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  • STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

    STRADE PERDUTE| L’altra Tropea: trombe d’aria e riti magici oltre la cartolina

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    Nel 2020 scoppiava – oltre alla pandemia – la non meno diffusa indignazione dei calabresi per l’agghiacciante domanda posta da Raoul Bova nel corto-marchetta di Muccino per la Regione Calabria: «Dove vuoi che ti porto?». Giusto! Quell’errore grammaticale era assolutamente poco realistico. E io aggiungevo: sarebbe stato tristemente più veritiero un «dove vuoi portata?».
    Sia come sia, ne venne fuori un’insopportabile polemichetta sulla rappresentazione da cartolina, sui filtri ferocissimi, le coppole e i gilet, gli agrumi estivi e i fichi in spiaggia: segno che in tanti avrebbero preferito non tanto uno spot turistico ma un servizio in stile Report (tanto i turisti stanno comunque alla larga). Contenti loro, ma bisognava capire che una cosa è la promozione turistica, altra la denuncia.

    Tropea o tromba d’aria?

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    La Tropea da cartolina

    Tutta questa premessa per dire che l’Oscar per la cartolina trita e ritrita spetta e spetterà sempre a Tropea (al secondo posto: l’Arcomagno, ma ne parliamo un’altra volta). Tropea, trupìa, tempesta, temporale. Anche le tropee, così come le trombe marine, vengono “tagliate” dagli anziani del posto.

    Nella Calabria tirrenica «quando si approssima una tropea, venti improvvisi che in estate-autunno si scagliano a vortice dal mare sulla costa, il più anziano dei contadini la “taglia”, recidendo in tre parti un tralcio di vite. Si rivolge verso la tropea che avanza e in atto solenne, mentre taglia, pronuncia alcune parole rituali» (lo scriveva pure Orazio Campagna, in un eccezionale libro pubblicato nel 1982 e oggi abbastanza introvabile: La regione mercuriense nella storia delle comunità costiere da Bonifati a Palinuro). Ma in questo caso non si tratta di una vera e propria tromba marina. E allora torniamo a Tropea con la T maiuscola e ai suoi dintorni.

    La magia delle donne

    Poco più a Sud, nel circondario di Palmi, la tromba marina è detta cuda d’arrattu: in questo caso «le donne del luogo, guidate da una che ha poteri magici, corrono sulla spiaggia impugnando nella destra un coltello a punta, col manico d’osso bianco, e con esso sciabulìano ’u celu con larghi, decisi fendenti. Colei che le guida punta il coltello contro la tromba e le urla “Luni esti santu / marti esti santu / mercuri esti santu / juovi esti santu / vènnari esti santu / sabatu esti santu / dumìnica è di Pasca / cuda ’e rattu casca“; e ogni volta che dice “esti santutraccia nel cielo, sempre in direzione della tromba, una croce, subito imitata dalle altre donne; poi, quando arriva a “dumìnica è di Pasca / cuda d’arrattu casca“, vibra un fendente da destra a sinistra e un altro dall’alto in basso, squarciando così il mostro».

    Non solo cristianesimo

    E che c’è di strano? Nulla: se nelle invocazioni contro le trombe d’aria i marinai timorati di Dio (e ancor più di Satana) fanno uso, allo stesso tempo, di formule cristiane e di formule salomoniche, dobbiamo ricordare – sto scherzando ma non troppo – che a due passi da qui nacque e morì Antonio Jerocades, l’abate eretico e massonissimo. Anzi, uno dei primissimi “grembiuli” della Penisola.

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    L’abate Antonio Jerocades

    Insomma, lo scriveva – ahinoi – anche il verboso De Martino: ««Il momento magico si articola in raccordi e forme intermedie che concernono il cattolicesimo popolare e le sue accentuazioni magiche meridionali, sino al centro dello stesso culto cattolico». Frasetta adatta all’uditorio marxista del tempo, manca solo “nella misura in cui”. Ma la sostanza c’è. De Martino voleva dire, per farla un pochino pochino più semplice, che il teismo o è contemplato in forme integrali, che comprendano ogni sottospecie di pratica cultuale che vi si possa connettere, o perde coerenza e crolla. Ma, per carità, torniamo a Tropea.

    Tropea oltre Muccino

    No, scordatevi che io scriva delle bellezze naturali e storiche del luogo oppure della cipolla rossa venduta a peso d’oro (il pomo della concordia… La pietra filosofale? Oppure l’occultus lapis che si rinviene, appunto nelle interiora terrae?). Butterò soltanto un’informazione poco nota: al diavolo i pernottamenti di Garibaldi in almeno 366 luoghi diversi all’anno (almeno 367 negli anni bisestili ma, si sa, lui era più trino che uno), a me pare molto più interessante scoprire che nell’agosto del 1965 a Tropea ha dormito Georges Perec.

