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  • MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

    MAFIOSFERA | Perché parlare di ‘ndrangheta è cultura italiana

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    Silvio Berlusconi disse una volta che a parlare troppo di mafia si danneggia la reputazione del Paese. Venne allora verbalmente redarguito dalle vittime di mafia e dalla società civile, eppure esprimeva un pensiero diffuso, nella politica così come nella società. Gianfranco Micciché, all’epoca candidato alla presidenza della Regione Sicilia, lo espresse con altrettanta decisione nel criticare la titolazione dell’aeroporto di Palermo: «Continuo ad essere convinto che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia. L’aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure che suscitano pensieri positivi».

    La Calabria a Londra

    Sulla metropolitana di Londra una sera di novembre mi trovo a chiacchierare con un signore italo-britannico. Abbiamo appena assistito alla proiezione di un film – Una Femmina – di Francesco Costabile, seguito da un dibattito con il regista collegato su Zoom dalla Calabria (sì, Francesco Costabile è di Cosenza).
    Il film, potente, nero e, direbbero in inglese, chilling, raggelante, è una storia di mafia che prende spunto dalla storia di Maria Concetta (Cetta) Cacciola e di altre donne ribelli raccontate dal giornalista Lirio Abbate nel suo libro Fimmine Ribelli. Racconta la storia di Rosa, una bambina che vive in Aspromonte e assiste, senza capire, all’omicidio di sua madre Cetta a opera della nonna e dello zio, e che una volta cresciuta, vuole vendetta nella sua famiglia di ‘ndrangheta.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Non è raro che a Londra si proiettino film di questo genere – indipendenti, emergenti. Complici un cinema che ama le gemme, il Garden Cinema, un festival, il Raindance, che da trent’anni si occupa di portare sul grande schermo promettenti lavori di artisti nascenti, e una comunità italiana locale appassionata e partecipe, la proiezione di Una Femmina ha seguito infatti A Chiara di Jonas Carpignano, che a luglio scorso aveva debuttato in UK nello stesso cinema. Anche A Chiara racconta una dimensione familiare e intima della ‘ndrangheta.

    ‘Ndrangheta e reputazione, il niet dell’Istituto di cultura

    Il signore italo-britannico sulla metro aveva assistito anche alla proiezione di A Chiara e in quell’occasione c’eravamo conosciuti. Ha letto il mio ultimo libro Chasing the Mafia (che racconta della mia ricerca sulla ‘ndrangheta nel mondo) e mi ha chiesto di autografarlo. E poi mi dice, senza forse rendersi conto del peso delle sue parole, che aveva parlato con un responsabile durante un evento all’Istituto Italiano di Cultura di Londra e aveva suggerito che si facesse un evento sulla ‘ndrangheta o sulla mafia, suggerendo che io potessi essere coinvolta nell’evento, magari aiutando a organizzarlo. Si era sentito rispondere, un po’ ridendo ma nemmeno troppo, che certo era interessante ma che forse l’Istituto Italiano di Cultura preferisce eventi che danno un’immagine positiva dell’Italia.

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    La sede londinese dell’Istituto di Cultura

    Certo, si possono fare eventi sulla commemorazione delle stragi – la memoria è positiva. Si possono fare eventi su questioni spinose della storia d’Italia – la storia è anch’essa positiva, quando affrontata come insegnamento. Ma parlare di mafia, di ‘ndrangheta, oggi, quello non interessa. Argomenti cupi, che restituiscono una pessima immagine dell’Italia e della Calabria, che rovinano la reputazione della regione e dunque del paese. Ovviamente non è questa un’accusa rivolta all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, anche perché non so con chi, intraneo o estraneo, è avvenuta la conversazione. Ma non è la prima volta che mi sento dire che parlare di ‘ndrangheta non è parte del concetto di ‘cultura’ italiana, non promuove la cultura calabrese. Mi venne detto anni fa dalla direzione di un altro Istituto Italiano di Cultura in Australia: «Interessante quello che fai, ma la ‘ndrangheta non è ciò che vogliamo chiamare cultura italiana».

    La Calabria che stupisce

    Falso. Il film Una Femmina è girato in Calabria, in un paese che dovrebbe essere in Aspromonte, ma è invece nel Pollino. Ci sono montagne immense, verde scuro, case diroccate e rovine, costruzioni aggrappate alla montagna e una natura dalla forza dirompente. Tra gli spettatori – italiani e non – ci si chiede dove siano quei posti, dove sia tutta quella bellezza. Si cantano canzoni popolari nel film, si balla la tarantella, si intonano litanie liturgiche. Gli spettatori sono ammaliati dalla musica, invasi dalla gioia delle danze, commossi dalle liturgie. Si chiedono, persone che di ‘ndrangheta e di Calabria nulla o poco sanno, com’è possibile che in una terra così bella succedano certe cose. Ci si indigna.

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    Un fotogramma di “A Chiara”

    Per il film A Chiara, una storia simile: c’è tutta la forza delle immagini del porto, del lungomare di Gioia Tauro, c’è la cittadina della Piana con le sue feste di paese, le celebrazioni familiari tra vino e musica. In quel caso, a chi assiste alla rappresentazione cinematografica viene da chiedersi come sia possibile che una cittadina con un porto che è il vanto del Mediterrano e una voglia di vivere prorompente nella musica e nell’intrattenimento, abbia una sorte così macabra.

    Dal letame nascono i fior

    E questo non succede solo per i film ben fatti. Succede per le serie tv e per i documentari, succede per i libri, quando hanno la capacità di raccontare la ‘ndrangheta, i suoi inferni privati e le sue bassezze umane all’interno di un contesto più ampio che si integra – non si separa – dalla Calabria, dalla sua bellezza ferita, dal suo potenziale inaspettato, dalla sua cultura centenaria e stratificata tra colonizzazioni, resistenza, autonomia e autoaffermazione. L’ho sperimentato io stessa, da calabrese, che non ha senso tentare di spiegare o studiare la ‘ndrangheta senza prima raccontare le incongruenze del fenomeno rispetto alla sua regione d’origine. La bruttezza vicino alla bellezza.

    Corrado Alvaro

    Grazie alla reputazione della ‘ndrangheta – quella stessa che, si badi bene, fomenta stereotipi negativi sui calabresi all’estero – l’arte produce cultura e il mondo conosce la Calabria e i suoi patrimoni. Si resta ammaliati dalla bellezza sugli schermi, si leggono la storia e le storie sui libri, si apprezza la civiltà e l’umanità del popolo calabrese, si ascolta il dialetto, si sfoglia la letteratura da Corrado Alvaro a Gioacchino Criaco, si ammira l’intraprendenza contadina.

    ‘Ndrangheta, Calabria e cultura

    Il problema non è che la ‘ndrangheta non sia cultura, e peggio ancora che distrugga la cultura e la bellezza della Calabria, o che rovini la reputazione dell’Italia. E il problema non è nemmeno che a furia di parlare di ‘ndrangheta, dell’organizzazione mafiosa più importante d’Italia e tra le più importanti al mondo, si oscura il patrimonio – positivo – della Calabria. Il problema è forse proprio il contrario. Che si insiste nel pensare alla ‘ndrangheta come corpo estraneo alla regione, un virus, una forza malvagia e aliena, dai confini chiari e precisi – diversa da noi – alimentata di uomini (e occasionalmente donne) il cui unico scopo è abusare del patrimonio e della ricchezza di una regione altrimenti bellissima e dal potenziale enorme.

    Friedrich Wilhelm Nietzsche

    Una rimozione che deriva forse dalla paura di identificarsi con il fenomeno stesso: se la ‘ndrangheta è figlia della sua terra e della sua cultura (in modo distorto e abusivo certo), cosa dice tutto ciò di noi Calabresi? Lo diceva bene Nietzsche: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’alternativa non può essere quella di evitare di guardare nell’abisso o di negare i mostri. Perché è nell’alternanza di ombra e luce, nelle guerre contro i mostri, nei racconti delle emozioni e nelle sublimazioni delle paure, è in questi spiragli che si fa cultura.

    Cicatrici di cui andare fieri

    Continuava Micciché su Punta Raisi: «Ritengo, comunque, che sia una scelta di marketing sbagliata… Non ci si presenta ai tanti turisti con il sangue di una delle più profonde e, ancora non sanate, ferite della nostra terra». Eppure, come ci ricorda la pratica nipponica del Kintsugi, la cultura aiuta a trasforma una ferita in bellezza: mostrare con orgoglio le cicatrici è solo un racconto sulla forza della resistenza e sulla voglia di riparazione.

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    Un esempio di Kintsugi
  • MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

    MAPPE | La guerra dei supermercati lungo l’antica strada consolare

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    «Anche via Popilia è Cosenza»
    (frase attribuita a Tonino Napoli, visibile su una recinzione di lamiera)

    Finirà che dovremo ringraziare la grande distribuzione per questo lento eppure costante processo di integrazione che interessa via Popilia, un processo che in vent’anni la politica a Cosenza non è riuscita a portare a termine.
    Ora che anche la Lidl ha aperto un supermercato sulla antica strada consolare romana, è ufficiale che non è bastato l’abbattimento della secolare linea ferrata per inglobare nel tessuto urbano ’a petrara (così detta un tempo in virtù dei ciottoli del fiume Crati che le scorre a est): i binari erano un diaframma che la isolava da un centro incredibilmente ravvicinato. E oggi di nuovo allontanatosi.

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    1910, Crati: Santa Maria degli Angeli e foresta, poi via Popilia

    Il rilevato ferroviario è stato sostituito da un viale ibrido (alberato ma anche asfaltato e con pista ciclabile ma anche pedonale) che continua a non avere pace tra annunci di restyling e cantieri sospesi e riaperti, anzi no; ma nel frattempo anche la presunta rinascita edilizia dei primi anni Duemila sembra fallita, con molti palazzoni in gran parte ancora vuoti e che iniziano a invecchiare seppur disabitati fin dalla costruzione.
    Oggi almeno si registra un ritrovato attivismo da ricondurre ai Bonus 110 sulle tante cooperative nate già da fine anni Ottanta. Fu quella la prima “riconversione” del quartiere (una scommessa di gentrificazione ante litteram), quando viale Parco era ancora un progetto – a cui però, evidentemente, i costruttori credevano.

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    Il vecchio rilevato ferroviario che separava via Popilia dal centro città

    Subito dopo, la diffusa colata di cemento del nuovo millennio non è servita a rendere via Popilia più vivibile: all’aumento della volumetria non ha fatto seguito un parallelo miglioramento dei servizi.
    La spazzatura accatastata all’ultimo lotto, a qualche decina di metri in linea d’area dai lussuosi appartamenti rendesi, è un simbolo perfetto di questo abbandono assoluto, che fa ancora più rabbia dopo la prosopopea dell’ultima campagna elettorale in cui si prometteva l’ennesima rinascita.

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    Rifiuti all’ultimo lotto di via Popilia a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perché se una legge non scritta della politica a Cosenza vuole da sempre che «le elezioni si vincono a via Popilia», alle ultime amministrative, questo elemento è apparso come qualcosa di più di una indicazione, rivelandosi piuttosto la conferma dell’esistenza di un blocco di consenso decisivo nel ballottaggio che ha incoronato Franz Caruso: proprio in nome della «attenzione per le periferie», o meglio per la periferia cosentina per antonomasia.

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    La protesta, organizzata dall’allora consigliere di maggioranza – diventerà assessore poco dopo, carica che riveste anche oggi nella Giunta Caruso – De Cicco contro il progetto di un campo rom a via Popilia

    Capannoni tutti uguali per salvare le periferie?

    Di certo questo isolamento non è attribuibile (solo) agli ultimi arrivati a Palazzo dei Bruzi.
    Viale Mancini e la bretella fantasma a est di via Popilia (ex via Reggio Calabria, con innesto sul ponte di Calatrava) rappresentano due simboli della più totale inadeguatezza amministrativa a Cosenza essendo, rispettivamente, un’eterna incompiuta e un cantiere che non parte mai: due confini più o meno immaginari – il primo incerottato d’arancione, il secondo solo tracciato – che corrono paralleli e continuano a condannare l’ex stradone popolare alla marginalità, a rimanere il ghetto che si credeva di aver cancellato – diciamo spostato nel ghetto/bis di via degli Stadi – oltre vent’anni fa con il “trasloco” della vecchia baraccopoli (dicembre 2001) e il viale Parco poi intitolato al sindaco che lo immaginò e ne inaugurò i primi spezzoni mentre era ancora in vita.

