito dei processi che si stanno celebrando, certifichino un pessimo stato di salute delle acque e dei terreni, pare che non ci siano autorità disposte a prenderne atto. Già nel 2007 si rilevava infatti la presenza di materiali cancerogeni nel sottosuolo. La professoressa Rosanna De Rosa, del Dipartimento di Geochimica e Vulcanologia dell’Università della Calabria, registrava valori molto alti di cromo, nichel, piombo e arsenico.

    Un anno dopo, nella relazione di consulenza tecnica disposta dalla procura di Paola, nell’evidenziare i rischi per la salute umana, il dottor Giacomino Brancati precisava che «solo un intervento specifico di rimozione dei contaminanti da quell’ambiente potrà mitigare, persino fino ad annullarla, l’entità di ogni accertato pericolo».

    I contaminanti spariscono

    Nel settembre 2018, a seguito dell’incidente probatorio nell’ambito del nuovo procedimento penale (oggi in fase di indagini nel tribunale di Paola) a carico dei dirigenti Marzotto per fare luce sulla morte di altri 50 operai e su 10 superstiti affetti da tumore, i professori Ivo Pavan e Alessandro Gargini hanno espletato la perizia con campionamenti nell’area antistante lo stabilimento e al confine con le abitazioni di Praia, rilevando nelle falde acquifere la presenza di tricloroetilene e cobalto. Eppure, nel piano di caratterizzazione del 2018 per la bonifica del territorio dai veleni della fabbrica Marlane, queste sostanze non ci sono più.

    L’Arpacal cambia idea

    Qualcuno si chiede se l’Arpacal, nel ratificare il piano, non abbia dimenticato cosa aveva firmato solo qualche tempo prima. Escludendo la presenza di extraterrestri nelle profondità della terra, non è fantascientifico capire da dove arrivino queste sostanze dannose. Annullata, per gli effetti civili, la sentenza del 2017 della corte d’Appello di Catanzaro, e accogliendo il ricorso dell’avvocato Lucio Conte, la corte di Cassazione ha ordinato il calcolo del risarcimento danni a favore del comune di Tortora, parte civile nel processo. L’udienza si terrà il prossimo 24 novembre.

    Il fiume Oliva

    Anche per i veleni individuati nella valle del fiume Oliva, ad Amantea, dai tribunali sono emersi giudizi di innocenza, ma centinaia di metri cubi di scorie industriali rimangono sotto terra. Non se ne conosce la provenienza. Qualcuno ipotizzò che a scaricarli sia stata una delle famigerate navi dei veleni. Ma le inchieste giudiziarie non hanno confermato questa ipotesi. Rodolfo Ambrosio, avvocato di Legambiente, ricorda un episodio inquietante.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea

    «In occasione di un sopralluogo con la troupe del Tg2 Dossier – racconta – ci avvicinò un signore anziano che aveva lavorato come camionista per alcune ditte edili note e locali. Ci disse che per interrare i materiali inquinanti loro raccoglievano la terra scavata fino a 40 metri di profondità per poi venderla di risulta ad imprese che la pagavano. Essendo presenti altri colleghi avvocati, la polizia giudiziaria, medici e tecnici, abbiamo concordato sulla necessità di un supplemento di perizia per verificare cosa ci fosse tra i sette metri nei quali scavò la procura e i 40 indicatici dal camionista. Quando la procura ci ha sentiti, lo abbiamo ribadito e siamo ancora in attesa delle risultanze e di un eventuale sbocco penale per un secondo procedimento».

    Il ruolo della Regione

    Oltre alla ricostruzione della verità storica e giudiziaria, rimane l’annoso problema delle bonifiche. «Si è parlato tanto, troppo dell’Oliva – spiega Gianfranco Posa, portavoce del comitato “De Grazia” -. La Regione, che ha la responsabilità di bonificare o mettere in sicurezza l’area, non è mai concretamente intervenuta, trincerandosi dietro l’analisi del rischio elaborata da Ispra e Arpacal che in buona sostanza dice che i veleni dell’Oliva “ce li siamo già mangiati”, ovvero hanno già prodotto i loro effetti negativi sulla popolazione ma, che adesso, non sono più pericolosi».

    «In realtà l’analisi del rischio – aggiunge Posa – è frutto di un lavoro durato anni che ha visto col tempo cambiare i risultati delle analisi chimiche spesso con risultati contrastanti tra quelli elaborati dagli enti pubblici e quelli dei consulenti dell’autorità giudiziaria. Ma la verità – come ribadisce anche l’analisi del rischio nella parte finale – è che i rifiuti nell’alveo di un fiume non ci possono stare e vanno rimossi o messi in sicurezza».

    Il Pnrr per mettere in sicurezza il territorio

    E poi c’è la popolazione che si è stancata di sentir parlare di questa zona, votata al commercio e al turismo, come di un territorio pesantemente inquinato senza vedere mai qualcuno che mettesse in atto soluzioni e pertanto ha allentato la pressione. In merito alle possibili soluzioni, Posa spiega che «si potrebbe attingere ai fondi comunitari ed elaborare un progetto di messa in sicurezza dell’area».

    «Il PNRR – aggiunge – sarebbe una buona possibilità per mettere in sicurezza il territorio calabrese, ma temiamo che anche questa occasione andrà persa. La prossima giunta regionale, qualunque essa sia, dovrebbe affidare l’assessorato all’Ambiente a un persona esperta e competente con la giusta sensibilità sulle tematiche ambientali. Qualcuno che abbia tra le sue priorità la soluzione delle tante emergenze ambientali calabresi e che si confronti con chi vive nei territori. Che punti sulla prevenzione, elaborando un adeguato piano dei rifiuti, che favorisca la nascita di impianti che riportino a materia prima i materiali differenziati raccolti. Che provveda al tracciamento dei rifiuti industriali, facendo prevenzione, in modo da rendere difficile lo smaltimento illegale».

    Sibaritide: condanne e prescrizioni

    Anche nella Sibaritide aleggia da anni un fantasma chimico, quello delle ferriti di zinco provenienti dal sito industriale di Crotone. «In questo caso, persino per me che ogni volta mi costituisco parte civile nell’interesse di Legambiente e Comuni, sta diventando difficile seguire gli infiniti tronconi delle inchieste giudiziarie», spiega l’avvocato Rodolfo Ambrosio.

    «Due processi – continua il legale – sono stati celebrati nel tribunale di Castrovillari per gli stessi reati del processo Artemide. Uno si è concluso con due condanne e siamo in attesa della fissazione dell’udienza in corte d’Appello. Per l’altro, invece, sarà celebrata udienza il prossimo 9 novembre. Come si ricorderà, fu de Magistris il titolare della prima inchiesta. E dopo 11 anni di processi e intervenute prescrizioni, furono bonificati i siti contaminati, tra Cassano e Francavilla Marittima, individuati dall’operazione “Artemide”».

    «Ma le zone interessate dai due procedimenti in corso – prosegue Ambrosio – sono ancora lì da bonificare e in parte da individuare. Il ministero della Difesa dispone di speciali elicotteri per la mappatura di metalli pesanti o radioattivi sepolti. In operazioni come Cassiopea, che portò alla scoperta di un traffico illecito di materiali inquinanti tra Caserta e Gioia Tauro, ne fu disposto l’impiego. Peccato che il procedimento sia stato archiviato e sebbene si conosca l’ubicazione di tali scarichi in Calabria, non si sia proceduto con la loro rimozione».

