Fuck gentry. La scritta è apparsa di fronte a casa mia, in zona Navigli a Milano, circa un anno fa. Per i pochi che, come me, fanno di mestiere gli storici della prima età moderna, gentry è una parola con un significato tecnico piuttosto preciso: designa la piccola e media nobiltà inglese dell’età dei Tudor e degli Stuart, e a lungo gli studiosi si sono aspramente divisi sul ruolo che il suo presunto declino, o la sua altrettanto presunta ascesa, avrebbe avuto nelle rivoluzioni inglesi e nell’ascesa della Gran Bretagna a potenza egemone.
L’autore del graffito non era però probabilmente interessato a questo dibattito storiografico oggi dimenticato.
Il riferimento evidente è invece a un termine introdotto dalla sociologia urbana negli anni ’60 del secolo scorso – gentrification – che sta a indicare la trasformazione di quartieri popolari in zone abitate da famiglie benestanti, borghesi. Quindi potremmo tradurre il nostro slogan di apertura con “fotti la borghesia”. Un po’ brutale, poco filologico ma tutto sommato pertinente.

Rigenerazione è un po’ gentrificazione
La riqualificazione sociale di aree estese della città ha comportato una mutazione profonda del paesaggio sociale urbano. Quartieri operai o piccolo-borghesi e anche vere e proprie zone industriali, sono diventate aree residenziali ambite, con valori immobiliari crescenti e gli abitanti originari sono stati sostituiti da professionisti e manager.
Il progetto di rigenerazione, lo slogan delle giunte di centro-sinistra guidate dal sindaco Sala, si è risolto di fatto in una massiccia e brutale gentrificazione. La zona in cui abito, quella della scritta, vicina a università prestigiose come la Bocconi, la Nuova Accademia di Belle Arti, e lo IULM e terra d’elezione della movida, è stata, ed è, particolarmente interessata a questi sviluppi. Quando mi ci sono trasferito, una quindicina di anni fa, il mio condominio di ringhiera “Vecchia Milano” conservava ancora un sentore di Ponte della Ghisolfa: un insediamento prevalentemente popolare, con al centro un cortile nel quale resistevano ancora piccoli laboratori artigianali: una falegnameria, un timbrificio, un carrozziere. Oggi lo stabile è abitato in prevalenza giovani upper-middle class e molti degli alloggi sono affittati a studenti universitari o destinati ai molto remunerativi affitti brevi per i turisti che sempre più numerosi approdano a Milano.

Nel nostro quartiere molti negozi “di prossimità” hanno nel frattempo chiuso le saracinesche e poco lontano sono sorti nuovi, costosi, complessi residenziali di qualità e appunto, istituzioni come la citata Naba, nell’area dell’ex glorioso istituto sieroterapico, dove vennero messi a punto i vaccini contro la difterite e la “spagnola”. La terziarizzazione e l’imborghesimento – la gentrificazione – sembrano dunque avanzare inarrestabili, in questa come in altre zone della vecchia Milano, dalla Bovisa al Casoretto, ad Affori e così via. Come mostra l’esperienza storica, “fottere la borghesia” non è affatto facile. E, forse nemmeno sempre auspicabile.
Cara piccola borghesia
D’altra parte c’è borghesia e borghesia e questo termine, così carico di implicazioni politiche, etiche e perfino estetiche, deve essere sempre maneggiato con prudenza. Dagli anni del boom economico a oggi la borghesia milanese – e quella italiana – è inoltre cambiata profondamente. Innanzitutto ha dilatato le sue dimensioni, e anche per questo ha reclamato sempre più spazio in una città in fondo piccola. Uno spazio che sta andando ben oltre la Cerchia dei Navigli e quella dei Bastioni. Una crescita che oggi è alimentata soprattutto da un flusso di immigrazione “di qualità” proveniente dal resto d’Italia e, in piccola parte, del mondo globale.
La capacità di cooptazione, di inclusione è stata caratteristica centrale del dinamismo sociale degli anni del boom e anche in stagioni precedenti. Dai tempi, nel caso di Milano, della borghesia “gaddiana”, quella “dei Caviggioni, Perego, Lattuada, Garbagnati, Ghezzi, Corbetta, Trabattoni, Gavirazzi, Santambrogio, Cavenaghi, Freguglia…”. Ma forse si potrebbe risalire anche più indietro, ai tempi in cui la gentry, la classe dominante milanese, aveva effettivamente un carattere nobiliare.

