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  • Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Al di là delle polemiche, dei blitz ambientalisti, delle risposte da parte del sindaco, il problema della discarica di Scalea esiste e pesa quanto un macigno. E’ inutile nasconderselo, il sito della discarica a Piano dell’Acqua andava bonificato e da anni.  Invece è rimasto lì come se non esistesse. Il blitz di Carlo Tansi, geologo e presidente di Tesoro Calabria, assieme agli ambientalisti del Tirreno, una settimana fa ha riportato a galla la questione.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    La Procura chiude la discarica

    Era il 2013 quando la Procura di Paola chiuse la discarica. Tutti i rifiuti esistenti vennero raggruppati con ruspe e sepolti da tonnellate di terreno costituendo così delle verdi collinette oltre che finire in profonde buche. Cosa c’è in quelle collinette di Scalea forse non lo sapremo mai. Intanto quella discarica non doveva essere costruita in quel luogo al centro di tanti villaggi turistici. Si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale, ora sede del Sert e di alcuni uffici dell’Asl e adiacente a diversi terreni ad uso agricolo.

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    La strada che conduce alla discarica ormai chiusa di Scalea

    Lo scempio ambientale a Scalea

    Un sito che sovrasta la cittadina tirrenica e sorvolato ancora oggi da centinaia di gabbiani in cerca di cibo. Dove passano falde acquifere e partivano ruscelli di percolato che raggiungevano le spiagge davanti alla Torre Talao. Uno scempio ambientale sotto tutti i punti vista, non valutato da chi ha dato le concessioni alla fine degli anni 90. Poi, agli inizi degli anni 2000 ecco fioccare le prime denunce da parte degli ambientalisti e le proteste di commercianti e cittadini sfociate in una manifestazione che ha sfilato per le vie di Scalea.

    Nel 2013 la chiusura definitiva, senza che nessuno ne pagasse le conseguenze. Un omicidio ambientale senza colpevoli. Poi ecco l’arrivo da parte della Regione Calabria di un finanziamento per la bonifica di circa 3 milioni di euro. L’attuale sindaco Perrotta dice di volerlo utilizzare al più presto.

    I siti pericolosi e le bonifiche mancate

    Resta aperta in tutto il Tirreno cosentino così come nel resto della regione la questione delle bonifiche mancate. Il piano regionale delle bonifiche risale al 2002 ( ordinanza del commissario n.1771 del 26.02.2002) e come riportato da un successivo piano in Calabria esistono 48 siti che necessitano di una bonifica; 20 ricadono in provincia di Cosenza, 2 ricadono in provincia di Crotone, 5 ricadono in provincia di Catanzaro, 5 ricadono in provincia di Vibo Valentia e 16 ricadono in provincia di Reggio Calabria.

    Ma molti altri siti non ricadono in questo elenco. Nei 409 comuni calabresi vennero censiti 696 siti di discarica potenzialmente contaminati da rifiuti, dei quali 354 attivati con autorizzazione regionale o ai sensi del DPR 915/1982 e i restanti 342 in assenza di autorizzazione. Secondo la classificazione del rischio relativo, i siti potenzialmente contaminati sono stati così suddivisi: 73 siti a rischio marginale, 262 a rischio basso, 261 a rischio medio e 40 ad alto rischio.

    Oltre 5 milioni dal Pnrr per le bonifiche

    Forse per avere un piano completo dei siti contaminati aggiornato e delle bonifiche da fare, (ma chi lo farà se manca la figura dell’assessore all’Ambiente all’interno della giunta regionale?), bisognerà attendere l’arrivo del fondi del Pnrr, fra i quali dovrebbero esserci 5.443.128 euro espressamente per le bonifiche di alcune superfici. Lo chiarisce il deputato calabrese del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio, che indica anche le aree che saranno interessate dal processo di bonifica.

    «Sono previsti – ha detto – interventi a Celico per l’ex discarica di località Tufiero e a Buonvicino per l’ex discarica di località Fossato, in provincia di Catanzaro a Lamezia Terme in località Scordovillo e nella città metropolitana di Reggio Calabria a Siderno presso la Fiumara Novito». Intanto i cittadini si chiedono quanto tempo si dovrà attendere per le altre bonifiche.

    Terreni e fiumi inquinati

    Altra situazione da monitorare con attenzione è quella del fiume Noce a Tortora inquinato dall’impianto di san Sago. Qui sono stati accertati dai carabinieri importanti sversamenti  di percolato. Ciò nonostante è in corso, da parte dei gestori dell’impianto, presso la Regione Calabria una richiesta per la riapertura dell’impianto.

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    L”ingresso della fabbrica della Marlane

    Un sito altamente inquinato è il fiume Oliva ad Amantea. Qui sono stati sotterrati dagli anni 90 in poi oltre 100 mila metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Nessuno dimentica l’oscura vicenda della Motonave Jolly Rosso spiaggiata nei pressi della sua foce nel lontano 1990. Infine restano i terreni della Marlane a Praia a Mare, che rischiano di essere “tombati” se venisse approvato il progetto di una grande struttura alberghiera, con annesso centro commerciale.

    Non mancano testimonianze rispetto a quanto avvenuto nel sito della Marlane. Come quella di Francesco De Palma, poi morto di tumore. La sua posizione, così come quella di altri lavoratori, non è mai stata presa in considerazione nei processi a Paola e a Catanzaro sui 110 operai morti in quella fabbrica. A Paola i 12 imputati vennero tutti assolti. Oggi è in corso un nuovo processo dopo i recenti rilievi su quei terreni.

     

     

     

  • Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    In un’Italia schiacciata dal caro bollette, e tempestata dallo storytelling sulla transizione ecologica fattasi persino Ministero, è normale che le fonti rinnovabili siano sulla bocca di tutti. E siccome siamo pur sempre il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini, nel dibattito si contrappone chi pensa che per non rischiare di fare danni all’ambiente o dare soldi alle mafie non si debba toccare nulla, a chi è convinto che dare in pasto ampie porzioni di territorio alle multinazionali dell’energia serva a evitare i rincari su gas e luce.

    I numeri delle rinnovabili

    Come abbiamo già fatto raccontando cosa stia succedendo attorno all’eolico (in mare e in terra) tra il Golfo di Squillace e i boschi del Vibonese, anche stavolta proviamo a partire dai numeri, che non sono soggetti ad interpretazioni. Le normative comunitarie e nazionali dicono che si dovrà dismettere l’uso del carbone per generare energia elettrica entro tre anni. Nel 2030 il 72% dell’elettricità dovrà arrivare dalle rinnovabili, mentre nel 2050 dovremmo essere prossimi al 95-100%.

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    Impianto fotovoltaico in aperta campagna

    Come ci si deve arrivare? Soprattutto con il fotovoltaico: a fine 2020 abbiamo 21,4 GW prodotti da fonte solare, ma secondo stime forse troppo ottimistiche si potrebbe arrivare anche ai 2-300 GW. Governo e Ue lasciano comunque aperta la porta delle importazioni e dei possibili sviluppi tecnologici di fonti finora poco adoperate come, appunto, l’eolico offshore. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030 si stima che si debba arrivare a circa 70-75 GW di rinnovabili, ma a fine 2019 eravamo a 55,5 GW.

    Questi sono i dati nazionali, guardando alla Calabria invece va ricordato che produciamo oggi un enorme surplus di energia elettrica (+180%), ma siamo tra quelli che consumano più gas naturale (oltre 2,2 milioni di metri cubi nel 2020) per alimentare le centrali termoelettriche tradizionali. E rispetto al gas i rincari in bolletta c’entrano eccome. In questa situazione, con i miliardi del Pnrr a disposizione, l’impulso politico e la conseguente programmazione sarebbero come il motore e lo sterzo di un’enorme automobile che però rischia di restare a secco di benzina, cioè di fondi spendibili, per carenze tecniche e progettuali.