    Industria e ambiente

    Infine, rimangono senza risposte le domande poste negli anni sull’area di Montalto Uffugo. Qui la presenza di agenti inquinanti ha una storia antica. Il nostro giornale è tornato ad occuparsene di recente.

    «Anche in questo caso, persistono delle zone d’ombra – racconta l’avvocato Rodolfo Ambrosio -. Ricordo che durante un’udienza del processo da cui uscì assolto, tra gli altri, il sindaco di Rende, su mia domanda un teste riferì che nella zona morirono diverse mucche poste a pascolo. Ciò in contrasto con i rilievi dei tecnici che, pur provando l’inquinamento, lo certificarono sotto i livelli di legge. Vorrei capire come siano possibili i ricorrenti fenomeni di autocombustione in un territorio considerato “a norma».

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    Dunque, delle quattro mega-aree contaminate, Montalto e Praia sono le uniche imbottite di materiali che non proverrebbero da siti più o meno distanti. Di sicuro, tutti gli inquinanti sono di origine industriale e non è stata accertata l’entità reale del loro impatto sugli ecosistemi circostanti. Un vero e proprio paradosso, in una regione pressoché estranea al modello produttivo della fabbrica. Senza un ritorno dell’attenzione popolare e democratica su queste vicende, al danno dell’inquinamento si aggiungerà la beffa dell’oblio.

  • Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Cosa resta di tutte quelle trame [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA]? Poco o nulla sotto il profilo processuale e giudiziario. Molto, sotto il profilo storico. Un contesto nebuloso, perché i protagonisti di quelle trame si muovono a livelli altissimi. Potenti multinazionali, Stati stranieri, faccendieri e centri di potere. E, ovviamente, la criminalità organizzata.

    Le indagini di due distinte autorità giudiziarie hanno potuto solo in parte delineare quel contesto, anche per la vastità dei territori toccati. Dalla Calabria alla Basilicata, passando per il Piemonte, se ci riferiamo solo al territorio nazionale. Ma con il coinvolgimento di uno Stato straniero, perennemente in guerra: l’Iraq.

    Il supertestimone

    Percorsi e intrecci pericolosi ricostruiti anche, qualche anno fa, dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, firmata da Gaetano Pecorella e Alessandro Bratti. Fili difficili da riannodare. Anche perché è difficile ricostruire il contesto affaristico-criminale di quel periodo a distanza di alcuni lustri.

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    Nel caso dell’Iraq, i passaggi sulla presunta gestione dei centri Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli) verranno tratteggiati da un funzionario dell’ente, Carlo Giglio. Questi chiederà espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito. Dopo aver appreso dalla stampa che la Procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria.

    Il centro Enea di Rotondella

    L’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) è un impianto nucleare italiano costruito tra il 1965 e il 1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Un centro che da sempre è gravitato anche nell’orbita statunitense.

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    Il racconto di Giglio è inquietante. Secondo il funzionario, la registrazione degli scarti nucleari era truccata. Per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Agli atti della Commissione Ecomafie rimane anche la grande paura dell’ingegner Giglio. Con la sua opera ispettiva si attirerà anche le ire della proprietà dei centri Enea di Rotondella e Saluggia. Denunce per diffamazione e calunnia.

    Iraq e Calabria: una storia di armi e rifiuti

    Giglio parla poi di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Le dichiarazioni di Giglio agli atti della Commissione riguardano una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari.

    In quel periodo, peraltro, giunge anche la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele, a Reggio Calabria. il sospetto era che trasportasse materiale radioattivo. Scorie di rame di altoforno, in particolare.

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    Il porto di Durazzo

    La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività scompare dai rilevamenti. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. L’inquietante ipotesi è che la nave si sia disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.

    Una joint venture internazionale, in cui, però, l’avamposto italiano sarebbe stato rappresentato dalle due principali organizzazioni criminaliCosa Nostra e ‘Ndrangheta. La scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirata. Solo la mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al Sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per tali traffici.

    pizzimenti

    «Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti», si legge agli atti della Commissione Ecomafie.

    L’ingegnere Carlo Giglio

    Affermazioni riservate. Gravissime. Che tirano in ballo colossi industriali, Stati stranieri e centri di potere internazionali. Per questo, negli anni, si prova a proteggere Giglio, cui gli investigatori assegnano lo pseudonimo “Bill”. Un luogo chiave, quindi, sarebbe il centro Enea di Rotondella. Nelle sue affermazioni, Giglio-Bill sostiene la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”.

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    Una nave carica di sostanze chimiche partita dall’Italia con destinazione ufficiale il Venezuela, ma approdata in Siria

    L’ipotesi investigativa paventa l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ’80/’90) destinati ai paesi del Terzo Mondo, in particolare Iraq, Pakistan e Libia, per la produzione di ordigni atomici. Tutto anche grazie all’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel. Nonché la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi.

    Iraq e massoneria deviata

    A detta di Giglio, infatti, anche l’Italia avrebbe disperso in mare le scorie radioattive: «L’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando», afferma l’ingegnere-ispettore. Giglio diventa un testimone prezioso per le indagini congiunte delle Procure di Reggio Calabria e Matera. I risvolti investigativi delle inchieste sulle “navi dei veleni” e delle presunte trame attorno al centro Enea, infatti, vanno a intrecciarsi.

    Un ente, l’Enea, che, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate da Giglio ai magistrati Francesco Neri e Nicola Maria Pace, sarebbe stato infiltrato dalla massoneria: «Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici».

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    Un passaggio della relazione firmata da Pecorella e Bratti

    Proprio partendo dalle dichiarazioni di Giglio, il procuratore di Matera, Nicola Maria Pace, farà acquisire una serie di documenti. Da cui risulterà che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene. Accertando, poi, che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno. Le accuse di Giglio, comunque, non saranno mai provate dal punto di vista processuale.

  • Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Depurazione, l’Ue boccia l’Italia: tanta Calabria nella condanna

    Passata l’estate delle copromorfe fioriture algali, la speranza era che dei problemi della depurazione non si dovesse parlare almeno per un po’. Dal Lussemburgo, invece, tre giorni fa è arrivata l’ennesima tirata d’orecchie per l’Italia, rea di non aver rispettato le norme comunitarie in materia di acque reflue. E nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha un peso notevole (in negativo) la Calabria.

    Multe vecchie e nuove

    Il Belpaese non è nuovo a verdetti di questo genere. Paga, infatti, già circa 55 milioni di euro all’anno come sanzione per il mancato adeguamento dei propri impianti di depurazione alle direttive europee. Stavolta doveva difendersi da una procedura d’infrazione avviata nel 2014 e conclusa pochi giorni fa con la conferma delle violazioni contestate alle autorità nazionali dalla Commissione europea.

    Oggetto del contenzioso erano raccolta, trattamento e scarico delle acque reflue urbane in centinaia di aree sensibili dal punto di vista ambientale, materia regolamentata dalla direttiva Ue sulle acque reflue (91/27/Cee). È la prima condanna per l’Italia su questo specifico dossier, ragion per cui al momento non si prevedono multe. Ma se la situazione delle fogne non dovesse mutare in meglio scatterebbero nuove sanzioni.

    La situazione in Italia

    E la situazione quale sarebbe? Che nel nostro Paese sono 159 i Comuni che ancora oggi non sono dotati di reti fognarie per le acque reflue urbane. Non solo: 609 agglomerati le reti le hanno, ma non a norma. Lo stesso numero di quelli in cui la pubblica amministrazione non ha predisposto le misure necessarie affinché «la progettazione, la costruzione, la gestione e la manutenzione degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane siano condotte in modo da garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico».

