di Vittorio Beonio Brocchieri
A differenza di Salvini, io il Leonka non l’ho mai veramente frequentato. Forse per il mio moderatismo antropologico, se non politico, forse perché non era di zona o forse solo per snobismo. Comunque sia, è senz’altro un ammissione imbarazzante per un milanese della mia generazione e della mia collocazione. Questa mancanza non mi impedisce però di cogliere la gravità di quanto è successo nei giorni scorsi e queste righe valgano anche come tardiva riparazione.

Agosto, tempo di sgomberi
Lo sgombero agostano – una tradizione consolidata nel tormentato mezzo secolo di storia del centro sociale – rappresenta per Milano un secondo vulnus simbolico, dopo quello delle inchieste che a luglio hanno messo sotto i riflettori le opacità, per usare un eufemismo, della politica edilizia e urbanistica milanese. Tra i due episodi non vi è in apparenza alcun legame fattuale ma il loro combinato assume senza dubbio una forte valenza simbolica.
In fondo, a modo suo, anche il Leonka era parte di quel “modello Milano” oggi non poco ammaccato. Potremmo dire che se la presa in carico della politica urbanistica di Milano da parte della speculazione immobiliare costituisce la pars construens (è proprio il caso di dirlo) del “modello Milano” che si è imposto soprattutto nell’ultimo decennio, la chiusura brutale del Leoncavallo ne costituisce la pars destruens, con il provvisorio smantellamento di un luogo, di un istituzione, che aveva incarnato, da ormai molti anni un modo diverso di vivere e immaginare la città. Un ruolo simbolico che è andato ben oltre i confini dell’area metropolitana milanese, come dimostra il clamore nazionale che la decisione governativa ha sollevato.

L’arte è passata da quei luoghi
I murales del Leoncavallo non saranno forse “la Cappella Sistina della contemporaneità” secondo la definizione data a suo tempo da Vittorio Sharbi, e il centro sociale non è l’Accademia di Careggi ma dal Leonka sono passati artisti importanti. Gruppi come le 99 Posse, attori come Claudio Bisio, registi come Gabriele Salvatores e tanti altri. Da tempo il centro sociale aveva diluito il carattere radicalmente antagonista delle origini per acquistare quello di centro plurale di aggregazione, di socialità e di creatività ad ampio spettro rivolto alla città nel suo complesso ma in primo luogo a un quartiere, Greco, che ha da tempo smarrito la sua natura di quartiere operaio e, nell’attesa dell’inevitabile gentrificazione, appare in unancondizione di vita sospesa, fra senza tetto accampati lungo la Martesana, discariche semiabusivi, bar anonimi e pochi negozi di prossimità che resistono contro ogni
ragionevolezza economica.
Il Leonka era un luogo di vitalità e resistenza
In questo panorama se non proprio desolato, quanto meno melanconico, il Leonka era forse l’unico elemento di vitalità, oltre ad essere, checché ne dicano ministro e governo, un vero e proprio presidio di legalità. Si potrebbe dire che il Leoncavallo rappresenti un esempio riuscito di “istituzionalizzazione del carisma” del ’68.