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    La baraccopoli demolita per volere di Mancini: il ghetto trasloca a via degli Stadi (foto Ercole Scorza)

    Di recente, un lunedì mattina in cui molti se le aspettavano proprio su viale Mancini – annuncio di due esponenti di giunta in una trasmissione tv –, le ruspe si videro spuntare nel tratto centrale della petràra. Veloci e aggressive come solo quelle di un privato, per di più forestiero, sanno essere.
    La tabella dei lavori conferma la vox populi di un nuovo supermercato Lidl e il polverone dovuto al livellamento del terreno, misto agli sventramenti di antiche palazzine basse e disabitate, ufficializza come conclusa la parabola che dalla guerra di mafia ha portato a una ben più innocua guerra dei supermercati, passando da quella del mattone: forse, quest’ultimo, un conflitto dormiente e sempre dietro l’angolo.

    Cosenza, i lavori per realizzare un nuovo supermercato a via Popilia

    I capannoni tutti uguali della Gdo si confermano dunque elemento antropico e urbanistico prima che commerciale eppure, in questo, via Popilia è solo l’ultima frontiera se si pensa ai tanti precedenti (EuroSpin e ancora Lidl su via degli Stadi, un’altra Lidl con annessa rotatoria lungo viale Principe a Rende solo per restare agli ultimi): perché, prima di diventare area degli acquisti per residenti e pendolari, questa era e rimane l’arteria delle scuole (anzi di recente si sono aggiunti lo scientifico e il geometra), delle farmacie che si spostano rinnovandosi e delle edicole che chiudono (aumentano solo quelle votive), dei presidi di legalità come la polizia stradale all’estremità sud e i carabinieri al confine nord, del carcere, dell’Agenzia delle entrate e del palazzetto dello sport.

    Gnugna e tressette, scommesse e munnizza: «Questa è la realtà»

    Qui, accanto alla Comunità Bethel, un orto si affaccia sulla strada dove le auto sfreccerebbero a 100 all’ora se non ci fossero i dossi in cemento più alti di Cosenza (due, ma fanno egregiamente il loro lavoro…): un gruppo eterogeneo gioca a carte nel cortile di quello che fu un frequentato centro per anziani.
    Il welfare ha da tempo abbandonato queste latitudini, come se la cementificazione avesse portato anche inclusione: l’associazione di volontariato “IoNoi” ha sede nei locali della fu VII circoscrizione, un tempo anche ludoteca per i bambini della zona.

    Spariti anche i luoghi della politica – un processo comune ai quartieri centrali ma qui forse più doloroso – si è passati dalle sezioni di partito alle sale scommesse come luogo di aggregazione.
    Nel blocco che si vuole costruito coi soldi del piano Marshall – siamo nel tratto centrale, zona sopraelevata – sono quasi stinti i murales tracciati sulle palazzine basse color senape. Uno dei progetti, meritevoli per carità, ma che durano il tempo della foto assessorile e del seguente comunicato stampa: ma almeno in questo casa resta il monumentum, lo stimolo visivo a ricordare.

    Un furgone abbandonato in una traversa di via Popilia

    Tutt’intorno, auto e furgoni abbandonati, ancora spazzatura, siringhe. È anche vero che se la gnugna (l’eroina, ndr) non è mai scomparsa – continua anzi ad avere periodici ritorni di fiamma –, questa periferia non appare più inaccessibile e infernale come un tempo, quanto piuttosto sospesa in un limbo purgatoriale; può essere però ben definita con un verso sempre dantesco ma dal Paradiso (XV, v. 106): «Non avea case di famiglia vote». Il Sommo si riferiva agli appartamenti fiorentini disabitati perché sproporzionati al bisogno delle famiglie, qui siamo piuttosto nel territorio della superfetazione di solai fine a se stessa che ingrassa la lobby dei costruttori mentre altri strati sociali sono condannati all’emergenza abitativa e all’esclusione sociale.

    Uno stallo che raramente permette il salto da uno status a quello superiore, una stratificazione immobile che Lugi, alias Luigi Pecora, orgogliosamente afro-popiliano, racconta benissimo in un pezzo rap (Questa è la realtà) in cui passeggia idealmente da casa sua – l’ultimo lotto che sembra un block di Spike Lee – al centro.

    Via Popilia, dalle guerre di mafia (e del mattone) a quella dei supermercati

    Il culto del dio cemento e il cristianesimo convivono a via Popilia

    Nel 2005 si contavano tredici gru su viale Mancini (intanto saturatosi), nel frattempo altrettante ne sono spuntate su via Popilia (oggi in realtà sono una decina, sparse tra i Due Fiumi e la casa circondariale).
    I due delitti eccellenti al giro di boa dei due secoli e due millenni – tra il semaforo in zona carcere e l’ultimo lotto – sembrano un ricordo lontanissimo. Ora la guerra – dopo quella combattuta a colpi di cazzuola nel ventennio passato – se la fanno i supermercati, a colpi stavolta di oneri di urbanizzazione: a fine aprile 2019 la storica baracca di Felicetta con annessa fontanella fu abbattuta per permettere la spianata con relativa rotatoria in funzione EuroSpin.

    L’ex sindaco Occhiuto e gli allora assessori Caruso, Vizza e Spataro in posa simil Beatles per l’inaugurazione della rotatoria

    Come allora apparve chiaro che servisse un supermercato per cucire la viabilità rimasta monca (in quel caso per collegare il ponte di Calatrava con viale Mancini), adesso un altro mega gruppo (Lidl) invade i territori Conad sbloccando i lavori in un’area pensata in origine come parco – e così “venduta” una quindicina di anni fa agli acquirenti dei nuovi e coloratissimi palazzoni sorti nella zona della chiesa di Cristo Re.
    Urbanisticamente rivoluzionario, il mega-cantiere è l’ennesima dimostrazione che dove non arriva il pubblico tocca al privato. Dovesse leggerci qualcuno di EsseLunga e decidesse di avventarsi su via Popilia: di lotti abbandonati ce ne sono a bizzeffe, tocca soltanto scegliere.

    COSA VEDERE

    Il quartiere è il più classico degli ibridi urbanistici tra case popolari e palazzoni moderni. Da vedere i murales del secondo lotto (ma anche quello di Marulla al Marca) e le tante edicole votive, segni della fede autoprodotti. In assenza di negozi storici – sbranati dal cemento come Carlino o scomparsi come il mitico maniscalco –, un tour a piedi può essere illuminante soprattutto per “pesare” la mancata saldatura della zona cuscinetto venutasi a creare a est di viale Mancini e poi, oltre, nella fascia tra via Popilia e il fiume.

    Il ricordo di Gigi Marulla all’ingresso della scuola calcio che aveva fondato

    DOVE MANGIARE

    La pizzeria di Roberto Presta, figlio del compianto Franchino detto “’a chiacchiera” per il gusto di intrattenersi con i clienti, merita una tappa anche per la piccola rosticceria: fondata nel 1975, si trova al civico 160. Da provare anche il pesce del Pirata, pescheria-trattoria di mare (via Anna Morrone, zona sud) e gli arancini di Cusenza Piccante (n. 60/62)

    DOVE COMPRARE

    Ma se passate da via Popilia non potete non provare la pasta di mandorle di Gaudio! Un antro al civico 230 in cui il tempo si è fermato e dove è possibile trovare anche gli ultimi esemplari di “pastarelle” formato grande: addirittura il diplomatico e il mega-choux con tanto di “gileppo”. Tra l’altro vi servirà uno degli ultimi negozianti cosentini dotato di sorriso…

    (2. continua)

  • MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

    MAFIOSFERA| Droga: crolla la ‘ndrangheta nel traffico globale

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    L’11 luglio scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza del maxiprocesso “European ’ndrangheta connection – Pollino” al tribunale di Locri. Nel febbraio 2022 il primo grado si era infatti concluso con 12 condanne per complessivi 172 anni di reclusione e 5 assoluzioni. Le motivazioni confermano in sostanza gran parte della ricostruzione dell’accusa, notando il ruolo di spicco del clan Pelle-Vottari di San Luca nel narcotraffico europeo.

    Il controllo del mercato

    L’operazione si era distinta per gli arresti incrociati, avvenuti in un unico Action day, il 5 dicembre del 2019, tra Italia, Germania, Paesi Bassi e Belgio, coordinati da Europol e Eurojust. Pollino ha fatto luce su una vasta e complessa rete di importazione di narcotici, principalmente cocaina, in Europa e in Sud America: famiglie di ‘ndrangheta storiche, dalla Locride al resto del mondo, avevano dimostrato di avere un ruolo di coordinamento e di gestione del mercato.

    Qualche settimana fa, il 28 giugno, l’operazione antidroga ‘Hermano’ condotta dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia reggina ha portato all’arresto di 19 persone. Hermano riguarda i clan della piana di Gioia Tauro, precisamente sul territorio di Taurianova, ma con proiezioni, e arresti, anche a Milano, Parma, Verona e Vicenza. L’obiettivo ancora una volta il narcotraffico, gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina dal Sud America fino all’Italia.

    Il 7 giugno scorso, infine, il tribunale di Trieste ha eseguito 38 ordinanze di custodia cautelare e disposto il sequestro di due milioni di euro contro narcotrafficanti attivi tra Italia, Slovenia, Croazia, Bulgaria, Olanda e Colombia. L’operazione Geppo2021 aveva portato al sequestro di 4.3 tonnellate di cocaina al porto triestino, il terzo sequestro più grande d’Europa.

    Dal Sud America all’Est Europa

    Rivelano le indagini, anche quelle giornalistiche, che si trattava dei giri di prova di un’alleanza tra il Clan del Golfo e importatori europei. Il Clan del Golfo, anche chiamato Urabeños, è uno dei gruppi di narcotrafficanti più importanti della Colombia, che conta fino a 2000 affiliati. Gli importatori in Europa invece sono un gruppo italiano legato alla ‘ndrangheta ma attivo anche a Roma e a Milano e una rete di individui provenienti dall’Est Europa.

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    Colombia: la cattura di Otoniel, considerato il capo del Clan del Golfo

    Queste tre operazioni non sono le uniche, ma le più rilevanti nel recente periodo. Cosa hanno in comune? Una notevole densità di rapporti con soggetti e organizzazioni criminali estere. Nel processo Pollino si erano visti i rapporti con trafficanti di Guyana e Suriname e con distributori turchi. Nell’operazione Hermano ci sono rapporti con fornitori peruviani. E nella maxi-operazione Geppo2021 compaiono colombiani, albanesi e bulgari.

    L’internazionale della cocaina

    Ovviamente, che la ‘ndrangheta sia un’organizzazione internazionale dedita all’importazione di stupefacenti già si sapeva. Sono noti, ad esempio, i rapporti con dei gruppi criminali brasiliani, come il Primeiro Comando da Capital (PCC) attivati e mantenuti per l’approvvigionamento della cocaina dai porti del Sud America all’Europa. Altrettanto noti sono gli avamposti dell’onorata società in Africa e nel resto dell’Europa. Lo aveva già confermato l’operazione Platinum nel maggio 2021, grazie anche ad approfondite indagini giornalistiche.

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    Una grafica sulla rete internazionale del narcotraffico (fonte Limes)

    I traffici illeciti che spaziano dall’Europa all’America passando per l’Africa, vedono i clan calabresi cooperare e forgiare vere e proprie partnership con Albanesi, Rumeni, Colombiani, Messicani, Brasiliani, Bulgari, Serbi e via discorrendo. È oggi normale, nelle ordinanze di custodia cautelare, dalla Calabria alla Lombardia, vedere tra gli arrestati sia italiani che stranieri. Questa ibridizzazione delle reti del narcotraffico porta a una serie di riflessioni che hanno a che fare sia con la natura dei traffici illeciti sia con l’identità della ‘ndrangheta in questi traffici.

    Le regole del narcotraffico

    Innanzitutto, il narcotraffico si muove con regole che non sono della ‘ndrangheta, nonostante il ruolo di spicco che la criminalità calabrese ha assunto e consolidato negli anni. Prendiamo la cocaina. Il mercato globale della cocaina si muove sui canali dei traffici legali, tra porti, marine, aeroporti, strade, utilizzando – sfruttando – la logistica interconnessa della nostra epoca. La produzione della cocaina è ai massimi storici negli ultimi anni, complici politiche sociali malriuscite del Sud, in paesi come Perù, Bolivia e Colombia, e drammatici flop della “guerra alla droga” (war on drugs) da parte del ricco Nord, come Stati Uniti, Canada, ed Europa.