    Il Piano energetico calabrese risale al 2005

    Il principale strumento attraverso cui le Regioni, dagli anni della liberalizzazione del mercato energetico e della riforma del Titolo V, programmano e indirizzano gli interventi in questo settore è il Piano energetico regionale (Per), che essendo ormai indissolubilmente legato a funzioni e obiettivi di carattere ambientale negli anni è diventato Pear (Piano energetico ambientale regionale). È il Pear, dunque, che deve contenere tutte le misure relative al sistema di offerta e di domanda dell’energia sul territorio. Ma in Calabria questo strumento fondamentale non è proprio aggiornatissimo: il Pear attualmente in vigore è stato approvato dal consiglio regionale il 4 marzo del 2005.

    L’Ultimo assessore all’Ambiente

    Proprio così: mentre Guelfi e Ghibellini dell’energia duellano via social, la Calabria dell’era Covid-Pnrr è orfana di un assessore all’Ambiente – la delega è rimasta in capo a un già impegnatissimo Roberto Occhiuto – e il principale strumento di programmazione energetica è fermo a 17 anni fa, cioè a quando la Regione era guidata da Giuseppe Chiaravalloti. In verità nel 2009 sono state licenziate dalla giunta regionale dell’epoca delle linee guida per l’aggiornamento, ma «alla luce dei nuovi orientamenti comunitari in materia, dell’evoluzione del quadro normativo e dei nuovi strumenti di programmazione adottati nel corso degli ultimi anni, risultano ormai superate».

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    Il Capitano Ultimo, assessore all’Ambiente nella giunta regionale guidata da Jole Santelli

    A metterlo nero su bianco è la stessa Regione Calabria che, nell’agosto del 2020, sotto la guida di Jole Santelli e su proposta del “Capitano Ultimo”, ha dato impulso agli uffici (Dipartimento Attività produttive, Settore Politiche energetiche) per la «costituzione di un “Tavolo tecnico per l’aggiornamento del Piano energetico ambientale regionale”» che predisponga le nuove linee guida da sottoporre all’approvazione della Giunta. Quali risultati ha prodotto tutto ciò a quasi 20 mesi dalla delibera del precedente governo regionale? Nessuno.

    In attesa di Enea

    Come atti ufficiali siamo insomma ancora fermi al 2005, anche se, stando a quanto è stato possibile apprendere in via ufficiosa dagli uffici della Cittadella, nel 2018 è stato stilato un documento sulla situazione energetica regionale nell’ambito del programma europeo “Horizon” che, forse, potrebbe costituire una base abbastanza aggiornata da cui partire per redigere un nuovo Pear. Quasi sempre a fare da consulente alle Regioni per questi scopi è Enea, e proprio all’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – i cui esperti avevano lavorato anche al vecchio Piano – la Cittadella si è rivolta di recente per avere una sorta di preventivo e capire quanto possa costare la consulenza scientifica per elaborare delle nuove linee guida partendo dal documento del 2018.

    Cosa hanno fatto in Emilia e Campania?

    Poi, eventualmente, si dovrà passare anche attraverso il confronto con tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati. Giusto per avere qualche termine di paragone, la Regione Emilia-Romagna ha in vigore il Per adottato nel 2017 che fissa la strategia e gli obiettivi per clima ed energia fino al 2030 e si realizza attraverso un Piano triennale di attuazione (Pta). Questo strumento è stato aggiornato nel 2020 ed è stato già avviato il percorso partecipato che porterà al Pta 2022-2024. Scendendo più a Sud, il Piano energetico ambientale della Regione Campania è stato approvato nel luglio del 2020.

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    L’Università della Calabria

    Unical e Comuni per abbattere i costi delle bollette

    Intanto noi restiamo impantanati nei buoni propositi e nelle dispute ideologiche che finiscono per dividere anche il fronte ambientalista tra intransigenti e possibilisti. La politica ovviamente non è da meno in quanto a verbosità e divisioni, con l’aggravante che certe posizioni sono evidentemente dettate dalla ricerca di facili consensi più che dal merito di un tema di vitale importanza, oggi e nell’immediato futuro, per ognuno di noi.
    L’Università della Calabria (Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale) in collaborazione con sedici Comuni Calabresi (Aprigliano, Belmonte, Carlopoli, Cerzeto, Cervicati, Crotone, Francica, Galatro, Morano Calabro, Mongrassano, San Marco Argentano, Parenti , Platì, Panettieri, San Fili, Tiriolo) , ha cominciato a lavorare, con un incontro avvenuto nei giorni scorsi, alla costruzione delle prime Comunità di energia rinnovabile (Cer) con lo scopo di andare «oltre l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno energetico delle comunità locali, abbattendo drasticamente i costi per cittadini le imprese e gli enti locali».

    Eppur qualcosa si muove

    Lunedì 21 febbraio sullo stesso tema è previsto un ulteriore incontro in Regione a cui parteciperà il presidente Roberto Occhiuto, la sottosegretaria al MiTE Ilaria Fontana, il deputato Giuseppe d’Ippolito (Commissione Ambiente) e il docente Unical Daniele Menniti. Qualcosa – complice la tempistica del Pnrr – dunque si muove. La potenziale collaborazione tra governo, Regione, Comuni e università potrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per costruire una nuova solidarietà energetica tra le comunità locali e superare l’approccio passivo dei cittadini-consumatori.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Quanto questa impostazione improntata alla cooperazione dal basso possa essere conciliabile con il business dei colossi dell’energia, che hanno evidentemente il profitto come obiettivo ultimo, non è difficile intuirlo. Per evitare commistioni di interessi, che sotto l’ombrello della transizione energetica magari nascondono nuovi tentativi di sfruttamento dei beni comuni, servirebbero dunque, innanzitutto, una chiara volontà politica e degli strumenti pubblici adeguati di programmazione e regolamentazione del settore. Proprio ciò che, almeno finora, in Calabria manca.

  • IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    IN FONDO A SUD | Una Diamante non è per sempre

    Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.

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    Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)

    Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque

    Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.

    La giornalista e scrittrice Matilde Serao

    L’estate dei cosentini

    Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.

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    Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival

    Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.

    La Diamante di Matilde Serao

    Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.

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    Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.

    Un mare di cemento (e non solo)

    L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.

    La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.

    Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.

    Teatro di chiazza

    Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.

    A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.

    La chiesa di San Biagio a Diamante

     

    Diamante d’inverno, voci nel deserto

    Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.

    Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.

    Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.

    Un bar che si chiama Desiderio

    Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.

    I ruderi di Cirella e l’isola omonima

    La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.

    Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).

  • IN FONDO A SUD| Crotone, l’ex polis costruita sui veleni

    IN FONDO A SUD| Crotone, l’ex polis costruita sui veleni

    Qualche mattina fa ho percorso in macchina la statale 106 ionica, da Catanzaro Lido verso nord. È una strada trafficatissima e sinistramente famosa, infiorettata di edicolette, di cippi e di altarini di plastica ai lati delle carreggiate. Volevo arrivare a Crotone. L’auto è l’unico mezzo per farlo in tempi ragionevoli. Trasporti pubblici assenti e isolamento sono uno dei problemi che fanno della antica città ionica una sorta di enclave: la ferrovia costiera è ancora quella di fine Ottocento, a binario unico, non elettrificata, e con i vecchi treni spinti dalle automotrici. La stazione sembra uno scalo in mezzo al deserto.

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    La stazione ferroviaria di Crotone

    Il porto invece è diviso in due: il bacino più antico è ancora quello che fu costruito con i blocchi divelti nel corso del Settecento dal tempio di Hera Lacinia; quello “nuovo” si limita al cabotaggio di naviglio piccolo, per via dei bassi fondali sabbiosi. L’aeroporto Sant’Anna funziona a singhiozzo e lì vicino c’è un grosso centro Sprar. Soppressi da anni i treni notturni e quelli a lunga percorrenza. Per qualsiasi altrove lontano da qui ormai si salpa in bus, di notte.

    In mezzo alle pale

    Crotone è un posto della Calabria che ha qualcosa di magnetico e fascinoso, di allucinato e di incongruo allo stesso tempo. La strada verso Crotone, già dopo Botricello, non riesce più a staccarsi dal collo i morsi degli abusi al vasto panorama dell’antico Marchesato del grande latifondo, il serbatoio del Mediterraneo preindustriale, quello delle terre del grano, delle pecore e del formaggio di cui scrive anche Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo.