    Lo annotò nei suoi diari, come in un Tripadvisor privatissimo: «La spiaggia è assai lontana, molto bella, in basso; la camera è grande, persiane chiuse a causa del caldo». Ne tracciò persino una mini-planimetria (il foglietto, per la precisione, sta a Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal, Fonds privé Georges Perec, Lieux où j’ai dormi, 48.6.2, 14r). Questo per dire che si può rispondere a Muccino, eccome. Ma con argomenti di qualche auspicabile spessore. E certo, mi direte voi (?): Perec nel ’65 non era ancora nessuno, stava appena esordendo con Les Choses. Dici niente!, vi rispondo io.

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    Appunto dai diari di Georges Perec

    Massoni e sedie impagliate

    Ma abbandoniamo sia le cartoline sia i dagherrotipi: lasciamo stare Tropea, gli agosti calabri, e dirigiamoci verso l’interno, per tornare a Nord. A occhio e croce, la strada più difficile è quella che da quaggiù passa per Soveria Mannelli, e allora facciamola. Aggiriamo Girifalco, anche perché di massoneria ho già parlato troppo e non sarei il primo a ricordare che proprio in questo paese sorse la primissima loggia d’Italia, la Fidelitas (anno Domini 1723, appena sei anni dopo la fondazione della loggia madre a Londra: ah, la precocità!).

    Passiamo invece per Migliuso, amenissima frazione rurale della più lontana Serrastretta. A dividerle, una strada non proprio intuitiva. Ulivi, ulivi, ulivi, panorami meravigliosi e una trattoria dove – e poi se la prendono con Muccino! – dei bambini tornati da scuola suonano la fisarmonica; dove ordino un secondo senza contorno e la signora mi porta anche le patatine: «tanto… le dovevo fare per i bambini, le faccio pure per Voi». E dire che Serrastretta passerà alla storia più che altro per essere il paese degli impagliatori di sedie e, ancor di più, per aver dato i natali ai genitori di Iolanda Gigliotti in arte… vabbé, che ve lo dico a fare?

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    Sedie serratrettesi doc

    Incappucciati

    Ma non c’è tempo per riposare le terga sui manufatti locali… pieghiamo per Gimigliano e non c’è niente da fare, impossibile restare lontani da un po’ di sano anticlericalismo calabro e di esoterismo locale: qui nacque Tiberio Sesto Russilliano (o, meglio, Rosselli) il quale, senza farla lunga, nel 1519 pubblicò l’Apologia contro i chierici, ovvero l’Apologeticus adversus cucullatos (si, lo so, “cucullatos” sta per “incappucciati” ma non bisogna fraintendere, qui si riferisce proprio alla pretonzoleria). E qui nacque pure il cucullatissimo francescano (abbastanza eretichello) Annibale Rosselli, morto a Cracovia nel 1592, autore di un monumentale commento in sei tomi al Pimandro  attribuito a Ermete Trismegisto.

    Insomma, la Calabria centromeridionale non ha partorito solo Mino Reitano. Rimettiamoci in cammino: passiamo per Carlopoli, Castagna e per la bella frazione di Colla. I boschi si fanno mano mano più fitti e siamo già a Conflenti, Martirano Lombardo, Martirano non lombardo, San Mango d’Aquino, paesi arrampicati sopra gli orridi dell’ultimo tratto del Savuto o, per i più superficiali, sopra gli omonimi svincoli autostradali delle tratte più infelici dell’Italia d’oggi. Altra storia.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    MAFIOSFERA| ‘Ndrangheta international: l’anno che verrà

    Caro ‘ndranghetista ti scrivo, ma da distrarsi c’è molto poco.
    Nella generalizzata incapacità analitica che caratterizza gli organi di potere e alcuni organi di stampa, italiani e non, non sorprende che a fare presagi sull’anno che verrà, quando si tratta di criminalità organizzata, ci si confonda soltanto.
    Da una parte, è ormai consolidata una retorica per cui certa parte della criminalità organizzata – primariamente la ‘ndrangheta calabrese – onnipresente e onnivora, sia praticamente indomabile. E, dunque, a che serve fare pronostici?

    Dall’altra, la difficoltà a mettere ordine tra dati, tendenze e orientamenti occasionali di mercati illeciti, che dipendono da tante variabili sovrapposte e sovrapponibili, chiama in causa i ricercatori. Che, si sa, non comunicano sempre molto bene o non sono chiamati a farlo da chi poi si occuperà di comunicazione o politiche di massa. E, dunque, come ci si può districare tra i mille dati, spesso contraddittori?

