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  • Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Ventesei anni anni senza verità. Con tanti dubbi, tanti sospetti. Qualche certezza. Ma nessuna verità. Sicuramente nessuna verità giudiziaria. Ma nubi oscure, misteri inquietanti, anche per quanto concerne quella storica. Moriva 26 anni fa, il 13 dicembre 1995, in circostanze mai chiarite, il Capitano di Fregata della Marina Militare Italiana, Natale De Grazia. Reggino e punta di diamante del pool investigativo che, proprio nella città dello Stretto, stava indagando sulle cosiddette “navi dei veleni”. Le imbarcazioni che, attraverso un accordo tra criminalità, faccendieri e pezzi deviati dello Stato, sarebbero state affondate al largo delle coste calabresi. Con il proprio carico di rifiuti tossici e radioattivi.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea
    Fine di un’inchiesta

    Quel pool che, dopo la misteriosa morte di De Grazia, si sfalderà. E con esso, dissolte anche tutte le speranze investigative di far luce su quello che, fin da subito, era apparso come un sistema enorme. Fatto di connivenze tra criminalità e strutture parastatali. E che si allungava ben oltre la Calabria, ben oltre l’Italia, con traffici internazionali di scorie e armi. Proprio quegli affari su cui, probabilmente, indagavano anche i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel marzo 1994. Appena un anno e mezzo prima,  rispetto alla morte di Natale De Grazia, avvenuta a Nocera Inferiore, a neanche metà di quel viaggio, forse decisivo per l’inchiesta, che doveva portarlo fino al porto di La Spezia. Snodo cruciale delle inquietanti rotte delle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin
    Uno che sapeva leggere una mappa nautica

    Si indaga su navi affondate e De Grazia è un marinaio, uno che il mare l’ha sempre amato. È l’unico, di fatto, che sa leggere una mappa nautica. E con le proprie indagini riesce a restringere il campo dei possibili affondamenti dolosi a una trentina di episodi. Indagini delicatissime che hanno fatto affiorare il coinvolgimento dei Servizi Segreti negli strani viaggi di navi che avrebbero avvelenato i mari calabresi. Ma, tra depistaggi, pedinamenti, fughe di notizie e, dopo la morte di De Grazia, prepensionamenti, tutto il pool – coordinato dal magistrato Francesco Neri – prende strade diverse. E la storia non imboccherà mai la strada della verità.

    Squarci di luce

    Nessuna verità giudiziaria. Men che meno storica. Solo, di tanto in tanto, qualche flash di verità. Veloce e fugace come un lampo. Ma non per questo non abbagliante. Come accade con la conclusione dei lavori della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta dall’avvocato Gaetano Pecorella, di qualche Legislatura fa. Conclusioni che chiamano in causa una perizia che attesterebbe come De Grazia, a bordo di quell’auto che corre nella notte per raggiungere La Spezia, non sarebbe morto di morte naturale. L’ennesimo di tanti, tantissimi, viaggi per provare ad accertare la verità sulla motonave Rosso, spiaggiata ad Amantea anni prima, e sulle altre navi che, con i propri carichi nocivi, avrebbero avvelenato i mari calabresi. L’ultimo viaggio.

    “Cause tossiche”

    Nella propria relazione, l’esperto non farebbe altro che confermare i sospetti che anche i profani hanno sempre alimentato sul decesso di un uomo sano e costantemente monitorato, per via della sua attività militare: “Si trattava di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici” è scritto nella relazione. Il perito lo scrive chiaramente, parlando di “cause tossiche”.

    Secondo le conclusioni del perito della Commissione Ecomafie, però, “l’indagine tossicologica non è più ripetibile, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso”.

    Una pagina che contiene i dati di un esame istologico eseguito sul corpo di Natale De Grazia

    L’intrigo internazionale

    Non solo il terreno, non solo il mare. Ad essere stato avvelenato, dunque, sarebbe stato anche il Capitano De Grazia. Da sempre, la sua famiglia, ma anche i gruppi ambientalisti (Legambiente su tutti) si battono per ricercare la verità. Un uomo “normale” chiamato a fronteggiare, senza tirarsi indietro, sistemi criminali molto più grandi.

    Il lavoro della Commissione Ecomafie presieduta da Pecorella fu importante non solo per l’inquietante conclusione sulla morte di De Grazia. Ma anche per una capillare ricerca di indizi e prove sul business delle “navi dei veleni”. Dalle audizioni dei compagni di viaggio di De Grazia, passando per le sconvolgenti rivelazioni fatte dal prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione e sicurezza interna), che, nel corso della propria audizione nel luglio 2011 ha depositato due note dei Servizi Segreti, che già nel 1992 fornivano particolari circa l’interessamento delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito delle scorie. Come abbiamo raccontato alcune settimane fa.

    Il giallo delle autopsie

    Il documento agli atti della Commissione Ecomafie mina duramente le conclusioni cui si arrivò con due distinte autopsie, che individuarono in un “arresto cardiocircolatorio” la causa della morte di De Grazia. Verrebbe messa in dubbio, dunque, la conclusione che De Grazia sia morto per cause naturali. E quindi cresce l’inquietante sospetto che l’ufficiale sia stato ucciso, avvelenato, probabilmente per le indagini portate avanti. Come sostenuto, da tempo, dalla famiglia e dagli ambientalisti. Nel corso degli anni sono stati almeno quattro gli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo esanime del Capitano De Grazia.

    I primi due saranno stilati, a distanza di diversi mesi, dalla dottoressa Simona Del Vecchio. Una doppia autopsia affidata allo stesso medico legale: sarà questa una delle maggiori contestazioni. Proprio la perizia medico-legale della dottoressa Del Vecchio svolta sul corpo senza vita di De Grazia, “non corrisponde alla verità scientifica” secondo i nuovi accertamenti.

    Un esame svolto, per la prima volta, il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo il viaggio verso La Spezia. Un esame lungo in cui la dottoressa Del Vecchio darà atto della negatività degli esami chimico-tossicologici concludendo in maniera certa: “Può ricondursi a una morte di tipo naturale, conseguente a una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso, caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore”.

    “La morte improvvisa dell’adulto”

    Nel suo primo scritto, la dottoressa Del Vecchio parla di “morte improvvisa dell’adulto”, che troverebbe origine in un’ischemia del miocardio, con successive gravi turbe del ritmo cardiaco. Ma Natale De Grazia è una persona giovane, non ha neanche quarant’anni. È un militare, ed è soggetto a frequenti visite mediche. In cui non ha mai riscontrato alcun tipo di patologia cardiaca.

    Questa la spiegazione della dottoressa Del Vecchio: “Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca”.

    La stessa conclusione di un anno e mezzo prima

    Il 23 aprile 1997, un anno e mezzo dopo la morte di De Grazia, la dottoressa Del Vecchio (insieme ad altri eminenti professori universitari) verrà nuovamente incaricata dalla Procura della Repubblica. Con il compito di eseguire “ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e/o velenose, nonché approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini, volte a verificare la causa del decesso”.

    Il frontespizio della relazione medico-legale sulla morte del Capitano De Grazia

    E anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno “la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati”. Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli (per la verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (per la verifica di eventuale intossicazione acuta). La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: “Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”.

    La perizia incaricata dalla famiglia De Grazia

    In mezzo tra le due perizie, interverrà la perizia di parte della famiglia De Grazia, redatta, dal dottor Alessio Asmundo. Il quale, pur partendo da presupposti totalmente diversi, con riferimento, soprattutto, alle condizioni dell’apparato cardiaco menzionate dalla dottoressa Del Vecchio, arriverà a una conclusione simile. “Si deve concludere, quindi, che la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardia acuta da miocitosi coagulativa da “superlavoro” in soggetto affetto da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine” scrive.

    De Grazia sarebbe morto, dunque, per cause naturali. Un arresto cardiaco dovuto al troppo lavoro, al troppo stress derivante dalle proprie indagini. Una “verità” che resta in piedi, nonostante le polemiche, per molto tempo.

    L’ultima perizia

    Quindici anni dopo arriverà l’ultima perizia, la quarta. Quella che, pur considerando “l’indagine tossicologica non più ripetibile” a causa del tanto, tantissimo, tempo trascorso, allo stesso tempo solleverà seri dubbi sulle cause “non naturali” della morte.

    La medaglia del presidente della Repubblica

    A distanza di ventisei anni dalla scomparsa in pochi credono alla reale possibilità che De Grazia, un uomo in piena forma, di neanche quarant’anni, sia morto per cause naturali. Nonostante l’enorme stress cui sarebbe stato sottoposto. L’ipotesi più accreditata (ma allo stesso tempo mai provata) è che l’ufficiale, con i propri accertamenti, sia finito in mezzo storie oscure e inquietanti.

    Come è facile percepire, peraltro, dalle motivazioni con le quali il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferirà la medaglia d’oro alla memoria dell’ufficiale: “Il Capitano di Fregata Natale De Grazia ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevata importanza investigativa per la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di costante sacrificio personale e nonostante pressioni e atteggiamenti ostili a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini e illeciti operati da navi mercantili”.

  • Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Sulla carta, una parte dell’ambientalismo sembra poco più che una superstizione. Come tutte le superstizioni, certe polemiche in parte si fondano su una verità, almeno per quel che riguarda lo smaltimento dei rifiuti: discariche, impianti di trattamento e, nei casi più estremi, digestori e inceneritori possono essere davvero pericolosi, se non sono gestiti in condizioni di sicurezza.
    E le lacune, a proposito di sicurezza, in Calabria sono tantissime: lo ribadiscono le vicende della discarica di San Giovanni in Fiore o di altre vecchie discariche cosentine, sopravvissute all’era dello smaltimento pre-differenziata e mai bonificate.

    La sindrome Nimby

    Il resto è opinabile: molti ambientalisti non tengono conto delle nuove tecnologie e dei progressi avvenuti proprio grazie alle nuove prassi nella raccolta dei rifiuti.
    In tutto questo, fa la sua parte anche la paura. Una paura particolare, sintetizzata con efficacia da un acronimo entrato da oltre un decennio nell’uso comune: Nimby, che sta per Not in my back yard”, non nel mio cortile. Smaltire è giusto, ma lontano da me.