    La Calabria si distingue in negativo 

    Nel primo caso, solo la Campania, con i suoi 85 centri, fa peggio della Calabria. Che si ferma a 58 casi citati (oltre un terzo del totale nazionale) nella sentenza, ma può fregiarsi di un poco invidiabile primato. È l’unica Regione italiana, infatti, a vantare nella sua lista il capoluogo: Catanzaro. La città di Sergio Abramo è in buona – o, meglio, cattiva – e abbondante compagnia. Nella lista nera dell’Ue ci sono parecchi centri del Cosentino con problemi di depurazione, ma non mancano quelli delle altre province.

    L’elenco comprende, infatti, anche Acquaro, Aiello Calabro, Altomonte, Bocchigliero, Caccuri, Cardeto, Casabona, Celico, Cerisano, Cerzeto, Chiaravalle Centrale, Cirò, Cirò Marina, Conflenti, Delianuova, Fiumefreddo Bruzio, Gioiosa Ionica, Grotteria, Ioppolo, Lago, Laino Borgo, Lattarico, Lungro, Luzzi, Maierato, Melissa, Mongrassano, Monasterace, Mottafollone, Palizzi, Paludi, Paola, Parghelia, Petilia Policastro, Placanica, Plataci, Platì, Polia, Rocca di Neto, San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Gregorio d’Ippona, San Marco Argentano, San Martino di Finita, San Sosti, Santa Agata d’Esaro, Santa Caterina Albanese, Santa Severina, Santa Sofia d’Epiro, Scandale, Scigliano, Scilla, Seminara, Spilinga, Tarsia, Zambrone.

    Nessun trattamento e impianti inadeguati

    Sono 128 invece i Comuni calabresi a non garantire che «le acque reflue urbane che confluiscono in reti fognarie siano sottoposte, prima dello scarico, ad un trattamento secondario o ad un trattamento equivalente». Gli stessi che quando si parla di impianti di trattamento non sono in grado di «garantire prestazioni sufficienti nelle normali condizioni climatiche locali, e tenendo conto delle variazioni stagionali di carico». Nessuna regione fa peggio quando si parla di depurazione.

    Anche in questo elenco non mancano nomi eccellenti, come Corigliano (non ancora unificata a Rossano all’apertura del procedimento) e Rende. Ai 58 Comuni già citati poche righe più su vanno infatti aggiunti: Aprigliano, Belvedere Marittimo, Bianchi, Bisignano, Bonifati, Borgia, Briatico, Cardinale, Cariati, Carlopoli, Cerva, Cessaniti, Civita, Corigliano Calabro, Crosia, Crucoli, Dinami, Drapia, Fabrizia, Fagnano Castello, Feroleto Antico, Ferruzzano, Filadelfia, Firmo, Francavilla Angitola, Francavilla Marittima, Frascineto, Gerocarne, Gimigliano, Grimaldi, Guardavalle, Guardia Piemontese, Limbadi, Maida, Malvito, Mammola, Mandatoriccio, Marcellinara, Maropati, Mormanno, Nardodipace, Oppido Mamertina, Oriolo, Orsomarso, Parenti, Paterno Calabro, Pedace, Pentone, Piane Crati, Rende, Riace, Roccella Ionica, Roggiano Gravina, San Calogero, San Giovanni in Fiore, San Lorenzo del Vallo, San Nicola da Crissa, San Pietro Apostolo, San Pietro di Caridà, San Roberto, San Vincenzo La Costa, Santo Stefano in Aspromonte, Serra San Bruno, Serrastretta, Sersale, Spezzano Albanese, Tiriolo, Torano Castello, Verbicaro, Varapodio e Zungri.

  • Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    La discarica d’Italia. E forse non solo. Questa è stata la Calabria. Non solo sotto il profilo degli accordi, i patti, le connivenze, tra il mondo criminale e pezzi deviati dello Stato. Non solo come laboratorio criminale, quindi. Ma in senso stretto. Un territorio “a perdere”, dove poter sperimentare le peggiori alleanze. E dove poter occultare scorie di ogni tipo. Ben oltre la “Terra dei fuochi”. Qui non parliamo di “monnezza”. Ma di rifiuti tossici. Di scorie nucleari. Di materiale radioattivo.

    Il carteggio

    Qualcosa che sarebbe iniziato già tra gli anni ’70 e ’80. Lo dimostra il fitto scambio di comunicazioni, di cui I Calabresi vi hanno già dato conto qualche settimana fa. Comunicazioni tra pezzi dello Stato. Servizi segreti, forze dell’ordine, magistratura. Ma, forse, non tutti giocavano nella stessa squadra.

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    Matteo Renzi ai tempi in cui guidava il Governo

    Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Fu la decisione dell’allora Governo presieduto da Matteo Renzi a far toccare con mano quanto fosse già nella conoscenza di diverse autorità investigative circa il traffico di rifiuti tossici e radioattivi che avrebbero avuto per teatro la Calabria. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di scorie nucleari sul suolo calabrese.

    Le note “riservate”

    Oggi è possibile documentare alla fine del 1992 la prima comunicazione ufficiale. Ma “riservata”. Come da DNA dei Servizi Segreti. È il 17 novembre 1992 quando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia. Rifiuti sotterrati lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria.

    I rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – «verrebbero sotterrati, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi». Addirittura, la nota dei Servizi individua anche il mezzo utilizzato per effettuare la manovra. Un camion del Comitato Autotrasportatori CAARM.

    Contestualizziamo: Cosa Nostra ha appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in quel terribile 1992. Ovviamente, tutta l’attenzione è concentrata, quindi, sulla potenza e sulle connivenze della mafia siciliana. E così, la ‘ndrangheta imperversa. Con soggetti, la cui importanza ci è ormai chiara solo da qualche anno.

    Il “Tiradritto”

    Uno di loro è il boss Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo. Catturato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2004. In quel periodo, invece, il “Tiradritto” è latitante. E “attivamente ricercato”, come si dice in gergo. Di lui si occupano anche i Servizi Segreti. Gli 007 segnalano come in cambio di una partita di armi, Morabito avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche. E, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania.

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    «Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde». Anni dopo, molti anni dopo, emergerà come in alcune zone di Africo vi sia un’incidenza tumorale e di malattie neoplastiche insensata per quel territorio. Privo di apparenti agenti inquinanti.

    Forse, a posteriori, quindi una spiegazione arriva proprio da quelle note “riservate” sul conto della ‘ndrangheta che conta. Perché quelle informative dei Servizi erano piuttosto circostanziate: «In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argilloso rimosso di recente. Verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno».

    Settemila fusti

    Gli atti desecretati alcuni anni fa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, mostrano anche come alla fine del 1994 i Servizi Segreti segnalassero l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel Vibonese. Lì esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa. Via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione arriva al Ros.

    Documento desecretato 2

    In quegli anni è molto attivo il ruolo del SISMI e del SISDE. Ciò che colpisce è che dietro questi affari, vi sia la “grande ‘ndrangheta”. Quella dei Cordì e quella dei Morabito per la Locride. I Mammoliti, da sempre clan importante a cavallo della provincia di Reggio Calabria e di quella di Vibo Valentia. Ma anche di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta. Le famiglie che più di tutti hanno contribuito al salto di qualità della criminalità organizzata calabrese. I Servizi Segreti segnalano infatti l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i De Stefano, i Tegano e i Piromalli.

    Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: «Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)».

    Via mare e via terra

    Altri tempi. Luoghi come Serra San Bruno e Fabrizia ancora indicano la dicitura della provincia di Catanzaro. Fatti che riemergeranno solo molti anni dopo. Più di venti. Delle scorie, invece, neppure l’ombra. Eppure l’intelligence parla anche di un traffico di uranio rosso. E sottolineano, nero su bianco, i primi incoraggianti riscontri info-operativi. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: «Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.). Nonché nel Vibonese».

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    Il porto di Odessa

    In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: «Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni. Il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir. Anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi».

    Il ruolo dei Servizi

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti anche le dichiarazioni del magistrato Alberto Cisterna. Per un determinato periodo, lavorerà al caso delle “navi dei veleni” e dei traffici di scorie sul territorio calabrese: «Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti. Questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell’attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione».

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    Sì perché – lo abbiamo visto – i Servizi c’erano eccome di mezzo: «Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i Servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo. Fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava. Quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D’accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro”.

    La versione del Sismi

    Abbastanza criptico (e inutile) il contributo del direttore del Sismi dell’epoca, il generale Sergio Siracusa: «Il Servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (…). Nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c’è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l’attività svolta. Vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell’Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia» dirà Siracusa.

  • Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Grotta della Monaca, una delle miniere più antiche d’Europa è in Calabria

    Una delle miniere più antiche d’Europa si trova in Calabria. Per la precisione, nella Valle dell’Esaro.
    Un’ulna (cioè, un pezzo d’avambraccio) appartenuta a un ventenne preistorico e sepolta sotto un masso nell’ingresso, fa capire che questo posto è frequentato da tantissimo tempo: oltre 20mila anni, stando ai risultati del radiocarbonio.
    Che ci fa un resto umano così antico in una grotta? Probabilmente, indica una “presa di possesso”. «È probabile che nell’alta preistoria queste enormi cavità naturali fossero considerate luoghi sacri», spiega Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari,
    L’umidità, fortissima, ha lavorato le rocce nel corso dei secoli. Una, in particolare, somiglia a un volto umano e dà il nome al sito: Grotta della Monaca.

    Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari
    Tra i più antichi minatori

    Sembra strano immaginare la Calabria “attrattiva” per persone in cerca di lavoro. Ma nella preistoria, a cavallo del neolitico e dell’eneolitico, ovvero all’inizio dell’età del rame, era così.
    La Grotta della Monaca era la meta di tribù che probabilmente vivevano nella vallata, tra l’Esaro e il Tirreno. Con tutta probabilità, questi nostri antenati sono stati tra i più antichi minatori dell’umanità.
    Solo alcuni di loro, probabilmente le donne, si dedicavano all’agricoltura. Gli uomini, i ragazzi e i bambini passavano gran parte delle loro non facili esistenze a estrarre i minerali colorati, prodotti dal miscuglio del ferro e del rame col calcare, che erano molto utilizzati per la concia delle pelli e, più tardi, per tingere i tessuti.
    Oggi, questi minerali hanno dei nomi (scientifici e comuni) piuttosto bizzarri: malachite, azzurrite, goethite, azzurrite, yukonite e aragonite.

    I minerali presenti nella struttura
    Il rame era un medicinale

    Il minerale predominante, tuttavia, è il rame, estratto in gran quantità.
    Ma non per fonderlo: «Secondo i criteri dell’epoca, questi erano giacimenti enormi, tuttavia non sufficienti per ricavarne lingotti», spiega ancora Larocca, che è il responsabile scientifico del sito archeologico.
    «Il rame», prosegue il ricercatore, «era utilizzato soprattutto come medicinale». I minerali estratti «non erano destinati all’autoconsumo, come i prodotti agricoli, ma allo scambio».
    La Calabria preistorica, in cui iniziavano le prime attività lavorative “specializzate” dà lezioni alla Calabria contemporanea, da cui scappano persino i braccianti, non appena possono.

     

    La grotta

    Ma com’è strutturato questo sito suggestivo e arcano? L’aggettivo “spettacolare” calza a pennello alla Grotta della Monaca, che è sotterranea quasi per modo di dire. L’ingresso, dov’è stato trovato l’antico avambraccio e dove c’è il “volto” della suora, è sull’ingresso di una collina a seicento metri di altitudine.

    Particolare del volto della “Monaca” (foto di Felice Larocca).

    È una sala piuttosto grande, piena di massi caduti dalle pareti, che conduce a una seconda cavità dal nome piuttosto inquietante: la Sala dei pipistrelli, una grotta nella grotta, lunga sessanta metri e larga trenta, che si chiama così per via dei suoi “ospiti” abituali.
    I quali vi risiedono tuttora, disturbati solo dal team di archeo-speleologi del Centro regionale speleologico “Enzo dei Medici” diretti dal professor Alfredo Geniola e dal menzionato Larocca per conto dell’Università di Bari, che gestisce gli scavi dall’inizio del millennio.

    La sala dei pipistrelli nel sito Grotta della Monaca

    Dalla Sala dei pipistrelli si dipana una serie di cunicoli, che si spingono per un altro centinaio di metri nelle viscere dell’altura. Qui è davvero difficile inoltrarsi, se non a carponi o, addirittura, strisciando.
    Il sito misura cinquecento metri circa in tutto. Un mezzo chilometro importantissimo nell’economia dell’Europa preistorica.

     

    Il duro lavoro

    Alcuni residui di ossa animali e di pietre lavorate fanno capire come lavoravano questi nostri antenati: afferravano il minerale più morbido, soprattutto la goethite, a mani nude, oppure lo strappavano dalle pareti con picconi ricavati dalle corna delle capre.

    Un piccone preistorico ritrovato nella Grotta della Monaca

    Nei casi più estremi, facevano a pezzi le rocce con mazze di pietra. Ma senza esagerare, perché il rischio di crolli era alto.
    Lo testimoniano delle “colonne”, cioè delle parti di minerale non estratto ma lasciato lì per reggere le volte dell’ingresso e della Sala dei pipistrelli. E dei muretti a secco, alzati per tenere sgombro l’ingresso dei cunicoli.
    Di lavorare si lavorava parecchio, ma le condizioni di vita erano grame: poco ossigeno, alimentazione non all’altezza e ritmi estrattivi enormi.
    D’altronde, non c’erano i sindacati e si faticava per sopravvivere.
    Un altro ritrovamento macabro dimostra oltremisura la pesantezza di questo stile di vita.

    Il cimitero

    Secondo gli archeologi, l’attività estrattiva è durata fino al 3.500 avanti Cristo circa, in pratica fino alle soglie della storia.
    Dopodiché, la Grotta della Monaca è diventata un cimitero. Gli archeologi, infatti, hanno trovato numerosi resti umani e hanno speso un bel po’ di tempo a ricomporli. Ne hanno ricavato un centinaio di scheletri, più o meno completi, che ci dicono tantissimo sugli abitanti della zona.
    Sono uomini, donne e bambini piccoli (alcuni, addirittura, appena nati), morti quasi tutti di infezioni o malattie. L’altezza media (1,60 per le donne e 1,70 per gli uomini) smentisce l’ipotesi che i nostri antenati mediterranei fossero “tappi”.
    Ma le condizioni delle ossa rivelano che comunque erano malnutriti e si ammalavano con una certa facilità di artrite e reumatismi, procurati dall’umidità del fiume Esaro e dal lavoro logorante. I più longevi raggiungevano a malapena i cinquant’anni e la mortalità infantile era quasi una norma.