    Cinque elementi da considerare nel 2023

    Il mondo cambia poi troppo velocemente, tra pandemie, guerre, nuovi e vecchi volti della politica mondiale. E i fenomeni sociali sono un po’ come le funzioni matematiche: una scatola che collega vari elementi, in dipendenza tra loro. Se aumentano gli elementi in campo, i fenomeni sociali – sì, anche la mafia – si atteggeranno e si manifesteranno diversamente. Ma questo non ci esime, al volgere del nuovo anno, dal guardare al futuro. E, una volta tirate le somme di quello appena trascorso, da quelle somme immaginare l’anno che verrà.

    L’anno che verrà per la ‘ndrangheta è un anno schizofrenico. Come schizofrenica è la realtà che circonda clan, favoreggiatori, e tutta la popolazione che sta intorno ai clan – sia in supporto che in contrasto. Ci sono però almeno cinque elementi da considerare nel 2023, ognuno dei quali può cambiare la mafia calabrese, fermarne quanto agevolarne gli affari e il potere locale e internazionale.

    Il mercato della cocaina cambia

    Primo fra tutti, il mercato della cocaina che in questi ultimi anni – tendenza assolutamente confermata nel corso del 2022 – è sicuramente cresciuto. Cresciuta la produzione nei paesi dell’America Latina – fino a oltre 4 volte in più rispetto a cinque anni fa – e cresciuta l’importazione e il consumo in Europa. Riporta l’EMCDDA (European Monitoring Centre for Drugs and Drugs Addiction) di come siano aumentate le confische nei porti europei. E come, secondo i dati di Europol, oltre il 40% dei gruppi criminali attivi in Europa si occupi di narcotraffico, in cui la cocaina è regina. Sono tante le rotte della cocaina e ancora di più gli snodi per la distribuzione.

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    Un carico di cocaina sequestrato

    I trend del mercato della cocaina portano a un incremento degli attori criminali e a quella che in principio era apparsa come una frammentazione del mercato, ma che, guardando meglio, ha anche dei tratti di segmentazione. Più attori si occupano di momenti diversi nel mercato in questione (produzione, importazione, traffico, distribuzione) ma al contempo esistono più attori in generale che si occupano di quello stesso nodo. In altre parole, laddove per anni (decenni?) si è raccontata una ‘ndrangheta (indistinta) leader incontrastata nel mercato della cocaina, questa leadership è oggi sicuramente condivisa con altri gruppi criminali in Europa come nel mondo. E, soprattutto, più che una leadership si tratta di una compartecipazione con sodalizi multi-etnici e transfrontalieri.

    Ciò non significa meno soldi per i clan, ma meno potere di influenzare questo mercato criminale rispetto a quello che spesso si racconta. L’anno che verrà testerà i clan di ‘ndrangheta attivi nel mercato della cocaina. Quelli capaci di adattarsi a partnership composite e caratterizzate da cambiamenti repentini riusciranno a mantenere i profitti e margini di manovra. Altri invece, se arrancheranno in questi sodalizi, dovranno pensare a piani B.

    Classici intramontabili

    Da non sottovalutare poi, in seconda battuta, il cambiamento che nuove partnership e sodalizi di diversa natura, origine e destinazione, possono poi portare per i vari clan mafiosi calabresi. A caratterizzare l’anno che verrà sarà una diversificazione interna alle ‘ndrine. Aspettiamoci i gruppi criminali storici, dalla Piana all’Aspromonte, impegnati a mantenere il proprio potere locale ‘chiudendosi’ nelle loro pratiche storicamente vincenti, dalle estorsioni all’assistenza locale o anche alla ‘beneficienza’ mafiosa. Questo potere locale non sempre direttamente collegato al potere affaristico internazionale, ma indirettamente a esso propedeutico, permetterà la sopravvivenza e il superamento delle ‘intemperie’ portate dal mutamento dei mercati criminali e dall’attività delle forze dell’ordine.

    Il brand ‘ndrangheta

    Aspettiamoci però anche clan più ‘spuri’, nuovi o di nuova ‘gestione’ che si attaccheranno al brand ‘ndrangheta perché conviene, ma che della ‘ndrangheta non sempre avranno pedigree, (finti) onori e disonori. Lo abbiamo visto nel 2022. E lo vedremo molto probabilmente nel 2023: clan dai cognomi (calabresi) semi-sconosciuti, impegnati in attività locali, che cercano (e spesso ottengono) di ‘diventare’ ‘ndrangheta in Calabria come altrove, per fare salti di qualità possibili solo con un brand forte. Questi ultimi piacciono tanto a certi media o a forze dell’ordine poco avvezzi a farsi domande sul “controllo qualità” nel crimine organizzato mafioso.