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    Il consumo di cocaina è incostante aumento

    A questo aumento della produzione e della disponibilità del narcotico, si affianca l’atomizzazione dei gruppi criminali: in breve, c’è più gente che produce e vende la coca, c’è più gente che l’acquista. La retorica che la ‘ndrangheta controlli il mercato della cocaina europea è soltanto questo, retorica. Non solo si tratta di un mercato incontrollabile – in cui qualunque gruppo criminale alle giuste condizioni può effettivamente entrare – ma anzi, il dominio del mercato della cocaina è assolutamente concorrenziale.

    Uniti per gli affari

    Se si considera l’ascesa dei clan balcanici – che in alcuni casi hanno imparato il mestiere dai nostri corregionali ‘ndranghetisti, iniziando dalla manovalanza ai porti di Brindisi, Bari, Genova, Livorno ad esempio – si vede chiaramente come il settore in questione permetta a chi abbia denaro da investire, disponga di una gestione efficace della logistica e abbia la capacità di trovare sodali disponibili di entrare e acquistare velocemente una fetta del mercato.

    Questo implica che da una parte i clan di ‘ndrangheta hanno perso parte del loro tanto sbandierato controllo e dominio del mercato della cocaina e hanno imparato che senza collaborazione con altri nodi della rete non si sopravvive. Allo stesso tempo questa perdita di posizione non necessariamente si traduce in un guadagno minore, essendo appunto il mercato molto florido: c’è più cocaina per tutti i gruppi criminali che sanno collaborare, e le partnership cambiano quando serve agli affari.

    Ci sono un italiano, un peruviano e un albanese…

    In operazione Hermano, per esempio, leggiamo di come un gruppo calabrese utilizza come canale di approvvigionamento principalmente per cannabis e hashish dei partner albanesi, ma in seguito a un debito contratto con loro, cercano e trovano un gruppo di peruviani, stanziato a Milano e con broker anche italiani, per l’approvvigionamento di cocaina che permette un guadagno più alto e dunque permetterebbe loro di saldare il debito più velocemente.

    Un uomo della Dia intercetta una telefonata

    «Decisamente, se non ci sono i soldi, si può risolvere con macchine [ndr, cocaina, per saldare il debito con gli albanesi]».
    «Abbiamo litigato pure io con tutti…con gli albanesi, pure Flamur s’è incazzato con me (…)».
    «Ma lo sai che io ho perso diecimila euro qua con questi figli di puttana [il gruppo peruviano], ti ricordi quella sera che ti dicevo io che avevo anticipato io i soldi per le tre Pande [riferimento ad automobili, per intendere partite di cocaina]?».
    «E come fai a perdere diecimila euro… (…) vieni che ci andiamo insieme e le recuperiamo».
    «E certo che le devo recuperare, sto aspettando che viene zio qua a Baggio».
    «Perché per questo figlio di puttana qua, perché avevo preso impegni con Flamur»
    «Gli dici, Flamur, qua è successo questo, questi qua ci hanno preso per il culo e non rispondono più, hanno preso ancora giorni e a me non mi va di fare più figure di merda con le persone, basta!».

    Il potere della reputazione

    A questo si deve aggiungere una seconda riflessione. Certamente l’identità della ‘ndrangheta si fonda su un potere reale, concreto, che interferisce con la vita della gente di Calabria e non solo, dall’estorsione all’intimidazione, dalla violenza all’infiltrazione nella politica paesana o cittadina. La ‘ndrangheta ha ancora oggi un potere intimo, familiare, locale.

    Ma diverso dall’aspetto identitario locale e familiare, è il potere economico prettamente criminale dei clan, che una volta sui mercati globali non hanno bisogno di identificarsi come ‘ndrangheta o mafia, ma utilizzano la solidità della loro reputazione di acquirenti e fornitori che saldano i conti e sanno aggirare le forze dell’ordine. Proprio come si legge anche dall’intercettazione precedente e in quella successiva che proprio di questa solvibilità parla.
    «Sistemiamo così che è la migliore cosa perché non voglio fare casini perché dopo perdo l’amicizia capito? (…) Perdo la stima che avevo io su di lui e lui proprio mi dice ma che persona sei, capito?».

    Nessuno è infallibile

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    Finanzieri in azione nel porto di Gioia Tauro

    Se le due anime dell’organizzazione criminale stanno insieme da un punto di vista analitico, da quello meramente fattuale questa unità non aiuta a comprendere il successo – o il fallimento – nei mercati illegali. Infatti, ricordiamoci anche che le operazioni contro narcotraffico sono iniziative fallite, intercettate dalle forze dell’ordine quindi andate male. Ci mostrano clan che a volte faticano a far tornare i conti, altre volte sbagliano a fidarsi di qualcuno, altre volte ancora incappano in problemi dalla fornitura alla distribuzione, fino al pagamento. E non capita poi così di rado. Di questo, in fondo, ci si può rallegrare: sicuramente neanche la ‘ndrangheta è infallibile, quanto meno nel frammentato e concorrenziale mercato degli stupefacenti.

  • IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

    IN FONDO A SUD| Tropea, Escher e il cipresso di Berto

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    Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
    Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
    Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.

    La riva sotto il sole

    Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
    Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
    Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.

    La Tropea di Escher

    Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
    Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
    Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.

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    Tropea raffigurata da Escher

    La metamorfosi del turismo

    Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
    Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
    Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.

     

    Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.

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    Raf Vallone, Sophia Loren e Vittorio De Sica sul set de “La Ciociara”

    Nella penna di Berto

    Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
    Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
    Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
    Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.

    Tropea, Capo Vaticano e la sibilla

    La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
    Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
    La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
    Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.

    Il faro di Capo Vaticano

    Una casbah ’nduja e cipolla

    Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
    L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
    Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
    Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.

    Cosa resta di Berto

    Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
    Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.

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    Un momento dell’ultima edizione del Premio Berto

    Il ricordo della barista

    Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
    Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.

    Berto, un reazionario illuminato a Tropea

    Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
    Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

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    Berto con il suo cane Cocai

    Il riposo

    Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
    Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
    Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».

    Abusivi e kitsch: i vivi come i morti

    Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
    Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
    Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.

    La tomba di Berto

    Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
    Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
    Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.

    Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
    Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.

    Un disegno infantile

    La tomba di Giuseppe Berto nel cimitero di San Nicolò di Ricadi

    Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
    Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
    Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.

    «Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.

  • Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    Botteghe Oscure| Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

    La canapa è come il maiale, non si butta via proprio nulla. Lo sostengono a gran voce coltivatori e commercianti che negli ultimi anni, anche in Calabria, hanno deciso di puntare sui molteplici usi della cannabis industriale, principalmente nei settori tessile, alimentare e della cosmesi. Sono tante le aziende calabresi, soprattutto a carattere famigliare, che hanno deciso di coltivare a cannabis appezzamenti di terra prima destinati all’incolto, applicando nuove tecniche e tecnologie a una coltura che si pratica nelle province di Calabria Citra ed Ultra già da cinque secoli.

    Swinburne a Pentidattilo e la migliore canapa della Calabria

    Nel 1777 lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne percorreva in sella a un cavallo il tratto di costa ionica da Bova a Reggio Calabria quando s’imbattè in “un paese delizioso”, Pentidattilo. Qui ebbe modo di apprezzare che «le condizioni dell’agricoltura erano molto migliori di quelle che avevo visto finora in questa provincia». Così come che «la terra è coltivata con perizia e cura maggiori e di conseguenza dà raccolti più ricchi». Il giudizio finale dello scrittore è netto e lusinghiero: «La sua canapa è la migliore della Calabria». Era tempo di raccolto e il colto viaggiatore non poté fare a meno di annotare che, nonostante l’impegno, «sembrava che [i contadini] ci mettessero troppo per la scarsità di manodopera».

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    Strumenti per la lavorazione dei filati. Dipignano,, Museo del rame e degli antichi mestieri. (foto L. Coscarella 2019)

    L’erba buona del marchese

    Il primo a proiettare un poderoso fascio di luce su «queste due derrate così utili», il lino e appunto la canapa, è il marchese Domenico Grimaldi. L’opera Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (Napoli, 1770) è un’attenta disamina in perfetto stile illuminista e riformatore dello stato dell’economia agricola della parte meridionale della regione. L’obiettivo è il superamento dell’ignoranza, dell’indolenza e della rassegnazione delle classi dirigenti. Ossia quelle che impedivano la piena valorizzazione dei tanti “tesori” a portata di mano. Grimaldi definisce quella della canapa una «coltura ristrettissima». Eppure, commentava, «potrebbesi nella Calabria dilatare assai più, essendovi una quantità immensa di terreni, dove la canapa riuscirebbe della più sopraffina che vi sia». Il clima moderatamente caldo e i «terreni leggieri» del sud della Calabria determinerebbero secondo Grimaldi «file assai più fine». Altra cosa, dunque, rispetto a quelle venute su in «terreni forti, ed umidi» e climi freddi.

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    Una raccoglitrice di canapa

    Purgare e pettinare la canapa

    Da buon illuminista Grimaldi fa parlare i numeri e l’esperienza diretta. Da 25 libbre di canapa di scarsa qualità, buona soltanto per la produzione di corde, racconta di essere riuscito a ricavare «libre 9 e mezza di finissima, che non era inferiore al più bel lino d’Olanda e, libre 14 di stoppa così bella, che se ne poteva far ovatta, come il cotone, e che filata ha reso un filo anche bellissimo». Il “segreto” risiede a suo parere nell’ultima scoperta «sulla maniera di purgar la canapa». Quale? Nettarla da quelle «cannucce non ancora ben macciolate», cioè dalla parte più grossolana. Con questo metodo «nella Provincia si potrebbe avere la più bella, e finissima canapa del Mondo, le stoppe veramente eccellenti, e che servirebbero a più usi».

    Un’arte femminile da perfezionare

    Riguardo alle fasi cruciali della pettinatura e alla filatura Grimaldi parla chiaro. La canapa calabrese potrebbe acquistare in qualità se pettinata con «pettini francesi, e la ver’arte di pettinare». Le donne calabresi, precisa, «filano alquanto bene». Ma nessun barone o ricco proprietario ha mai pensato di perfezionare la loro arte facendo «venire qualche contadino forastiero perito della coltivazione della canapa; e delle buone filatrici e tessitrici». Coltivando la canapa in Calabria alla «maniera forastiera», facendo cioè arrivare degli esperti «per insegnare a manifatturarla», i baroni o ricchi proprietari potrebbero impiantare una fabbrica di tele fine. I costi? Secondo il marchese «con meno di tre mila ducati si potrebbe introdurre una picciola fabbrica di tele, ed a misura potrebbe crescere, e rendersi considerabile».

    Canapa in Calabria: i cànnavi di Corrado Alvaro

    Di canapa scrisse anche Corrado Alvaro. Lo fece nel 1941, in Civiltà, una poco conosciuta “Rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma”. L’articolo, corredato da belle fotografie, era dedicato alla produzione nel Bolognese e nel Ferrarese. Ma non manca un riferimento al Meridione: «La canapa è cosa vecchia come il mondo nostro Mediterraneo. Non ha mai mutato nome, e si chiamò “cannabis” in greco come in latino. In quasi tutta l’Italia meridionale serba questo nome: si chiama “cànnavi”. In bolognese “cànnva”. In sanscrito era “cana”[…] Con la lana e il lino ha vestito l’umanità per migliaia di anni».

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    La lavorazione della canapa, foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numero di “Civiltà” del 1941

    La provincia di Reggio era quella dove la canapa trovava terreno fertile alla sua proliferazione. Superava persino il lino tra le piante tessili utilizzate. «Nei paesi del circondario di Reggio, e massime nelle campagne adiacenti il capoluogo, si coltiva su larga scala la canapa e subordinatamente il lino, che crescono giganti, raggiungendo la prima l’altezza di due metri». La destinazione era la solita produzione di tessuto per corde e cordame, in primo luogo. Non mancava, tuttavia, l’utilizzo per capi di abbigliamento popolari. Così le donne tessevano tele di lino, cotone o canapa «per uso di camicie, di mutande, di lenzuola».