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    La curva di orizzonte delle dolci colline ioniche oggi è tutta trafitta dalle mostruose torri eoliche costruite nei terreni degli Arena, cosca intoccabile del pantheon mafioso locale. Ce ne sono centinaia sparpagliate per chilometri. Se guardi meglio ti accorgi che ne girano pochissime, inutili come enormi segni di interrogazione. Il Marchesato di Crotone è uno dei luoghi più aridi del continente, a imminente rischio desertificazione. In più c’è il rischio mafia. Qui più che il vento servirebbe l’acqua. Ma gli interessi sull’eolico sono molti, scottano, sono poco illuminati dal sole e difficili da arginare. Intanto i mulini a pale continuano a crescere e a roteare indisturbati nei posti più improbabili.

    La nuova Crotone

    Circa un’ora di tragitto sulla 106 e mi sono ritrovato nel dedalo di giravolte, incroci e cavalcavia che porta a Crotone. La città nuova è questa colata di macerie alte e basse, scolorite e tetre, un teatro di quartieroni popolari come Vescovatello (dove il grande mercato coperto in abbandono, col tetto in lastre di amianto, sparge al vento i suoi veleni), Lampanaro e Fondo Gesù. Si ergono dai sabbioni di una costa un tempo malarica. Sono luoghi pericolanti di noia e di sciagure umane, che crescono tra stecche di casermoni disadorni.

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    Case popolari nel quartiere crotonese Fondo Gesù

    Sul paesaggio della Crotone di oggi campeggia l’enorme accozzaglia di ferraglia industriale abbandonata tra gli sterpi e le discariche supertossiche. Poi abituri indistinti, ristoranti per matrimoni, sfasciacarrozze, stazioni di servizio sgangherate, grandi ipermercati, nuove speculazioni e gru che crescono come steli di fiori maligni non lontano dalle lusinghe eterne del mare odisseo. Crotone staccata dal mare appare come una spessa piastra di cemento fratturata da un groviglio di strade sconnesse che sembrano smarrirsi nell’inerzia sul bordo esausto, sopraffatto e guasto del litorale.

    La Stalingrado del Sud avvelenata

    Si sapeva già dalle inchieste dei magistrati che a Crotone i carichi di rifiuti tossici, una volta finiti nelle mani delle mafie, sulla terraferma diventavano materiali per costruire case e asfaltare strade. Come già è accaduto per le ferriti di zinco e le altre scorie contaminate smaltite liberamente nell’ambiente dopo la chiusura del polo chimico della Pertusola, proprio davanti alle periferie arrugginite del vecchio stabilimento. Poi i veleni industriali sono finiti dentro la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale. Era la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del Sud, a cui qualche mediocre cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”.

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    Una mappa degli ex stabilimenti Montedison di Crotone (foto Archivio storico Crotone)

    Adesso si sa che per anni nessuno ha saputo opporsi al paradosso criminale della costruzione di scuole, marciapiedi, strade, uffici pubblici e abitazioni civili impastate di un amalgama micidiale di veleni e scorie tossiche provenienti dalla bomba chimica sotterrata nei piazzali della Pertusola. A Crotone adesso si contano i morti per cancro, regalati come buonuscita agli operai e alle famiglie cresciute nei quartieri popolari vicini agli stabilimenti o all’ex Montecatini-Edison. Mentre ancora si aspetta di arrivare alla bonifica delle scorie tombate per decenni. Cumuli di scarti tossici movimentati nel porto e diretti alle lavorazioni nello stabilimento della Pertusola, appena più a nord di quello della Montecatini. Lì sotto giace, ed è un paradosso, un pezzo della antica Crotone dei greci. Insieme alle bonifiche ci si aspetta un processo che accerti finalmente i danni e le responsabilità. Qualcosa che rimetta ordine e dia pace, e un qualche risarcimento, a queste contrade.

    La Storia è sempre più giù

    Neanche il calcio offre più consolazione. Il tesoro sommerso dell’antica Crotone, più che una risorsa per il futuro della città, sembra un ingombro di cui disfarsi. Anche lo stadio Ezio Scida, abusivo come quasi tutto quello che sorge da queste parti, ampliato di recente tra polemiche e sequestri, convive, si fa per dire, con l’area archeologica che rientra nel programma di riqualificazione dell’antica Kroton. Si fa fatica a crederlo, ma nonostante dal 1981 la Soprintendenza archeologica abbia dichiarato inedificabile l’area su cui l’impianto sorge, il prato e gli spalti rinnovati negli anni della serie A sono stati allargati sopra i resti dell’agorà di una delle più importanti polis della Magna Grecia.

    A parte pensare alla meraviglia seppellita sotto il rettangolo verde, c’è una cosa che ogni volta che vado a vedere una partita del Crotone allo Scida mi mette i brividi addosso. Quando la curva Sud, prima del calcio d’avvio o in un momento difficile della gara, all’improvviso fa salire al cielo l’incitamento ai rossoblù. Migliaia di tifosi cantano all’unisono e a gola spiegata Ma il cielo è sempre più blu o A mano a mano di Rino Gaetano, omaggio al ragazzo di Crotone che ha iscritto il proprio nome nel pantheon della canzone popolare italiana. La squadra ha adottato entrambi i motivi come inni ufficiali. Non so se ne esista al mondo una che possa vantarne di più belli.

    Da Cutrone a Crotone

    L’addizione urbanistica novecentesca che forma il nucleo della Crotone nuova scivola dai piedi del castello di Carlo V e dal piccolo centro medievale murato poco oltre gli alti bastioni, dilagando fino alle campagne dell’antico latifondo del Marchesato. La città nuova è un labirinto ansimante di cemento impolverato e caotico, sparpagliato per chilometri sul litorale e costellato da ammassi di spazzature e rottami non rimossi. Resta ben poco delle memorie classiche della antica città magnogreca, tutta sepolta e divelta sotto i cascami e gli ingombri di cemento della nuova.

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    Crotone, Il Gladio

    Crotone si chiamava Cotrone fino al 1928 e la gente del posto con inflessione dialettale la chiama ancora così: Cutrone. Poi il fascismo in vena di grandezze restaurò il nome classico della polis, la colonia achea di Kroton, di cui non restava più traccia. Sarà forse per questo che su una delle colline argillose che guardano verso la città un sindaco fascista non molti anni fa ha issato il totem ideale per la Crotone di oggi: un enorme gladio romano che campeggia sul panorama cittadino come una croce blasfema su un regno di tormentati.

    La città della bellezza

    E pensare che qui Zeus, secondo il mito, pare abbia incontrato le donne più belle del mondo dei greci (cinque diverse fanciulle di Crotone, ognuna per un dettaglio del sembiante, formavano il composito ideale estetico della più desiderabile bellezza). Un canone di bellezza eterno che fu ripreso da Shakespeare nei Sonetti – sino a precipitare poi nel famoso motivetto di Mambo number five di Perez Prado e nella hit di Lou Bega.

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    Affidato (a destra) con Amadeus a Sanremo

    La bellezza trascorsa, per quanto rattristata dalle corrosioni del moderno, qui è però una suggestione che ancora fa scuola. A Crotone cesellano ancora la loro arte antica, divenuta nel frattempo brand griffato per dive e grandi firme della moda, gli orafi Gerardo Sacco e Michele Affidato (suoi i premi di Sanremo). Realizzano i loro gioielli ispirandosi alle tradizioni popolari. Rifanno citando  – e molto aggiornando alla voga modaiola – i modelli classici indossati un tempo da aristocratiche, vestali e dee greche. Preziosità venute alla luce con il diadema d’oro e gli altri magnifici reperti affiorati dal tesoro di Capo Colonna.

    Gissing a Crotone

    Lusso e prosperità erano di casa a Crotone ancora in tempi non lontani. George Gissing, scrittore e viaggiatore vittoriano in Calabria nel 1897, si rammaricava di non aver potuto portare con sé «nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case e, mi è stato detto che con il bel tempo, almeno una mezza dozzina di carrozze private si possono vedere fare il giro alla moda sulla Strada Regina Margherita. Quasi come a Napoli». Della città ricca di un tempo resta qualche vestigia concreta. Come la bella piazza Pitagora, in pieno centro, incorniciata dai portici, caso unico in Calabria. Sotto i portici c’è lo storico Bar Moka, dove si può ancora gustare un dolce belle époque come l’Iris. In piazza Pitagora, dormire ancora oggi all’Hotel Concordia come fece Gissing, vuol dire ritrovarsi nel bel mezzo di atmosfere del Grand Tour.