    Tradizione e innovazione

    Nuovi e vecchi mercati, recenti e soliti attori, altro non sono che la conferma della tendenza numero tre, che esiste da sempre nella mafia calabrese (e non solo): la tensione tra tradizione e innovazione. Le nuove generazioni di ‘ndranghetisti – proprio come le nuove generazioni di non ‘ndranghetisti in Calabria – alternano consuetudini e mutamento. Il passato, la memoria, la reputazione e la storia dei clan sono parte della pedagogia della mafia e del suo potere sul territorio.

    Ma il business, il denaro, i cambiamenti tecnologici, richiedono menti abili a gestire il cambiamento, a usare telefoni criptati (pensiamo a Encrochat, SKYECC, AN0M) quanto a parlare le lingue, a ‘leggere’ la realtà dei mercati, a sapersi godere la vita senza dare nell’occhio nell’era dei social. Insomma, l’anno che verrà testerà le famiglie di ‘ndrangheta come tante altre famiglie: sapranno i figli fare meglio dei padri, e allo stesso tempo con altrettanto successo?

    La cooperazione internazionale

    Da ultimo, da non sottovalutare sono altre due tendenze che riguardano il mondo dell’antimafia e del contrasto ai traffici illeciti internazionali. Sicuramente il mondo della cooperazione internazionale ha recentemente messo la ‘ndrangheta al centro come forse si era fatto in passato solo con cosa nostra tra Sicilia e Stati Uniti e con altri clan, come il cartello di Cali in Colombia. Interpol con la sua unità I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta) colleziona arresti eccellenti, come Rocco Morabito, e operazione transfrontaliere antidroga e antiriciclaggio, come quella che ha portato all’arresto di tre donne polacche accusate di aver facilitato clan mafiosi nell’est Europa nel dicembre scorso.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Europol non è da meno, con operazioni imponenti, coordinate spesso con Eurojust, la procura europea, della portata di Petrolmafie, nel 2021, ma anche indagini nazionali, specialmente quando si tratta di grosse quantità di stupefacente, come nel caso di oltre 4 tonnellate di cocaina a Gioia Tauro nell’ottobre 2022.

    Se da una parte questa è cosa buona e giusta, non sempre è fonte di salvezza: l’elevazione della ‘ndrangheta a minaccia globale porta anche con sé il germe dell’incomprensione del fenomeno tra media e autorità estere e del suo conseguente ‘annacquamento’ su scala globale. Si perdono di vista le specificità dei clan e si favorisce un discorso generico e di facile consumo.
    Nell’anno che verrà ci si può aspettare sia l’aumento dell’incomprensione che dell’annacquamento su scala transnazionale, ma anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di raggiungere capitali e latinanti in giro per il mondo, e di coordinare risposte di contrasto.

    Mafie e Governo Meloni

    Last but not least, come si dice, ultimo ma non per importanza, si deve fare riferimento alla schizofrenia nazionale in tema di contrasto alla mafia, a firma del governo Meloni (e in parziale continuità con altri governi precedenti). Alzare il tetto del contante da un lato, il condono del reato di evasione fiscale dall’altro (della serie se lo stato scopre che non paghi le tassi te le fa pagare ma ti condona il reato), l’auspicato e temuto programma di limitazione delle intercettazioni e dell’abolizione dei reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, nonché la riforma delle prescrizioni in materia di reati contro la pubblica amministrazione, sono tutti punti in agenda di questo governo che nel 2023 rischiano di tradursi in politiche di matrice regressiva sul fronte della lotta alla mafia e alla corruzione, e che facilitano l’illegalità e l’informalità degli scambi illeciti.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Se da una parte la legge di bilancio e i provvedimenti annunciati accrescono le disuguaglianze sociali e portano solo più pressione proprio in quelle aree del paese che di più hanno bisogno di politiche di sviluppo, l’europeismo di facciata del governo Meloni non aiuterà a combattere quella tendenza che è al cuore della mafia, e soprattutto della mafia calabrese, e cioè lo sfruttamento dei canali dell’economia legale, nazionale e non, per ripulirsi dalla sporcizia dei reati di droga e di estorsione.

