Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.
In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.
Anello, il boss imprenditore
Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.
Niente telefono, basta la moglie
Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.
Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.
Il finanziere coinvolto
Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.
Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.
Kalashnikov all’ufficio postale
Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».
Dal Tirreno allo Jonio
La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.
Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.
«Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».
«I capannoni degli Abramo»
C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».
Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.
L’erba con la Panda
Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».