    Rivolta nel Pollino

    Di recente, si è assistito a una forte protesta nell’area del Pollino, per la precisione a cavallo tra Frascineto e Castrovillari, dove nel 2019 i cittadini si sono ribellati alla proposta avanzata dal sindaco di Castrovillari, Antonio Lo Polito, di realizzare un impianto per il trattamento dei rifiuti nel vecchio stabilimento di Italcementi.
    La protesta fu cavalcata allora da Ferdinando Laghi, attuale consigliere regionale di opposizione.

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    Il consigliere regionale Ferdinando Laghi

    È doveroso ricordare che, all’epoca, Laghi non era candidato alle Regionali, perciò nel suo ruolo di “portavoce” non era ispirato da scopi elettorali. Proprio in occasione di quella protesta, l’ex primario medico indicò dei parametri fondamentali per la realizzazione delle strutture di stoccaggio e smaltimento dei rifiuti: distanza sufficiente (almeno più di due chilometri) dall’abitato, vicinanza a grosse arterie stradali per consentire un trasporto agevole, uso di tecnologie per il controllo delle emissioni.

    La monnezza che piace agli amministratori

    Il progetto andò in fumo, perché non gradito ai castrovillaresi e agli abitanti di Frascineto.
    Tuttavia, l’idea di realizzare impianti di stoccaggio (anche banali discariche) e trattamento dei rifiuti solletica non pochi amministratori. La “monnezza” infatti è un’attività che può rimpinguare, attraverso le concessioni e le tariffe, le casse dei nostri enti locali e, con un po’ di fortuna, creare posti di lavoro. Ciò che rischia di inquinare l’ambiente può dare ossigeno all’economia: una versione rivista e aggiornata dell’antico adagio secondo cui “pecunia non olet”, ovvero i soldi non puzzano. La citazione latina non è un caso: è attribuita a Vespasiano, l’imperatore che decise di istituire le latrine pubbliche a pagamento…. E, a dispetto delle preoccupazioni dei suoi consiglieri, ci riuscì.

    Il caso Grimaldi

    Difficile dire se sia (solo) Nimby oppure se dietro la protesta del Comitato popolare tutela Savuto ci siano timori fondati.
    Fatto sta che le manifestazioni continue contro l’ipotesi di creare un ecodistretto con discarica di servizio a Grimaldi, un piccolo Comune (poco più di millecinquecento anime) del Savuto, al confine tra Cosenza e Catanzaro, hanno avuto successo.
    Proprio a fine novembre la giunta guidata da Roberto De Marco ha ritirato, con una delibera approvata dal Consiglio comunale, l’idea dell’impianto, avversata dal Comitato anche sulla base di un motivo non proprio infondato: la vicinanza al letto del Savuto.

    Un motivo, tra l’altro non inedito nelle proteste antidiscarica degli ambientalisti calabresi. Quasi tutti gli impianti contestati sono vicini a zone “sensibili”: corsi d’acqua e falde acquifere, oppure al confine tra diversi Comuni. Un fattore, quest’ultimo, che crea anche problemi politici non leggeri: possono gli abitanti di un Comune subire le emissioni di strutture che avvantaggiano essenzialmente il Comune vicino?

    Il caso Scala Coeli

    E non sembra risolutiva neppure l’idea di istituire ecodistretti, impianti e discariche in zone a bassa densità abitativa. Lo dimostra la vicenda decennale di Scala Coeli, presa in carico direttamente da Legambiente.
    Sulla carta, Scala Coeli sarebbe un territorio ideale per realizzare impianti per il trattamento dei rifiuti, perché è un paese spopolato, poco più di ottocento abitanti, con molto territorio a disposizione, quasi 68 chilometri quadrati. Per di più, l’abitato è arroccato su un monte, quindi a distanza di sicurezza.
    Ciò ha motivato l’autorizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi, effettuata dal 2010 dal Dipartimento ambiente della Regione, di 93mila metri cubi, gestita dalla società Bieco srl.

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    La discarica di Scala Coeli
    La battaglia degli ambientalisti

    Dov’è il problema? Nel caso di Scala Coeli, la vicinanza della struttura al letto del fiume Nika, ai confini tra il basso Jonio cosentino e il Crotonese. La vicinanza al fiume non è il solo problema: nella zona resistono ancora attività agricole importanti e ci sono, quindi, vincoli territoriali.
    Il problema è esploso nel 2015, quando l’azienda concessionaria ha richiesto l’ampliamento della cubatura. L’inchiesta condotta dagli ambientalisti ha rivelato che i terreni su cui è stata realizzata la discarica non erano ancora sdemanializzati. In altre parole, la proprietà (e quindi la destinazione d’uso) erano ancora pubbliche.
    Più che le proteste, hanno potuto le carte bollate: i militanti di Legambiente si sono rivolti al Tar contro il Dipartimento agricoltura della Regione, che aveva dato parere positivo all’ampliamento e, come se non bastasse, hanno denunciato il tutto anche alla Procura di Castrovillari.

    In attesa del Tar 

    I motivi di questi ricorsi sono complessi e forse non è infondato ipotizzare che nella zona non sarebbe proprio dovuta sorgere una discarica, visto che i terreni sono ancora demaniali. A breve, probabilmente prima di Natale, il Tar si pronuncerà e potrebbe mettere la parola fine alla vicenda. In caso di stop all’ampliamento, si fermerebbe anche il conferimento dei rifiuti, visto che la discarica avrebbe già quasi esaurito la propria capacità. E si aprirebbe un nuovo capitolo, non meno problematico, relativo stavolta alla bonifica.

    Un problema aperto

    Ma le vittorie degli ambientalisti non risolvono il problema: esportare i rifiuti, come si è fatto spesso durante le emergenze recenti, costa. E costa pure mantenere l’attuale sistema, che garantisce sì e no lo stoccaggio.
    Già: i rifiuti da qualche parte devono pur finire, nel rispetto dell’ambiente e della sicurezza dei cittadini. Finora parecchie zone della Calabria tirano avanti a botte di rattoppi e proteste. Ma quanto potrà durare?

  • Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Chissà se l’ostentato approccio “rock” di Roberto Occhiuto sarà applicato anche a un lentissimo ente subregionale: il Parco delle Serre. Istituito nel 1990, c’è voluto un decennio prima che qualcuno stendesse la cartografia su un tavolo e ne tracciasse almeno i confini. Poi, pur esistendo poco più che sulla carta, è finito al centro di una girandola di conflitti politici e contenziosi giudiziari. Ne è scaturito un commissariamento che dura ancora oggi. Commissariamento non per infiltrazioni mafiose, ma per manifesta incapacità della politica.

    La neve ricopre la riserva naturale regionale
    Tante parole, nessun fatto

    Il Parco delle Serre è l’unica riserva naturale a carattere regionale che sorge in continuità geografica, ma non amministrativa, con i Parchi nazionali di Pollino, Sila e Aspromonte.Toccando tre province (Catanzaro, Vibo, Reggio) e 26 Comuni, estende la sua superficie di competenza su un territorio di 17.687 ettari, con al centro una montagna che sale fino a 1500 metri e dista poche decine di km dai due mari. Un paradiso di biodiversità diventato però un simbolo di immobilismo istituzionale, tanto vorticoso negli avvicendamenti e nelle grane giudiziarie quanto improduttivo. Le aspirazioni di salvaguardia del territorio e di sviluppo “sostenibile”, alla fine, si sono concretizzate solo nella retorica delle brochure convegnistiche ed elettorali.

    Le meraviglie del Parco delle Serre

    La legge che disciplina le aree protette in Calabria risale al 2003 e si pone l’obiettivo di «promuovere nel territorio in esse ricompreso l’applicazione di metodi di gestione e valorizzazione naturalistico-ambientali tesi a realizzare l’integrazione tra uomo e ambiente naturale». Nelle Serre ci sono distese di abete bianco e pino laricio, faggete, castagneti, pioppeti e querceti. C’è l’oasi del lago Angitola, una zona umida di valore internazionale. E c’è il bosco Archiforo, un Sito di interesse comunitario che rientra nella cosiddetta zona di riserva integrale. Proprio in questo bosco nei mesi scorsi il Wwf di Vibo ha denunciato, con tanto di documentazione fotografica, uno «scempio» di alberi tagliati in un luogo in cui «non si potrebbe toccare neppure un filo d’erba».

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    Il lago Angitola
    Secoli di rispetto cancellati dalla mafia dei boschi

    Non è certo la prima volta che accade. Pare che ora se ne stia interessando anche la Procura vibonese. Negli anni scorsi altri tagli di imponenti abeti bianchi sono stati talvolta bloccati dalle proteste degli ambientalisti. Va detto che da queste parti i boschi hanno rappresentato per secoli una fonte di sostentamento economico e sono stati gestiti con sapienza. La gente delle Serre ci viveva, nel bosco, tanto da muovercisi dentro attraverso una particolarissima toponomastica che ancora sopravvive nella memoria di boscaioli, bovari, mannesi e carbonai e di cui c’è ancora qualche traccia nell’archivio comunale di Serra San Bruno.

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    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Ma di questa cultura del bosco l’ente Parco non si è mai fatto carico. E , oggi, anche chi non è un “estremista” verde e non è pregiudizialmente contrario a ogni tipo di taglio può accorgersi, andando in quei boschi, della differenza tra un intervento ragionato, una previdente selvicoltura, e quello che si pratica in certi casi nelle foreste comunali che rientrano nel Parco, dove da decenni imperversa la mafia dei boschi.

    Gli interessi dei clan

    Dalla recente inchiesta “Imponimento”, ma anche da altre del passato, sono emersi gli interessi dei clan sulle Serre vibonesi e catanzaresi con la complicità di tecnici e amministratori comunali. Per la Dda di Catanzaro ci sarebbe un collaudato meccanismo di rotazione nell’aggiudicazione degli appalti boschivi «attraverso turbative d’asta e illecita concorrenza sleale». Per i boschi, per esempio, litigarono due mammasantissima che un tempo erano stati fratelli come il boss di Filadelfia Rocco Anello e quello di Serra San Bruno Damiano Vallelunga, che prima di essere ucciso in un agguato a Riace aveva guadagnato potere e carisma tali da tenere testa ai Mancuso.

    E nei boschi – emerge sempre da “Imponimento” – nell’estate del 2017 un paio di imprenditori ritenuti sodali dei clan avrebbero sversato un bel po’ di rifiuti, anche pericolosi, persino eternit, eseguendo senza tanti scrupoli un ordine arrivato proprio dallo stesso Anello. Che, intercettato, parlava di «quaranta camionate di calcinacci, più due con eternit» provenienti dal cantiere di un resort a Pizzo e finiti in alcuni terreni in parte rientranti nel Parco delle Serre.