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    Lo scrittore e viaggiatore George Gissing

    In prossimità della riva jonica c’è un altro luogo gissinghiano: il vecchio cimitero dalle alte murate di cocci diroccati che sembrano cotti in un crematorio del tempo. Un tempo l’elegante recinto dei morti di Crotone era ai margini assolati della città, circondato di mura e adornato da piante solenni e palme svettanti come preghiere. Era un’oasi di pace «simile a un bel giardino fiorito». Oggi il camposanto è circondato dalle auto e dal movimento caotico che va verso la periferia. Lo salva ancora quell’alto recinto di mura sbeccate, quasi fosse una rotonda spartitraffico dimenticata ai margini della waste land alla fine del lungomare.

    Malattie e sanità

    Nella periferia sconciata dagli abusi spicca anche lo stato di abbandono degli ex Villini Pertusola. Da lì in avanti la città non ha più profumi, avvizzita tra i veleni e il catrame infetto. Sembra che di fiori a Crotone non ne crescano più, neanche fuori dal recinto dei morti, con la città che ha le apparenze di un reclusorio di malattie micidiali. Crotone è immersa in una mortale quarantena per i vivi, malata fino al midollo. La città di oggi è mostrificata, inquinata dai resti mefitici della Montedison, di cui restano le spoglie spente e rugginose di un enorme compound degli orrori che continua ad alitare veleni sopra e sotto terra sulla vita di tutti.

    L’Ospedale San Giovanni di Dio è l’unico presidio sanitario pubblico rimasto in città. Affollato, dolente e sempre in affanno sembra un lazzaretto per i poveri. Il sistema sanitario nazionale qui come altrove in Calabria è in crisi. Invece quello delle cliniche private, che ha fondato vere e proprie dinastie della sanità a pagamento, è fiorente. È uno dei punti di preminenza per l’intero settore, ma solo per quelli che possono curarsi senza passare da intralci e guasti del servizio pubblico.

    Calcutta, Tirana… Crotone

    A dispetto del bellissimo mare, Crotone ha un aspetto grigio spento. È piena di pozzanghere, di detriti e cascami decomposti che fermentano vicino a cliniche di lusso per ricchi che sembrano hotel. Una carcassa smembrata dagli abusi infiniti e dagli orrori spesso rimessi all’aria dai segni delle periodiche alluvioni che atterrano la città. La comunità cittadina sembra ormai afflitta dalla noia strisciante o dalla rassegnazione di vivere senza più speranze, nonostante i recenti cambi di poltrona nei palazzi del comune. Una dimissione civile che leggi anche nelle facce della gente per strada.

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    Crotone allagata nel novembre del 2020

    Ai ragazzi di Crotone restano la carta dell’emigrazione o i mestieri provvisori del precariato a vita. Come riparo di fortuna ci sono solo i call center dei grandi gruppi di gestori di telefonia. Qui hanno fatto man bassa, con paghe inferiori a quelle dei pària tecnologici che rispondono dalle postazioni di Calcutta o Tirana. Servizi di recalling e customer care interconnessi agli utenti di cellulari e smartphone urbi et orbi, che rispondono nella lingua globalizzata del business da qui, da Crotone. E invece stiamo con i piedi sopra le tombe degli eroi, nella Magna Grecia delle migliori annate.

    Cultura, legami e resistenza

    Ogni volta che passo da Crotone faccio un salto alla Libreria Cerrelli, in via Vittorio Emanuele, di fronte al vecchio Municipio e di fianco alla Chiesa dell’Immacolata. Fondata nel 1900, è la più antica libreria della provincia. Ed è una delle ultime rimaste vive in Calabria senza passare dalla servitù delle catene editoriali. In più di 120 anni di storia, visitata anche da Corrado Alvaro e da molti altri scrittori, è oggi uno dei pochi punti caldi rimasti come riferimento per la vita culturale cittadina. È un presidio che resiste nonostante la crisi. Merito di Paolo Cerrelli, che la gestisce come un luogo di grande vivacità, con numerosi appuntamenti.

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    La Rari Nantes in un’immagine d’epoca

    Oltre che libraio, è un attivista e agitatore culturale, difensore delle librerie indipendenti e del valore della cultura crotonese, antica e moderna, che anima anche attraverso festival di musica e letteratura. Ha un passato da militante di sinistra e da atleta nella mitica pallanuoto “Rari Nantes Auditore”, settant’anni di storia sportiva di cui oggi restano solo gli avanzi desolati di una piscina olimpica scassata, ricettacolo di rifiuti. Cerrelli ha chiesto di recente all’amico Sergio Cammariere di poter utilizzare un brano tratto dal suo ultimo disco “Piano nudo” per sviluppare sul tema una poesia o un breve racconto, massimo di 20 parole. Il cantautore è un altro dei crotonesi da ricordare per il suo legame con la città. Nel suo libro autobiografico Libero nell’aria la ricorda così: «Volevo vivere di musica e ci sono riuscito, ma lontano da Crotone, a Roma», dove lo aveva preceduto Rino Gaetano, che di Cammariere era appunto lo zio.

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    Sergio Cammariere

    Invece Giacinto de Rosario, esperto alimurgico e cuoco raffinatissimo, impegnato in azioni pubbliche per la sovranità alimentare, sulle sorti di Crotone, da crotonese di ritorno dopo una vita da antiquario di successo a Firenze, sottolinea il dovere di andare oltre le dichiarazioni d’amore per la città: «Occorre l’impegno di scoprire, salvare, avere cura della memoria e non farla più seppellire, per quel che resta di sopra e soprattutto di sotto. Non occorre stilare luoghi e storie da primato, ancor meno mi aspetto aiuti dagli eletti in parlamento, dagli ordini professionali ed altre categorie. È giunto il momento di farsi sentire e vedere tutti insieme, altrimenti è bene rassegnarsi al nulla». A proposito di impegno, il Gruppo Archeologico Crotonese assieme agli attivisti di Italia Nostra si batte da anni per difendere il grande patrimonio archeologico della città e dei dintorni.

    I nuovi mostri

    Sventato per ora il massacro di una grande lottizzazione speculativa per la costruzione di ville sull’area archeologica di capo Colonna, si profila all’orizzonte un’altra mostruosità: un colossale parco energetico offshore da piazzare nelle acque antistanti la città. Se verranno confermate le concessioni alla trivellazione alla Global Med, una società estrattiva americana, il progetto promette in un sol colpo di collocare su una superficie di mare di ben 2.250 kilometri quadrati tre nuove piattaforme di trivellazione, un campo di enormi pale eoliche offshore e una piastra di approdo per navi container e navi gasiere per rifornimento di gas naturale liquefatto. Tutto dentro le sacre acque che bagnano l’antica città di Kroton.

    Si narra che Pitagora, che 2.500 anni fa scelse Crotone per fondare la sua scuola sapienziale, iniziasse la giornata insieme ai suoi scoliasti salutando il sole che saliva da oriente. Per ora il megaprogetto, avversato da gruppi ambientalisti e associazioni, pare aver trovato oppositori anche tra gli attuali amministratori cittadini. Se così non sarà, dopo lo scempio compiuto in terra, anche l’orizzonte ionico blu cobalto e il meraviglioso paesaggio marino dello specchio d’acqua crotonese avranno forse le ore contate.

    Il prezzo del progresso

    Oggi il Sud e la Calabria sono com’è Crotone: un immenso e caotico terreno di battaglia disseminato peggio che altrove delle macerie e dei ruderi informi di una modernizzazione scarsa di sviluppo che è stata – e sarà – incapace di tenere fede alle promesse di progresso annunciate un secolo fa. Il prezzo delle conquiste della modernità qui è stato tra i più compromettenti ed elevati: territorio massacrato, assenza di un’economia reale, disoccupazione che non smette di crescere, amministrazioni e governi locali allo sbando, una mafia efficiente e pervasiva come qui nessun potere legale riesce ancora a diventare.