    Rinvenimento di resti ossei umani durante le ricognizioni speleo-archeologiche del 1997 (foto di Felice Larocca)

    Si curavano alla meno peggio e, nei casi più estremi, si sottoponevano a una chirurgia rudimentale, come dimostrano i segni di trapanazione sul cranio di una donna adulta, probabilmente sopravvissuta all’“intervento” ma morta per l’infezione che ne seguì.

    La riscoperta

    Le estrazioni ripresero a pezzi e bocconi nell’antichità e si intensificarono di nuovo nel medioevo, quando minatori più attrezzati scavarono varie gallerie artificiali.
    L’abbandono definitivo, tuttavia, non fece dimenticare la Grotta, che lasciò tracce significative nell’immaginario degli abitanti della zona.
    La prima testimonianza contemporanea su questo sito è del sacerdote, poeta, scrittore e giornalista Vincenzo Padula, che parla della sua “terra gialla” come di una rarità.
    Il primo ad avventurarvisi, un po’ per spirito di avventura e un po’ per curiosità scientifica, è stato Enzo dei Medici, italiano di origine dalmata  (nacque a Sebenico, oggi Sibenik, in Croazia) che si recò nel Cosentino per censirne le innumerevoli cavità naturali, sotterranee e non.
    Appassionato naturalista e plurilaureato, dei Medici esplorò la Grotta della Monaca nel 1939 e ne diede per primo una descrizione accurata.

     

    L’interesse delle università di Bari, Salento e Ferrara

    L’iniziativa di questo pioniere della speleologia non ebbe seguito fino all’inizio del millennio, quando attorno al Csr dedicato a questo coraggioso esploratore si è coagulato uno staff importante, gestito come si è già detto dall’Università di Bari e a cui partecipano studiosi dell’Università del Salento e dell’Università di Ferrara.
    Tanto interesse potrebbe avere una ricaduta importante sul territorio, in particolare sul piccolo Comune di Sant’Agata d’Esaro, che tenta di trasformare la Grotta della Monaca in un attrattore turistico.

    Scavi all’ingresso della Grotta della Monaca

    La Calabria depressa di oggi tenta di mettere a frutto la Calabria iperattiva della remota antichità.
    Di sicuro, come spiega ancora Larocca, «c’è un fortissimo interesse della comunità internazionale degli studiosi sulla Grotta della Monaca e, più in generale, sull’area settentrionale della Calabria, che è piena di siti importanti, capaci di fornire informazioni dettagliate sull’Europa preistorica».
    Il turismo di massa, forse, predilige altro. Ma, per fortuna, i viaggiatori colti esistono ancora e in numero sufficiente a dare una spinta all’economia di questa parte di Calabria.
    E forse l’eventuale successo della Grotta della Monaca sarebbe il premio più bello alle fatiche dei nostri antenati.

  • Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    C’è un aspetto particolare delle vicende della ex Legnochimica, finora non preso in considerazione dagli inquirenti: i malati e i morti di tumore.
    Non poteva essere altrimenti per più ragioni. Innanzitutto, la tardiva istituzione, qui in Calabria, dei registri tumori, gli unici strumenti da cui è possibile estrarre statistiche e dati apprezzabili. E, magari, ricavare indizi e prove.

    In seconda battuta, ha pesato non poco l’evoluzione delle normative sull’ambiente. Per capirci, fino all’85, l’anno in cui fu approvata la legge Galasso, il concetto di ambiente quasi non era definito a livello normativo. E, fino al 2015, anno in cui è stato codificato il reato di disastro ambientale, non esisteva una regolamentazione penale precisa e coerente sui danni all’ambiente. Tradotto in parole povere, molti comportamenti scorretti e dannosi, sono stati sanzionati solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Prima, chi ha potuto ha fatto danni in relativa tranquillità e con la coscienza a posto: la legge lo permetteva.

    Questo è un capitolo quasi non scritto della storia industriale italiana, che vale anche per Legnochimica, un’azienda piemontese specializzata nella produzione di pannelli in ledorex, che svolse il grosso della propria attività a Rende dai primi anni ’70 all’inizio del millennio.
    Difficile attribuire in maniera incontrovertibile i quasi settanta tumori, verificatisi tra gli ex dipendenti dell’azienda e gli abitanti delle zone adiacenti, alle attività industriali della fabbrica di legname per mobili. Soprattutto, questa attribuzione potrebbe non avere un’efficacia legale forte: cioè non darebbe luogo a incriminazioni e risarcimenti.
    E allora, perché raccontare questa storia? Perché i malati e i morti ci sono ed è doveroso seminare almeno dei dubbi.

    I numeri crudi

    Focalizziamoci sulla zona: attorno a ciò che resta della ex Legnochimica, che fino al 2006 è stata il cuore pulsante della zona industriale di Rende, ci sono via Settimo e Cancello Magdalone, due aree discretamente popolate (poco più di cinquecento abitanti).
    Chi ci vive fa i conti tutti i giorni con il puzzo terribile che emana dai tre laghi artificiali superstiti e dalle scorie dello stabilimento, che finché funzionò diede lavoro a centinaia di persone. Ma piange anche le morti dei propri cari o soffre per le loro malattie.

    I malati di tumore accertati fino al 2016 sono sedici. A questi si devono aggiungere altri dodici casi, avvenuti negli ultimi cinque anni. La conta macabra non finisce qui, perché si contano circa quaranta casi, molti dei quali mortali, tra gli ex dipendenti.
    Il dato più impressionante resta quello degli abitanti dell’area: via Settimo “cinge” letteralmente l’ex stabilimento e Cancello Magdalone ne dista poco meno di un chilometro in linea d’aria.

    Le testimonianze

    Tra le ultime ad andarsene, c’è Ada Occhiuto, un’anziana contadina (78 anni) scomparsa a fine 2016 per un tumore ai polmoni. «Io non ho mai fumato», aveva raccontato prima di morire, né il suo tumore poteva essere riconducibile ad altro. Ma nei suoi ricordi c’è una suggestione forte: «Abbiamo sempre vissuto qui, io e i miei familiari. Anzi, parte dei terreni su cui sorse Legnochimica erano di nostra proprietà». Nel suo caso, c’è “solo” la vicinanza all’area sospetta. Che non è poco.

    Adriana Ranieri, che abita a Cancello Magdalone, lotta da anni con due tumori al seno piuttosto invasivi, che l’hanno costretta a una mastectomia e a più sedute di chemio. Il tumore al seno può legare poco con l’inquinamento industriale? Forse.
    Ma può assumere un altro significato se lo si inserisce come si deve in una casistica ben fatta. A via Settimo, invece, abitava Eva Iorio, scomparsa nel 2013 per un tumore al Pancreas. Eva era vicina di casa d un’altra Adriana Ranieri.

    Il caso di quest’ultima è particolare: nel 2008 ha perso suo marito, Luigi Marchese, fulminato in due mesi da un tumore al pancreas, dopo aver perso suo padre, Umberto Ranieri, ucciso da un tumore alla vescica nel lontano ’99. Un’ulteriore testimonianza importante è quella di Immacolata Greco, anche lei residente a via Settimo, che ha perso suo marito Francesco Amato, che se n’è andato a fine novembre 2008 per un altro tumore al pancreas.

