Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

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Promulgato il 16 marzo 1942, con la previsione che sarebbe entrato in vigore nel giorno del Natale di Roma, il successivo 21 aprile, il Codice civile italiano veniva preannunciato nel 1939 da Vittorio Emanuele III – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni – come il coronamento dell’opera di codificazione mussoliniana, già avviata con i codici penale e di procedura penale, che nel nuovo testo, secondo il regale avviso, avrebbe assunto “particolarissima importanza” soprattutto nella disciplina “del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza, alla quale il regime ha dato sin dall’inizio le sue più costanti energie”. Basti ricordare che nell’anno precedente il monarca non ebbe alcuna difficoltà a promulgare le leggi razziali, per comprendere come il passaggio del discorso appena ricordato dimostri, se ve ne fosse bisogno, che quelle ignominiose leggi erano pienamente condivise e non subite dal promulgante.

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Il Codice civile del 1942

Codice civile, un testo fascista

Esaltato come tale, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale lo definiva “superba conquista della civiltà fascista”, narrandone le innovazioni e gli aggiornamenti determinati, rispetto alla “vecchia legislazione”, dall’influsso delle idee della “nuova civiltà nazionale e fascista”. Insieme al codice di procedura civile, a quello della navigazione e alla legge fallimentare – si diceva certo l’alto magistrato – “entrando in attuazione nel mentre la guerra infuria, queste leggi costituiscono un potente strumento di compattezza e di resistenza morale e politica e danno una base salda e duratura alle realizzazioni dell’immancabile vittoria, che schiuderà all’Italia nuovi spazi vitali nel mondo”.

Una profezia fallace

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La firma dello Statuto Albertino

Nel luglio 1943 cade il fascismo, il monarca prima plaudente fa arrestare Mussolini, la guerra è persa e viene firmato l’armistizio. Viene soppresso l’ordinamento corporativo, indicato fra le fonti del diritto nella prima disposizione preliminare al codice civile, ma il codice sopravvive intonso fino al 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, che sostituisce alla posizione centrale dell’ordinamento giuridico, in precedenza (i.e. Statuto albertino) assunta dall’autorità statuale (che poteva, ad esempio, permettersi anche di varare leggi razziali), i diritti naturali della persona umana, inviolabili da chiunque, anche dallo Stato.

La rivoluzione copernicana del nuovo Codice civile

Una vera e propria rivoluzione copernicana che, ponendo al centro la persona, afferma le libertà del cittadino, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, contemperandole con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); dichiara la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro eguaglianza, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, assegnando alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).

Tale rivoluzione mette in discussione l’impianto stesso del codice civile, che tuttavia non viene rimosso dal legislatore ordinario e continua a regolare la vita dei cittadini ed i loro rapporti, quasi che l’impatto costituzionale dovesse riguardare prevalentemente il diritto pubblico (quod ad statum rei romanae spectat), ma meno incisivamente il diritto privato (quod ad singulorem utilitatem). Si teorizza che le norme costituzionali hanno soprattutto carattere programmatico, riservando al legislatore il compito di attuarle con nuove leggi. Inizia in tal modo il percorso, oggi giunto al compimento degli ottanta anni, attraverso il quale il codice, navicella costruita per navigare nel mare del sistema corporativo e del regime autoritario, affronta la sfida della navigazione in tutt’altro mare e con punti cardinali mutati.

Ottant’anni di cambiamenti

In questi ottanta anni sono intervenute sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di singole norme, ma non sono mancate riforme legislative parziali, che però hanno mutato l’assetto di specifiche materie senza incidere sull’impianto generale. La materia del lavoro, ad esempio, rimasta orfana dell’ordinamento corporativo, non ha conosciuto una riforma del codice ed è stata affidata alla legislazione speciale e alla contrattazione collettiva, con la mutevolezza che ne è derivata nelle diverse stagioni politiche. Viceversa la materia commerciale, che aveva trovato dimora nel codice civile per “scelta fascista” (nella codificazione ottocentesca esistevano due distinti codici: quello civile e quello di commercio), è stata mantenuta a dimora e tuttavia riformata più volte soprattutto con riferimento al diritto societario.

Il Codice civile e le famiglie

Laddove l’azione riformatrice è stata più incisiva, nel diritto di famiglia, il progresso è stato molto lento. Ci sono voluti ventisette anni, nel 1975, evidentemente sull’onda del referendum popolare del 1974 che ha respinto le istanze di abrogazione della legge sul divorzio, perché il legislatore si decidesse a porre mano all’art. 144 (Potestà maritale) che, in contrasto con il principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dall’art. 3 Cost., recitava: “il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

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Cittadini in piazza contro l’abrogazione del divorzio

Le ragioni di tanto ritardo sono tutte culturali e non hanno mancato di influenzare persino i lavori dell’Assemblea Costituente, se nel testo dell’art. 29 della Costituzione è dato leggere, con chiaro riferimento alla norma del codice allora vigente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come dire: una sorta di autorizzazione al legislatore ordinario a perpetrare discriminazioni della donna che infarcivano il codice sopravvissuto al fascismo, facendo prevalere il bene dell’unità familiare, costi quel che costi alla felicità delle persone, sulla parità di diritti e doveri dei coniugi.

Per non parlare poi del discrimine tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenze di fatto (che ha trovato un accomodamento con la legge sulle unioni civili nel 2016), tra figli legittimi e naturali (equiparati solo nel 2012), ed ancora tra matrimonio e unioni civili (per le quali il legislatore che le ha istituite nel 2016 si è preoccupato di marcare la differenza con il matrimonio escludendole dal dovere di fedeltà).

Tante norme immutate

A fronte delle riforme alle quali si è fatto cenno, che sono intervenute in questi ottanta anni, la maggior parte delle norme del codice sono rimaste immutate. Ciò riguarda interamente il diritto delle successioni, quasi integralmente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, l’impianto del diritto delle obbligazioni e del contratto in generale. Tante innovazioni sono state apportate, senza modificare le norme del codice, attraverso la legislazione speciale, per cui si è formata una normativa parallela che ha disciplinato settori come, ad esempio, il diritto delle assicurazioni ed i contratti dei consumatori, introducendo principi e regole divergenti da quelle codicistiche.

Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti

Un settore che soffre in particolar modo del mancato adeguamento del testo normativo al mutamento della realtà economica e sociale è quello della responsabilità civile. In esso, ma non è il solo, al legislatore si è sostituita la magistratura che, assolvendo ad una funzione di supplenza, non sempre virtuosa, ha iniziato persino a ”creare” norme non scritte nella legge.

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La cosiddetta giurisprudenza creativa è oramai una realtà ineludibile, frutto di carenze imputabili ad un legislatore sempre più distratto e sempre meno tempestivo nel cogliere i mutamenti della società e le esigenze di regolazione di fenomeni nuovi (si pensi all’impatto che stanno determinato nella vita di tutti noi le nuove tecnologie e le intelligenze artificiali). Fenomeni che non possono trovare adeguata disciplina in un codice civile che, al netto delle riforme parziali intervenute, è in gran parte rimasto immutato in questi ottanta anni. Un codice prodotto dal fascismo, costituzionalizzato alla meno peggio, sempre meno pronto a garantire la certezza del diritto, vecchio di ottanta anni. E li dimostra tutti.

Vincenzo Ferrari
Avvocato e Professore di Diritto Privato nell’Università della Calabria