    Da Murmura al controllato controllore

    L’ente è ancora retto da un commissario: dall’estate del 2020 (epoca Santelli) è Giovanni Aramini, dirigente del Settore Aree protette del dipartimento regionale Ambiente. In teoria, quale vertice del Parco sarebbe il controllato e quale dirigente di quel Settore sarebbe anche il controllore. Ma probabilmente questo è il male minore, perché Aramini è comunque un tecnico competente e sensibile alle tematiche ambientali. Il problema è che ha in mano poco o niente di concreto da programmare come tutti quelli che lo hanno preceduto.

    la sede del consiglio regionale della Calabria
    La sede del Consiglio regionale

    In tanti, tra commissari e presidenti, si sono avvicendati negli anni. Il primo fu il senatore Antonino Murmura e con lui sono partite anche le contese di fronte alla giustizia amministrativa che hanno coinvolto i suoi successori in una serie di ordinanze, sospensive e sentenze che hanno aggiunto solo confusione a confusione. Dal 2010 chi ha governato la Regione ha preferito optare per i commissari perché questi vengono nominati dal presidente della Giunta mentre, per legge, i presidenti sono indicati dal presidente del consiglio regionale. L’ultimo bando di Palazzo Campanella per individuare un presidente è stato chiuso a ottobre del 2020 ma non è stato ancora nominato nessuno. Meglio non assumersi la responsabilità politica di un fallimento annunciato.

    Il concorso e i favoritismi

    Oltre ai contenziosi amministrativi non è mancata qualche digressione nel penale. Nel 2015 era scattata un’inchiesta su alcuni concorsi del Parco che secondo l’accusa erano stati pilotati. Ma il reato di abuso d’ufficio contestato a 6 imputati è stato dichiarato prescritto a settembre dal Tribunale di Vibo. Già in precedenza era scattata la prescrizione per alcune contestazioni di falso ideologico, mentre gli imputati sono stati assolti da altre per falso anche se nelle motivazioni della sentenza si parla comunque di procedura «viziata da evidenti favoritismi».

    La pianta organica approvata nel 2005 prevede 57 unità di personale, 41 tecnici e 16 amministrativi, di cui 6 dirigenti. Oggi quelli che ci lavorano si contano sulle dita di una mano. C’è un solo dirigente e qualche funzionario, più un centinaio di tirocinanti scelti tra disoccupati/inoccupati inseriti in un percorso di riqualificazione professionale di politiche attive. Al Parco sono state assegnate negli anni scorsi anche alcune decine di operai ex Afor che lavorano sul territorio. In generale, qualche iniziativa per cercare di rendere fruibili i percorsi naturalistici si intraprende. I risultati, però, sono inevitabilmente proporzionati ai finanziamenti che l’ente ha a disposizione.

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    Il consuntivo 2020 individua «trasferimenti correnti», ovvero le somme assicurate dalla Regione, per circa 1 milione di euro, circa mezzo milione in meno rispetto all’anno prima. Le spese per il personale ammontano a 937mila euro. È chiaro che resta ben poco. Tutto ciò però non è abbastanza per svegliare i sindaci del territorio e far loro rivendicare il ruolo assegnatogli dal popolo. Si vedrà ora se il presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso e l’Occhiuto del «cambio di passo» vogliano mettere «cuore e coraggio» anche per riempire questa scatola vuota. Che, ormai da 30 anni, incarna il fallimento della politica su un territorio in cui bellezza e marginalità si vanno sempre più impastando. In un amalgama che restituisce nient’altro che decadenza.

     

  • Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Lorenzo Rossi è un divulgatore scientifico. Romagnolo, studioso e ricercatore, è coordinatore e responsabile nel Museo di scienze naturali di Cesena. Il suo canale Youtube, CriptoZoo, è seguitissimo. In poco tempo ha richiamato più di 22mila follower che crescono con un ritmo di mille al mese. In esso racconta verità scientifiche sulle creature misteriose, gli animali forse estinti o forse no, che abiterebbero ancora in remote zone del pianeta. Così, per una forma di ribaltamento del ruolo, il grande esperto di mostri marini, yeti e big foot è divenuto il più temuto avversario di chi crede nella loro esistenza.

    Nei suoi video su Youtube, partendo dalla storia degli avvistamenti di questi “criptidi”, documenta e confuta in modo minuzioso il carattere solo fantastico di tanti presunti incontri ravvicinati. A Cosenza negli ultimi anni è venuto due volte per presentare i suoi libri. Ad accoglierlo e ascoltarlo si è radunato un nutrito pubblico composto da bambini, mattacchioni, docenti universitari, curiosi e appassionati di criptozoologia. Gli intrecci tra antropologia, storia, paleontologia, mitologia e scienze naturali rendono piacevole e interessante ogni suo racconto che così stimola lo studio e l’approfondimento interdisciplinare. Lorenzo ha con la Calabria un rapporto molto sentimentale.

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    Il criptozoologo Lorenzo Rossi
    In un suo viaggio in Sila, pochi anni fa, ha indagato sugli avvistamenti di una specie ritenuta estinta in quest’area geografica. Cosa ha scoperto?

    «Ero interessato a delle storie sulla presenza della lince. Mi era stato riferito che in una macelleria di San Giovanni in Fiore, fino a qualche decennio fa, era esposta una lince imbalsamata e che sarebbe stata abbattuta nella Sila greca. Ho trovato riscontro, ma nessuna prova. In macelleria mi hanno detto: “Sì, sì, avevamo questo reperto, ma purtroppo dopo la morte di nostro padre abbiamo buttato via molti degli oggetti che gli erano appartenuti, tra i quali anche quella lince impagliata”».

    Perché è attratto dalla Sila?

    «La Sila e le foreste casentinesi sono a mio avviso i luoghi più belli da un punto di vista dell’interesse naturalistico in Italia. Ed è molto affascinante non solo per la presenza del lupo, che è diventata iconica, ma anche per il ritorno della lontra in alcune zone».

    Ci sono state segnalazioni confermate?

    «Sì, la lontra è una specie in espansione ed è presente, per esempio, nel fiume Lese. Può arrivare anche a vivere in bacini artificiali».

    Anche nei tre laghi artificiali, Cecita, Arvo e Ampollino?

    «Sì, al Cecita è stata segnalata».

    È significativo, perché se l’aria della Sila è accreditata come la migliore d’Europa, purtroppo pare che l’acqua dei bacini artificiali sia molto contaminata.

    «Fino a poco tempo fa la lontra era un indicatore della qualità dell’acqua. Oggi invece si è notato che pur di sopravvivere riesce a insediarsi in luoghi che sono gli ultimi in cui ti aspetteresti di trovarla. Se finiscono gli spazi a lei congeniali, prova a vivere dove può. Non ho elementi conoscitivi sulla qualità dell’acqua in questi laghi. È tuttavia un buon segnale che la lontra ci sia. Anche se le condizioni del lago non sono ideali, è comunque migliore di altri contesti acquatici, se questo animale decide di abitarvi».

    Qualche anno fa, a proposito dei ricorrenti avvistamenti di una strana creatura sul Pollino, “lu scurzune ccu li ricchie” (il serpente con le orecchie), ha fornito una spiegazione molto attendibile e interessante. Potrebbe esporla?

    «Molte di queste storie riguardano tutto l’arco alpino e quello appenninico. Tanti avvistamenti di “serpente baffuto” o “serpe-gatto” possono nascere dalle osservazioni della lontra. È un animale che vive per la maggior parte del tempo in acqua. Se la osserviamo nell’atto di nuotare, col pelo liscio, lucido e nero, può sembrare un grosso serpente. Quando cammina a terra, si muove spostandosi a balzi. Un tratto che viene descritto a proposito di questi presunti strani serpenti con le orecchie e i baffi sarebbero i fischi. E sappiamo che la lontra li emette».

    Sul Pollino alcuni dicono che vivano lungo i fiumi e scavino le tane lungo le sponde. Sappiamo che anche la lontra si comporta così, quindi diventa abbastanza compatibile con gli avvistamenti. È normale che quando una figura entra nell’immaginario, sebbene la sua presunta esistenza si basi su qualcosa di reale, poi prende vita a sé».

    C’è anche chi ha ipotizzato che i serpenti, quando fanno la muta, possano avere delle scaglie sulla testa ed essere quindi scambiati per animali sconosciuti.

    Sì, ma la mia idea è che la base reale di questi avvistamenti sia la lontra».

    Tra i suoi studi recenti, uno dei più interessanti riguarda l’estinto lupo siciliano. Era simile ai lupi della Sila e del Pollino?

    Su questa popolazione l’ultimo studio sui genomi completi è ancora in corso e lo sta conducendo l’università di Copenhagen. Sembra che il lupo siciliano derivi dalla popolazione appenninica. Alla fine dell’era glaciale, il ponte di terra tra Calabria e Sicilia si interruppe ed è probabile che gli ultimi esemplari di questo lupo proveniente dalla Calabria siano rimasti isolati laggiù. Così, in questi 20mila anni, si sono differenziati anche visibilmente. Il lupo siciliano era più piccolo di quello appenninico e privo delle strisce nere sugli avambracci. Anche il suo colore risultava molto particolare».

    Come nasce l’interesse per il lupo siciliano?

    Tutta la nostra ricerca è iniziata perché per caso ci siamo imbattuti nei diari di un naturalista siciliano, il Minà Palumbo, che descriveva i lupi siciliani di un colore “lionato”, cioè quello del leone. I lupi dell’Appennino non hanno questo colore. Quindi siamo andati a cercare gli esemplari imbalsamanti nei vari musei italiani. Ce ne sono pochissimi. Uno al museo della Specola di Firenze, uno al museo di scienze naturali di Palermo, uno al museo di Termini Imerese e due al museo di Terrasini. Questi lupi sono gialli. Al museo della Specola hanno conservato anche il cartellino, scritto a suo tempo da un grande studioso delle scienze naturali italiane, Enrico Giglioli: “Esemplare mirabilissimo per la mancanza delle strisce negli avambracci e per il colore giallo chiaro”. Quindi già nell’800 aveva intuito queste differenze».

    Gli studi sul lupo a quale periodo risalgono?