    Incidenza sospetta

    Questi casi, che abbiamo ricostruito attraverso le testimonianze dirette e le cartelle cliniche, hanno due tratti inquietanti: sono tutti tumori alle parti molli e tre di essi riguardano il pancreas. In altre parole, sono neoplasie compatibili con l’inquinamento industriale. In particolare, dà nell’occhio il numero di tumori al pancreas, che arriva a cinque. Un numero piuttosto alto per una patologia rara e sin troppo vistoso per il fatto che si è verificato nella stessa zona.

    Al riguardo, risulta incisiva la testimonianza di Carolina Niglio, medico di famiglia che ha diagnosticato vari di questi casi: «Ne certificai tre in meno di sei anni e quest’incidenza mi apparve sospetta, tant’è che ne informai il mio caposervizio». Con pochi risultati: era la fine degli anni ’10 e mancava il registro tumori. Che non è risolutivo neppure oggi, visto che è stato istituito nel 2015 ed è aggiornato al 2010.
    Per quel che riguarda gli altri casi, l’incidenza alle parti molli resta impressionante: ci sono un tumore all’intestino e almeno otto al polmone, non riconducibili al tabagismo.

    Gli ex lavoratori

    Un indizio in più proviene da Umberto Ranieri, di cui si è già parlato. Umberto, tra le varie, è stato dipendente dell’ex stabilimento.
    Proprio tra gli ex lavoratori il tumore ha imperversato alla grande, con circa quaranta casi. Inoltre, la loro vicenda ha un appiglio giudiziario, per quanto minimo: la Corte di Cassazione ha certificato, nel 2014, la presenza di attività ed elementi inquinanti nell’ex stabilimento, a partire dai capannoni in eternit, smaltiti nella seconda metà degli anni ’10, per finire all’uso di resine e solventi industriali, scaricati tutti nelle vasche di decantazione (i famigerati laghetti artificiali) e, da lì, penetrati nel suolo e nelle falde a grande profondità, come ha certificato lo studio redatto dal geologo e accademico Gino Mirocle Crisci, ex rettore dell’Unical e perito della Procura di Cosenza nell’inchiesta sulla ex Legnochimica.

    Un’ultima testimonianza importante è quella di Antonio Stellato, arzillo ex caldaista di Legnochimica, che ha lavorato per l’azienda dal ’69 alla sua chiusura.
    Stellato, autore di molte denunce pubbliche assieme all’associazione Crocevia e al comitato Romore, ha raccontato più volte alcuni aspetti non proprio edificanti dell’attività dell’ex stabilimento. «Fino agli anni ’80 sversavamo i rifiuti della lavorazione direttamente nel Crati. Ma continuammo a farlo anche dopo» e a dispetto della normativa, nel frattempo approvata.

    Come? «Li mettevamo nelle vasche ma poi, nottetempo, aprivamo i canali di collegamento che comunque finivano nel Crati».
    E gli ex dipendenti? «Circa una quarantina di loro si sono ammalati in maniera grave e molti non ci sono più». Anche in questi casi le cartelle cliniche sono agghiaccianti: tumori alle parti molli, che hanno cancellato persone in pochi mesi e flagellano i sopravvissuti.

    Un messaggio per il futuro

    Il numero complessivo di malati e morti, circa sessantotto, è piuttosto alto. Specie per una Regione come la Calabria, che ha sempre avuto un livello di industrializzazione piuttosto basso.
    Al netto delle statistiche, resta un bisogno di verità, invocata a gran voce dai residenti, dai familiari delle vittime e dalle associazioni ambientaliste.
    Se questa verità dovesse arrivare, sarebbe l’ennesimo paragrafo della parte oscura dello sviluppo industriale, quella in cui si racconta di come, per decenni si siano barattate la salute e la sicurezza con lo sviluppo e col lavoro.
    Un racconto a futura memoria che, in quanto tale, non può essere inutile.

  • Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    È una storia che comincia 30 anni fa e che coinvolge i Servizi segreti, le loro fonti confidenziali e alcuni boss della ‘ndrangheta. E che testimonia come vadano certe cose in Italia. La prima parte si intreccia tra la Calabria e Roma e comincia negli anni ’90, quando le notizie e i riscontri raccolti dagli 007 cominciano a rivelare cose che farebbero impallidire il più spregiudicato degli allarmisti. Sono messe nero su bianco nelle carte custodite negli archivi del Parlamento.

    La seconda parte si svolge al Nord ed è invece tutta concentrata tra il 2018 e il 2021. Riguarda un boss passato attraverso diverse inchieste che ha conservato, o forse consolidato, il suo carisma, ma che nonostante la sua esperienza criminale si fa beccare a dirigere un traffico losco e condannato a 20 anni nel giro di pochi mesi. Ogni storia di ‘ndrangheta è storia di “tragedie” e faide. In questo caso i “malandrini” non si tradiscono solo tra di loro, con le scorie tradiscono e avvelenano la terra che sta sotto i loro piedi e quelli che la abitano.

    Affari di famiglie

    Reggio Calabria, agosto 1994. Informatori definiti «di settore» e «non in contatto tra di loro» riferiscono «notizie confidenziali» che, alla luce delle «prime verifiche», risultano «sufficientemente attendibili» e «foriere» di «interessanti sviluppi». Un uomo dei Servizi segreti descrive in questi termini, alla Direzione del Sisde di Roma, quanto ha appreso dai suoi informatori circa un presunto traffico internazionale di scorie radioattive in mano alla ‘ndrangheta.

    Si parla di un summit ad Africo tra il “Tiradritto” Giuseppe Morabito e «altri boss mafiosi del luogo»: in cambio di una partita di armi sarebbe giunta «l’autorizzazione» a scaricare in quella zona «un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni». Si parla anche di un presunto traffico di «uranio rosso».

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    Reggio Calabria, ottobre 1994. I primi riscontri «info-operativi» sono «incoraggianti». Gli informatori «habent riferito» dell’esistenza di «parecchie» discariche di rifiuti tossici. Oltre che in zone aspromontane, si troverebbero «nella cosiddetta zona delle Serre (Serra S. Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese». I Servizi scrivono che «in quella zona la “famiglia” Mammoliti, la competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossico-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto.

    Via mare e via terra

    Le scorie «proverrebbero dall’est europeo per mare e per terra con le seguenti modalità: canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi». In altre informative si parla dei fratelli Cesare e Marcello Cordì che, già nel 1992, avrebbero gestito un traffico di rifiuti tossici finiti nei canali dei metanodotti nel territorio di Serrata.

    discariche_scorie_calabria

    Si conclude, dopo aver sentito anche alcuni magistrati, che «tra la Calabria e il Nord d’Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate» in cui ci sarebbero «circa settemila fusti di sostanze tossiche». Si cita il comune di Borghetto, nel Savonese, e poi i luoghi della Calabria, «per la maggior parte grotte», in cui ci sarebbero le discariche di veleni: «Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (CZ), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (CZ)». Vengono menzionate le famiglie De Stefano, Piromalli e Tegano. Tutte le segnalazioni vengono girate al Ros. Risultano coinvolte ben sei Procure della Repubblica.

    I dossier desecretati

    Roma, maggio 2014. Il governo Renzi desecreta molti atti contenuti nei dossier della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Al loro interno compaiono riferimenti ai casi delle «navi dei veleni» e agli uomini chiave dei presunti traffici di scorie radioattive tra l’Africa e mezza Europa. È in queste carte che sono contenuti i riferimenti alle discariche radioattive che secondo gli 007 in riva allo Stretto esisterebbero in Calabria.