    Un nuovo e più sottile disordine sociale sta finendo per sgretolare una società pericolante. Che, a dispetto del benessere materiale ostentato ovunque, resta sottomessa, immiserita nei valori e culturalmente dimidiata nel suo unico bene: la sua memoria, la bellezza dei luoghi, il monito dimenticato che proviene dalla storia e dalla forza del suo paesaggio. Una società entro la quale nessuno pare avere il coraggio, la forza sufficiente a contrastare il peggio. Altre regioni, si dirà, altri Sud offrono della modernizzazione un bilancio simile, e tuttavia ‘ora’ è meglio di ‘allora’. Restano pur sempre il benessere dei consumi, le macchine, i frigoriferi, i computer, i telefonini, le parabole, l’economia di carta. Certo, è vero. Ma non è comunque una buona ragione per tacerne stupidamente il prezzo e nasconderne lo scandalo.

    L’ultima colonna

    Rivolgo lo sguardo al Capo Lacinio, da qui si intravede l’ultima colonna rimasta in piedi sul promontorio. Capo Colonna con la sua solennità a futura memoria resta lontano, sembra confinato a una distanza disperata, crescente. Un’altra nemesi sfacciata, uno scherzo beffardo della storia. Più di cent’anni fa, di passaggio nella “terrificante Crotone” battuta dallo scirocco e senz’acqua potabile, si ammalò di febbre polmonare George Gissing, e qui restò lungo in balia della tisi.

    Si salvò solo grazie alle cure di un medico di campagna, il dottore Sculco, che divenne poi suo amico, e all’amore per lo straniero di un paio di donnette del popolo che aveva incantato, la povera gente che lo risollevò alla vita in una misera stanzetta dell’albergo Concordia, un posticino che in realtà era un bordello maltenuto. Il vittoriano solitario così scrisse grato: «Per me sarebbe stato meglio meglio morire qui sulle rive dello Ionio, piuttosto che in un tugurio di Shoredicth», il quartiere per dannati della Grande Londra dove era finito a vivere.

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    L’area archeologica di Capo Colonna

    Prima di riprendere la strada voglio andare a rifarmi gli occhi e la mente al Museo di Capo Colonna, che conserva meravigliose la bellezza e la magnificenza che qui abitarono e che sono solo del passato. Ad accogliermi, anche qui, sono cumuli di monnezza traboccanti da cassonetti artisticamente piazzati nell’area archeologica, all’interno dell’oasi naturalistica del Parco di Capo Colonna, un centinaio di metri appena dall’ingresso del Museo archeologico. Se Gissing fosse venuto in macchina con me a rivedere Crotone, anche lui si sarebbe sentito coinvolto nel disastro morale della storia. E avrebbe pianto.

  • L’invasione delle ultrapale: sullo Jonio soffia vento di protesta

    L’invasione delle ultrapale: sullo Jonio soffia vento di protesta

    Iniziamo dai numeri. La Calabria consuma oltre 5 miliardi di kWh, ma ne produce ben 17. Il surplus di energia elettrica è enorme, quasi +180%. La stessa Calabria, però, è tra le regioni italiane che più consumano gas (oltre 2,5 milioni di metri cubi all’anno) per alimentare le centrali termoelettriche. Proviene da fonti rinnovabili solo un terzo della nostra energia. Il resto arriva da fonti tradizionali, quelle che prima o poi finiscono e che comunque ci tengono appesi alla geopolitica mondiale.

    C’è un altro dato oggettivo, per cui non servono rilevazioni statistiche ma bastano i nostri occhi: vaste porzioni di territorio sono state inesorabilmente modificate da centinaia di enormi pale che sembrano infilzare il paesaggio. In questo nuovo orizzonte calabrese oggi ci sono oltre 400 impianti eolici. Le vie del vento sono infinite, c’è però da chiedersi quali e quanti vantaggi ne traggano le comunità locali. In queste settimane molti Comuni sono in rivolta contro nuovi progetti di cui contestano l’esibita ecosostenibilità e a cui oppongono, paradossalmente, ragioni di tutela ambientale.

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    Dal sito della Guardia costiera di Crotone

    La nuova frontiera dell’eolico

    La nuova frontiera è l’eolico off-shore galleggiante. Secondo il Pniec (Piano nazionale integrato energia e clima) da qui al 2030 l’Italia dovrà installare pale in mare per 900 MW. Ad oggi non c’è ancora nessun impianto in funzione ma sono stati presentati almeno 40 progetti. Se si concretizzassero, produrrebbero 17mila MW, una potenza di quasi 19 volte superiore a quella prevista dal Pniec.

    Due colossi del settore vogliono installare un’ottantina di pale in Calabria, in un vasto tratto di mar Jonio che tocca tre province, da Crotone fino a Monasterace: 33 turbine eoliche per Repower Renewables, altre 45 per Minervia Energia, società creata ad hoc da Falck Renewables e BlueFloat Energy, che stanno provandoci anche in Puglia. I parchi galleggianti sorgerebbero nel primo caso tra 60 e 75 km dalla costa, nel secondo tra 13 e 29 km. Le aziende ne pubblicizzano i potenziali benefici in termini di mancate emissioni di anidride carbonica e di posti di lavoro. Gli scettici lanciano allarmi su possibili danni a un ecosistema marino importante proprio per la produzione di ossigeno.

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    L’area al centro del progetto della Repower Renewable s.p.a.

    C’è chi dice no

    Nella seconda categoria vanno annoverati i Comuni di Crotone e Isola Capo Rizzuto, nonché il Wwf Calabria. Il consiglio comunale crotonese ha deliberato a maggioranza di opporsi al rilascio della concessione. Un territorio «già compromesso nella sua integrità ambientale – si legge nella delibera – da numerosi impianti per la produzione di energia, dai pozzi per la coltivazione di idrocarburi, dalle discariche per rifiuti di vario tipo, dall’inquinamento del suolo e del sottosuolo, non può tollerare ulteriori pressioni sul patrimonio naturalistico».

    Non ci sono solo gli aerogeneratori in mare, ma anche gli elettrodotti: quello sottomarino e quello terrestre in parte interesserebbero il Sito di interesse nazionale “Crotone, Cassano e Cerchiara”. Il cavidotto attraverserebbe un habitat ad alta biodiversità («praterie di Posidonia oceanica») che serve anche da «salvaguardia della costa per il contributo alla fissazione dei fondali ed alla protezione delle spiagge dall’erosione». Toccherebbe poi due Zone speciali di conservazione. Sarebbe infine prossimo al Sic Colline di Crotone e all’area marina protetta di Isola Capo Rizzuto.

    Castelli ed eolico

    Proprio il Comune di Isola, che può già vantare «il parco eolico più grande d’Europa», ha inoltrato nei giorni scorsi le sue osservazioni al Ministero: quattro pagine con motivazioni che vanno dalla «deturpazione paesaggistica del territorio» ai possibili danni al comparto pesca. «Probabilmente – sostiene l’amministrazione – chi propone ciò non ha mai visto il sole che tramonta alle spalle del Castello Aragonese di Le Castella, simbolo turistico della Calabria nel mondo. Che simbolo sarebbe con alle spalle un ammasso di pale eoliche a fargli da sfondo?».

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    Le Castella, uno dei luoghi simbolo della Calabria

    Nelle osservazioni depositate dal Wwf calabrese si legge che «il progetto è in grado di provocare effetti negativi plurimi su fauna e flora sia marina che terrestre». Si tratterebbe di «siti protetti dall’Unione Europea» che, in alcuni casi, hanno «come motivi istitutivi, il transito e la sosta di specie migratorie che si dirigono da e per l’Europa Orientale, partendo e/o approdando in Calabria».

    A chi tocca rispondere?

    Ma chi dovrebbe rispondere a questi rilievi? La procedura viaggia su un doppio binario. La richiesta di concessione demaniale marittima va al Ministero delle Infrastrutture e alla Capitaneria di porto. La Valutazione di impatto ambientale, per progetti che superano i 30 MW, spetta al Ministero dell’Ambiente, ma è la Regione che alla fine deve concedere l’autorizzazione. La Calabria non ha un assessore all’Ambiente. In un momento storico in cui il Pnrr destina alla «rivoluzione verde» quasi 60 miliardi di euro, dei quali 5,9 sono solo per le rinnovabili, la delega è rimasta in capo al presidente della Regione Roberto Occhiuto, che non ha certo molto tempo libero visto che è anche commissario alla Sanità.