Si trattava però di una nobiltà relativamente aperta, nelle cui fila nel corso dei secoli si erano intrufolati borghesi di successo che erano stati nel complesso ben accolti, dando origine a una élite composita, in parte ancora nobiliare ma sempre più borghese, che nell’ultimo quarto dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento ha saputo tutto sommato gestire piuttosto efficacemente il dinamismo, non solo economico ma anche culturale, di Milano. Lo stesso patriziato milanese aveva dato, ancora nella stagione del secondo dopoguerra, contributi di primissimo piano, basti pensare a un architetto come Alberico Barbiano di Belgiojoso e a un regista come Luchino Visconti.
La nuova élite
Ecco qui qualcosa è cambiato. La nuova élite nata con il boom e consolidatasi nei decenni successivi è diversa. Due aspetti mi sembrano meritevoli di particolare attenzione. Innanzitutto questa nuova gentry è meno legata alla città e al territorio, sia per provenienza che per destinazione, rispetto alle vecchie élites, vincolate alla terra prima e poi alla fabbrica, oltre che alle residenze di villeggiatura in Brianza o sui laghi.
La nuova borghesia che gravita – la parola non è scelta a caso – su Milano, ha “spazi investiti” e “spazi vissuti” molto più ampi ma il suo rapporto con la città è provvisorio, legato per lo più a una fase della vita professionale e famigliare.
Milano è di frequente solo un tappa di un percorso di mobilità complesso e internazionale. Istituzioni di formazione, pur prestigiose, come la Bocconi o il Politecnico, possono essere un punto di approdo – provvisorio – per molti giovani di altre parti d’Italia, ma per i rampolli della borghesia milanese già consolidata sono solo il punto di partenza verso altri, per più importanti, snodi del network delle città globali: Londra, New York, Amsterdam, Berlino… Milano ha dimostrato di drenare molto efficacemente capitali, anche umani, dal resto d’Italia, ma risente a sua volta della capacità di attrazione esercitata da questi centri sui suoi abitanti più ricchi e dinamici. La nuova élite in una certa misura si limita a transitare per la città, strumentalizzandola.
Conservatorismo felpato
A questa nuova apertura globale, fa inoltre riscontro una maggiore chiusura sociale e ambientale di questo universo sociale pur dai contorni sfumati. La componente più affluente della nuova Milano ha più dimestichezza con le realtà europee e mondiali citate che con il mondo al di là delle cerchie che tradizionalmente delimitano la città, il che implica anche una crescente estraneità fra le diverse componenti sociali.
Finita la grande stagione della mobilità ascendente degli anni 50-70, con l’arruolamento di ampi strati della media e piccola borghesia, la nuova gentry milanese nonostante, o forse proprio in virtù del suo ostentato cosmopolitismo e apertura culturale, presidia in realtà con molta attenzione le frontiere, materiali e immateriali, del suo mondo, allontanando, o quanto meno selezionando attentamente, i nuovi aspiranti. In larga misura la sua autodefinizione è senza dubbio progressista, ma questo progressismo culturale, anche sincero quando si parla di ambiente e diritti della persona, va di pari passo con un conservatorismo felpato ma in sostanza intransigente quando si tratta di diritti sociali.
Milano e suoi margini
Tra la gentry e la maggior parte della popolazione – soprattutto quella che è dovuta defluire nelle periferie e nell’hinterland – è cresciuto un sentimento di estraneità, quasi di ostilità, reciproca e profonda. Da un parte un sentimento di superiorità venato di disprezzo e, nel migliore dei casi, di paternalismo, dall’altra, quelli degli sconfitti, allontanati dalla “rigenerazione” promossa dalla speculazione immobiliare, un rancore, o se si vuole un’invidia sociale, alimentata dal senso di declino e dalla mancanza di prospettive. Paradossalmente, la coesione sociale della città appare più fragile oggi che nella turbolenta fase finale dei “trenta gloriosi”, quando pure le contrapposizioni sociali, politiche e ideologiche si erano, anche a Milano, manifestate con molta asprezza.
Al tempo tuttavia almeno una parte, non piccola, della classe dirigente cittadina, erede di una tradizione illuminista e riformista, ma anche cattolica, sembrava disposta ad ascoltare, e in parte a far proprie, le istanze di rinnovamento ed equità sociale.
Questo mi sembra, in una sintesi, il panorama che fa da sfondo alle vicende politico-giudiziarie di questi giorni. Al di là del glamour, degli aperitivi, della movida e della moda, e soprattutto al di là della finanza, la vitalità di Milano sembra poggiare su fondamenta piuttosto precarie. La città svolge ancora la sua funzione tradizionale di punto di ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’Occidente. Ciò che non riesce più a fare, a differenza del passato, è trasformare questa capacità in una forza propulsiva – economica, ma anche culturale e politica – per il Paese nel suo complesso.
Vittorio Haijme Beonio Brocchieri
Docente di Storia Moderna, Dispes Unical