    Repressione e voti

    In altre parole, è conveniente e populisticamente efficace iniziare il 2023 dicendo che la ‘ndrangheta è potenza europea e internazionale, e dunque ha bisogno di una risposta efficace in Italia e di cooperazione con tutti i paesi dell’Unione e oltre. Aiuta a creare paura questa retorica, nutrita di orgoglio in negativo per la mafia più potente del mondo; questo, in seguito, aiuterà ad attirare voti in favore della repressione. Ma se poi in pratica si vanno a indebolire proprio quegli strumenti nazionali che permettono di intercettare la crescita economica di quei clan che hanno la fortuna di avere successo nei mercati illegali mondiali, ecco che allora l’anno che verrà in fondo per questa mafia così drammatico – almeno in casa – potrebbe non essere.

    Di certo, l’anno che sta arrivando tra un anno passerà, e quelli che oggi sono solo tendenze e pronostici potranno essere dati più o meno riscontrati o smentiti dai fatti. Ma c’è poco da rilassarsi.

  • MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

    MAFIOSFERA | New York: calabresi alla carica grazie a Cosa Nostra

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    Quando un giorno di dicembre ci si sveglia con i titoli dei giornali della seguente tipologia “Estorsioni a Manhattan: 18 arresti nel crotonese”, ci si aspetta – prima ancora di capire di che notizia si tratti – che gli arresti del crotonese siano collegati ad arresti a New York. Oppure che ci sia evidenza di estorsioni da parte di soggetti del crotonese a Manhattan. Suona un po’ inusuale, ma sicuramente sarebbe una gran notizia. Ma cosa significa che la ‘ndrangheta, un qualche clan di ‘ndrangheta, effettua estorsioni a Manhattan? Il 19 dicembre, una volta uscita la notizia, dettagli su estorsioni a Manhattan non compaiono né sui giornali né nelle carte dell’operazione. Men che meno tra le notizie americane: non ci sono arresti, indagini, niente di niente, a New York.

    Il 19 dicembre, gli arresti a Rocca di Neto sono tutti concentrati sulla realtà crotonese. Nel corso di quel giorno, aspettando documenti dalle procure e giornalisti che iniziano a raccontare la vicenda, si comprende che gli arresti a Rocca di Neto sono legati ai clan mafiosi, di matrice ‘ndranghetista, e soprattutto alla famiglia Comito-Corigliano, legata a doppio filo al gruppo mafioso Iona-Dima e al locale di Belvedere Spinello, oggetto di plurime risultanze processuali sin dagli anni ’80, «coordinato e diretto da Iona Guirino dal carcere il quale agiva anche all’esterno mandando direttive (tramite il figlio Iona Martino) ai sodali» come si legge già in una sentenza del Tribunale di Crotone già nel 2006.

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    Rocca Di Neto, teatro della recente operazione della Dda di Catanzaro

    Le relazioni pericolose

    Negli atti dell’operazione, riportati su Il Fatto Quotidiano a firma di Lucio Musolino, poi su altri canali nazionali e locali, fino al giorno di Santo Stefano con ulteriori dettagli da Antonio Anastasi su Il Quotidiano del Sud, si legge poi che è proprio al clan Iona di Belvedere Spinello e al clan Corigliano di Rocca di Neto, che farebbero riferimento alcuni soggetti dimoranti da tempo a New York e particolarmente nell’area di Long Island. Si tratta di soggetti attenzionati dall’FBI di New York, per ora a livello investigativo, come Teodoro Matozzo, detto Terry, coinvolto con la criminalità organizzata locale – famiglie Gambino e Colombo si dice – e garante dei servizi in tema di estorsioni a un imprenditore newyorkese.

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    Uno scorcio suggestivo della Grande Mela, dove la ‘ndrangheta prospera grazie a Cosa Nostra

    Matozzo, ponte tra la criminalità locale e alcune nuove (e vecchie) leve calabresi a New York, avrebbe incaricato il gruppo criminale calabrese dei rocchitani di compiere ulteriori estorsioni a danno di imprenditori residenti nello Stato di New York, dopo un’estorsione andata a buon fine. Tale gruppo e il loro piano estorsivo sono diventati dunque oggetto di indagine da parte dell’FBI dal marzo del 2020 – in collaborazione con le nostre procure antimafia tramite I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta) e avevano portato anche a osservare le relazioni tra altri soggetti negli Stati Uniti, lì dimoranti o in visita.

    Estorsioni e unità a New York

    Tra questi, Ernesto Toscano, di Rocca di Neto, che grazie a Matozzo aveva iniziato a frequentare New York con vari intenti, alcuni dei quali criminali, come ad esempio cambiare assegni a nome di una società locale appartenente ad alcuni “amici” per liquidità pari a quasi un milione di dollari. Tra chi ha un negozio di compro-oro e cambio-assegni, e chi gestisce imprese di pitturazione o imprese edili, la comunità della zona della Valle del Neto fa cerchia e sostiene i conterranei, vecchi e nuovi. Molti dei soggetti menzionati in questa operazione e indagine hanno business o dimora nelle zone di Franklin Square e Glen Cove, nella Nassau County a Long Island – a est di New York City.