    I dossier vengono fuori dopo vent’anni, migliaia di cittadini si allarmano e si mobilitano pure gli amministratori locali. Partono gli incontri in Prefettura con comitati civici e sindaci che arrivano a coinvolgere i vertici dell’Arpacal, l’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente. Che, in autunno, assieme al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri avvia il progetto “Miapi”.

    Si tratta di un monitoraggio delle aree potenzialmente inquinate e per l’individuazione di siti contaminati con l’ausilio di dati telerilevati grazie ad un sensore “Airbone” ancorato ad un elicottero geo-radar. Le attività di ricerca vengono completate e viene trasmesso un hard disk contenente il data base, in formato shapefile, aggiornato al 28 febbraio 2015. Quei dati però ancora oggi sono un mistero, non sono mai stati resi di dominio pubblico.

    Lombardia, Italia, A. D. 2021

    Lecco, febbraio 2021. È l’altra parte della storia: più recente, distante geograficamente ma sempre e comunque collegata alla Calabria. Finisce in modo molto diverso. Scatta l’operazione “Cardine – Metal money”: diciotto cittadini italiani (dieci in carcere ed otto agli arresti domiciliari) sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.

    Al centro di tutto c’è un uomo che per gli inquirenti è il boss indiscusso della ‘ndrangheta nel Lecchese. Si chiama Cosimo Damiano Vallelonga e il prossimo 30 settembre compirà 73 anni. Li “festeggerà” in carcere, non è certo la prima volta che gli capita. È già stato coinvolto in diverse inchieste, da “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90 alla maxioperazione “Infinito” del 2010. È considerato il successore di Franco Coco Trovato, suo coetaneo che già dagli anni ’90 sconta diversi ergastoli al 41 bis.

    Vallelonga è originario di Mongiana, uno dei paesi delle Serre vibonesi indicato nelle carte del Sisde come luogo di presunto deposito di scorie radioattive. Quando i capibastone della sua zona d’origine entrano in conflitto nella sanguinosa “faida dei boschi” viene chiamato in causa per tentare di fare da paciere tra le famiglie in guerra. Nella ‘ndrangheta lombarda chi ha la dote del Vangelo lo chiama «compare Cosimo» e spesso gli chiede di intervenire per dirimere questioni e affari spinosi.

    Vent’anni di carcere

    Milano, settembre 2021. I giudici del Tribunale meneghino, nell’aula bunker di San Vittore, condannano Vallelonga a vent’anni di carcere, più di quanto avessero chiesto nei suoi confronti i pm della Procura antimafia milanese. È l’esito con rito abbreviato dell’inchiesta “Cardine-Metal money” sull’impero del boss originario di Mongiana. Nell’inchiesta gli investigatori della Guardia di finanza di Lecco non ricostruiscono solo estorsioni, società cartiere, truffe e frodi, ma scoprono anche un traffico da 10mila tonnellate di rottami e rifiuti radioattivi.

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    L’aula bunker di San Vittore a Milano

    L’indagine non riguarda solo la Lombardia ma si estende anche a Liguria ed Emilia Romagna. Vallelonga, una volta scontate le condanne precedenti, avrebbe «ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio mafioso, non solo attraverso autonome condotte criminali ma anche ricevendo presso il suo ufficio all’interno di un negozio sito nella Brianza lecchese altri esponenti della ‘ndrangheta ed imprenditori locali, sia per l’erogazione di prestiti a tassi usurari sia per organizzare il reinvestimento dei proventi delle attività illecite nell’economia legale».

    Vallelonga avrebbe diretto «un’imponente attività di traffico illecito di rifiuti posta in essere attraverso imprese operanti nel settore del commercio di metalli ferrosi e non ferrosi». Ci sarebbe dietro anche un giro di fatture false per circa 7 milioni di euro. E un carico di rifiuti radioattivi: 16 tonnellate di rame trinciato proveniente dalla provincia di Bergamo e sequestrato dalla Polizia Stradale di Brescia nel maggio 2018.

  • Porto di Bagnara, nove milioni e nessuna bonifica

    Porto di Bagnara, nove milioni e nessuna bonifica

    Da un porto che non c’è (e che forse non sarà mai realizzato) a uno che c’è (e serve tantissimo) ma è pieno di problemi.
    Ci si riferisce al progetto di Paola, vagheggiato dagli anni ’90 e di cui sopravvivono solo le tracce iniziali sul lungomare, e alla struttura di Bagnara Calabra, realizzata a fine anni ’80 e ora in mezzo a due guai, uno più grosso dell’altro: i danni ai moli provocati dal mare e il disastro ambientale, provocato dall’uomo, su cui indaga tuttora la Procura di Reggio.

    Gianluca Gallo, assessore all’Agricoltura della Regione Calabria

    Questi due porti, quello che non c’è e quello che è pieno di guai, hanno in comune una cosa: l’attenzione propagandistica della giunta regionale uscente che ha annunciato, lo scorso Ferragosto, due maxifinanziamenti, 20 milioni per Paola e 9 per Bagnara. In quest’ultimo caso, si sono spesi in prima persona l’assessore al Turismo Fausto Orsomarso e quello all’Agricoltura e alla pesca Gianluca Gallo.

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    Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo (foto Alfonso Bombini)

    Tanto impegno è doveroso, perché la pesca è una delle voci principali dell’economia bagnarese e poi perché il porto è utilizzato, d’estate, anche dalle imbarcazioni da diporto.
    Ma siamo sicuri che questi 9 milioni, stanziati dall’amministrazione Spirlì su iniziativa dell’assessora alle Infrastrutture Domenica Catalfamo, potranno essere spesi?

    Un’estate calda

    Molti annunci, tanti applausi (rigorosamente bipartisan) e altrettante polemiche, rivolte alle istituzioni per accelerarne le pratiche. L’estate bagnarese è stata calda non solo per la latitudine. Il dibattito sul porto – danneggiato gravemente dai marosi nell’inverno del 2019 e poi sequestrato dalla Procura di Reggio lo scorso febbraio per un presunto disastro ambientale – è iniziato a giugno. Con le esternazioni di Nino Spirlì che è intervenuto a un incontro istituzionale assieme al sottosegretario alle Infrastrutture Alessandro Morelli. I due, in questa occasione, hanno ribadito il loro interessamento per sbloccare il sequestro e si sono impegnati a fare le doverose pressioni istituzionali.

    Il leghista si rivolge alla magistratura

    Siccome due leghisti non bastano, buon ultimo è giunto Giacomo Saccomanno, il commissario regionale della Lega, che si è rivolto direttamente alla magistratura il 6 giugno per chiedere il dissequestro. A dire il vero, una risposta è arrivata: l’autorizzazione, concessa dalla sostituta procuratrice Giulia Maria Scavello, all’uso delle banchine sigillate durante l’inverno.
    Ma è una risposta parziale, riservata ai soli pescatori, che possono ormeggiare le barche. Ma non possono farci la manutenzione e, soprattutto, devono smaltire i rifiuti del pescato attraverso una ditta specializzata. Poco, ma meglio che niente.

    La presenza del disastro ambientale non ha fermato, tuttavia, la propaganda. Infatti l’ultimo atto politico dell’agosto bagnarese è stato una conferenza stampa tenuta il 20 agosto da Catalfamo e da suo cugino, il deputato azzurro Francesco Cannizzaro. Entrambi hanno ribadito il finanziamento milionario.
    Già: ma i quattrini sono stanziati per la messa in sicurezza del porto e per il rifacimento della strada di collegamento. Cioè per rimediare i danni provocati dalla natura. Ma per il disastro ambientale chi paga? Soprattutto: chi pulisce?

