“Qui la ‘ndrangheta non entra”, d’accordo, ma forse nemmeno le persone perbene, sempre ammesso che i giornalisti lo siano (i dubbi, in certi casi, sono leciti).
Ha fatto molto discutere, negli anni, il cartello affisso davanti a una delle entrate del Consiglio regionale, quello che si prefiggeva di essere un divieto perentorio poi diventato piuttosto ridicolo, alla luce dei tanti arresti per mafia che, nell’ultimo decennio, hanno coinvolto i politici calabresi.

Bunker e propaganda
Gli eventi hanno trasformato quell’avviso in mera propaganda del tutto staccata dalla realtà, perché il virus ha infettato eccome il Palazzo reggino. L’emergenza Covid è invece riuscita a blindare “la casa dei calabresi” contro qualsiasi influenza esterna, tramutandola in una specie di bunker quasi inaccessibile. Dallo scoppio della pandemia, il Consiglio è praticamente off limits per il «pubblico», termine ampio in cui sono inclusi pure i giornalisti, cioè quei “lavoratori dell’informazione” che dovrebbero avere il diritto/dovere di seguire le sedute dell’assemblea e di darne conto – a modo loro – ai lettori/elettori.
La stretta, introdotta una prima volta nella scorsa legislatura dall’allora presidente, Mimmo Tallini, è stata riconfermata, in forme diverse, dai successori Giovanni Arruzzolo e, infine, da Filippo Mancuso. Così oggi alle sedute possono partecipare solo gli eletti e i dipendenti del Consiglio da cui dipende il funzionamento dell’aula. Niente «pubblico», insomma, da circa due anni.
Niente pubblico nel bunker
Arruzzolo ha ribadito il divieto di accesso lo scorso 13 ottobre, con una deliberazione che permetteva l’accesso al Consiglio solo alle persone in possesso del green pass. Ordine poi prorogato fino al 31 marzo 2022, «e comunque fino al termine di cessazione dello stato di emergenza», con un atto datato 29 dicembre e firmato da Mancuso. Tutto perfettamente regolare e in linea con le normative nazionali, se non fosse per quel paragrafo, il numero 10, che in pratica non consente al «pubblico» di assistere «ai lavori dell’Aula».

Un’aggiunta controversa e che, peraltro, non trova giustificazione se paragonata a quanto avviene in Parlamento, come Mancuso dovrebbe ben sapere. L’attuale numero uno di Palazzo Campanella è stato uno dei tre delegati calabresi che hanno partecipato al voto per la Presidenza della Repubblica. E avrà certamente notato che – oltre a essere state riorganizzate per aumentare il numero dei posti a disposizione dei grandi elettori e garantire così il distanziamento – a Montecitorio le tribune non sono mai rimaste chiuse né alla stampa né al resto del «pubblico». Giornalisti e operatori hanno così potuto svolgere il loro lavoro pur nel rispetto di precise norme anti-Covid.
Restrizioni alla calabrese
Il Consiglio calabrese, invece, non solo non si è adeguato al Parlamento, ma continua a mantenere in vigore disposizioni molto più restrittive, laddove il green pass, una diversa regolamentazione degli accessi e posti distanziati potrebbero assicurare la presenza del pubblico e, in particolare, della stampa. Fonti qualificate della Presidenza spiegano che si tratta di «misure precauzionali emanate per tutelare la salute dei consiglieri e dei dipendenti». L’aula non disporrebbe degli spazi necessari per assicurare il distanziamento. Motivazioni che, tuttavia, non convincono del tutto. A parte gli scranni in sovrannumero destinati ai 30 consiglieri (fino al 2014 l’aula ne ospitava 50), le due tribune per la stampa dispongono di decine di posti e sono ben separate sia da quella dove siede il pubblico sia da quella in cui operano gli addetti alla registrazione delle sedute.
La casta non c’entra
Tanto per eliminare ogni sospetto, va detto che il divieto di accesso per i giornalisti non lede solo le prerogative di una categoria che, spesso, è capace di produrre odiose e autoreferenziali rivendicazioni degne di un’altra casta, quella dei politici, ma colpisce, in primo luogo, il diritto dei cittadini di essere correttamente ed esaurientemente informati su quello che succede nella massima assemblea elettiva regionale.
Oggi le informazioni sono garantite solo dai resoconti scritti dai tecnici del Consiglio e dalle dirette – camera sempre fissa solo su chi interviene in aula – su Youtube. Un giornalista, magari, potrebbe annotare anche altro: i soliti capannelli bipartisan prima dell’approvazione di una certa legge, i conciliaboli da compagnoni tra presunti avversari, le determinazioni dei consiglieri sui singoli provvedimenti, considerato che ancora non esiste – malgrado i buoni propositi del passato – il voto elettronico.
Sono tante le spigolature che potrebbero essere funzionali a una narrazione autentica. Particolari, piccole nuance, che spesso non aggiungono nulla alla trama, ma che, a volte, possono dire molto, molto più di quel che i governanti vorrebbero. Le caste, si sa, di solito amano scegliere in che modo e in che forme raccontarsi.
I compari e la stampa
L’insofferenza nei confronti della stampa si è di certo acuita negli ultimi anni, in particolare dopo la frase – registrata dalla trasmissione Annozero di Michele Santoro – pronunciata dall’allora consigliere Franco Morelli mentre abbracciava il collega Mimmo Crea: «Il compare del tuo compare è anche mio compare». Quel servizio fece scoppiare un pandemonio che finì per screditare tutta l’istituzione regionale, anche perché, di lì a poco, sia Crea sia Morelli finirono in carcere per i loro legami con la ‘ndrangheta, poi confermati da condanne definitive. Da quel momento in poi, i giornalisti hanno avuto una libertà di movimento limitata alle sole tribune, cioè a distanza di sicurezza dai consiglieri.

L’emergenza attuale non ha fatto altro che favorire una nuova (forse da tempo desiderata) stretta. E forse, allora, val la pena di ricordare Verbitsky e il suo credo: «Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda». Val la pena di ricordare la disinformazione prodotta da quel famoso cartello. Val la pena di ricordare all’Ordine dei giornalisti di fare il suo mestiere. E val la pena di ricordare a Mancuso di aprire le porte e di lasciar perdere le botole.