Il perché dello sgombero
Perché dunque lo sgombero e perché ora? Apparentemente non c’era alcuna fretta. Lo sgombero ufficiale era previsto per il 9 settembre ed entro quella data probabilmente una soluzione consensuale sarebbe stata trovata. Come ricorda Mirko Mazzali, avvocato storico del Leoncavallo di altri centri sociali milanesi, “era in atto un percorso per trovare in maniera legittima un altro luogo dove il Leoncavallo avrebbe potuto proseguire la sua attività”.
Ma una soluzione pacifica e condivisa è appunto ciò che vi è voluto impedire. Il fatto che lo sgombero sia, ancora una volta avvenuto ad agosto, a “borse chiuse”, non ha avuto lo scopo di mettere la sordina a un’iniziativa controversa, approfittando della distrazione vacanziera dell’opinione pubblica, ma, al contrario, quello di precedere e rendere più difficile questa soluzione “incruenta”, con vantaggio aggiuntivo di cogliere di sorpresa attivisti e frequentatori del centro sociale che in effetti in quel momento era deserto, chiuso per ferie, rendendo sproporzionato e un po’ ridicolo l’imponente spiegamento di forze.
“Legge e ordine”, ma non solo
Dunque il clamore era previsto e voluto. Il ministro Piantedosi e la presidente del consiglio Meloni hanno infatti immediatamente rivendicato il significato politico dell’iniziativa, richiamandosi in prima battuta al dovere, primario per un governo di destra “law and order”, di ristabilire la legalità violata per decenni. Ma al di là di questo sono all’opera motivazioni e pulsioni più profonde. Chiudere il Leoncavallo significava che un’altra roccaforte dell’”egemonia culturale della sinistra” era stata finalmente espugnata.
Il revanscismo è infatti, fin dalle origini, un tratto caratterizzante della destra radicale italiana, più o meno esplicitamente erede del fascismo. Questa destra ha vissuto e vive la conquista del potere politico come l’occasione di una rivincita della sconfitta subita nella guerra civile del ’43-’45 e dell’emarginazione, politica e culturale, vissuta nei decenni della prima repubblica.
Dopo aver occupato quasi tutte le poltrone disponibili nei vari musei, società scientifiche, canali televisivi, mostre e, naturalmente, la scuola, si è voluto dimostrare che non esistono zone franche, santuari, “repubbliche partigiane” intoccabili.

“il gramscismo di destra”, ovvero l’egemonia politica che impone quella culturale
A ciò si aggiunge l’influenza più recente del “gramscismo di destra” e della volontà di dare consistenza e durata, e anche una certa presentabilità, alla conquista di questo stesso potere politico. Nella prospettiva originaria, l’egemonia culturale avrebbe dovuto essere la premessa per la conquista dell’egemonia politica. Oggi l’ordine dei fattori è invertito. È l’esercizio del potere politico che consente di imporre una “nuova narrazione” dell’identità culturale italiana. Non è stato forse abbastanza sottolineata la novità di un governo di uno stato democratico esplicitamente impegnato in uno sforzo di riorientamento culturale. Non si tratta dell’azione di promozione pluralistica della cultura, ponendo le condizioni – materiali innanzitutto – che favoriscano il lavoro di artisti e intellettuali, ma di un vero e proprio kulturkampf che intende promuovere contenuti specifici, riplasmare la cultura nazionale. Negli ultimi anni, a questi fattori “autoctoni” si è aggiunta la suggestione potente
di alcuni modelli di importazione.
La tentazione delle destra di spegnere le voci libere
Quello dell’ungherese Orban, e quello – ben più sostanzioso – trumpiano, con l’assalto lanciato a giornali, editori, università, musei e altre istituzioni culturali ma anche singole personalità, considerate ostili e infettate dal “wokismo” e dal “politically correct”. Certo, si parva licet… C’è chi dichiara guerra ad Harvard e alla Columbia, e chi maramaldeggia con il Leoncavallo. Il principio però resta il medesimo. Poiché produrre una egemonia culturale conservatrice e tradizionalista, in sostituzione non solo di quella “di sinistra” ma più ampiamente liberale-progressista, non è compiuto facile, data anche la qualità non sempre eccelsa del materiale umano a disposizione, si preferisce cominciare con il occupare, intimidire o smantellare luoghi e istituzioni avvertite come nemiche. Dunque la questione Leoncavallo è senza dubbio una questione in primo luogo nazionale e non semplicemente milanese. Credo però che un obbiettivo, forse secondario ma non trascurabile, del governo ci sia stato anche quello di mettere ulteriormente in difficoltà la giunta di centro-sinistra in un momento in cui già naviga in acque agitate. Il sindaco Sala, a quanto sembra, non era stato preavvertito dello sgombero imminente.

La giunta Sala e la sinistra non sono innocenti
In questo senso, un legame fra le due vicende dell’estate milanese effettivamente c’è e se le responsabilità del governo in questa triste vicenda sono evidenti, una parte della colpa ricade anche sulla giunta di centro- sinistra e, più in generale, sulla sinistra, milanese e no. Come nel caso delle vicende edilizie e urbanistiche, giunta e partiti, hanno dato l’impressione di essere poco incisive, assenti. Una città con le risorse, non solo economiche, come Milano, una soluzione positiva, in tutti questi anni avrebbe potuto e dovuto trovarla.