    Febbri palustri

    Il terreno per la coltivazione della canapa, che doveva essere profondo e sufficientemente umido, veniva preparato nei mesi di marzo e aprile con la pulizia dalle erbacce, la concimazione e la semina. Una volta venute fuori le piantine, il terreno veniva irrigato per inondazione. E così si arrivava al momento della fioritura, in genere tra fine giugno e luglio. In questa fase le piante venivano strappate con tutte le radici e riunite in “mannelli” pronti per la fase della macerazione. La presenza di queste terre irrigue aveva risvolti meno felici. Si ipotizzava che le stesse causassero la diffusione della “febbre intermittente o palustre”, una delle maggiori cause di mortalità della popolazione agricola. Inoltre la vegetazione troppo fitta, che impediva il passaggio dell’aria, e le stesse fasi della macerazione della pianta (fatta senza alcuna precauzione) e dell’essiccazione erano considerate promotrici dello sviluppo di febbri miasmatiche.

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    Le fasi della lavorazione della Canapa (da Encicolopedia Popolare Sonzogno, 1928)

    Più canapa che lino in Calabria

    Il processo di lavorazione delle piante seguiva metodi che venivano definiti già allora letteralmente “primitivi”. «Giunte queste piante a maturità, e private dei loro semi, vengono raccolti in fasci, i quali si pongono a macerare in larghi fossi scavati sul lido del mare od in apposite gore situate lungo i corsi d’acqua, fissandoli con grosse pietre. Dopo otto o dieci giorni, e quando l’agricoltore si accorge che la parte tigliosa è ben macerata, i fasci si tolgono dall’acqua stagnante, si fanno asciugare al sole e poi si gramolano con un rostro a battitoio di legno».

    La canapa veniva piantata anche nei gelseti. Fatto sta che gli ettari coltivati in tutta la provincia di Reggio erano circa 1200. Nel 1879 avevano prodotto 8000 quintali di canapa. Per fare un confronto con la “pianta concorrente”, il lino, sappiamo che nello stesso periodo si coltivavano a lino 1748 ettari, che avevano prodotto 6000 quintali di lino.

    Strumenti per la lavorazione della canapa

    Le vurghe

    In provincia di Cosenza la macerazione di lino e canapa era malvista per la credenza che nuocesse alla salute. Si registrarono, infatti, alcune morti di animali che avevano bevuto le acque dei “maceratoi”, ma non c’erano conferme. In provincia, al 1883, rispetto al lino la produzione della canapa faceva registrare cifre inferiori. La procedura di lavorazione, però, era simile e richiedeva una fonte d’acqua per la macerazione. A volte si scavavano delle fosse nel terreno dette “vurghe”. Si riempivano d’acqua di fiume o di sorgente incanalata con un rivolo che scorreva rinnovando continuamente l’acqua delle fosse. Al loro interno si mettevano a macerare il lino o la canapa. Il tempo necessario oscillava fra i 10 e i 15 giorni. Nei dintorni di Rossano la macerazione avveniva in acque stagnanti in riva allo Jonio o nel letto dei fiumi. Capitava così che le alluvioni distruggessero tutto il lavoro.

    Una produzione locale

    Dopo la macerazione la canapa veniva asciugata al sole. Poi si lavorava con un “ordegno” formato da due pezzi di legno, uno fisso e uno mobile. Tra essi si inseriva il prodotto che doveva essere maciullato e ridotto in sostanza utile per la filatura. Non erano stati ancora introdotti sistemi di lavorazione meccanica. Intorno al 1880, nel Catanzarese, la coltivazione della canapa era rara. La si poteva incontrare «appena in qualche orto e nelle vicinanze di Filandari».

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    Memoria di Vincenzo Ramondini per migliorare la lavorazione della canapa in Calabria Ultra

    Alcuni dati di qualche anno dopo ci informano che nel 1892 in Calabria si utilizzavano per la coltivazione della canapa 417 ettari, 11 in più dell’anno precedente. Di questi 228 erano nel Vibonese e 133 nei dintorni di Palmi. Su questi terreni, nel 1881, la produzione ammontava a 2161 quintali di canapa, divenuti 3271 l’anno seguente. Si trattava comunque di una produzione limitata all’uso locale.

    Corde e spaghi

    Sul finire dell’Ottocento c’è traccia di diversi opifici che utilizzavano la canapa per la fabbricazione di cordami. Nel Reggino operavano ben ventuno piccole fabbriche. Sette erano a Polistena e le altre sparse tra Sant’Eufemia d’Aspromonte, Gioiosa Ionica, Bagnara Calabra, Caraffa del Bianco, Mammola, Rosarno e Seminara. Quelle di Polistena e Gioiosa erano le più importanti. Oltre spaghi e cordicelle, producevano anche «funi grosse a cavi doppi di cui si servono i mulattieri ed i marinai». La materia prima non era solo locale, ma reperita anche a Napoli e Messina. Il commercio dei prodotti, invece, rimaneva essenzialmente locale.

    A Cetraro, sul Tirreno cosentino, erano attive quattro piccole fabbriche che occupavano quattro uomini e cinque donne. Al loro interno si adoperava canapa proveniente da Napoli per produrre cordami «con semplici congegni torcitoi a mano». Tre fabbriche a Fuscaldo, invece, impiegavano canapa di produzione locale per produrre cordoncini e spaghi grazie al lavoro di cinque uomini e una donna.

    Industrie casalinghe

    Nel Catanzarese le fabbriche di cordami operanti a fine Ottocento erano cinque. Tre erano operative a Soriano Calabro e le altre a Cortale e Chiaravalle Centrale. I macchinari erano assenti, ad eccezione dei soliti «semplici congegni torcitori a mano». La produzione era riservata all’uso agricolo, impiegando canapa locale e altra proveniente dalle provincie di Caserta o di Reggio Calabria. Una porzione rilevante era comunque destinata all’industria tessile casalinga. Erano migliaia i telai che tessevano lino e canapa, ma i prodotti si realizzavano quasi sempre per uso degli stessi produttori.

    Altra foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numeri di Civiltà del 1941

    Nei primi del Novecento la coltivazione della canapa aveva «importanza limitatissima». I circondari di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, e Palmi, in provincia di Reggio, erano ancora le zone più utilizzate. Le aree coinvolte erano in genere terreni irrigui posti lungo i torrenti. Nel 1908 la produzione di canapa raggiungeva i 6 quintali per ogni ettaro di terreno. Ma le industrie del settore, come anche quelle del cotone, del lino e della iuta, si erano «arrestate allo stato d’industrie casalinghe».

    Canapa in Calabria: un comparto tutto femminile

    Sul numero di telai operanti a inizio del secolo, sappiamo che erano 5137 quelli adibiti alla tessitura di lino e canapa in questa industria casalinga. Sempre unitamente per lino e canapa, sappiamo che gli artigiani filatori erano 35 uomini e ben 62.040 donne (delle quali più di 60 mila la esercitavano come attività principale, e 1766 come professione accessoria). I tessitori delle stesse materie, invece, erano 20 uomini e 8709 donne (delle quali 8279 lo svolgevano come mestiere principale). Il prodotto veniva utilizzato nei 38 opifici per cordami censiti nel 1901, nei quali erano attivi «99 congegni torcitori a mano» e «lavoravano 120 individui». Altri 117, a loro volta, lavoravano come “indipendenti”.
    Tuttavia il livello d’innovazione in questo campo fu sempre quasi nullo. Metodi primitivi, strumenti a mano, scarsa richiesta di esportazione facevano del settore della canapa calabrese un’industria locale con scarse prospettive.

     

  • STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    STRADE PERDUTE | Mare, castello, 106… e un fiore per Bergamini nel Roseto

    Il fiore all’occhiello è fiore di Roseto. Calembour a parte, Roseto Capo Spulico si distingue, rispetto a tanti altri luoghi, per qualcosa di nemmeno troppo descrivibile. Esiste una “chimica” dei luoghi? Credo di sì. E credo possa dirlo anche chi, a differenza mia, non vi sia legato per questioni familiari. Anche Roseto ha almeno quattro anime: quella costiera, quella del centro storico, quella delle campagne e quella del suo passato. Virtuosamente, mi pare anche singolare nel suo essere un paese, sì, molto legato alle sue radici, ma pure proiettato con tenacia in avanti.

    A picco sul mare

    Ne è diventato ormai simbolo il castello federiciano a picco sul mare, quel Castrum Petrae Roseti che, in realtà, per quanto scenografico, è più correttamente una torre, una semplice torre, che non ebbe più che funzioni doganali, d’avvistamento, d’accampamento e deposito d’armi (nonché, nel Settecento, di ambigua osteria), e il cui valore immobiliare fino alla fine del Novecento è sempre stato irrisorio. Chi vuol sognare, però, ha il diritto di farlo ed è giusto lasciarglielo fare (anche perché se non sogni ad occhi aperti qui, dove vuoi sognare?).

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    Tetti nel centro storico di Roseto (foto L. I. Fragale)

    Il tariffario di Roseto

    La più remota riproduzione del castello è appunto quella settecentesca, firmata da Jean Louis Desprez per i resoconti di viaggio dell’abate Saint-Non (Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, Paris, 1781-1786), in cui l’autore raffigura uno sbarco piratesco ai piedi del maniero. Poi tre fotografie scattate precisamente tra il 1864 e il 1937. Infine… La pletora post-boom economico, la sovraesposizione a buon mercato, unita ad una congerie di favole discutibili, in merito a ipotetici misteri esoterici legati all’edificio.

    Restiamo con i piedi per terra: sulle questioni più strettamente storiche del castello ho già scritto e scriverò altrove, mentre qui voglio almeno ricordare una curiosità. Su un muro esterno del castello era fissata una grande lapide con il tariffario per chi transitasse da lì, esattamente uguale a quelli, superstiti, di Acerra e di Battipaglia. Non può non venire in mente la gag del «chi siete?, quanti siete?, cosa portate?, sì, ma quanti siete?, un fiorino!»… più o meno così anche a Roseto si snocciolavano i prezzi a seconda della quantità di bestie trasportate, o a seconda che si fosse studenti, ebrei o prostitute con una, due o tre bisacce (e così pare nascessero talvolta i cognomi…).

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    Il centro storico di Roseto Capo Spulico visto da lontano

    Quel giorno a Roseto morì Donato Bergamini 

    Una strada di transito, dunque, da tempo immemorabile. Chissà come sarebbe andata a Donato Bergamini se la dogana fosse stata ancora attiva, chissà che piega avrebbe preso quel processo… Benché mai nemmeno lontanamente interessato al calcio, a quella storiaccia penso spesso, perché altrettanto spesso mi trovo a passare su quel chilometro.

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita

    Quale chilometro, poi? La strada non è più quella del 1989, tutto è cambiato. Vi sono due lapidi lungo la nuova 106: una più vecchia, in un punto pericoloso della strada; una più nuova, in un luogo che permette la sosta a chi volesse lasciare un fiore. In realtà l’incidente accadde in un terzo posto, lungo il tracciato vecchio della 106, un punto che – ripeto – non esiste più. Per una specie di damnatio memoriae stradale.

    Tutta quella strada resta sospeso in una sorta di limbo spazio-temporale. Non vi è stato costruito più nulla, né sul lato della spiaggia né sulle colline. Per fortuna. La spiaggia è una lingua pietrosissima e provvidenzialmente poco affollata, anche in alta stagione, che prosegue silenziosa dalla Pietra della Tina e dell’Incudine, fino agli scogli della Galera, della Pavolina e infine della Grilla. Mare, ça va sans dire, pulitissimo e notoriamente tale.

    Colline e villaggi residenziali

    Le colline sono quelle impervie e disabitate di Valmaco, Derròita, e Fontana della Vigna. Uniche tracce di antropizzazione sono due villaggi residenziali tagliati meravigliosamente fuori dal mondo e immersi nei boschi di pino e nella macchia mediterranea: il Villaggio Santa Maria e il Villaggio Baiabella (il secondo è prevalentemente un villaggio-fantasma anziché altro, al centro di una pluridecennale vicenda giudiziaria). E, non a caso, quelle colline erano state abitate già nell’antichità, e tracce dei vecchi stanziamenti sono emerse negli anni ’60 del Novecento. Chissà quanta roba è saltata fuori, adesso, per i lavori alla nuovissima tratta della 106… Non ci pensiamo.

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    Scorcio rurale di Roseto Capo Spulico

    Là sui monti di Roseto Capo Spulico

    Gli scogli della Grilla, al di qua del canale Cardone, segnano il confine tra Roseto e Montegiordano. Da lì si può piegare verso l’interno, verso le sterminate e ostiche campagne che formano il trapezio del territorio comunale di Roseto Capo Spulico. Si sale ripidi, ripidissimi, tra i tornanti e i pini di contrada Palvasia, offesa l’estate scorsa da un incendio devastante, che ha cancellato – tra le altre cose – esemplari di ulivi pluricentenari, di cui la zona è fortunatamente ancora ricca.