    Non è mai stato studiato in Italia in modo approfondito, fino agli anni Sessanta, quando nell’Appennino iniziò a estinguersi. Nel frattempo, già dagli anni Trenta, il lupo siciliano si era estinto. Noi abbiamo descritto questa nuova sottospecie, denominandola Canis lupus cristaldii, in onore di un professore siciliano di anatomia comparata, Mauro Cristaldi. Adesso aspettiamo la conferma degli studi sul Dna, perché non tutti sono d’accordo sul fatto che si tratti di una sottospecie».

    Ogni tanto i cacciatori sostengono di aver avvistato delle linci tra i boschi dell’Aspromonte. È verosimile che ne esistano ancora in Calabria oppure questo animale qui si è estinto?

    Già affermare che “esistono ancora” sarebbe un passo grande. Il problema di base è se siano mai esistite in epoca storica. Da quel che sappiamo, empiricamente gli ultimi resti di lince risalgono all’età del bronzo. C’è però una sterminata bibliografia di naturalisti italiani e stranieri, che riportano resoconti, in Calabria, come in altre regioni attraversate dall’Appennino, sulla presenza di un animale che viene chiamato a volte “gattopardo”, altre “lupo cerviero”, “felipardo”, lonza”, descritto come una lince. Da qui nasce l’ipotesi affascinante sulla sopravvivenza di questa specie fino all’800 o addirittura all’inizio del ‘900. Una ricerca è stata effettuata anche dal già direttore del parco d’Abruzzo, Franco Tassi. Purtroppo sono state raccolte testimonianze, toponimi, riferimenti, ma mai una prova fisica concreta».

    L’ha cercata solo a San Giovanni in Fiore?

    No, sono stato anche in un bar nei pressi del lago Arvo, dove un carabiniere mi aveva rivelato d’aver visto un’altra lince imbalsamata».

    E c’era davvero?

    Ho trovato il bar e prima di entrare ho scattato una foto e l’ho mandata al carabiniere per verificare che fosse proprio quello. Lui mi ha risposto di sì. Allora sono entrato nel bar, ma si trattava di un gatto selvatico imbalsamato. Gli ho chiesto prima se il bar fosse quello, perché altrimenti avrebbe potuto dire che effettivamente era un gatto selvatico ma si trattava di un altro bar».

    Non si fidava del testimone?

    Certo che mi fidavo! Però so che i ricordi, a volte, cambiano nella nostra mente».

    Dopo il ritrovamento dei resti di Elephas antiquus sulle sponde del lago Cecita, lo studioso Domenico Canino ha ravvisato dei collegamenti con “l’elefante di Campana”, il megalite che a pochi chilometri dal lago sarebbe stato scolpito da una misteriosa civiltà, migliaia di anni fa. Lei non è d’accordo. Perché?

    Finché non sono d’accordo io, non è importante, però esiste un’intera comunità scientifica che ritiene l’elefante della Sila niente più e niente meno di una roccia erosa dalle condizioni atmosferiche. Non c’è una pubblicazione scientifica a sostenere che questa pietra sia stata scolpita da mano umana. Chi promuove una tesi contraria dovrebbe produrre una pubblicazione che indichi questa possibilità. Nutro grande rispetto nei confronti dell’architetto Canino. Io però questo elefante non ce lo vedo. La specie in questione si chiamava elefante “dalle zanne dritte”, ma ciò non significa che le avesse come quelle del monolite di Campana. E poi c’è un problema: quando sarebbe stato scolpito?».

    Però sulle rive del lago Cecita è stato scoperto il fossile di un elefante.

    Ma se nei pressi di Loch Ness io scopro resti di plesiosauro, non vuol dire che ci sia questa specie. Significa che 65 milioni di anni fa i plesiosauri ci furono, ma all’epoca il lago nemmeno esisteva. Non basta dire che se c’è il fossile di quell’animale, nei paraggi qualcuno lo abbia potuto scolpire, perché il fossile risale a un’era in cui non esisteva una civiltà capace di farlo. Dunque sicuramente non si può affermare che quell’animale sia servito da modello quando era vivo».

    Lorenzo Rossi e il monolite a forma di elefante a Campana
    Si potrebbe, piuttosto, ipotizzare che qualcuno lo abbia scolpito ispirandosi ai fossili?

    Sì, c’è però un problema: ricostruire con precisione un animale dai resti fossili non è stato mai facile, tantomeno lo fu nel passato remoto. Determinante è la data di estinzione. Canino sostiene che questo elefante si sarebbe estinto 12mila anni fa. In realtà, in Europa si estinse molto prima, da 50 a 34mila anni fa. Se un giorno scoprissimo che invece si è estinto poche migliaia di anni fa, cambierebbe tutto».

    Ci sono altre sculture simili nel resto del mondo?

    Mi vengono in mente, per esempio, quelle di Göbekli Tepe, in Turchia. Sono datate dai 9500 agli 8mila anni fa. Un elefante in Sila, che anticipi questa civiltà, non lo vedo probabile. Se si dimostra, sarebbe una scoperta incredibile. Però mi chiedo: una civiltà così avanzata avrebbe mai potuto lasciare tracce di questo tipo, senza che di essa rimanesse nient’altro?».

    Nel libro “Guida alla Calabria misteriosa”, lo scrittore Giulio Palange riporta le voci popolari sull’improbabile coccodrillo avvistato lungo le sponde del fiume Crati, in contrada Soverano a Bisignano, in provincia di Cosenza. Lei ha sempre confutato, dati alla mano, l’esistenza del cosiddetto mostro di Loch Ness in Scozia. Nel 2006, ha effettuato un sopralluogo in Mongolia settentrionale per studiare di persona le misteriose tracce sulla sabbia, lasciate da una creatura non identificata lungo le sponde del lago Hargyas Nuur. Rispetto a quest’ultimo caso, è più possibilista?

    Che tristezza! A due giorni di viaggio dal lago, fui costretto a tornare indietro, perché mi ammalai e stavo malissimo. È molto grande e pescoso. Potrebbe quindi ospitare grossi animali. Nessuno ha indagato ulteriormente queste tracce. Potrebbe trattarsi dei lastroni di ghiaccio che sospinti dal vento approdano a riva. Comunque, se dovessi cercare dei mostri nei laghi, è lì che andrei».

    Un paio di anni fa, ha curato la pubblicazione di un libro, non ancora tradotto in italiano, che raccoglie diversi saggi di scienziati e ricercatori sul rapporto tra umanità e resto del regno animale. Il tema è di grande attualità, in tempo di sindemia e zoonosi. Il libro era stato pensato prima del 2019?

    Il titolo è “Problematic wildlife, volume 2”. Quando ci si occupa di ambiente, conservazione, rapporto tra fauna e animali, qualche previsione si può fare. Questa pandemia non è stata una sorpresa. Sapevamo che sarebbe arrivata dalla Cina. La gente comune non ascolta finché non è troppo tardi e poi è capace di negare persino l’evidenza. Siamo in ritardo atroce sulle pandemie, sul riscaldamento globale e su tante altre problematiche».

    Sta lavorando a un nuovo libro?

    Sì, racconterò i motivi storici che hanno spinto negli anni Ottanta alcuni studiosi ad effettuare ricerche su dinosauri ancora vivi in Africa. Può sembrare molto buffo. In realtà ci sono serie motivazioni storiche alla base di quelle ricerche. Mi piace parlare del rapporto tra la pseudoscienza e la scienza. Sarà un viaggio tra i dinosauri, quasi senza parlare di loro».

  • VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    Cristo si era già fermato a Cavallerizzo, una piccola Vajont senza morti. La provocazione è di Fabio Ietto, geologo e professore dell’Università della Calabria. Era il 2005 quando una frana ha colpito una parte del piccolo centro arbëresh nel comune di Cerzeto.

    Da allora il paese è stato sfollato, la comunità sradicata e delocalizzata nella New town costruita in località Pianette, senza Valutazione di impatto ambientale. «Abusiva», così hanno sempre gridato gli attivisti di Cavallerizzo Vive.  Erano i tempi della Protezione civile targata Guido Bertolaso. A dicembre questo non-luogo compie 10 anni.

    Cavallerizzo non è scivolato a valle

    Le case sventrate non mostrano segni di cambiamento, di scivolamento. Tutto come prima. Troppo come prima. Il centro storico è stato quasi ignorato dallo smottamento. Il paese ha resistito, diventando uno dei set di Arbëria, audiovisivo finanziato dalla Calabria Film Commission. Di altri crolli nessuna traccia in vista. Di porte chiuse e imposte abbassate sì, tra le strade dove l’erba ha preso il sopravvento. Nella piazza principale senti solo cani abbaiare e il vento in sottofondo. L’insegna del bar “San Giorgio” appesa al muro e sotto una saracinesca arrugginita. Un classico dei luoghi abbandonati, a tratti pensi a Prypyat, la città fantasma vicina a Chernobyl.

    La piccola Vajont

    Il professore Fabio Ietto non è solo il consulente di Cavallerizzo Vive (Kajverici Rron nella lingua arbëreshë), associazione che si batte per la rinascita del paese. Viene spesso quaggiù, «a mangiare con chi resiste». La condivisione del cibo per ricostruire un pezzo di storia della comunità ormai frantumato. Spiega perché parlare di piccola Vajont ha un senso: «Una condotta interrata dell’acquedotto Abatemarco passava da qui, 400 litri di acqua al secondo all’interno di un corpo di frana dichiarato attivo». In giro non è difficile ascoltare la stessa versione dei fatti: i contatori correvano molto di più e troppo rispetto alle altre frazioni. Un consumo anomalo.

    Casa sventrata dalla frana a Cavallerizzo di Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Non è possibile stabilire adesso se la frana abbia provocato la rottura o viceversa. L’ennesima stranezza calabrese è una condotta non costruita all’esterno in modo da verificarne eventuali perdite in una zona ad alto rischio idrogeologico.

    In entrambi i casi, e vista la natura del sottosuolo, l’acqua ha giocato un ruolo importante. Il professore ne è certo. «Una piccola Vajont, un disastro annunciato». Per fortuna senza morti in questo pezzo di Calabria.