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    Il Capitano Ultimo

    Ha designato come «uomo di raccordo tra la Regione e i Ministeri per il Pnrr» l’assessore supertecnico Mauro Dolce, a cui ha affidato però solo le Infrastrutture e i Lavori pubblici. Non che andasse meglio prima: nella Giunta precedente c’era il Capitano Ultimo, che a parole si è sempre schierato con i territori, ma ha annunciato uno stop ai nuovi impianti rimasto solo nelle rassegne stampa. Riuscendo così a scontentare sia gli ambientalisti che gli imprenditori del settore già pronti, dopo i suoi annunci, alla class action.

    Pecunia non olet

    In un limbo amministrativo simile la «transizione ecologica», declinata nel Pnrr a suon di «semplificazione delle procedure» e «potenziamento di investimenti privati», potrebbe anche tradursi in greenwashing. «Strategia di comunicazione o di marketing – è la definizione del dizionario Treccani – perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo».

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    La Faggeta di Monterosso minacciata dalle pale eoliche (foto dalla pagina Facebook Kalabri Trekking)

    Intanto non mancano altre proteste per nuovi parchi eolici “tradizionali”: il più recente è quello di Monterosso, nel Vibonese, che per 3 aerogeneratori provocherebbe secondo le associazioni l’abbattimento di 4mila alberi. Ma ci sono anche i fautori dei vantaggi che deriverebbero dalle pale. Come il sindaco di San Sostene, Luigi Aloisio, che di recente ha annunciato un potenziamento dell’ormai storico impianto, di proprietà di una società controllata da Falck Renewables, che ricade nel suo Comune – ma in realtà più vicino alle Serre che al centro abitato della costa jonica – parlando di un introito medio di 400mila euro all’anno per l’ente da lui guidato.

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    Fasi di costruzione del parco eolico San Sostene (foto dal sito del Comune) (1)

    Che prezzo ha l’orizzonte?

    Peccato che, ormai oltre un decennio fa, le enormi pale abbiano modificato non poco quei boschi. I tir che le trasportavano sono entrati nella viabilità interna della montagna come un elefante in una cristalleria. E che gli appetiti sul business eolico pare siano stati tra i motivi scatenanti di una guerra di ‘ndrangheta, identificata come la seconda faida dei boschi, che ha insanguinato le Serre e il basso Jonio catanzarese.

     

    Le mafie non possono essere un alibi, certo, ma gli interessi mafiosi sull’eolico e le rinnovabili in generale non sono neanche un dettaglio trascurabile. Lo testimoniano indagini come “Via col vento” e “Imponimento”, già approdate a sentenze di primo grado con condanne in abbreviato per boss del calibro di Pantaleone “Scarpuni” Mancuso e Rocco Anello. E un altro episodio emerge da “Alibante”, recente indagine sui tentacoli delle ‘ndrine nella politica e nell’economia del territorio di Falerna e Nocera Terinese. Il presunto boss 80enne Carmelo Bagalà confidava a un suo uomo di fiducia che c’era una «ditta tedesca» interessata a investire nel settore. Erano alla ricerca di terreni, così Bagalà e il suo fedelissimo avevano individuato una zona del Monte Mancuso su cui installare delle pale eoliche. «Ma quelle enormi», commentavano. «Hanno detto che pagano un sacco di soldi…». Ma che prezzo ha l’orizzonte?

  • “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    “Pazza idea”: una funivia nel cuore dell’Aspromonte senza che il Parco ne sappia nulla

    Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.

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    Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea

    Il progetto della funivia

    Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.

    Zona protetta

    Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.

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    Un grifone in volo sull’Amendolea

    Rette parallele

    «Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».

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    Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)

    E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».

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    Leo Autelitano, presidente del Parco

    E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».

    Le associazioni contro la funivia

    Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.

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    Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto

    «Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».

     

  • La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    Più di dieci anni di cantiere, un capitolato di spesa lievitato fino all’inverosimile e uno status di servizio breve e un po’ deprimente, prima dello svuotamento e del sostanziale abbandono in cui versa da quasi dieci anni: la storia della diga sul Lordo, invaso artificiale alle spalle di Siderno, è lunga e piena di inciampi. Pensata per soddisfare il fabbisogno irriguo della Locride e costruita – assieme alla “gemella” sul Metramo, sul versante tirrenico d’Aspromonte – dal consorzio di imprese Felovi (acronimo per Ferrocemento, Lodigiani e Vianini), la diga, di proprietà regionale ma gestita dal consorzio di bonifica dell’alto Jonio reggino, avrebbe dovuto garantire il fabbisogno d’acqua dei numerosi paesi a vocazione agricola del territorio e implementare, di molto, la capacità di acqua potabile disponibile. Ma è diventata, in attesa dell’ennesimo finanziamento, un enorme catino vuoto e desolante.

    Cancelli chiusi dopo la chiusura del 2013

    Vent’anni dopo…

    Partito nel 1983, il cantiere per la costruzione dell’invaso artificiale – i fondi li mette la Cassa del Mezzogiorno – procede a mozzichi e bocconi. Per dieci anni ingloba una serie di terreni agricoli e vecchi poderi che si trovano nella piccola valle di contrada Pantaleo. Nel 1993, pochi metri alla volta, l’acqua inizia a confluire nel catino appena costruito. Arriva dal Lordo, piccola fiumara che vive praticamente solo dell’afflusso delle acque piovane. E a farle compagnia c’è quella del Torbido, grazie ad una condotta sotterranea lunga più di 9 chilometri che si collega nel comune di Grotteria, poco più a nord.

    Le operazioni di parziale riempimento e di collaudo vanno avanti per quasi 10 anni fino al raggiungimento dei 9 milioni di metri cubi di acqua che rappresentano il limite massimo a pieno regime. Dalla posa della prima pietra sono ormai trascorsi quasi 20 anni. I costi sono lievitati fino a 70 miliardi e del progetto iniziale è sparita una buona parte. Nessuno ha realizzato le condotte previste che avrebbero dovuto rifornire di acqua ad usi irrigui i paesi a nord e a sud dell’impianto. La diga si limita, per i pochi anni in cui è rimasta in esercizio, a rifornire solo le campagne di Siderno, che del territorio è il comune con meno vocazione agricola.

    L’oasi e la cattedrale

    Poco dopo la messa in esercizio dell’invaso, partono anche i lavori per la potabilizzazione delle acque che dovrebbe “ripulire” parte del carico della diga prima di ridistribuirlo nelle reti dei comuni vicini. L’impianto viene costruito proprio di fronte alla muraglia artificiale che chiude la valle, sotto uno dei viadotti della nuova 106. Finiti i lavori però, la struttura, di proprietà della Sorical, non è mai entrata in funzione. Da anni rimane inutilizzata, ennesima cattedrale nel deserto della Locride.

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    Nonostante i mille problemi funzionali però, il nuovo lago artificiale piace. Incastrata sotto Siderno superiore, affacciata allo Jonio e circondata da una natura prepotente, la diga diventa presto uno dei posti più frequentati del comprensorio. Appassionati di trekking, pescatori, cultori del jogging e della mountain bike: le colline di questo pezzo di Calabria si popolano di turisti e cittadini e anche molte specie di uccelli migratori iniziano a fare tappa fissa sulle acque del Lordo durante le loro migrazioni da e verso l’Africa. Le associazioni cittadine più volte avevano lanciato la proposta dell’istituzione di una oasi naturalistica – anche nel tentativo di fermare i cacciatori di frodo che degli stormi di uccelli migratori che facevano tappa a Siderno ne avevano fatto la propria personale riserva di caccia – senza però ottenere alcun risultato.

    Danni alla diga, svuotare tutto

    I problemi veri però, iniziano nel 2013. I tecnici del consorzio che curano la funzionalità della diga si accorgono infatti di una serie di crepe nella struttura in cemento armato del pozzo dentro cui è ospitata la camera di manovra per le paratie che regolano il deflusso delle acque dalla diga. Inizialmente si pensa ad un danno superficiale ma le cose peggiorano in fretta e, poco meno di un anno dopo, in seguito ad un ispezione dei tecnici del Ministero, si decide per il progressivo svuotamento dell’invaso che viene portato al 70% della capacità massima.