    A sinistra si passa in mezzo a un paio di case isolate (dove lo stesso cane abbaia puntualmente, da anni, legato ad una catena) e si procede a mezza costa lungo la stradina panoramica. Un bivio: a sinistra si tornerebbe in paese, a destra si sale verso le antenne di Monte Titolo e per le campagne più elevate… il Piano di Commaroso, contrada Giudicepaolo (poi storpiato in Dodici Paoli).

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    L’antica “via ad serram” che conduce da Roseto a Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Ancora un bivio: a sinistra si scenderebbe di nuovo per il paese. A destra si procede sempre più in alto, lungo la meravigliosa “via ad serram” che dalla Contrada Melazzo e dal Vallone di Marino (dall’antica famiglia Marini) porta verso il centro storico di Montegiordano e verso la Basilicata. Una via antichissima, come venivano pensate una volta: direttamente sullo spartiacque, per evitare la costruzione di ponti. Così resta tuttora: una lingua sottile, un su e giù incessante: il vuoto a destra, il vuoto a sinistra.

    La scala mobile nel nulla

    Torniamo indietro all’ultimo bivio e andiamo verso il paese, costeggiando la Mirata e Contrada Collazzone. Si potrebbe piegare a destra per raggiungere i Piani della Marina (in realtà Piani Marini, ancora per l’antica famiglia omonima, così come i vicini Piani Toscani) ma voglio cercare di evitarmi la vista di quel famosissimo scempio che è diventato ormai simbolo dei non-luoghi, dell’incompiutezza e di una certa… fragilità degli equilibri contemporanei, diciamo così: si tratta di quel relitto di scala mobile che resta sospeso nel mezzo di un pendio brullo, unendo il nulla al nulla. Come una drammatica Stairway to Heaven, doveva servire a trasportare i bagnanti dalla spiaggia ad un villaggio turistico in collina. È finita invece sui social del New York Times, nell’estate del 2018.

    Like a rolling stone

    Mentre si scende di quota in auto, i pini e la pietra da taglio lasciano progressivamente il posto ai peri e ai fichi d’India. Il dislivello è tanto e si tappano le orecchie: il primo agglomerato di case è quello del rione della Petr’i Roll’ like a rolling stone. Dopodiché ecco il paese, finalmente. Lo prendiamo alle spalle, dal suo ingresso più antico e autentico, la Porta della Terra (“Terra” intesa come Comune, non come terreni). Per salire verso la Porta si procede a zig zag salendo per i vicoli, ma anticamente doveva esservi una gradinata di quelle adatte anche ai cavalli (e qualche traccia l’ho ritrovata): non esistono mappe del paese precedenti al 1901 e tutto va capito, più che immaginato… il nucleo più antico è ancora chiaramente racchiuso nelle mura di cinta che, viste dall’alto, hanno l’andamento di uno stivale, una calza di Befana.

    Un vicolo di Roseto (foto L.I. Fragale)

    Muri, pietre e frane

    Eppure qualcosa è mutato: troppe frane, nei secoli, hanno ridotto l’estensione dell’abitato. E le stesse mura, in alcuni punti, hanno retrocesso di qualche passo anziché avanzare. Il varco detto “pertuso di Pizzo” (dall’antica famiglia dei Pizzo di Oriolo e di Canna) ne è un segnale, aperto com’è su un tratto di mura troppo sottile per essere coevo alle altre (per esempio a quei brani inglobati in un angolo del Palazzo Mazzario). Muri, pietre: l’antico, a Roseto, lo tocchi con mano (di più antico, forse, vi sono soltanto le note ma ormai impenetrabili grotte sotterranee). Sparito il Convento di Sant’Antonio, resta ancora, d’antico, la Cappelletta dell’Immacolata Concezione e – forse non molti lo sanno – due campane cinquecentesche presso le chiese di San Nicola e quella di Sant’Antonio.

    Scorcio del centro storico di Roseto Capo Spulico (foto L.I. Fragale)

    Santi e nobili

    Nel Quattrocento Roseto Capo Spulico doveva presentarsi come un piccolo centro agricolo che ancora voltava le spalle al vicino mare: il processo di “balnearizzazione”, comune a tanti altri paesi costieri sì, ma privi di una storia marittima o di un contesto portuale, avverrà a fine Ottocento, dopo la costruzione della linea ferrata lungo la costa, e la conseguente urbanizzazione attorno agli scali ferroviari. Il tessuto sociale era intriso di una notevole presenza greco-albanese che non deve avere avuto difficoltà nell’integrarsi in un retroterra culturale ancora fortemente bizantino.

    Del secondo sono un esempio alcuni toponimi locali come S. Elia, S. Migalio, S. Cataldo, S. Iorio (S. Giorgio), S. Tòtaro (S. Teodoro) e S. Nicola (cui è intitolata la chiesa madre, mentre S. Rocco deve aver avuto la meglio, come patrono, soltanto dopo la peste del Seicento). Della prima sono invece esempio le tracce relative alle famiglie levantine dei nobili Ungaro, Persiani, Reca-Mazzario, dei montenegrini Marini, dei costantinopolitani Chyurlia e soprattutto dei dalmati Renesi (quelli che combatterono per mezza Europa nonché fianco a fianco con Scanderbeg). Tutte estinte, tutte scomparse prima o dopo.

    Roseto Capo Spulico: dove sono gli intellettuali?

    Francescantonio Mazzario

    Solo quella dei Mazzario riuscì a restare egemone su Roseto per alcuni secoli (e vale la pena ricordare quantomeno le figure del barone Francescantonio e di suo zio Alessandro, intellettuali e avvocati; attivo nella politica locale, il primo; autore di un diario di viaggio nell’Europa del 1836, il secondo. Nel loro palazzo di famiglia – oggi in abbandono dopo una pessima ristrutturazione di una ventina d’anni fa – soggiornarono finanche gli scrittori Henry Swinburne e Craufurd Tait Ramage, a cavallo tra Sette e Ottocento. Ma chi lo sa? Chi se ne accorge? Manca un’intellettualità locale e basta poco ai rapaci di professione per fingersi autorevoli: sulla storia del paese e dei suoi personaggi è stato edito un solo libro, più di trent’anni fa. E un altro è di imminente pubblicazione. In mezzo, un vuoto, in cui talvolta spadroneggia chi stravolge comodamente la storia a proprio consumo, danneggiandola e danneggiando le comunità con operazioncelle di bassa lega che non conferiscono alcun lustro (anzi…).

    Tutto sta a capire i segni, a interpretare, a prevedere e stare in guardia dai questuanti di ieri e di sempre, le cui gioie ingenue ricordano tanto quelle (più oneste e sudate) dei coltivatori diretti immortalati a Roseto nel 1957, quando per la prima volta percepirono le prime pensioni statali. Per fortuna (e con buona volontà), Roseto Capo Spulico ha infilato ormai da qualche anno la via dell’eccellenza: sapendo coniugare – e non è frase fatta – tradizione ed esigenze contemporanee, le più recenti amministrazioni hanno saputo dare ottima prova di sé, tirando fuori il paese da una perifericità che poteva essere rischiosa ed è divenuta, invece, virtuosa.

    Roseto Capo Spulico, 1957. Le prime pensioni ai coltivatori diretti (Museo Etnografico di Roseto C.S.)

     

  • MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    MAFIOSFERA| Detective ucciso in Australia con una bomba: condannato il calabrese Perre

    Il 30 giugno 2022, ad Adelaide, capitale dell’Australia Meridionale, un uomo è stato condannato per l’omicidio di un detective, Geoffrey Bowen, e il tentato omicidio di un avvocato, Peter Wallis, dopo 28 anni. Quest’uomo è Domenic(o) Perre, originario di Platì, in Aspromonte.

    Emigrato da Platì in Australia

    Emigrato con la sua famiglia in Australia nel 1962, come tanti altri dalle sue parti in cerca di fortuna, Perre è protagonista di uno degli eventi più chiacchierati della cronaca australiana: il cosiddetto NCA bombing. L’NCA era la National Crime Authority (istituzione non più esistente oggi, ma assimilabile all’attuale Australian Criminal Intelligence Commission) i cui uffici nel centro di Adelaide saltarono in aria il 2 marzo del 1994, a causa di un pacco bomba che era indirizzato a Geoffrey Bowen.

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    L’ufficio dell’Nca dopo l’esplosione del 1994 che costò la vita al detective Bowen

    La bomba uccise il detective e ferì severamente l’avvocato Peter Wallis, con lui in quel momento, che perse un occhio nell’esplosione. La morte di Geoffrey Bowen è stata per 28 anni uno dei principali cold cases – casi irrisolti – in Australia, nonostante le indagini, sin da subito, si fossero concentrate su quest’uomo, Domenic Perre, che non solo aveva un chiaro motivo per uccidere Bowen, ma, a quanto pare, anche i mezzi per farlo.
    Il 2 marzo 1994, poco dopo le 7 del mattino, un dipendente dell’NCA si apprestava a distribuire la posta del giorno.

    “Potrebbe essere una bomba”

    Un cartellino rosso nella cassetta della posta indicava che c’era un pacco in attesa di essere ritirato dallo sportello. Era un pacco Express rosso, bianco e giallo, indirizzato a ” Geoffrey Bowen, NCA”. Il mittente sembrava essere “IBM Promotions”.

    Geoffrey Bowen arrivò nel suo ufficio al 12° piano alle 9 del mattino, chiamò l’ufficio postale e chiese se fosse arrivato qualcosa per lui. Stava aspettando alcuni reperti che gli sarebbero tornati utili per un processo a cui doveva presenziare il giorno dopo, contro un uomo di nome Perre.

    Gli fu detto che era arrivato un pacco, qualcosa a che fare coi computer. E Bowen, confermando che non aspettava niente da IBM, scherzò, tragicamente: “Potrebbe essere una bomba!” Poiché si trattava di posta non attesa, il pacco fu scansionato, ma la scansione non mostrò alcuna anomalia. Alle 9.15 Bowen aprì il pacco.

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    Geoffrey Bowen, il detective ucciso dal pacco bomba

    «Si sentì un forte crack, come un colpo di fucile o qualcosa di simile, e ricordo che Geoff emise un grido strozzato, un urlo, e cadde di lato. E poi – deve essere stato quasi istantaneo – c’è stato un enorme soffio di vento e un suono acuto che posso solo descrivere come elettricità statica molto forte. Ecco com’era. Sono stato immediatamente accecato. Quella è stata l’ultima cosa che ho visto».
    Queste furono le parole di Peter Wallis, l’avvocato che lavorava con Bowen, e che appunto rimase gravemente ferito nell’esplosione. Wallis è morto qualche anno fa. Geoffrey Bowen rimase ucciso quasi sul colpo, all’età di 36 anni.

    I soccorsi all’avvocato Peter Wallis dopo l’esplosione del pacco bomba

    L’arresto di Domenic Perre

    Nove giorni dopo l’esplosione, Domenic Perre fu arrestato e accusato dell’attentato.
    Perre era già noto alle autorità australiane perché era stato coinvolto fin dagli anni 80 nel traffico di cannabis. In particolare, nel settembre 1993, la polizia del Territorio del Nord aveva scoperto una piantagione di cannabis, composta da 10.000 piantine, in una località remota della Hidden Valley, che aveva un valore complessivo di oltre 40 milioni di dollari australiani. Francesco Perre, fratello di Domenico, fu arrestato insieme ad altre 12 persone, tra cui altri calabresi per lo più della zona Aspromontana.

    Francesco Perre

    Tra loro c’era Antonio Perre, zio di Domenic e Francesco, che all’epoca si trovava in Australia con un visto turistico. Antonio Perre era entrato in Australia dopo aver dichiarato falsamente di non avere precedenti penali: in realtà, era stato condannato per omicidio in Calabria e aveva trascorso 12 anni in carcere. Per l’operazione dell’Hidden Valley, Antonio Perre fu condannato a 18 mesi di reclusione ed estradato in Italia nel 1994. In seguito alla retata, si capì subito che le persone arrestate erano solo una parte dell’organizzazione criminale. Le indagini confermarono che Domenic Perre e altri erano i reali finanziatori dell’operazione.