    Gli effetti della frana del 2015 a Cavallerizzo (foto 2021 Alfonso Bombini)

    Non solo a Cavallerizzo si muove la terra

    C’è il rischio che la terra si muova persino vicino alla New Town. E il professore Ietto si chiede: «Perché hanno puntato sul nuovo sito invece di recuperare quell’11,5 % circa franato a Cavallerizzo?». I soldi spesi dal Governo Berlusconi di allora non sono stati pochi: 72 milioni di euro. Potevano essere destinati al paese poi abbandonato. Serviva pazienza e rispetto per chi da un giorno all’altro è stato sbattuto fuori casa. Invece, ancora una volta ha vinto la strategia dell’emergenza poi messa in atto compiutamente a L’Aquila.

    Una parte della New town costruita in località Pianette a Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Quella di Kajverici è una lunga storia finita pure a carte bollate grazie alla voglia di non mollare dell’associazione Cavallerizzo Vive. Che aveva ragione. Mancava la Valutazione di impatto ambientale della New town. Era abusiva. Una vicenda formalmente chiusa nel 2019 quando è arrivata la assoggettabilità a Via da parte della Regione Calabria. Con una serie di indicazioni per mitigare il rischio attraverso interventi mirati. Altri soldi pubblici spesi.  I lavori sono stati già consegnati alla ditta – precisa il sindaco Rizzo – e si concluderanno in poco tempo.

    Fabio Ietto insegna Geologia, geomorfologia applicata e idrogeologia all’Università della Calabria (foto Alfonso Bombini)

    Agenzia immobiliare New town

    Il vecchio cede il passo al nuovo. C’è voglia di lasciarsi alle spalle questo capitolo. Il primo cittadino di Cerzeto, Giuseppe Rizzo, in quelle abitazioni tutte uguali non trova alienazione. Ma un posto che ha mercato. A buon mercato: «Dove la trovi una casa di tre piani a 50mila euro con metano, aria pulita e km 0?».

    Nei panni di agente immobiliare cerca di convincerci sul perché delle giovani coppie scelgono di abitare nella New town. Sono venti circa e alcune hanno scelto di trasferirsi dai paesi limitrofi.

    Rizzo non era primo cittadino quando costruirono il nuovo paese. Oggi cerca di cambiare la narrazione, sostenendo addirittura: «C’è poesia nelle New Town». Il resto della conversazione è un continuo tentativo di guardare oltre Cavallerizzo che, invece, diventerà sede nazionale delle esercitazioni dei vigili del fuoco. Magra consolazione per chi vorrebbe tornare ad abitare in quel posto.

    Crolli e abbandono nella parte superiore di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Liliana non lascerà mai Cavallerizzo

    Qualche centinaia di metri in linea d’aria più in alto restano segnali di vita nella vecchia Cavallerizzo. Quando tutti gli abitanti hanno obbedito allo sgombero, una cosentina di via Panebianco non ha abbandonato la sua casa. Liliana Bianco ha passato una vita laggiù con il marito morto da poco. La corrente elettrica arriva grazie a due generatori – dice -. Non è sola, c’è un figlio a cui donare il resto dei suoi anni. A proteggerla un piccolo esercito di cani. È diventata un simbolo di resistenza.

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    Liliana Greco, unica abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Le lacrime di Silvio

    Non lontano Silvio Modotto, come ogni giorno, arriva da Cerzeto e coltiva il suo orto, apre la sua casa, beve il suo vino. Malvasia e Aglianico animano questo blend aspro, come lo sono i rossi fatti in casa. Discute con il cugino tornato dall’Inghilterra dopo la pensione. Storie di ritorno e radici alternando bicchieri undici al litro. E lacrime. Perché Silvio, vigile urbano in pensione, piange. Senza la sua piccola patria e senza più ragazzi con la voglia di cambiare lo stato delle cose. Quantomeno provarci. È pure un fatto anagrafico. Nella maggior parte dei casi non erano nemmeno nati nel 2005 e oggi sono troppo giovani per sentire nostalgia.

    Mani ruvide e voglia di continuare come se non fosse successo nulla, Silvio indica la chiesa rimasta intatta e senza fedeli. Ricorda la festa di San Giorgio: «Venivano da tutte le parti».

    Adesso l’unico a raggiungere Cavallerizzo è l’autore del murales sulla linea della frana. Quel Cristo in cima al Golgota della memoria di una comunità presa a calci e dimenticata.

  • Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    «Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l’oggetto sia per l’estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali». Qualche anno fa, la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta da Gaetano Pecorella, arrivò a questa inquietante conclusione. Lo fece dopo mesi, anni, di indagini. Di acquisizioni documentali. Di audizioni. Tutto per provare a riaprire qualche file ormai archiviato sulle oscure vicende delle “navi dei veleni”. Che, come abbiamo visto, intrecciano i propri tragici destini con la Calabria. Ma anche con l’Africa. Rendendo tutto un grande, gigantesco, affare internazionale.

    «Ragioni inconfessabili”

    In queste vicende parlano più i morti dei vivi. Sul grande business di rifiuti e armi degli anni ’80 e ’90 tutti i diretti interessati o semplici sospettati, hanno sempre mantenuto riserbo o, nel migliore dei casi, vaghezza. Nomi che abbiamo imparato a conoscere. Da Giorgio Comerio a Giancarlo Marocchino. E, allora, parlano molto di più i morti. I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia. Ma anche il capitano della Marina Militare, Natale De Grazia. Morto in circostanze misteriose proprio mentre indagava su questi traffici.  Dopo la sua morte, di fatto, non vi sarà più una vera, compiuta, inchiesta su queste vicende.

    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    E la Commissione Ecomafie lo scrive chiaramente: «Ne è un esempio significativo l’indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull’apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d’azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta “ignoranza ufficiale” dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite».

    Doppi, tripli e quadrupli giochi

    Sul ruolo dei Servizi ci siamo soffermati molto in queste settimane. Un ruolo tuttora mai chiarito. E che, proprio per questo, alimenta dubbi e scenari inquietanti su cui solo di rado si apre qualche squarcio di luce. C’è un percorso, una rotta, infatti, che lega Trapani a Reggio Calabria. C’è, soprattutto, un nome, quello di Aldo Anghessa, un uomo dei servizi segreti che partecipa, negli anni, a diverse operazioni di intelligence. Negli anni ’80, per ordine della procura di Massa Carrara, finisce anche in carcere. Sospettato di essere vicino al clan siciliano dei Minore. Un’ipotesi accusatoria mai verificata. E, quindi, nessun processo.

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    Il giornalista Mauro Rostagno

    Il nome di Anghessa compare dunque a Trapani, ma anche a Reggio Calabria. Tutte faccende che risalgono proprio agli anni ’80. Commercio di armi nel filone siciliano, mentre in Calabria si sarebbe occupato di traffici di scorie radioattive. Secondo alcune fonti, le presunte compravendite di armi in cui sarebbe stato coinvolto Anghessa sarebbero le stesse scoperte dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a causa di tanta curiosità.

    La «lobby affaristico-criminale»

    Agli atti della Commissione Ecomafie, vi sono anche le audizioni di alcuni dei membri del pool di cui Natale De Grazia era la punta di diamante. Uno di questi membri, un carabiniere, afferma che Anghessa sarebbe entrato in contatto con il pm titolare del fascicolo, Francesco Neri. Al magistrato avrebbe prospettato la possibilità di poter dare un contributo fondamentale alle investigazioni: «Anghessa, fece intendere – siamo nella prima fase – che era disponibile a segnalare a noi l’arrivo di una nave contenente rifiuti radioattivi. L’avrebbe fatto per gentilezza, come forma di confidenza. Era noto che Aldo Anghessa avesse praticato traffici simili, non in relazione ai rifiuti, ma alle armi».

    Nel periodo della sua detenzione, Anghessa qualcosa la dice. Lo spione considerato vicino ai clan (ma mai condannato), parla dei traffici delle navi dei veleni che riguardano soprattutto la Calabria. Anghessa conferma diversi sospetti: «A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e materiali strategici nucleari».

    Inattendibile

    Ma i riscontri bollano Anghessa come inattendibile. Un ciarlatano, insomma. Tempo dopo, però, lo stesso carabiniere racconta di essere stato protagonista di un episodio: «Un bel giorno, mentre mi stavo prendendo un caffè, si è presentato un signore che mi ha detto: “Io sono il collaboratore di Aldo Anghessa: volevo avere notizie”. Gli ho risposto che non lo conoscevo e che, se avesse voluto, era lui che avrebbe dovuto venire da me, che io non avevo niente da dirgli. Questo è il tentativo che hanno fatto per agganciarmi. La mia definizione che aveva mezzi e uomini a disposizione deriva da questo contatto che avevo ricevuto».

    “Alfa Alfa”. Sarebbe stato questo il nome in codice di Aldo Anghessa nei Servizi: «In quella circostanza – dice ancora davanti alla Commissione Ecomafie – capii che c’era troppo movimento alle spalle di questo personaggio: nonostante gli arresti domiciliari uomini, telefoni, macchine a disposizione».

    Ultimo atto: la Cunsky

    Inattendibile Anghessa. Inattendibile, come abbiamo già visto, Francesco Fonti. Il “santista” della ‘ndrangheta della Locride che, fin quando parla di strutture criminali, di reati comuni e di ‘ndrangheta pura, viene creduto. Quando allarga il suo racconto alle “navi dei veleni” depotenzia, quasi automaticamente, la portata delle sue dichiarazioni.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso

    Il colpo finale alla sua credibilità arriva dalla vicenda della nave Cunsky, affondata al largo di Cetraro. Fonti dichiarerà di aver affondato personalmente la nave, facendola colare a picco con un’esplosione di tritolo. Ma dopo una serie di indagini, curate, in particolare, dall’allora assessore regionale all’Ambiente, Silvio Greco, il ministro Stefania Prestigiacomo, unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, “chiuderanno il caso”. Tutti uniti nel dichiarare che il relitto investigato in quei mesi altro non era che un residuato bellico. Eppure alcune immagini sembravano chiare circa i fusti sospetti contenuti nella stiva.

    L’ennesimo intreccio

    Un destino comune. Il caso si chiude, proprio come quelli su cui indagava De Grazia. La Cunsky come la Rigel o la Jolly Rosso. Ma anche stavolta sono molti ad alimentare dubbi sulla bontà degli accertamenti svolti dal Ministero. Accertamenti che non coinciderebbero affatto con quelli dall’assessore Greco e dal procuratore di Paola, Bruno Giordano. Oggi deceduto. Ma in quel periodo tra i pochi a provare a mettere nuovamente a sistema i dati che si conoscevano sulle “navi dei veleni”. Non ci riuscirà. Il caso Cunsky verrà chiuso in fretta e furia. Lasciando molti dubbi.