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    Una mappa di New York e Long Island

    Insomma, dicono le carte e raccontano i giornalisti che in questa operazione e indagini collegate, grazie al coinvolgimento dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia americano, si conferma «l’esistenza di un gruppo unitario di ‘ndrangheta operante nell’area di Long Island, direttamente riferibile ai clan Corigliano di Rocca di Neto e Iona di Belvedere Spinello». Ma, dunque, cosa significa che la ‘ndrangheta di Belvedere Spinello e Rocca di Neto, ‘offre’ estorsioni a Manhattan?

    La ‘ndrangheta come manovalanza di chi comanda davvero

    Di base, significa, che questa ‘ndrangheta viene usata come manovalanza per organizzazioni criminali autoctone – principalmente famiglie di Cosa nostra americana – che si ritengono, o sono ritenute, superiori, al punto da poter commissionare ai rocchitani i servizi di racketeering, cioè protezione ed estorsione. È dunque una ‘ndrangheta riconosciuta in territorio statunitense, sebbene criminalmente – nella gerarchia del crimine organizzato – su un gradino inferiore.

    Si parla spesso di ‘ndrangheta globalizzata, come se fosse in qualche modo quasi un “merito” della criminalità organizzata calabrese riuscire a inserirsi in altre realtà criminali e non. E ancora ci si sorprende che l’antimafia italiana e l’FBI facciano operazioni di contrasto comuni (ricordiamo che in realtà ciò accade dai tempi di Pizza Connection con Giovanni Falcome…). Ma da un punto di vista analitico si sa che la globalizzazione del crimine organizzato è effetto collaterale della mobilità del capitalismo: mobile è il capitale, mobile è l’individuo, mobile la comunicazione, mobile è anche l’azione di contrasto.

    È dunque da considerarsi normale – nel senso di atteso, previsto e prevedibile – sia che clan mafiosi facciano affari all’estero, sia che le autorità si adoperino per cooperare e stopparne le attività. È da considerarsi normale attività da mondo globalizzato che si utilizzino le asimmetrie giudiziarie e finanziarie tra Stati Uniti e Italia per spostare i soldi da una parte all’altra e ricavarci qualcosa anche illecitamente. Normale è che da New York si telefoni a Catanzaro sperando di riuscire a coordinare indagini e azioni di polizia.

    Controllo del territorio a New York

    Ma in questo caso a New York ci sono le estorsioni, che non sono “banali” attività criminali da mafia globalizzata. Non si tratta qui solo di iniziative di sfruttamento di contesti diversi e opportunità illecite e di arricchimento all’estero – che pure ci sono. Le estorsioni a imprenditori locali nella città statunitense (effettive o tentate) denotano un certo grado di controllo del territorio – fisico quanto virtuale o settoriale – e soprattutto un gruppo che sul territorio vuole rimanere e si dimostra intraprendente.

    Matozzo e i suoi sodali, per quanto nati in Calabria, questo controllo sembrano avercelo o mirano a consolidarlo perché sono americani sia nello spazio di azione che per la loro rete relazionale. Vengono definiti gruppo di ‘ndrangheta per origini e per collegamenti alla Calabria, ma di fatto sono molto di più. È il loro essere non solo calabresi, ma anche e soprattutto newyorkesi, a renderli capaci di sfruttare al meglio le varie sfaccettature dei possibili scenari illeciti.

    Più americani che calabresi

    Non è il loro essere ‘ndrangheta – qualunque cosa questo implichi – a renderli capaci di offrire servizi di racketeering; è grazie alla dimestichezza con l’economia legale della città americana e ai contatti con le famiglie criminali di Cosa nostra americana che questo gruppo di migranti riesce a cooptare calabresi sbarcati oltreoceano con visto turistico da impiegare in non meglio precisate attività, tra cui verosimilmente lavoro in nero e/o manovalanza criminale in varie aree della Grande Mela. Ad esempio, parrebbe che il gruppo avesse ideato la possibilità di estorcere imprenditori grazie anche all’attività (legale) della moglie di Matozzo, riconosciuta dalle Camere di commercio newyorkesi.