    Il generale inverno

    La botta finale l’hanno data i marosi di fine 2019, che hanno devastato in due ondate (il 14 e il 21 dicembre) il molo di sopraflutto – cioè il braccio esterno del porto, diventato da allora in parte inagibile – e distrutto le scogliere di protezione.
    Da quel momento in avanti, chi usa quel molo lo fa a suo rischio e pericolo. Anzi, potrebbe non usarlo più: secondo gli addetti ai lavori i danni sono tali che potrebbe bastare un inverno simile a quello pre Covid per finire di distruggere tutto.

    Non è un caso, quindi, che il porto di Bagnara sia subito entrato nell’agenda della Regione, sin dai tempi di Jole Santelli, la prima a promettere l’impegno delle istituzioni poco prima delle elezioni 2020 assieme a Cannizzaro, su invito del vicesindaco Mario Romeo, eletto nella lista civica guidata dal dem Gregorio Frosina, ma azzurro anche lui.

    La promessa in presenza di Tajani

    Subito dopo, la promessa è stata ribadita dai tre in presenza dell’eurodeputato Antonio Tajani. E poi è arrivato il turno della Lega, con l’interessamento di Salvini, giunto nella cittadina tirrenica, proprio a ridosso della pandemia, assieme alla fedelissima Tilde Minasi.

    L’interesse propagandistico è innegabile, ma senz’altro il porto è vitale: coi suoi circa 150 posti barca è l’estensione nel mare del quartiere Marinella, il cuore pulsante di un’imponente flotta peschereccia di oltre 100 natanti.
    Non solo: grazie ai moli mobili, l’estate vi ormeggiano anche le barche da diporto dei privati e quelle per il trasporto dei turisti che visitano la Costa Viola.

    Gli sporcaccioni anonimi

    Per una cittadina non grande, poco meno di 10mila abitanti, una struttura così è oro.
    Peccato solo che molti utenti non se ne siano resi conto. E, soprattutto, peccato solo che chi doveva vigilare in maniera continuativa non l’abbia fatto. Siamo in Calabria, lo sfasciume pendulo sul mare, come diceva Giustino Fortunato.

    Ma in Calabria l’uomo riesce a far peggio della natura. Se ne sono accorti (eccome!) i carabinieri, che hanno messo i sigilli al porto il 14 febbraio, dopo aver trovato di tutto e di più sulle banchine e, soprattutto, nei fondali: pezzi di scafi e relitti interi, vecchi motori abbandonati, fusti di olio per motori o di carburante, pezzi di reti e di lenze. Di tutto e di più.

    La terza volta che il porto subisce un sequestro

    Lo spettacolo dei fondali, in particolare, è tutt’altro che rassicurante: grazie all’interramento, fisiologico in tutti i porti, si sono ridotti dagli originari quindici metri di profondità agli attuali poco più che sei e c’è da scommettere che la sabbia celi altri “tesori” simili a quelli trovati dagli inquirenti.

    È la terza volta che il porto subisce un sequestro. La prima è stata nel 2013, la seconda nel 2018, a causa di rifiuti pericolosi trovati su una banchina interna.
    Sono le tappe di un’esistenza intensa e tormentata, da cui si ricavano due dati.
    Il primo: il porto è stato utilizzato moltissimo (e vivaddio); il secondo: questo porto è stato molto trascurato o, comunque, non tutelato a dovere.

    Una storia tormentata

    Ciò che serve, spesso, fa anche gola. E tanto. Il porto di Bagnara non sfugge a questa regola: non ha fatto in tempo a sorgere, a fine anni ’80, ché subito è entrato nel mirino dei “picciotti” catanesi legati a Nitto Santapaola.
    Ma questa è storia vecchia, consegnata a cronache, nere e giudiziarie, altrettanto vecchie.
    La parte più travagliata delle vicende portuali inizia nel 2011, con la gestione della Compagnia portuale Tommaso Gullì, di Reggio Calabria.
    La società reggina resta fino al 2018, quando l’attuale amministrazione comunale rescinde il contratto per una serie di inadempienze non proprio leggere: tra queste, l’omessa pulizia e l’insufficienza dei sistemi di sorveglianza (solo sei telecamere al posto delle undici previste).

    Il Comune assume la gestione del porto

    Subentra una società, Marina di Porto Rosa di Milazzo, che resiste pochi mesi, perché succedono due fatti inquietanti: un incendio colpisce la residenza estiva dell’amministratore della società siciliana e un ordigno danneggia una barca, sempre della società. Segnali chiarissimi, che costringono il Comune ad assumere la gestione diretta. Un compito non facile, visto che il municipio è oberato dal dissesto finanziario, terminato solo di recente con l’approvazione del bilancio 2020.

    Nel 2019 la gestione passa alla cooperativa bagnarese Onda Marina, che resiste tuttora, a dispetto del duplice disastro. Tanto impegno, evidentemente, piace non solo alla giunta di Frosina ma anche alle minoranze consiliari, visto che il Comune ha proposto un appalto di cinque anni e vuole estenderlo a dieci.

    Il disastro ambientale ferma la ricostruzione

    L’idea di finanziare il porto, come si è visto, non è una trovata dei cosentini Orsomarso e Gallo, che semmai l’hanno capitalizzata a fini propagandistici. È un tormentone iniziato con l’insediamento di Jole Santelli, che si è sviluppato in crescendo: i milioni promessi sono stati dapprima cinque, poi sette e, a partire dall’estate appena trascorsa, sono diventati nove.

    Tutto questo, senza tener conto del disastro ambientale, visibile a tutti i cittadini prima ancora che agli inquirenti, i quali hanno fatto il classico atto dovuto.
    Il decreto di sequestro, confermato il 21 febbraio dalla gip Vincenza Bellini, è tuttora vigente perché funzionale all’inchiesta, ancora in corso, per disastro ambientale e illecite attività cantieristiche.

    Il sindaco Frosina è intervenuto a maggio con un’ordinanza di bonifica, proprio mentre gli inquirenti continuavano gli accertamenti. La pulizia delle banchine e dei fondali dovrebbe essere a carico delle società che hanno avuto a che fare col porto, cioè la Gullì, Marina di Porto Rosa e Onda Marina. Inoltre, le cooperative di pescatori e le associazioni di sub hanno offerto il loro aiuto.

    I dubbi restano

    Ma i dubbi restano e sono fortissimi: è possibile bonificare senza un piano di caratterizzazione, cioè senza conoscere l’entità reale del disastro e, quindi, poter quantificare i costi degli interventi?
    Queste risposte le potranno dare solo gli inquirenti, non appena concluderanno le indagini, al momento a carico di quattordici soggetti.

    Ancora: è possibile procedere alla ristrutturazione del porto senza aver fatto prima la bonifica necessaria? Evidentemente no, almeno a rigor di logica.
    I due disastri, quello provocato dal mare e quello causato dall’uomo, si incrociano e si ostacolano a vicenda, perché dalla soluzione dell’uno dipende la possibilità di affrontare l’altro.

    È il cane che si morde la coda. E rischia di sbranare o rendere inutilizzabili i 9 milioni, che fanno così gola da aver messo d’accordo maggioranza e opposizioni. I fatti raccontano questo. E il finanziamento? Rischia di trasformarsi in un’altra supercazzola propagandistica, che la fine della bella stagione rischia di spazzare via.