    Soprattutto sulle coordinate. Ritenute non corrispondenti. Il Governo, infatti, incaricherà l’armatore Pietro Attanasio, con la sua Nave Oceano, di effettuare i rilievi. Rilievi che smentiranno quelli disposti dalla Regione, riportando anche all’attenzione la presunta vicinanza di Attanasio al noto avvocato inglese David Mills. Noto perché coinvolto nel processo di corruzione in atti giudiziari in cui l’ex premier Silvio Berlusconi è stato “salvato” dalla prescrizione. Lo stesso Mills, peraltro, a detta di un rapporto di Greenpeace del 1997 sarebbe stato legato in rapporti d’affari con l’ingegner Giorgio Comerio.
    L’ennesimo intreccio. Vero o reale. Ma che alimenta la coltre di sospetti. Che in queste vicende è ancora oggi più fitta che mai.

  • Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Qualche anno fa, lungo la strada che conduce a Belsito, piccolo centro del cosentino, sono rimasto sorpreso nel vedere che i bellissimi cipressi posti davanti al cimitero erano stati mozzati a mezza altezza. Molti paesani, recatisi a commemorare i defunti, mi hanno detto che approvavano il taglio delle piante perché sembrava più pulito, gli alberi non nascondevano l’entrata e somigliavano a siepi. Una donna mi ha confessato che avrebbe volentieri sradicato anche i cipressi all’interno del cimitero: in fondo non erano che piante inutili, malate, maleodoranti e tristi.

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    Il Vallone di Rovito

    Sconcertato da queste affermazioni, ho pensato che la mia indignazione fosse legata all’amore che mi lega ai cipressi. Da ragazzo amavo andare al Vallone di Rovito per vedere e respirare il profumo degli alti cipressi che ancora oggi ricordano i patrioti fucilati nel 1844. Mi piacevano quegli alberi e mi aveva colpito la storia di Ciparisso, il bellissimo principe che, dopo aver ucciso per errore il cervo d’oro, aveva chiesto ad Apollo che le sue lacrime scorressero per sempre. Il dio lo trasformò allora, in cipresso, la cui resina scende in gocce simili a lacrime.

    Il bello e il brutto

    I cipressi di Belsito mi hanno fatto pensare che lo studioso deve essere cauto nei giudizi e mettere in discussione la sua concezione del bello e del brutto. Nei gruppi umani, le strutture del pensiero che organizzano saperi, valori morali e senso estetico sono diverse. Il concetto di bello è presente in tutte le culture, ma cambiano i criteri di valutazione. La bellezza non è nella qualità di ciò che si vede, bensì nella mente che la contempla ed ogni uomo ne percepisce una diversa. Lo studioso deve rispettare le differenze culturali, evitare di cadere nella trappola dell’etnocentrismo che alimenta l’orgoglio per le sue categorie mentali disprezzando quelle degli altri.

    Alcaro afferma che la cultura dei calabresi e dei meridionali, a differenza di quella dei settentrionali, ha sempre considerato la natura come oggetto di contemplazione e non come cosa da trasformare. A riprova di ciò, cita l’attenzione nei confronti della natura da parte di studiosi come Campanella e Telesio. Non sono in grado di dire se i calabresi in passato amassero la natura come i due filosofi, sebbene nelle inchieste ministeriali e nei diari dei viaggiatori sullo stato dell’ambiente si legga che avevano disprezzo per il decoro e le bellezze naturali.

    La Calabria nei racconti dei viaggiatori

    Wey scriveva che la natura aveva donato alla Calabria un territorio salubre e dolce che l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche l’avevano trasformato in una cloaca infetta, un ambiente malato che condizionava la moralità degli abitanti facendoli diventare «infidi serpenti». Bartels, dal canto suo, annotava che guardando la Calabria si aveva l’impressione che la furia della natura avesse fatto a gara con l’incuria dell’uomo per far precipitare l’infelice paese in una condizione di profonda miseria e abbandono.

    Gli stranieri annotavano che i calabresi non avevano il senso della bellezza considerando che avevano distrutto, disperso e svenduto uno dei patrimoni archeologici più grandi del mondo. Avevano smantellato i resti delle grandi polis greche per impiegarne i materiali in nuove costruzioni. Delle quarantaquattro colonne del tempio di Hera Lacinia, edificato all’estrema punta dell’omonimo capo, ne rimaneva una solitaria che sembrava piangere la rovina del sontuoso edificio di cui un tempo faceva parte. Quel tempio, dove le donne di Crotone consacravano ad Hera le loro chiome, era stato demolito al principio del XVI secolo dal vescovo Antonio Lucifero che ne fece riutilizzare i pregiati marmi per la realizzazione di alcuni fabbricati e, soprattutto, del palazzo episcopale della città.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Wey scriveva addolorato che, della repubblica di Locri, patria di poeti, filosofi e legislatori, restava solo qualche rudere: uomini insensibili all’arte, al bello e alla storia avevano utilizzato le colonne per costruire chiese e ville. Gli oggetti rinvenuti dai contadini o dai tombaroli erano acquistati da antiquari e, senza certificato di provenienza, finivano nel mare magnum delle collezioni private o nelle botteghe dei mercanti. A volte gli oggetti d’oro o di piombo venivano fusi.

    Tesori perduti

    Saint-Non ci informa che i frati cappuccini di un convento avevano liquefatto una medaglia d’oro di oltre un pollice di diametro per acquistare una nuova campana. Nel 1828, a Bollita, nelle vicinanze del castello appartenente al duca Crivelli, annotava Lenormant, un colono aveva trovato in una tomba lamine di piombo con lunghe iscrizioni in caratteri greci che, senza neanche copiarne il testo, furono fuse per fare pallottole da schioppo. L’8 aprile 1865, nel territorio di Santa Eufemia, furono rinvenute un gran numero di monete e magnifici gioielli d’oro di età greca, adorni di figure a sbalzo e ornamenti in filigrana di estrema eleganza e finissima esecuzione di cui si perse ogni traccia.

    Nella primavera del 1879, alcune donne che lavavano panni sulla sponda dell’Esaro, a seguito di una frana presso il ponte della strada rotabile, trovarono tra i detriti alcune monete. I mariti, accorsi con le zappe, scavarono e portarono alla luce centinaia di monete d’oro greche contenute in un vaso di terracotta. Anche questo tesoro fu disperso.

    Amore del passato e scempi del presente

    Gli elementi a nostra disposizione non sono sufficienti per affermare se i calabresi in passato amassero e rispettassero la natura, ma lo scempio recente delle coste, il degrado dei centri storici, il disordine edilizio delle nuove città e l’incuria nei confronti dell’ambiente è sotto gli occhi di tutti. Politici e storici giustificano questo stato di cose come conseguenza del boom economico, dello spopolamento delle campagne, dell’emigrazione verso terre lontane e della dissennata speculazione edilizia.

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    Una veduta di San Giovanni in Fiore

    Il problema non è stabilire le cause di questo disastro, ma capire se esso appare tale alle persone che lo hanno prodotto. Molti abitanti di San Giovanni in Fiore sono orgogliosi dei palazzi incompiuti costruiti a ridosso dell’antico borgo medievale: gli appartamenti sono moderni e ben riscaldati, con bagni e stanze per ogni membro della famiglia. Le nuove strade consentono di arrivare agevolmente in auto davanti al portone di casa ed accedere ai magazzini utilizzati per fare vino, salame e provviste: appare chiaro che a guidare la scelta di quei fabbricati è stato il desiderio di vivere in ambienti spaziosi e comodi.

    L’abusivismo ha ucciso il bello

    Un giornalista s’indispettì quando gli facemmo notare che il paese era stato sfregiato dallo scempio edilizio e c’invitò a rileggere la descrizione delle case fatta da Douglas agli inizi del Novecento: stamberghe sporche, annerite dal fumo che usciva dalle finestre per la preistorica usanza di cucinare sul pavimento!
    Non rimpiangere una triste condizione è giusto, ma quei palazzi anonimi mal si conciliano col paesaggio, sono costruiti su spuntoni dove non si dovrebbe neanche piantare una tenda, hanno finestre murate perché gli edifici non sono mai stati completati.

    Quell’impressionante numero di palazzi è stato innalzato violando le leggi dello Stato, senza un piano regolatore e con la complicità di ingegneri, geometri, sindaci, assessori, consiglieri, deputati, soprintendenti e magistrati. Amministratori e politici che si sono avvicendati alla guida del paese hanno sempre sostenuto che è stato un abusivismo di necessità, ma quelle case sono disabitate perché gli emigranti non possono o non vogliono più ritornare. È evidente che l’idea del bello nel paese si è manifestata attraverso il cemento e i mattoni, che l’ostentazione di quei grandi palazzi è più importante del loro valore d’uso!

  • Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    «Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso». L’incipit messo nero su bianco dalla Commissione Ecomafie alcuni anni fa è tutto un programma. Un programma di insabbiamenti, di trame oscure, forse anche di depistaggi.

    Le indagini di Natale De Grazia

    La Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti presieduta in quel periodo da Gaetano Pecorella (vicepresidente Alessandro Bratti) tentò di aprire qualche squarcio di luce sul lavoro del capitano di corvetta Natale De Grazia, morto in circostanze misteriose alla fine del 1995, mentre indagava sulle cosiddette “navi dei veleni”.

    De Grazia era entrato nel pool di investigatori messo insieme dal magistrato Francesco Neri. L’ipotesi inquietante su cui indagava la Procura di Reggio Calabria era un presunto affare internazionale che avrebbe visto un giro di “carrette del mare”, cariche di scorie nucleari da inabissare nel Mediterraneo. Anche al largo delle coste calabresi. Natale De Grazia indagava proprio su questo. Era l’elemento di spicco del pool. Quello più abituato ad andare per mare. E che conosceva meglio il mare. Il suo mare.

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    Il capitano Natale De Grazia

    «La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine».

    Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili sull’ultimo viaggio di Natale De Grazia. Quello verso La Spezia. Per indagare sul conto di una nave, la Latvia. Una di quelle “carrette del mare”. O, meglio “navi dei veleni”.

    Quante sono le navi dei veleni?