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    Le cinque famiglie di Cosa nostra amaericana (foto Marianne Barcellona, Irpimedia)

    C’è poi un altro dato da considerare in questa vicenda. L’elemento interessante per l’analisi dei fenomeni criminali in questo caso riguarda soprattutto l’assetto criminale della città americana. A New York – come già detto – non può entrare la ‘ndrangheta dalla Calabria a gamba tesa, o chiunque altro, se non per offrire servizi necessari per il crimine organizzato, ma di “derivazione” o su “commissione” di gruppi locali già radicati – protezione, estorsione, distribuzione di sostanze stupefacenti. Esiste un brand più forte, quello di LCN (La Cosa Nostra – americana) con le cinque famiglie, Gambino, Genovese, Colombo, Bonanno, Lucchese che sopravvivono (a fatica, comunque) grazie a un’identità acquisita e consolidata da decenni, a cui gli altri, italiani e calabresi arrivati oggi come 40 anni fa, si legano.

    In trasferta è un’altra cosa

    I cinque cognomi – intorno a cui FBI e NYPD (New York Police Department) organizzano il loro lavoro da oltre quarant’anni – sono ormai cognomi tipici dei casati reali, non più indicativi della loro leadership (non c’è un Genovese a capo o nelle fila della famiglia Genovese per dire) ma chiaramente riconoscibili da esterni e interni. Che un gruppo di calabro-americani possa offrire servizi di protezione ed estorsione ad affiliati di una o più delle cinque famiglie, conferma che i clan calabresi – quelli in Calabria – sanno giocare la partita, sanno adattarsi ai campi da gioco, vogliono giocare fuori casa, ma non sempre sono i campioni in carica nelle trasferte.

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    E ci fa riflettere sul fatto che anche quando si tratta di attività che riguardano il territorio – tipo le estorsioni – la presenza e la partecipazione della ‘ndrangheta all’estero è dipendente dagli assetti criminali locali: sono effetto della globalizzazione la mobilità e la fama della mafia calabrese, ma non il successo oltremare.

  • MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    MAFIOSFERA| Commissione antimafia, molto rumore per nulla

    Gli arresti di ‘ndrangheta a Rocca di Neto del 19 dicembre hanno fatto parlare anche per la collaborazione tra le forze di polizia italiane e quelle statunitensi. L’FBI avrebbe infatti fornito delle informazioni cruciali per l’operazione crotonese su legami tra presunti ‘ndranghetisti e controparti newyorkesi.
    Di questa operazione, una volta chiariti i dettagli, si potrà parlare più specificatamente. Perché sì, la ricerca accademica – condotta sia sul campo che su fonti aperte – può fornire analisi del caso e degli scenari a esso connessi che non sempre le notizie di cronaca possono mettere in luce. Eppure, questo bacino di conoscenza che la ricerca scientifica offre, non è, in Italia, considerato sistematicamente nella produzione di conoscenza istituzionale.

    La Commissione Antimafia si congeda

    Che a molte autorità e istituzioni italiane non piaccia la ricerca è forse un dato che non fa notizia. Ma quando questa ignoranza volontaria diventa ragione per missioni istituzionali, che oltre ad avere un costo elevato, producono risultati banali e superficiali, bisognerebbe forse chiedersi cosa ci sia alla radice di questo difficile rapporto con la ricerca. È questo il caso degli ultimi rapporti della Commissione Parlamentare Antimafia uscente, che, a differenza di alcune Commissioni passate e nonostante il potenziale valore compilativo, deludono ricercatori e addetti ai lavori.

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    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E mentre aspettiamo le nomine per una nuova Commissione, usiamo questi ultimi momenti del 2022 per fare un bilancio di quella appena morta e che per gli ultimi 4 anni ha portato avanti – o avrebbe dovuto portare avanti – il lavoro di ricerca, analisi e disseminazione sul fenomeno delle mafie e dei fenomeni a esse collegate in Italia.
    Sicuramente il lavoro della Commissione Parlamentare Antimafia, istituita nel 1963, ha un ruolo di rilievo; una voce istituzionale – a volte più sommessa, a volte urlante – che negli anni ha contribuito a sistematizzare la conoscenza sulla criminalità organizzata nel nostro paese e punto di riferimento dall’estero per qualunque forza politica e autorità voglia un confronto sul tema.

    Passato e presente

    Gli archivi della Commissione sono poi tesoro inestimabile per ricercatori e addetti ai lavori. È la continuità della memoria storica che la Commissione rappresenta a darle, oltre ai singoli lavori e rapporti, il suo valore istituzionale, legislatura dopo legislatura. È ruolo della Commissione, infatti, oltre a preservare la memoria istituzionale, anche dare nuovi indirizzi per analisi innovative.
    La Commissione può arrivare laddove molte ricerche non possono arrivare, o non possono arrivare in breve tempo. Questo vantaggio fa sì che in passato alcuni lavori della Commissione – ad esempio quella presieduta da Rosy Bindi, che ha prodotto rapporti innovativi e fruibili come quello su Mafia e Massoneria – siano diventati punti di riferimento e di partenza, nonché spunti di ricerche, per gli anni a venire.