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    L’invaso svuotato dopo la scoperta dei problemi per il cemento armato

    Gli ingegneri si accorgono infatti che le crepe nel cemento sono il frutto di un movimento franoso (traslazione, in termini tecnici) che interessa il costone destro dell’impianto, quello posto sotto il versante dell’antico borgo collinare di Siderno. Movimento di cui nessuno, né durante la fase di costruzione, né durante quella di collaudo e di messa in esercizio si era accorto prima. Il rischio è serio, la decisione inevitabile: se il pozzo crolla, i comandi per muovere le paratie (e quindi regolare il livello dell’acqua contenuta nella diga) diventano irraggiungibili, l’unica strada è quella di svuotare tutto. In pochissimo tempo, quella che era diventata un’oasi nel cuore della Locride, diventa terreno di conquista per discariche abusive e pascoli altrettanto illeciti.

    Un nuovo progetto per la diga

    Questa situazione si trascina da anni e si è incastrata anche con le guerre intestine all’interno del Consorzio di bonifica, retto oggi da un commissario – l’ex sindaco di Sant’Ilario, Pasquale Brizzi – nominato dall’allora presidente Oliverio e in gara per il rinnovo delle cariche previste a giorni. Ma potrebbe sbloccarsi grazie a un nuovo progetto di intervento attualmente al vaglio del Ministero per la fase esecutiva dello stesso. Vale 9,27 milioni di euro, già finanziati dal fondo Coesione e Sviluppo e approvati con delibera del Cipe, e prevede il consolidamento del costone e la ricostruzione del pozzo con la camera di manovra.

    L’invaso oggi

    La progettazione dell’intervento è andata a bando per oltre 600 mila euro ed è stata vinta dallo studio Di Giuseppe con un ribasso – unico discriminante previsto dal bando – di circa il 60%. Burocrazia permettendo – l’intero progetto potrebbe passare sotto l’ala del Pnnr, pappandosi così quasi un terzo dei finanziamenti previsti nel comparto idrico per la Calabria e strappando altri sei mesi alla scadenza massima, per non perdere i fondi già stanziati, a metà 2023 – la diga potrebbe essere rimessa in funzione entro il 2026. Sempre se, nel frattempo, l’invaso che per un breve tempo era stato un’oasi, non continui a riempirsi con spazzatura e scarti di cantiere.

  • Nelle viscere del Tirreno il tesoro che non è mare

    Nelle viscere del Tirreno il tesoro che non è mare

    Si pensa spesso al mare, che in realtà è più bello d’inverno, quando le località costiere sono vuote e le attività inquinanti al minimo.
    Ma si trascura il suolo, che forse può diventare molto attrattivo, specie per chi invoca il turismo di nicchia. Al riguardo, il basso Tirreno cosentino è pieno di forre e di grotte, sotterranee e non, alcune delle quali sono anche giacimenti archeologici, che raccontano come, nella preistoria, la Calabria – oggi in vistoso calo demografico – fosse popolosa.

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    Forra tirrenica

    Resti umani risalenti al Paleolitico

    Lo rivela ’a grotta da ’ntenza – scoperta da Gianluca Selleri che vi si è calato nel 2017 – a cui si accede dalle pareti rocciose dei monti tra Falconara Albanese e San Lucido.
    All’interno di questa cavità vi sono reperti poveri e antichissimi, che spiccano sul biancore della roccia calcarea: strumenti di osso e selce e vasellame in terracotta grezza che risalgono al Paleolitico. Più qualche resto umano.
    «È una delle tante sepolture preistoriche che stanno venendo alla luce in quest’area», spiega Paolo Cunsolo, presidente dell’associazione Forre del Tirreno, che raduna un gruppo consistente di speleologi.

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    La Grotta da ‘ntenza

    Varie di queste tombe primitive, in cui i nostri remotissimi antenati si facevano seppellire assieme agli strumenti della loro quotidianità, sono state scoperte un po’ più a Sud, per la precisione a Coreca, la bellissima scogliera tra Amantea e Campora San Giovanni.
    Di questi ritrovamenti eccezionali si sta occupando ora Felice Larocca, archeologo e ricercatore dell’Università di Bari, che attualmente gestisce gli scavi e la manutenzione di un altro luogo antichissimo: la Grotta della Monaca, nella Valle dell’Esaro.

    Grotta Sant’Angelo

    Ma lo spettacolo più forte lo offre la natura. Ci si riferisce, in particolare, al sistema di grotte in località Sant’Angelo, sempre a cavallo tra Falconara Albanese e San Lucido.
    La più importante di queste enormi cavità è Grotta Sant’Angelo, nota fin dai primi anni ’70 e tuttora meta degli speleologi calabresi e siciliani.
    L’ingresso di questa grotta è un laminatoio, cioè una fessura scavata dalle acque, nella parete della montagna. Lo si attraversa strisciando per circa quattro metri e si arriva in una galleria ampia, di quasi un chilometro nel cuore del monte. Questa galleria termina con alcuni laminatoi, scavati da due sorgenti sotterranee importantissime.
    L’acqua ha lavorato le rocce per secoli. E ha creato un vero e proprio mondo parallelo, fatto di tunnel e collegamenti quasi inaccessibili all’uomo.
    Per esempio, quello tra Grotta Sant’Angelo e la vicina Grotta “Mario e Andrea”, che ha una storia particolare.

    L’ingresso della grotta “Mario e Andrea”

    In ricordo della tragedia di Rigopiano

    La Grotta di “Mario e Andrea”, infatti, è stata scoperta cinque anni fa, in coincidenza con la tragedia di Rigopiano. E non è un caso che sia stata dedicata a due soccorritori morti nel tentativo di salvare gli ospiti del resort travolto dalla valanga.
    Tralasciamo le coincidenze e dedichiamoci alla grotta, più difficile da esplorare e forse più spettacolare della sua vicina.
    L’accesso è tutt’altro che facile e, specifica Cunsolo, quasi impossibile per i non speleologi: è una spaccatura sulla parete della montagna che conduce a due pozzi che si inabissano per quindici metri.

    La grotta di “Mario e Andrea”

    Al termine dei pozzi c’è una pietraia, che gli esploratori hanno dovuto aprire a mani nude. La loro fatica è stata premiata da una visione spettacolare: uno stanzone di circa novanta metri quadri e profondo tra i dieci e i quindici metri, pieno di stalattiti e stalagmiti. Segno di un forte lavorio delle acque, che è confermato dalla presenza di un fiume sotterraneo.
    Profondissimo anche il vicino Inghiottitoio Provenzano, un’enorme cavità che si inabissa per quasi cinquanta metri.

    La prossima sfida

    La natura ha i suoi collegamenti che, tuttavia, non sono adatti all’uomo. Proprio per questo, gli speleologi di Forre del Tirreno tentano di aprire dei varchi tra queste grotte, sotto la guida del paolano Piero Greco, già tra i sub più forti a livello regionale.
    Lo scopo, spiega ancora Cunsolo, è «rendere fruibile a un pubblico più vasto quest’impressionante mondo sotterraneo», praticamente ignoto, aggiungiamo noi, ai villeggianti, cosentini e non, che invadono le spiagge ogni estate».
    Tuttavia, gli speleologi lavorano soprattutto d’inverno e in primavera, al riparo dai curiosi e, soprattutto, dagli imprudenti che potrebbero farsi davvero male nel tentativo di emularli.
    Il momento più importante di quest’attività di esplorazione e ricerca, che confina quasi con l’archeologia, è giugno, quando le associazioni speleologiche calabresi e siciliane svolgono il loro raduno annuale, intitolato “Azzoppa ’u pede”, con un palese riferimento a una storia meno antica ma più suggestiva, cioè ai briganti che infestavano nella seconda metà dell’Ottocento l’antica via del mare che passava per il Monte Cocuzzo.