    La Latvia è una delle sospette “navi dei veleni”. Non la più famosa. Rigel. Rosso (ex Jolly Rosso). E, più recentemente, Cunsky. Questi alcuni dei nomi più noti. Quella relazione di qualche anno fa della Commissione Ecomafie rende un po’ più solidi alcuni dei sospetti già paventati da anni dalle associazioni ambientaliste. Legambiente, su tutte.

    Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell’associazione ambientalista alla magistratura reggina sull’interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal capitano Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti.

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    Nell’inchiesta portata avanti dal pool un nome ricorrente è proprio quello dell’ingegner Giorgio Comerio. Quello che, come abbiamo visto, aveva predisposto un progetto per l’insabbiamento nei fondali soffici di “penetratori” carichi di scorie. Un uomo da romanzo, lo abbiamo definito. Il nome di Comerio si incrocerebbe con quello di una delle navi più tristemente famose: la Rosso. Il sospetto di molti è che la motonave della linea Messina fosse una delle “navi dei veleni” che dovevano affondare con il loro carico di morte. E che solo un curioso disegno del destino la fece spiaggiare sulla spiaggia di Formiciche, ad Amantea. È il 14 dicembre del 1990. Comerio, infatti, negli anni si sarebbe interessato all’acquisto della motonave. Una trattativa, quella con gli armatori Messina, che non si concretizzerà, ma che, secondo gli inquirenti, poteva, in qualche modo, ricollegarsi al presunto traffico di scorie radioattive.

    La seconda è una motonave affondata al largo delle coste calabresi, la Rigel. E sarebbe stato ancora una volta il capitano Natale De Grazia a scoprire il collegamento. Nel corso di una perquisizione all’interno dello studio dell’ingegnere, infatti, De Grazia avrebbe trovato un’agenda, con una strana scritta alla data 21 settembre 1987: «lost the ship». La frase, tradotta, significa «la nave è persa». Comerio smentirà sempre ogni possibile collegamento, ma il 21 settembre 1987, ci sarà solo una nave “persa”. La Rigel. Fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. In quella stessa perquisizione all’interno dello studio di Comerio (ma anche in questo caso l’ingegnere smentirà) il capitano De Grazia ritroverebbe anche delle carte che avrebbero a che fare con la Somalia e la morte della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin.

    Il ruolo dei Servizi

    Un uomo da romanzo. Noir, evidentemente. Giorgio Comerio, infatti, secondo alcune fonti, avrebbe anche ospitato in un appartamento, forse non di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Altro nome che, con la sua P2, si lega ad alcune delle storie più inquietanti e drammatiche della storia d’Italia.

    Vicende oscure. In cui, in un modo o nell’altro, sarebbero entrati i Servizi Segreti. Con il Sismi il pm Neri, titolare del fascicolo, avrebbe avuto una interlocuzione costante. Sia per la richiesta di informazioni e documenti su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta. Dal traffico di rifiuti radioattivi a quello di armi e agli affondamenti di navi, solo per fare qualche esempio.

    Nelle 308 pagine scritte da Pecorella e Bratti emerge inoltre come il Sismi, nel solo 1994, avesse speso ben 500 milioni di lire per i servizi d’intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Ma, secondo diverse fonti e testimonianze, la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria.

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    Il centro Enea di Rotondella in Basilicata

    Una di queste audizioni è quella del colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato. Elemento prezioso nelle indagini, soprattutto con riferimento alle presunte attività illecite che ruotavano attorno alla centrale ENEA di Rotondella, in Basilicata: «In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio».

    Poi, la scoperta: «Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo».  

    La fonte anonima

    Gli inquirenti, quindi, si sarebbero scontrati contro un muro di gomma. Con la costante idea di essere spiati. Un’idea che emerge dalle testimonianze raccolte dalla Commissione Ecomafie. Un’idea che, dicono le persone a lui vicine, aveva anche Natale De Grazia. Che muore in circostanze sospette. Proprio mentre sembrava vicino alla verità. O, almeno, a una parte di essa.

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti che qualche anno fa si occupò della vicenda vi è anche una fonte anonima. Che parla proprio di quell’ultimo viaggio di De Grazia: «[…] il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con [OMISSIS] con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. […] Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, […] È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. […] questa nave […] era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia […]».

    Quel viaggio di Natale De Grazia, dunque, aveva un’importanza strategica nell’indagine. Perché la Latvia non era meno importante, nel presunto sistema criminale, rispetto a Rosso o Rigel. E sembrava nascondere molti più segreti di quanto si potesse immaginare. Infine, dal racconto della fonte anonima:«Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia».

  • Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Al “sogno” industriale degli anni ’70, prospettato dopo i fatti di Reggio in concomitanza con la Liquichimica di Saline Joniche e il Centro siderurgico di Gioia Tauro, oggi si è sostituita la Hollywood calabrese, gli “studios” della Film Commission guidata da Giovanni Minoli. Ma non solo. Nell’area industriale di Lamezia Terme sulle ceneri di un call center hanno realizzato la mega aula bunker di “Rinascita-Scott”. E sempre lì, grazie a ingenti capitali privati, dovrebbe sorgere, ma per ora è tutto solo sulla carta, un waterfront da 2.300 posti barca e da oltre 500 milioni di euro, da intitolare a uno sceicco della famiglia reale del Bahrain, Mohamed Bin Abdulla Bin Hamad Al-Khalifa.

    Disastri a terra e in mare

    Il vero simbolo di quest’area, però, resta il pontile, lungo 600 metri e in parte crollato in mezzo al mare. Doveva servire da attracco per le navi (mai arrivate) dell’impianto chimico della Società italiana resine, nel 2012 si è sbriciolato facendo finire nelle acque del Tirreno miscele di Pcb (policlorobifenili) e diossine. L’area è tuttora interdetta alla balneazione e rappresenta lo sbocco a mare di questi 1000 ettari di pianura al centro della Calabria. Potevano essere votati all’agricoltura e al turismo sostenibile e, invece, da anni sono famigerati solo per veleni e disastri ambientali che puntualmente emergono dalle inchieste della magistratura.

    Quasi 10mila tonnellate di rifiuti

    Ci lavora, in coordinamento col procuratore Salvatore Curcio, una giovane pm, Marica Brucci, che viene dalla “Terra dei fuochi”. Una battuta sulle sue origini campane ha generato mesi fa un equivoco durante un Forum sui rifiuti: in realtà non ha mai detto che la Calabria e Lamezia sono la «nuova Terra dei fuochi». Ma ha comunque tratteggiato alcune dinamiche inquietanti emerse dalle sue indagini calabresi che le hanno fatto tornare alla mente le cronache della sua regione.

    “Waste Water” è una di queste: secondo il perito Giovanni Balestri – anche lui si è occupato di casi come le ecoballe di Giugliano e la discarica dell’ex Cava Monti di Maddaloni – nell’area industriale lametina, in uno stabilimento finito sotto sequestro, sarebbe avvenuto l’abbandono incontrollato di 9700 tonnellate di rifiuti e da lì sarebbe partito uno sversamento di reflui industriali sui terreni e nei canaloni che sfociano a mare.

    Anni e anni di sequestri

    La Procura lametina, che ha difficoltà anche a trovare in Comune la mappatura del sistema fognario di quell’area, sta passando al setaccio tutte le attività produttive e ne sta venendo fuori, operazione dopo operazione, uno stillicidio di accuse per crimini ambientali a cui la comunità locale è pressoché assuefatta. Giusto per restare agli ultimi mesi, a giugno c’è stato un sequestro da 24 milioni di euro e a maggio un altro da 2. Entrambi riguardano aziende che secondo gli inquirenti sversano e scaricano illecitamente rifiuti industriali.

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    Una delle immagini diffuse dagli inquirenti in occasione dell’operazione Waste Water

    A Ferragosto sequestro anche per il depuratore a cui si collegano diversi Comuni, compreso quello di Lamezia. Nello stesso stabilimento di “Waste Water”, nel settembre del 2013, si è verificata l’esplosione di un silos costata la vita a tre operai. Ancora prima, a novembre del 2010, sono state sequestrate cinque aziende per una discarica non autorizzata di 15mila mq di fanghi di depurazione e cumuli di lana di vetro.

    Tonnellate di rifiuti tra gli ulivi

    La stessa Brucci ha condotto “Quarta copia”. L’inchiesta ha rivelato un traffico di rifiuti che passava per Campania e Lombardia e aveva il suo terminale proprio tra la città delle terme e Gizzeria. Partita da Lamezia e poi passata per competenza alla Procura distrettuale di Catanzaro, questa indagine ha già portato alla condanna in primo grado (pene da uno a quattro anni) di cinque persone.

    Sono considerate responsabili di un traffico di rifiuti sfociato nell’interramento di tonnellate di materiale inquinante anche in terreni vicini a coltivazioni di ulivo. Uno dei siti lametini utilizzati per questo scopo è stato letteralmente “tombato” di rifiuti ad appena 500 metri da un’altra ex discarica realizzata vicino all’alveo di un fiume e tuttora non bonificata. Su alcune delle persone ritenute al centro del traffico sono emersi collegamenti con potenti clan della Locride.

    Scatole vuote

    La pratica sempre in voga di mettere la polvere sotto il tappeto si intreccia con scatole societarie vuote – ma inserite all’Albo dei gestori ambientali – utilizzate per traffici loschi, misteriosi incendi negli impianti, falle nei controlli, aziende che fatturano milioni di euro con attività di grande impatto e che risparmiano proprio sulla prevenzione ambientale. Anche questo hanno rivelato le indagini partite dai roghi di rifiuti avvenuti nel Nord Italia. È emerso come alcune società regolari venissero utilizzate come schermo per nascondere traffici di rifiuti stoccati abusivamente e abbandonati in capannoni ufficialmente dismessi.

    Il giro bolla

    I metodi più usati sono quelli dei trasbordi da camion a camion e del “giro bolla”, un passaggio fittizio di documenti. Le società in regola acquisiscono formalmente i rifiuti senza però mai scaricarli dai camion. Il contenuto dei cassoni viene poi classificato come «non rifiuto». E con un nuovo documento di trasporto arriva nei luoghi di abbanco abusivo. Sul business incombe l’interesse della ‘ndrangheta e spesso nelle pieghe degli strumenti normativi si inseriscono imprenditori organici ai (o teste di legno dei) clan con ditte che, magari anche spostando la loro sede legale, riescono a ottenere un appalto dopo l’altro.

