Nel cuore pulsante del Mezzogiorno, dove il sole brucia la terra e il mare sussurra antiche storie, Gianni Berengo Gardin ha posato il suo sguardo, un occhio che non si limita a vedere, ma a narrare. È vissuto 94 anni, il maestro della fotografia italiana ci ha lasciato un’eredità che si lega profondamente col Sud, e in particolare con la Calabria, terra di contrasti e di verità nude, che egli ha saputo cogliere con la sua Leica, strumento di un artigiano che si definiva tale, rifuggendo l’etichetta di artista. “La foto migliore è quella che ha più cose da dire”, diceva, e nel Mezzogiorno ha trovato un universo di parole silenziose, di gesti quotidiani, di paesaggi che parlano di resistenza e di bellezza ferita.
Berengo Gardin, veneziano d’adozione ma nato a Santa Margherita Ligure, era un antropologo dell’immagine, un poeta della realtà che, con il suo bianco e nero, ha dato voce a chi non l’aveva. Il suo rapporto col Sud è stato un dialogo costante, un viaggio d’amore e di impegno civile, come testimoniano i suoi scatti a Capocolonna, Pentedattilo, Stilo e il suo legame speciale con il festival di Corigliano Calabro Fotografia. La Calabria, con le sue rughe di storia e le sue cicatrici di modernità, è stata per lui non solo un soggetto, ma un interlocutore, un “luogo” dove il suo obiettivo si è fatto specchio di un’umanità viva e complessa.
A Capocolonna, nel crotonese, Berengo Gardin ha fotografato l’anima di una terra che si aggrappa alla sua eredità greca, alla sua identità sospesa tra mito e abbandono. Qui, il suo sguardo ha colto il silenzio di un paesaggio che racconta millenni, ma anche la fatica di chi lo abita, di chi vive ai margini di un Sud spesso dimenticato. A Pentedattilo, il borgo fantasma aggrappato alle rocce della costa jonica, ha immortalato le pietre che sembrano parlare, le case abbandonate che custodiscono memorie di vite passate, in un bianco e nero che rende eterno il tempo sospeso. E a Stilo”, culla della Cattolica e di un Medioevo che ancora respira, ha catturato la spiritualità austera di una Calabria che si erge fiera, nonostante le sue ferite.
Il suo legame con la Calabria si è consolidato attraverso il Festival di Corigliano Calabro Fotografia, che ha contribuito a fondare nel 2003 e dove tornava ogni anno, come un pellegrino della luce, per “respirare fotografia”, come lui stesso diceva. A Corigliano, non solo ha lasciato il suo segno con il progetto “Viaggio a Corigliano” (2004), un racconto visivo della città e dei suoi abitanti, ma ha anche incarnato un esempio per generazioni di fotografi, condividendo la sua visione etica e il suo rifiuto di un’estetica fine a sé stessa. “Non voglio interpretare, voglio raccontare”, ripeteva, e in Calabria ha raccontato una terra che non si arrende, che vive nei volti dei pescatori, nei mercati, nelle strade polverose, nei gesti semplici che diventano epici sotto il suo obiettivo.
Il Sud di Berengo Gardin non è mai stato un cliché, né una cartolina pittoresca. È un Meridione vivo, fatto di contraddizioni, di lotte, di dignità. La sua fotografia sociale, ispirata dai maestri della Farm Security Administration come Dorothea Lange e dai grandi della Magnum come Henri Cartier-Bresson, ha trovato da noi un terreno fertile per esprimere la sua missione: documentare l’uomo, la sua fatica, il suo ambiente. Le sue immagini del marchesato crotonese e della Locride sono frammenti di un’antropologia visiva che restituisce al Sud la sua complessità, lontano dagli stereotipi di arretratezza o folklore. Sono immagini che parlano di un Meridione che resiste, che si trasforma, che porta sulle spalle il peso della storia e la speranza del futuro. Berengo Gardin ha fotografato il Sud con la stessa passione con cui ha immortalato Venezia, i manicomi di “Morire di classe” o gli zingari di Palermo.
Ma in Calabria, forse, ha trovato qualcosa di unico: una terra che, come lui, rifiuta di piegarsi alla superficialità, che chiede di essere guardata con attenzione, con rispetto. Le sue foto di questa regione sono un canto d’amore e di denuncia, un invito a non distogliere lo sguardo da un Sud che, come lui diceva, “ha più cose da dire”. E oggi, mentre piangiamo la sua perdita, quelle immagini continuano a parlarci, a ricordarci che la fotografia, quando è vera, è un atto di giustizia, un abbraccio all’umanità.