    La ‘ndrangheta? In Australia la chiamano Onorata Società

    Comparve quasi subito l’ombra dell’Onorata Società, la ‘ndrangheta come viene ancora chiamata in Australia. Emersero collegamenti, incluse parentele molto scomode, tra la famiglia Perre ad Adelaide e le famiglie di ‘ndrangheta a Griffith, nel nuovo Galles del Sud, tra cui i Barbaro e i Sergi, che nei primi anni ’90 erano già notoriamente conosciuti come la Griffith Mafia, e abbondantemente collegati al commercio di cannabis e ad altre attività tipicamente mafiose, dall’estorsione all’omicidio alla corruzione politica nonché a un altro omicidio eccellente, quello dell’attivista-politico Donald Mackay nel 1977, tutt’ora caso irrisolto nonostante una commissione d’inchiesta abbia indicato le famiglie dell’Onorata Società di origine platiota quali responsabili dell’omicidio.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Geoffrey Bowen aveva guidato le indagini dell’Hidden Valley, e avrebbe dovuto testimoniare a processo contro i Perre e gli altri coinvolti, uno o due giorni dopo la sua morte. Le sanzioni per questo caso arrivarono nel 1997/1998 e segnarono l’inizio di una serie di condanne, per droga ma non solo, in capo a membri della famiglia Perre. Ma l’attentato all’NCA del 1994 rimase sullo sfondo, perché le indagini procedettero in modo schizofrenico.

    All’inizio del settembre 1994, il direttore della pubblica accusa emise un nolle prosequi in relazione a entrambi i capi d’accusa contro Perre: non c’erano prove sufficienti. Ma l’ufficio del coroner, medico legale, dello stato dell’Australia Meridionale aprì una nuova inchiesta nel 1999. Gran parte dell’inchiesta ruotava intorno al comportamento di Domenic Perre prima e dopo l’attentato; si documentò la sua avversione nei confronti di Bowen che era diventata quasi un’ossessione. Si scoprirono molte delle menzogne che all’epoca furono raccontate alla polizia per confondere le indagini.

    Victoria Square, Adelaide

    Passarono quasi vent’anni da quell’inchiesta del coroner, ma quando la polizia dell’Australia Meridionale decise di riprendere in mano il caso, nel 2018, grazie a nuove prove finalmente disponibili, sostanzialmente decise di ripartire da li. Proprio dal comportamento di Perre e della sua famiglia, dal suo movente e dalla sua capacità di costruire un pacco bomba e porre in atto l’attentato. Il tutto ovviamente supportato da nuove prove forensi sull’esplosivo e sul DNA.

    In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è necessario però riprendere quella scomoda domanda sui collegamenti alla ‘ndrangheta che erano apparsi già nel 1994, e mai sono stati effettivamente né chiariti né negati.
    Nel 2018 l’accusa mi chiese di redigere una relazione – e poi presentarla alla corte – in qualità di esperta di cultura e mafia calabrese, da portare tra le prove a processo contro Perre. Le domande che mi vennero fatte erano su questi toni: «Esiste un modo per collegare la cultura calabrese e la (sotto)cultura mafiosa? Cosa hanno in comune, come si differenziano? Si può sostenere che il comportamento di qualcuno è in realtà legato a entrambe queste culture?».

    L’equazione sbagliata tra Calabria e ‘ndrangheta

    La tesi dell’accusa si basava sul presupposto che a prescindere dal fatto che l’imputato si identifichi o meno come membro della ‘ndrangheta, lui e la sua famiglia erano cresciuti e hanno vissuto in quella (sotto) cultura sia a Platì, sia in Australia. Si legge nell’atto di accusa: «Alcuni atteggiamenti culturali hanno un’influenza sulla valutazione di una serie di aspetti delle prove di questo caso, tra cui: l’importanza e la sacralità della famiglia; il ruolo delle donne; la sfiducia nell’autorità, in particolare nelle forze dell’ordine; la cultura del silenzio».

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    Australia: armi, droga e denaro sotto sequestro a seguito dell’operazione Ironside del 2021

    Bisogna chiarire: il processo contro Perre dopo 28 anni dall’NCA bombing non è un processo alla ‘ndrangheta in Australia. Eppure, denota un chiarissimo cambiamento di approccio alla criminalità mafiosa da parte delle autorità australiane. Se da una parte è molto promettente, dall’altra rischia di creare ulteriori fraintendimenti sulla presenza dell’Onorata Società nel paese.

    È promettente che si ammetta che esiste in Australia un sistema di potere criminale che si alimenta di una condivisa e cristallizzata cultura mafiosa, risultato di una manipolazione di comportamenti, valori e tradizioni calabresi che la comunità migrante ha portato con sé. Riconoscere come avviene la manipolazione della cultura migrante, cosa differenzia un mafioso calabrese, uno ‘ndranghetista, da un calabrese onesto è un passo fondamentale proprio per preservare quella stessa cultura migrante e non fare di tutta l’erba dei calabresi d’Australia un fascio.

    La “trappola etnica”

    Ma, allo stesso tempo, un focus culturale sulla mafia porta sempre con sé il seme della potenziale discriminazione. Si tratta della ‘trappola etnica’ che porta alcune autorità estere a presumere che certi atteggiamenti e certe forme di criminalità (quella mafiosa in primis) siano legati a una specifica comunità migrante, e che, di conseguenza, ci sia qualcosa di sbagliato nella cultura di uno specifico luogo, in questo caso la Calabria, che rende più probabile per coloro che da lì migrano essere coinvolti in certi tipi di criminalità. Questo è problematico in quanto non vero; i comportamenti mafiosi possono appartenere potenzialmente a tutte le culture, e sopravvivono fintanto che ci sono meccanismi economici e sociali che nulla hanno a che fare né con la cultura d’origine né con la migrazione (si pensi al supporto alla ‘ndrangheta dei colletti bianchi o dei politici o degli industriali, del nord e centro Italia come dell’Australia).

    Un panorama di Platì

    No, il processo contro Perre non è un processo alla ‘ndrangheta, ma è il primo processo australiano che davvero parla di ‘ndrangheta come sistema di potere a connotazione culturale, oltre il traffico di stupefacenti.

    Salvo il diritto d’appello e altri step procedurali, Perre – attualmente in carcere per altra condanna legata a un’importazione di stupefacenti – sconterà forse una lunga pena carceraria. Rimane però da chiedersi, conoscendo la ‘ndrangheta sia calabrese che quella australiana, quanto di concertato ci possa essere stato dietro all’NCA bombing. Se davvero ci sono dei legami della famiglia Perre con il resto della ‘ndrangheta Australiana, viene appunto da chiedersi se qualcun altro sapeva, e approvava, quest’omicidio, o se qualcuno ha aiutato dietro le quinte, anche per far si che per 28 anni non si arrivasse a una condanna.

  • Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

    Strade perdute| Antiche torri, lucciole e nobili ruderi ai piedi del Pollino

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    Avevamo lasciato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) all’altezza delle Vigne di Castrovillari. Pochissimi chilometri più a Sud, l’antico percorso trovava l’altrettanto antico quadrivio, posto pressappoco a metà strada tra due edifici di non poco significato: il Casino Gallo e il castello di Serragiumenta. Antica stazione di posta, il primo, sede di ricche scoperte archeologiche e costruito dunque su edificio preesistente (così come accadde a Nova Siri per la Taverna cinquecentesca lungo il Tratturo Regio, la quale pure oggi resiste ma nulla più ha di antico); maniero rinascimentale dei Sanseverino, il secondo.

    Dal quadrivio allo svincolo

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    Santa Margherita in Ciparsia

    Oggi l’incrocio originario è seppellito sotto al nuovo, ieri era un crocevia fondamentale, tra la Contrada Cammarata e quella degli Stombi. Pochi metri più ad ovest, la storia si ripete e si incarna nello svincolo autostradale per Sibari-Firmo-Saracena. Da qui si intravede magnificamente il monastero di Santa Margherita in Ciparsia, diruto sulla collina, in mezzo a file di ulivi. Ciparsia/Capràsia, altro nome di una statio, stavolta più antica, sulla Annia-Popilia.
    Qui si univano i punti cardinali della Magna Grecia e, ancora, i corsi d’acqua del Garga, del Gordo, dell’Esaro. Siamo alla testa, se non nel cuore, della Piana di Sibari, in mezzo alla triade fluviale Crati-Esaro-Coscile. Lungo la strada per Sibari, sull’estremità orientale si raggiunge l’altra piazzaforte cinquecentesca dei Sanseverino: il Castello San Mauro; nel mezzo, una tendenziale desolazione, umana e infrastrutturale.

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    Il Castello San Mauro

    Strade, stradoni, autovelox, blocchi spartitraffico si rincorrono in mezzo agli agrumeti, costeggiando più avanti le floride masserie dei Chidichimo, fino al ponte Mariacristina, nei pressi della Contrada Lattughelle. Un ponte buffo, questo. Breve, e ripido da una parte e dall’altra. Piccolo ma ardito nella sua comica necessità di scavalcare un binarietto ferroviario di scarso utilizzo. Proprio nulla a che vedere con l’omonimo ponte ottocentesco nel beneventano…

    Attribuisco a questa strada un primato indecoroso: dopo aver guidato in 2 giorni attraverso 10 regioni d’Italia, su tratte di ogni tipo, è qui che ho incrociato i peggiori guidatori, fieri di mosse da tentata strage. Roba da ritiro della patria potestà, oltre che della patente.

    Via del campo

    Ma, dicevo, più nel cuore della Piana, cosa c’è? La piccola motta naturale della zona archeologica di Torre Mordillo. Quell’avamposto che conserva – a me pare – un che di lugubre, mentre ora resta solo a guardia del lenocinio lungo la Strada delle Terme: prostitute, infatti, ad ogni ora del giorno, ogni giorno dell’anno. Ai soliti incroci, all’ombra delle solite siepi, al sole delle stesse piazzole di sosta. Credo d’aver visto una situazione più degradata, in Italia, solo sulla SS16 tra Sansevero e Marina di Chieuti. Oppure sul confine fra Marche e Abruzzo, tra Offida e Ancarano, dove addirittura l’ufficialissima segnaletica verticale ammonisce “divieto di contrattare prestazioni sessuali”.

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    Due ragazze in attesa di clienti nella piana di Sibari

    Lo spettacolo del Pollino

    Verso la Strada delle Terme scendono dalle colline più a Sud alcune vie tra loro gemelle, come affluenti che si riversano verso il fiume principale. Sono le varie strade per San Lorenzo del Vallo, Tarsia, Spezzano Albanese eccetera. È bello percorrerle in discesa, quando dalla loro sommità – ad esempio dalla cappelletta di San Francesco di Paola, subito fuori Tarsia – ci si para davanti lo spettacolo di tutte le cime del Parco Nazionale del Pollino, anzi di più: dal Cocuzzo al Sèllaro, un anfiteatro orografico apparecchiato da un mare all’altro, con le principali spaccature in evidenza – quelle della Gola del torrente Rosa e quella di Campotenese – che per millenni hanno suggerito il miraggio di un varco semplice per il mare e per il Nord.

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    Filari di lavanda a Campotenese

    Come don Chisciotte

    Un’altra di queste vie, nella stessa zona, passa donchisciottescamente proprio in mezzo a un gruppo di pale eoliche. Ma siamo senza Sancho Panza e qui c’è più odore di erbe selvatiche, quasi d’incenso, e di balle di fieno. Tutte queste strade sono state, da tempo immemorabile, le uniche opportunità per scollinare da Sud verso la Piana di Sibari prima dell’arrivo della galleria autostradale di Tarsia.

    Pale eoliche tra Tarsia e Spezzano Albanese (foto L.I. Fragale)

    Oggi vi si incrociano talvolta sciami di motociclisti, più spesso un trattore o un’Ape qua e là e, per uno strano incantesimo, una quantità inspiegabile di auto storiche (non necessariamente ‘blasonate’ e perciò, invece, relitti magnifici nella loro semplicità). Come se le vecchie automobili fossero rimaste ammanettate alle strade della loro infanzia, non essendo del resto troppo adatte alle nuove strade. Meglio così, perché mai sorpassare una vecchia 500 luccicante quando un turista straniero pagherebbe oro per guidarle lentamente dietro, nel mezzo di una campagna italiana?.

    La piana degli errori urbani

    Più interna è la strada che aggira le colline da Ovest, quella che dai pressi di Ferramonti risale verso Contrada Cimino per raggiungere una minore località “Amendolara” attraverso le alture amene del Ghiandaro, Stamile e Maiolungo (erroneamente segnalato – da qualche parte – come Mailungo, mentre è chiaramente il majo, il ramo. Come quei Maiolo e Maioletto nelle colline riminesi a ridosso del Montefeltro).