    Il turismo nelle viscere della terra

    Il turismo di massa ha poco a che fare con le grotte e le forre, che però attirano comunque una quantità non proprio trascurabile di specialisti, studiosi, speleologi (appunto) o semplici ambientalisti.
    E queste scoperte recenti, se opportunamente valorizzate, potrebbero in effetti essere il punto di partenza per una nuova concezione del turismo, senz’altro più sostenibile di quello che ci si ostina a praticare, a dispetto dell’impatto ambientale alto e dei numeri in calo.
    «La speleologia non è per tutti, specie nelle fasi di scoperta e nelle prime esplorazioni», spiega ancora Cunsolo, perché in questi casi richiede «addestramento e conoscenza di una serie di tecniche ben precise». In altre parole occorre essere un po’ alpinisti, un po’ minatori e, in qualche caso, anche un po’ sub. A tacere del fatto che queste attività non sono assolutamente adatte a chi soffre di claustrofobia.
    Ciò non toglie che, una volta stabiliti dei percorsi sicuri, le grotte non possano essere visitate con guide adeguate, da un pubblico più vasto.
    Un pubblico di nicchia? Senz’altro. Ma chi dice che nicchia sia sempre sinonimo di piccolo?

  • Gli indifferenti, noi calabresi assuefatti al degrado urbano

    Gli indifferenti, noi calabresi assuefatti al degrado urbano

    La società calabrese contemporanea ha ormai consolidato una negativa abitudine a convivere con qualsiasi forma di degrado possa manifestarsi, sotto ogni diversa e sempre più grave forma. Si tratta di una pericolosa assuefazione alla sciatteria, precarietà, marginalità e abbandono che interessa, per diversi ed eclatanti effetti, ogni luogo, pubblico soprattutto, ma al contempo privato.
    L’ultimo episodio che racconto qui di seguito, e che è l’apice di una catena di infelici incontri con il brutto e negativo calabrese, risale al 15 dicembre scorso, in piena atmosfera natalizia, che, a queste nostre traballanti latitudini, è la peggiore ed effimera illusione che ubriaca tutti, per il tempo necessario a dimenticare il peggio che viviamo e, forse, vivremo.

    Vaccinati in una palestra lercia e polverosa

    Il pomeriggio, mi reco fiduciosamente, per la mia civica terza dose “anti-Covid”, al cosiddetto “hub” vaccinale di Via degli Stadi s.n.c. -che sta per senza numero civico, e già questo doveva preoccuparmi- e con sorpresa noto che mi trovo all’esterno di un anonimo edificio, privo di qualsiasi minimo requisito ambientale, con una insegna appena visibile e pure storta, facciate malamente scrostate e con uno sbarramento da manifestazione di massa, posto al controllo degli accessi.

    L’interno ha i requisiti – molto sbiaditi – di ciò che era una palestra, oggi lercia e polverosa, con un paio di box di controllo e personale medico all’addiaccio, muniti di camici con sotto i cappotti, il fiore della rinascita dell’Italia (ma quando mai!) è malamente incollato su uno dei box della sala e sta per staccarsi, sintomo di quanto sia poco importante, alle nostre latitudini, comunicare bene messaggi collettivi di fiducia!

    Ogni protesta è vana

    Sul pavimento ci sono almeno due dita di polvere, qua e là, sparse nella grande sala, una ventina di sedie male assortite, assemblate tra attesa pre-vaccino e post, al soffitto un paio di lampadine fioche e mortacine da magazzino merci in disarmo. Poche persone infreddolite siedono in attesa fiduciosa della dose salvifica, e l’operatore sanitario, che mi inietta il farmaco, al quale faccio notare la situazione disastrosa, allarga le braccia e mi dice che ogni protesta (loro e nostra suppongo) è vana, perché l’azienda sanitaria non ha, da tempo, orecchie per sentire alcuna lamentela.

    La rassegnazione che colgo tra tutti gli astanti è imbarazzante, sono l’unico che prova a far notare l’evidente stato di degrado e conseguente disagio, e ancora una volta mi sovviene che su questa rassegnazione una intera generazione di politici ha costruito le proprie fortune elettorali e che il tempo di qualsiasi vera, efficace protesta è stato sostituito da qualche, inutile, invettiva sui social media.

    Lamezia airport 2021

    Mi attraversano, come in un film, i fotogrammi di una infinita serie di recenti situazioni di degrado calabrese, abbandono, precarietà e ordinarietà: le baraccone di plastica, posticce, dell’aeroporto di Lamezia, altro presunto “hub internazionale”, nate provvisorie e divenute permanenti, e nelle quali si stipano, ormai da anni come sardine i passeggeri; le sale di attesa delle stazioni ferroviarie, spoglie, disadorne, male arredate; i pronto soccorso dei diversi ospedali; gli atri di gran parte degli uffici pubblici, con segnaletica posticcia, arredi rabberciati, personale svogliato e poco educato a ricevere e accogliere…

    Calpestare la bellezza

    E poi ancora, ovunque, auto in terza fila, buche per le strade, autobus che non passano mai, intonaci cadenti, facciate dai colori sbiaditi. Persino i “salotti buoni” di Cosenza, lungo il Corso, e dei lungomare di Reggio, di Catanzaro, appaiono posticci, sbrecciati, mal rifiniti e senza alcuna costante manutenzione. Persino i resti “nobili” di un glorioso passato, come la colonna superstite di Crotone, circondata dal cemento insieme a tutta l’area archeologica, il sito dell’antica Sibari tagliato in due dalla statale 106 (statale, si noti!), con le sale del museo che sembrano il residuo di un vecchio e decrepito deposito ottocentesco di reperti.

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    Rifiuti a Lungocrati, sullo sfondo la chiesa di San Domenico a Cosenza
    Un modello turistico perdente

    E per completare il tour basta andare nelle “ridenti” località silane, Camigliatello su tutte, e trovarsi nel mezzo di un bazar confuso e sconclusionato di oggetti caotici, che occupano lo spazio pubblico del “corso”, senza dignità estetica, regole e buon senso, e che lasciano immaginare la qualità di un modello turistico che altamente competitivo non è mai stato e mai lo diventerà.

    Cittadini insensibili ai beni comuni

    Il degrado, l’abbandono, l’incuria, la sciatteria dei luoghi, in Calabria, hanno tuttavia, almeno una triplice matrice: cittadini insensibili ad ogni minimo impegno civico che comporti una pur minima assunzione di responsabilità verso “ciò che non è mio”, ma è di tutti, amministrazioni pubbliche totalmente distratte da ben altre emergenze quotidiane per le quali questo genere di attività educative, e anche repressive quando necessario, sono del tutto secondarie. Le scuole che non formano più cittadini, ma più o meno scolari-studenti indirizzati alla nozione, a qualche superficiale conoscenza di programmi antiquati, nei quali e attraverso i quali è difficile far comprendere che essere buoni cittadini, colti e sensibili, preparati, farà buone città, buone comunità, buoni luoghi di vita, buone, sane nuove economie circolari.

    I nuovi barbari

    E’ un degrado fisico e sociale, dunque, ma è soprattutto culturale per aver smarrito la guida di una civiltà e bellezza millenarie, dai Greci in poi, aver rimosso la cultura contadina e la sua sobria eleganza e semplicità ed essersi tuffati a capofitto nelle pieghe di questa modernità malata e scomposta, finta, che genera ondate di nuovi barbari, insensibili, maleducati, assuefatti al brutto e all’indifferenza.

  • L’ambiente ferito: dal mare sporco ai roghi assassini

    L’ambiente ferito: dal mare sporco ai roghi assassini

    In Calabria non ci facciamo mancare proprio nulla. Dalle terre dei fuochi nel Nord della nostra regione fino all’Aspromonte che brucia. Un inferno che è durato per molti giorni tra quelle foreste. L’ex Legnochimica di Cosenza continua ad essere uno dei tanti problemi irrisolti. Senza dimenticare l’incubo navi dei veleni. Mentre il mare, puntualmente, ci restituisce quello che non ci buttiamo dentro: liquami e rifiuti. Quella striscia che non è fioritura algale come ha sempre detto l’assessore Orsomarso. E l’ex assessore all’Ambiente? Il Capitano Ultimo ha inciso poco. Al di là dei suoi tanti annunci.

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