    Un «collaudato sistema»

    La relazione semestrale della Dia cita “Quarta copia” e parla di un «collaudato sistema che si occupava di riempire di rifiuti provenienti anche dalla Campania in capannoni abbandonati nel Nord Italia, interrandone altri in una cava dismessa nell’area di Lamezia Terme su terreni di proprietà di soggetti risultati contigui alla cosca Iannazzo». La stessa cosca a cui una donna lametina «ricorre per l’apertura di un conto corrente presso un istituto bancario locale».

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    Capitava, infatti, che ci fossero da superare delle resistenze che il rappresentante di una delle aziende coinvolte aveva trovato in una banca di Lamezia. Ma dopo alcuni contatti telefonici con la figlia di un esponente di rilievo del clan il conto corrente che non si riusciva ad aprire viene subito aperto. La stessa intestataria ne è quasi sorpresa e dice al compagno: «Hanno fatto una forzatura».

    Candido come la candeggina

    Proprio grazie alla connivenza dell’area grigia dei professionisti i trafficanti di rifiuti legati alla ‘ndrangheta entrano nelle aziende del Nord e finiscono per appropriarsene. «L’azienda è nostra – è una frase rivolta a un imprenditore brianzolo e intercettata – metteremo a capo un nome candido come la candeggina». Quando serve vengono evocati «i cristiani di Platì e San Luca», ma poi si è capaci di guardare ben oltre il Pollino.

    «Abbiamo sequestrato – ha spiegato la pm milanese Silvia Bonardi, che ha condotto un’indagine sugli stessi trafficanti denominata “Feudo” – alcuni documenti che attestano come uno degli arrestati per suo conto stesse esportando senza autorizzazioni materiale plastico in Turchia». Un altro dei trafficanti coinvolti, originario della Locride, «detiene quote di un cementificio in Tunisia, ha grossi interessi in Germania e in alcune intercettazioni ammette di avere un canale pressoché illimitato per conferire spazzatura nell’inceneritore di Düsseldorf».

  • Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Mala Pigna, nella Piana rifiuti speciali con valori di 6000% oltre la norma

    Grazie alla complicità di diversi professionisti, la ‘ndrangheta avrebbe mantenuto la titolarità di un’azienda confiscata fin dal 2007. Ma, soprattutto, avrebbe nascosto il vasto e nocivo giro di rifiuti ferrosi, che sarebbero andati a inquinare anche i territori della Piana di Gioia Tauro. Sono in tutto 29 le misure cautelari disposte dal Gip di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Mala pigna”, curata dalla Dda reggina ed eseguita dai Carabinieri Forestali. Diciannove tra arresti e arresti domiciliari e 10 provvedimenti di obbligo di presentazione all’Autorità Giudiziaria.

    I rilievi sui terreni con valori altissimi minerali e idrocarburi

    Il blitz dei Carabinieri Forestali ha portato anche al sequestro di cinque società operanti nel settore dei rifiuti per il valore complessivo di un milione e seicentomila euro. Il provvedimento è stato eseguito nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Ravenna, Brescia e Monza-Brianza.

    Giancarlo Pittelli di nuovo in carcere

    L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci, e dai sostituti Gianluca Gelso, Paola D’Ambrosio e Giorgio Panucci. Un’inchiesta che apre scenari inquietanti sullo stato di inquinamento del territorio. Ma che, ancora una volta, scoperchia le numerose complicità di cui possono godere i clan. In primis quella che vedrebbe protagonista Giancarlo Pittelli.

    La conferenza stampa dell’operazione “Mala Pigna”. Terzo da sinistra il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’attività dell’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia viene definita dal procuratore Bombardieri “a tutto tondo” al servizio della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Pittelli è già coinvolto nell’inchiesta “Rinascita-Scott”, curata dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Nel maxi-processo alla ‘ndrangheta, gli inquirenti gli contestano di essere un elemento di congiunzione tra l’ala militare dei clan e la massoneria deviata. In particolare, la potente cosca Mancuso. Da sempre, in contatto anche con i Piromalli.

    Dopo mesi di detenzione, era da poco ritornato a casa agli arresti domiciliari. Ma è stato nuovamente condotto in carcere. Anche nell’inchiesta “Mala pigna”, il ruolo di Pittelli si staglia come quello di professionista in rapporti di grande affinità con la ‘ndrangheta.

    L’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli

    sarebbe stato al servizio della potente cosca Piromalli di Gioia Tauro, veicolando messaggi dal carcere verso Rocco Delfino, considerato uomo di spicco della cosca e referente di Pino Piromalli, detto “Facciazza”, e del figlio Antonio Piromalli. Delfino, insieme ad altri complici, avrebbe aggirato la normativa antimafia, promuovendo un’associazione volta al traffico illecito di rifiuti mediante la gestione di aziende fittiziamente intestate a soggetti terzi ma riconducibili a se stesso e alla sua famiglia.

    I professionisti al servizio del clan

    Secondo le indagini, la ‘ndrangheta si sarebbe schermata dietro società apparentemente “pulite”. Con un amministratore legale privo di pregiudizi penali e di polizia, che aveva tutte le carte in regola per poter ottenere le autorizzazioni necessarie alla gestione di un settore strategico, qual è quello dei rifiuti speciali. Così si potevano intrattenere rapporti contrattuali con le maggiori aziende siderurgiche italiane. Contrattare l’importazione e l’esportazione di rifiuti da e per Stati esteri. Nonché aspirare all’iscrizione in white list negli elenchi istituiti presso la Prefettura.

    Addirittura, Rocco Delfino continuava a gestire la “Delfino s.r.l.”, che gli era stata confiscata fin dal lontano 2007. Questa ditta era diventata un’azienda di schermatura per le attività illecite dei fratelli Delfino. Fondamentale il ruolo di professionisti compiacenti e asserviti. In particolare, un ruolo fondamentale è rivestito dagli amministratori designati dall’Agenzia Nazionale dei beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata. Nonché di professionisti, come avvocati, consulenti, commercialisti ed ingegneri ambientali. Costoro prestavano per la stessa l’azienda opera di intelletto, con metodo fraudolento e sotto la direzione dei Delfino.

    Dalle intercettazioni raccolte emergerebbero le gravi condotte messe in atto dai professionisti a cui gli inquirenti contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’elenco figurano amministratori giudiziari (e poi esponenti dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati) come Giuseppe Antonio Nucara e Alessio Alberto Gangemi. E poi, la commercialista Deborah Cannizzaro. Ma anche l’ingegner Giuseppe Tomaselli, che avrebbe avuto un ruolo per quanto concerne gli interramenti e l’inquinamento ambientale.

    Valori oltre il 6.000% rispetto alla norma consentita

    È inquietante ciò che avrebbero scoperto i consulenti nominati dalla Procura. Nella zona limitrofa all’azienda di Delfino (e, fittiziamente, dei Piromalli) i dati inquinanti raggiungerebbero picchi altissimi. Tassi che la ‘ndrangheta sarebbe riuscita a occultare proprio attraverso perizie di comodo, volte a celare ciò che invece era avvenuto.

    Secondo l’inchiesta, infatti, autocarri aziendali partivano dalla sede della società con il cassone carico di rifiuti speciali, spesso riconducibili a “Car Fluff” (rifiuto di scarto proveniente dal processo di demolizione delle autovetture) e giungevano in terreni agricoli posti a pochi metri di distanza, interrando copiosi quantitativi di rifiuti, anche a profondità significative. Gli accertamenti eseguiti avrebbero quindi dimostrato l’interramento di altri materiali, quali fanghi provenienti presumibilmente dall’industria meccanica pesante e siderurgica. Tali terreni agricoli, a seguito degli interramenti ed a cagione di essi, risultavano gravemente contaminati da sostanze altamente nocive.

    In particolare, le analisi disposte dalla Dda di Reggio Calabria avrebbero dimostrato come lo zinco fosse presente con valori sette volte superiori a quanto previsto dalla legge. Una presenza crescente per il rame, segnalato con un tasso di dodici volte superiore al consentito. Il piombo saliva fino a cinquantasette volte rispetto alla norma. E, ancora, gli idrocarburi raggiungevano picchi del +4.200% rispetto alle soglie. In alcuni casi i valori sono arrivati al 6.000% sopra la soglia di guardia. Per l’accusa, esiste il concreto ed attuale pericolo che le sostanze inquinanti possano infiltrarsi ancor più nel sottosuolo determinando la contaminazione anche della falda acquifera sottostante.

    «Faccendiere di riferimento della ‘ndrangheta»

    Il capo d’imputazione a suo carico dipinge Giancarlo Pittelli come un soggetto totalmente a disposizione della cosca Piromalli. L’ex senatore di Forza Italia avrebbe veicolato informazioni dall’interno all’esterno del carcere tra i capi della cosca Piromalli detenuti al 41 bis. “Facciazza” e suo figlio Antonio Piromalli avevano necessità di comunicare con il loro avamposto, Rocco Delfino, e avrebbero usato proprio Pittelli per farlo.

    «Uomo politico, professionista, faccendiere di riferimento, avendo instaurato con la ‘ndrangheta uno stabile rapporto sinallagmatico» è scritto nelle carte d’indagine. Pittelli si sarebbe attivato in favore di Delfino per la revisione del procedimento di prevenzione nei confronti della società in confisca Delfino s.r.l., pendente dinanzi al Tribunale di Catanzaro Sezione Misure di Prevenzione, con l’intento di “influire” sulle determinazioni del Presidente del Collegio al fine di ottenere la revoca del sequestro di prevenzione. Ad accusarlo è Marco Petrini, il giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari che ha iniziato a “vuotare il sacco” rispetto al sistema di mazzette in cui si sarebbe mosso. Mettendo in mezzo anche Pittelli.

    Ma dalle intercettazioni emerge anche la volontà di Delfino di raggiungere l’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. Delfino avrebbe interpellato Pittelli per un procedimento amministrativo davanti al Consiglio di Stato.  Frattini, comunque, è totalmente estraneo alla vicenda. «Nell’occasione – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip – Delfino chiedeva a Pittelli se ci fosse una qualche possibilità di influire sulle determinazioni del giudice Frattini, al fine di assicurarsi il buon esito di un ricorso. Pittelli – scrivono sempre i magistrati – dopo aver rivolto nei suoi confronti frasi dal contenuto offensivo, rispondeva negativamente in quanto il dottore Frattini, inconsapevole della vicenda di cui parlavano gli interlocutori, non si sarebbe prestato a favore del Delfino».