    Resti della villa romana di Larderia (Roggiano Gravina)

    Qui resiste ancora qualche florida fattoria in piena attività, non resiste però quell’enorme quercia monumentale in mezzo al nulla, mozzata un paio d’anni fa per chissà quale ragione. E fa invece orrendo sfoggio di sé un’immancabile cattedrale nel deserto (un’ipotesi di centro commerciale con megaparcheggio?) che dà il benvenuto nella piana degli errori urbani, come lo Scalo di Roggiano-San Marco – palma di bruttezza a pari merito con un altro paio –, inemendabile come tutti quegli scali che costellano la Calabria come paillettes di pessimo gusto su un capo da bancarella rionale.

    La civiltà del buongusto

    Eppure a pochissimi chilometri da qui fioriva una civiltà, e una civiltà del buon gusto. Ne sono testimoni le aree archeologiche – tra loro vicinissime – di Roggiano Gravina e di Malvito (ovvero le ville romane di Larderia e di Pauciuri). Gli stessi luoghi dove, secoli dopo, cominceranno a sorgere altre tipologie di “ville”, ovvero certe magnifiche masserie padronali come il bellissimo fortino turrito del Casino Amodei, in contrada Occhio di Bove, che oggi affaccia sull’invaso dell’Esaro; o l’imponente Casino La Costa, palazzotto signorile munito anch’esso di torri, dodecagonali, ai quattro angoli (e oggi sede di una rispettabile azienda vinicola); e poi il Casotto Mirabelli, verso contrada Peiorata, una sorta di masseria da villaggio Potëmkin, così com’è, tutta facciata e niente arrosto (nel senso di profondità).

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    Il Casino La Costa agli inizi del Novecento

    Una curiosa parentesi su questi Mirabelli… il secondo Catasto Onciario di Malvito (una sorta di censimento del Regno, redatto soprattutto a fini fiscali), trovai, elencato nel nucleo familiare del “nobile vivente” don Luigi Mirabelli – assieme a moglie, figlio, cameriere, due servi, una serva, un servitore, un famiglio, due ‘volanti’ e due mulattieri – finanche “Asà, schiavo costantinopolitano”: l’unico, peraltro, privo finanche di età dichiarata e/o conosciuta. E siamo al 1783. Mica a chissà quanti secoli fa…

    Fattoria abbandonata presso Contrada Ministalla di Mottafollone (foto L.I. Fragale)

    Il paese delle magare

    Se procedessimo verso Mottafollone troveremmo invece gli edifici rurali più modesti di contrada Ministalla (dal germanico marhastall, scuderia, il che vale anche per l’omonima contrada sibarita o per la Menestalla di Scalea). E invece torniamo a Malvito. Che, nei secoli, si è ritirata sulla collina: mi pare sempre in ombra, sempre torturata dal vento. Anni fa ne ho visto le vecchiette coprirsi un lato del volto – quello appunto preso di mira dalle raffiche – mentre si recavano puntuali alla messa pomeridiana, benché sapessero benissimo che il prete fosse un ritardatario cronico.

    Fuorviate dall’innocentissima borsa di pelle dell’ignoto sottoscritto – e con l’aggravante della compagnia di un amico medico del luogo – chiesero, preoccupate, chi stesse male in paese. Chi talmente tanto da dover necessitare l’intervento di un medico forestiero. L’abito può non fare il monaco ma una borsa sì. Ma se fosse davvero paese di magare, come qualcuno dice, non avrebbero dovuto saperlo prima di noi?

     

  • IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    IN FONDO A SUD| Vibo: dove gli dei non abitano più

    Che Calabria è e che città è quella che si chiama Vibo Valentia?
    Vibo è un altro di quei luoghi che mi interroga ogni volta che ci rimetto piede. Specie da quando è diventata capoluogo della sua omonima, e sparutissima, provincia. Un territorio che fa in tutto 150.000 abitanti sparpagliati in 50 Comuni e comunelli disseminati tra le Serre e le marine del Tirreno.
    Lo stesso capoluogo è poco più di un paesone, con una sua certa araldica, se rievochiamo i suoi tanti nomi (Hipponion, Valentia, Monteleone) e il passato. Ma oggi?

    Il crollo demografico

    Oggi conta un po’ più di 30.000 abitanti ed è in drastico calo demografico come il resto della regione, nonostante quasi 1.700 stranieri residenti. Però Vibo Valentia è “il comune più popoloso della cosiddetta Costa degli Dei”. Il maggiore distretto turistico calabrese, dove la ’ndrangheta è monopolista. E fa affari d’oro tra alberghi a 5 stelle, ristoranti e resort di lusso da Nicotera a Tropea, fino a Pizzo Calabro.

    La Costa degli Dei

    In Calabria – vuoi mettere? – ci si consola con i nomi aulici e si convocano gli Dei a ogni piè sospinto. Specie se il presente lascia invece poche speranze all’immaginazione. E rende opaca la sorte di intere comunità per il futuro prossimo e quello venturo.

    Il disastro urbanistico

    Capisci il senso dei luoghi già dalle strade malmesse che – dal tronco della Statale 18, alla provinciale che sale da Porto Salvo e Triparni all’ingresso di Vibo Sud – sono cosparse ai lati da mucchi di rottami sparpagliati ovunque. A tacere del trionfante disordine urbanistico che precede il centro città, lungo Viale Affaccio.
    Un posto certamente ricco di passato Vibo. Ma un passato remoto saccheggiato, svisto, trascurato con stizza e con disprezzo dagli abitatori moderni.
    Che qui tutto cancellano nella fretta smemorata e oltraggiosa dell’oggi.

    Gli dei non abitano più qui

    Arrivato in cima alla vecchia Vibo, mi guardo intorno dal piazzale antistante alla tetra muraglia del Castello normanno-svevo, sede del Museo Archeologico Statale intitolato a Vito Capialbi, che conserva cose bellissime in sale drammaticamente deserte. E guardandomi intorno a giro d’orizzonte dal posto dove fu costruita probabilmente l’Acropoli dell’antica Hipponion dei greci mi sono chiesto: «Ma gli Dei da queste parti da quanto tempo non ci mettono più piede?».

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    Un antico mosaico a Vibo

    Di sicuro non si vedono da qualche millennio. Dai tempi della polis fondata dai locresi tra il VI e l’inizio del V sec. a.C. che guidò una guerra contro Crotone, come ricorda Tucidide.
    Oggi tutto quel che resta delle monumentali mura greche di Hipponion è seppellito sotto intrichi di rovi ed erbacce. Altri pezzi stanno al riparo di una tettoia di lamiera. Quasi misconosciuti ai più, soprattutto agli ingrati abitanti del luogo. Un’assurdità. Un avanzo di storia millenaria sperso in mezzo alla campagna aggredita dai palazzoni della periferia.

    Brutture postmoderne

    Cubi di calcestruzzo dalle forme più bizzarre e pretenziose tirati su alla buona dalla speculazione degli anni d’oro del mattone, età che qui non sembra conoscere tramonto. Le divinità del mattone e del cemento pressofuso regnano da queste parti. La dea Speculazione spadroneggia indisturbata.

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    Un parco pubblico nel degrado

    Tutto sottosopra. Il passato classico e le memorie monumentali, greche e romane, oberate da un presente di cemento armato e casermoni a spaglio, villette sgraziate, cooperative di abusivi condonati e in attesa di condono.
    In quartieri che si chiamano “Moderata Durant”, “Cancello Rosso”, “Feudotto”. Terre di nessuno abbandonate al proprio destino. Esempi sommi di urbanistica disperata e arraffona, dove nel 2022 ancora manca l’acqua. Ma non è il presente che qui sembra fare più scandalo. Il passato da queste parti è considerato invece una maledizione da cui non ci si libera in fretta. Preferibilmente a colpi di ruspa, come si suole fare per non intralciare affari e speculazioni a buon mercato.

    Guai agli onesti

    Chi sta con lo Stato e la cultura e si oppone allo scempio non se la passa bene a Vibo. Ne sa qualcosa Maria Teresa Iannelli, archeologa e solerte funzionaria del Mibact.
    Iannelli ha subito minacce e soprusi per sottrarre i resti antica Hipponion dalla furia degli speculatori alla Cetto la Qualunque che qui spadroneggiano.
    Non è una piazza decisamente sensibile anche ad altre sfumature della cultura la città che fu dell’euruditissimo barone-archeologo Vito Capialbi.

    Christian De Sica da giovane

    Né conserva un bel ricordo di Vibo Valentia Christian de Sica. In una recente intervista, l’attore ha richiamato un suo souvenir “teatrale” del capoluogo: «Avevo 21 anni e conducevo una serata a Vibo Valentia, con giacca rosa e capelli lunghi. Cantavo una canzone francese, Chaînes, cioè “Catene”, mentre la gente dalla platea mi urlava “Ricchione”. Da allora a Vibo non c’ho più rimesso piede».

    Si muore male e si vive peggio

    C’è poco da stare allegri in quanto a sensibilità civili. L’aria che si respira in città sembra ovattata dalle abitudini, da una acquiescenza al peggio diventata folclore e stile di vita.
    A guardarla da fuori, dalla poco lusinghiera classifica stilata da Italia Oggi sino ai più recenti reportage delle grandi testate, Vibo sembra un’emergenza più nazionale che regionale. È la provincia d’Italia in cui si registrano più omicidi. E, neanche a dirlo, anche quella messa peggio per qualità della vita.
    Nicola Gratteri l’ha definito il territorio a più alta densità mafiosa del Paese. E, con recenti conferme dalle inchieste, è anche una le città più massoniche d’Italia.

    Terra di grembiuli e ’ndrine 

    Ci sono ben dodici logge su una popolazione risicata. Sono invece ben sedici le ’ndrine censite dalla Dia in un rapporto semestrale del 2018.
    Altri dati certificano un quadro a dir poco fosco. Il 30% delle aziende della provincia è stato confiscato dalle autorità negli ultimi 10 anni per infiltrazioni e contiguità con le ’ndrine.
    Vibo ha celebrato con gran pompa la proclamazione a Città del Libro 2021. Ma risulta che più di due ragazzi su dieci lasciano la scuola entro i 15 anni.

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    L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”

    L’ospedale Jazzolino, tristemente famoso per episodi di malasanità tragicamente frequenti e per corruzione amministrativa, cade a pezzi e se ne reclama uno nuovo.
    Per giunta, anche il tribunale, simbolo dei poteri legali che qui da sempre faticano ad attecchire, versa in una situazione altrettanto critica. E lo Stato ha collocato stabilmente una caserma di “Cacciatori”, il corpo dei carabinieri a elevatissima specializzazione anticrimine, che stana ‘ndranghetisti e mafiosi latitanti.

    Abusi e caos

    Invece prosperano in ogni angolo di Vibo gli abusi urbanistici, le discariche, le strade che si perdono nel caos, i cartelli stradali completamente cancellati e ricoperti dalla vegetazione.
    L’occhio basta a cogliere molti aspetti del degrado. Ancor prima di registrare i pochi, timorosi, commenti raccolti dei cittadini perbene che ancora sopravvivono a fatica in questa città. Dichiarazioni da stato di assedio. In quasi tutti prevale il risentimento o la rassegnazione: «Senza sanità, trasporti, lavoro. Qui stiamo peggio degli africani che sbarcano alla marina».

    Rifiuti per strada alla Marina di Vibo

    Oppure qualcuno più preoccupato delle sorti civiche: «Qui ormai la delinquenza sta vincendo su tutto, e i politici sono pure peggio dei mafiosi, non ci sono speranze».

    Troppe banche per tanti poveri

    Percorrendo le strade del centro sono molte le saracinesche abbassate e le insegne di negozi chiusi. Mentre proliferano, apertissime e animate da giovani vocianti, le numerose sale per slot e i centri per scommesse sul corso principale e nelle adiacenze.
    E c’è una quantità sospetta di sportelli bancari. Troppi per una città in cui il reddito medio (dichiarato) è spesso molto al sotto la soglia di povertà. «Questa città non ha futuro», commenta sconsolato un piccolo imprenditore, «e ai miei figli ho chiesto io di allontanarsi da qui finché sono in tempo».

    I ricordi di Prestia

    Così prosegue il lento, inarrestabile declino di una città che un tempo era un «belvedere, un giardino fiorito su un mare di storia e di bellezze».
    Me lo racconta Mario Prestia, ingegnere idraulico, perito nelle inchieste per le alluvioni che negli anni scorsi hanno fatto danni e morti nella zona marina di Vibo, a causa degli abusi sfrenati e del saccheggio sistematico di un territorio bello quanto fragile.
    Prestia è anche figlio di uno scultore notevolissimo: Gregorio Prestia, che a Vibo pare non aver lasciato tracce ed eredità culturali. Né e andata meglio al più noto e famoso pittore Enotrio Pugliese,

    A destra nella foto, il pittore Enotrio Pugliese

    È doloroso ammettere che oggi Vibo Valentia registra una serie incredibile di tristi primati.
    È una realtà decisamente ostile ai cambiamenti, in netta controtendenza rispetto anche agli alfieri della “restanza”, la testimonianza di una fedeltà alle radici a tutti i costi che sa di lezione ex cathedra. Quando a restare sono, invece, troppo spesso, i peggiori.

    Il teatro dell’assurdo

    Negli ultimi 15 anni oltre 180.000 calabresi sotto i 35 anni hanno abbandonato le proprie residenze. E il Vibonese è stabilmente in testa all’esodo.
    Molte migliaia di ragazzi e ragazze, con un titolo di studio superiore o universitario, hanno abbandonato la città per cercare altrove un futuro migliore.
    A Vibo Valentia restano gli inossidabili simulacri di socialità rappresentati da Rotary e Lions, con le loro azzimate riunioni periodiche, i riti associativi che tra inni e gagliardetti raccolgono il pubblico-bene, sempre in grande spolvero nei saloni dello storico Hotel 501.
    Chi non si rassegna continua invece a organizzare cultura dal basso nell’isolamento. Una specie di deserto dell’ascolto e dell’attenzione, come nel teatro dell’assurdo alla Ionesco. Le iniziative tese a risvegliare la città dal torpore cadono nel vuoto spessissimo. O, peggio, nell’irrisione, che parla sempre in dialetto forte e fangoso, e usa spesso toni offensivi.

    Gli sforzi delle associazioni

    «Dobbiamo essere bravi – mi dice un operatore culturale impegnato nell’associazionismo cattolico cittadino – a far capire che l’omertà e un certo modo di vivere i rapporti col prossimo genera mostri. Bisogna combattere le minacce, e soprattutto il codice mafioso del silenzio che qui è la regola».
    Queste parole contraddicono le dichiarazioni rassicuranti rese tempo fa dall’ex sindaco Elio Costa, ex magistrato.

    L’ex sindaco Elio Costa

    Interpellato in un’intervista sul peso imbarazzante dei poteri criminali nella vita di Vibo Valentia, Costa rispondeva mostrando con ammirazione il mare e lo Stromboli all’orizzonte. E alla replica, «Bello, sì, però la ‘ndrangheta?», rispondeva: «C’è, però la maggior parte degli affari li fa altrove…».

    Un brutto ricordo

    Ho un ricordo particolarmente sconfortante di una delle ultime volte che passai da Vibo per trovare degli amici. Nei pressi di un incrocio del centro, fui tamponato, del tutto incolpevolmente, da un guidatore distratto dal telefonino che rispettò lo stop.
    I danni al mezzo erano mei, alla sua auto neanche un graffio. Ma questi non si scompose.
    Chiamai i vigili per un accertamento del sinistro. Il vigile arrivò, mi squadrò e diede un’occhiata d’intesa all’investitore. Per tutto il tempo si parlarono in un dialetto strettissimo. Protestai. Ma il suo intento era però chiarissimo. Giocavo fuori casa, e quel tizio doveva essere uno conosciuto: alla fine mi trovai dalla parte del torto. Come Vibo.

  • MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

    MAFIOSFERA| Ucraina: il prossimo outlet di armi per la ‘ndrangheta?

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    Ucraina e ‘ndrine: quanto è grande il pericolo? Tra i protagonisti semi-invisibili della guerra, che va avanti dal 24 febbraio 2022, ci sono le armi e i mezzi di offensiva bellica.
    Certo, di armi si parla sempre: sia per disquisire dell’attacco russo sia per comprendere la difesa ucraina. Anche perché dall’Occidente (gli Usa ma anche l’Italia) continuano ad arrivare armi in supporto all’Ucraina.
    Tuttavia, queste armi rimangono largamente “immaginate”, astratte, semi-invisibili, “ingoiate” da un conflitto che non si sa quanto ancora durerà.

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    Soldati ucraini con nuove armi occidentali

    Si spera, però, che prima o poi le ostilità finiranno. Solo allora molte cose che appaiono ingarbugliate emergeranno, anche e soprattutto fuori dall’Ucraina.

    Armi dall’Ucraina alle ‘ndrine: l’allarme di Gratteri

    A proposito di armi e della loro invisibilità, la comunità internazionale, in prima linea l’Interpol, ha lanciato l’allarme: dopo il conflitto ci potrebbe essere un’iniezione di armi da guerra sul mercato nero, a disposizione di gruppi criminali che le acquisteranno o faranno affari col loro traffico.

    In Italia, ha ribadito il monito, tra gli altri, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.
    Gratteri, durante un’intervista a Piazza Pulita del 27 maggio, ha avvertito che la guerra in Ucraina potrebbe avvantaggiare la ’ndrangheta proprio per l’accesso al mercato illegale delle armi da guerra.

    Il magistrato aveva già fatto riferimento al Crimine, una struttura all’interno di ogni locale di ‘ndrangheta, che agirebbe come Ministero della guerra.
    Il suo compito, commenta il procuratore, è anche procurarsi armi per “l’esercito”: «Già era successo dopo la guerra in Jugoslavia, dove la ‘ndrangheta acquistava esplosivo, armi, bazooka. Lo stesso accadrà in Ucraina, con armi ancora più sofisticate: si potranno comprare a prezzo di outlet, perché la gente avrà fame, e non si sa in che mani vanno a finire».

    Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri

    Povertà in Ucraina e armi low cost alle ‘ndrine

    Queste espressioni fanno riflettere sulla disponibilità di armi a basso costo, dovuta alla povertà della popolazione ucraina. Inoltre, mettono l’accento sulla praticabilità e permeabilità di questo mercato illecito da parte della ‘ndrangheta.
    Da un punto di vista analitico, però, non tutto è poi così chiaro o determinato o giustificato. D’altronde non spetta certo al procuratore Gratteri offrire analisi di criminologia, visto che lui fa un altro lavoro.

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    Un catalogo d’armi nel dark web

    Eppure, diversi commentatori hanno rilanciato l’allarme, incluso il riferimento alla ex Jugoslavia. Essi hanno fatto capire che la ‘ndrangheta, ma non solo, potrebbe intervenire in diversi settori della guerra Russa-Ucraina oltre che in quello delle armi (ma non si sa bene quali siano questi settori) e che il traffico di armamenti include percorsi virtuali (il dark web).
    Come spesso succede negli shock geopolitici (disastri naturali, crisi sanitarie e umanitarie, guerre e via discorrendo) si rischia di reagire con un’iperbolica percezione – e narrazione – del rischio. E questa, a sua volta, genera un fenomeno noto in criminologia: il panico morale.

    Il panico morale

    Per panico morale si intende il processo per cui un evento (o un gruppo) ordinario e già esistente viene percepito e raccontato dai media come straordinario.
    In questo caso, l’evento ordinario e presente è il traffico di armi. A esso viene associata una minaccia straordinaria legata alla guerra in Ucraina.
    Proprio com’è stato per la pandemia, si rischia di esemplificare uno scenario complesso e poliedrico – il traffico di armi (da guerra e non) – attribuendo alle mafie la deterministica volontà, basata su una capacità scontata, di cogliere una ghiotta occasione di arricchimento.

    La mafia onnipotente? Non esageriamo

    Non vorrei essere fraintesa: è indubbio che alcuni gruppi mafiosi vogliono cogliere tutte le opportunità di arricchimento. E sono innegabili le condanne subite negli anni dai membri di alcuni clan per la detenzione di armi, comuni e da guerra (si veda per esempio la sentenza d’appello per il processo Mandamento Ionico di qualche giorno fa), e per il loro traffico (preponderante nel processo Imponimento ancora a dibattimento).

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    La lettura della sentenza del processo “Mandamento Ionico”

    Eppure, la capacità della ‘ndrangheta – o meglio di alcuni suoi clan – di entrare e avere successo in un settore (nuovo o improvvisamente rivitalizzato) non è mai predeterminata.
    Affermare il contrario – e quindi rendere assolute evidenze occasionali e sporadiche – o parlare al futuro anziché al condizionale, crea solo una forma di panico morale, secondo cui, ancora una volta, la mafia è onnipotente e incontrastabile.

    Armi e ‘ndrine: il mercato nero in Ucraina

    Nelle crisi e nelle opportunità che esse offrono il successo di nuove o rincarate imprese mafiose dipende da tre fattori: la natura del mercato; la natura degli attori nel mercato e i meccanismi di controllo e contrasto.
    Per quel che riguarda la natura del mercato e i suoi attori dal punto di vista dell’offerta, è interessante l’analisi del Global Organised Crime Index. Secondo questo studio, l’Ucraina vanta da anni uno dei più estesi mercati di armi in Europa. Non è dunque una novità di questa guerra, ma un primato consolidato dal conflitto nell’Ucraina orientale di quasi dieci anni fa.

    L’identikit dei trafficanti

    In Ucraina, la maggior parte delle armi era già trafficata all’interno del Paese (e ora anche inviata in supporto alla guerra). Tuttavia i network impegnati nel traffico illegale di armi nel paese non sono individuali o spuri. Né sono collegati necessariamente a condizioni transitorie di povertà.
    Inoltre, sono collegati a network criminali in Russia, Bielorussia, Moldavia, Georgia e Turchia, oltre che a broker e acquirenti in Paesi dell’UE e dell’ex Jugoslavia.

    Armi dal mercato nero balcanico

    Dal punto di vista della domanda, in Europa occidentale – quindi anche in Italia – il commercio maggiore riguarda le armi leggere. In questo mercato dominano le forniture provenienti dall’ex Jugoslavia e dai network balcanici che dominano le rotte. Laddove è relativamente facile, per i gruppi criminali europei – ’ndrangheta inclusa – procurarsi una pistola o un fucile d’assalto, molto più difficile risulta reperire un Rpg (lanciarazzi) o una mitragliatrice e i loro ricambi. Per farlo occorrono denaro e i giusti collegamenti nell’area.

    Armi ucraine: il vero mercato non è l’Europa

    È probabile che la maggior parte delle armi provenienti dall’Ucraina – che in Europa sembrano quasi un esubero – sarà destinata ad altre zone di conflitto. Cioè l’Iraq, la Siria e la Libia.
    In questi luoghi, molto più che da noi, c’è una domanda di armi pesanti tale da renderne redditizio il traffico.
    Ciò non vuol dire che qualcuno dei “nostri” gruppi criminali non acquisterà ulteriori armi da guerra. Né che, in alcune circostanze, persone vicine ai clan calabresi non si occuperanno di traffico di armi dalle zone ora in guerra.

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    Miliziano in azione nel teatro libico

    Il business è lucrativo e soprattutto già abbondantemente avviato. Le motivazioni dei clan mafiosi nell’acquisto di tali armi poi, sono ancora tutte da comprendere. Ad ogni modo, nel grande schema del mercato in questione, degli incentivi per l’acquisto e dei suoi attori, le armi ucraine andranno massicciamente altrove.

    Non sottovalutiamo l’allarme

    Occorre comunque prendere sul serio l’allarme di Interpol e di Gratteri, sebbene lo si debba sfrondare dai toni deterministici e assoluti: anche poche armi in più possono fare la differenza nel danno sociale.
    A livello internazionale si discute da tanto del mercato delle armi per prevenirne il traffico.

    Rimedi necessari ma insufficienti

    Al riguardo, si parla di potenziare il tracciamento di ogni singola arma, e dell’aumento delle risorse di polizia internazionale per comprendere i network e le rotte criminali. Ma, come in molti altri traffici illeciti, il problema è la produzione del bene illecito, e non tanto il suo sfruttamento.
    Detto altrimenti: il nodo vero nel contrasto al traffico di armi è l’esistenza stessa delle guerre, senza le quali non si produrrebbero tante armi.
    Perciò, rendere il traffico di armi meno lucrativo per i gruppi criminali e potenziare i controlli, non può purtroppo essere strategia sufficiente, se dopo questa guerra ce ne sarà un’altra.