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    Una seduta della Commissione Antimafia ai tempi in cui a guidarla era Rosy Bindi

    Ecco perché, quando una Commissione Parlamentare Antimafia uscente pubblica la sua relazione di chiusura – approvata, in questo caso, quest’estate ma resa pubblica solo in autunno nei suoi contenuti – il ricercatore va a leggerla con aspettative e attenzione.
    Ma che succede se il ricercatore o la ricercatrice in questione si dimentica di avere comunque a che fare con forze politiche, fatta di politici – quelli degli ultimi anni poi – e non di esperti? E se poi si dimentica di alcune vicissitudini personali di alcuni membri della Commissione in questi anni, che hanno ‘distratto’ dal lavoro? Ecco, il ricercatore o la ricercatrice potranno effettivamente rimanere delusi.

    Niente di nuovo sul fronte criminale (o quasi)

    Nei rapporti che compongono la relazione conclusiva della Commissione Parlamentare Antimafia uscente al dicembre 2022, c’è davvero poco di nuovo. Anzi, non c’è praticamente nulla di nuovo. Fatta eccezione per il valore della sistematizzazione di alcuni fatti da un lato – ad esempio la relazione sulla visita nei distretti di Catanzaro e Vibo Valentia, in seguito alla risonanza mediatica del processo Rinascita-Scott – e l’attenzione posta su alcuni temi – si veda il rapporto su criminalità organizzata e porti, a seguito dei sequestri di cocaina o a processi che guardano (ancora!) al rapporto tra mafia e massoneria – il contenuto analitico di questi rapporti rimane superficiale.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Eppure, si tratta di rapporti spesso molto densi: quello sui porti è lungo 65 pagine ed è il risultato di una serie di interviste con forze dell’ordine e presidi di sicurezza portuale. Nessuna menzione della ricerca accademica, che, per quanto non nutritissima sul tema di criminalità in ambito portuale, si è focalizzata proprio sui due porti di cui la Commissione si è occupata, Genova e Gioia Tauro con dati spesso più ‘freschi’ di quelli analizzati dalla Commissione.

    A che pro?

    Insomma, un occhio attento vede tre caratteristiche ricorrenti in questi rapporti:

    • la ‘rincorsa’ del tema del momento;
    • l’assenza di analisi indipendente;
    • l’assenza di coinvolgimento della ricerca.

    Tra l’altro, emerge chiaramente che c’è un problema con l’accademia: solo 2 le audizioni di docenti universitari dichiarate dalla Commissione (a fronte di 18 magistrati e 17 funzionari pubblici per esempio), sui temi dell’usura e sui risultati di una ricerca compilativa, sicuramente utile per la Commissione ma poco utilizzata nella pratica, L’Università nella lotta alle mafie.

    Emerge una questione cruciale: quale valore hanno missioni e rapporti di approfondimento su temi specialistici che ignorano lo stato dell’arte della ricerca, sia accademica sia di ricognizione sistemica delle fonti aperte, sui temi prescelti, quando i risultati che si ottengono da tali missioni e per questi rapporti si rivelano datati, carenti e soprattutto non dicono niente di nuovo?

    La Commissione Antimafia sbarca in America

    Prendiamo – nell’ambito dei lavori svolti dalla Commissione uscente – proprio la relazione sulla missione a New York e a Washington dal 13 al 18 gennaio 2020. La relazione è di 27 pagine. Si prefigge, come detto nella sua introduzione «un obiettivo conoscitivo» sui «profili generali concernenti il tema della presenza, negli Stati Uniti, di insediamenti della criminalità organizzata di origine italiana, nonché dei rapporti tra la criminalità organizzata locale e quella del nostro Paese». Altri obiettivi erano «analisi e valutazione dello stato di evoluzione della cooperazione giudiziaria e delle relazioni intercorrenti tra autorità italiane e statunitensi, con specifico riferimento alla materia della criminalità̀ organizzata».

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    La Commissione Parlamentare Antimafia all’ONU presso la missione italiana (Foto Twitter @ItalyUN_NY)

    C’erano poi obiettivi di discussione più specifica sulla legislazione di contrasto al terrorismo e sull’attuazione e aggiornamento della Convenzione ONU di Palermo del 2000, contro la criminalità̀ organizzata transnazionale. Cinque giorni intensi per la delegazione italiana della Commissione, in visita alla DEA (Drug Enforcement Administration), all’FBI (Federal Bureau of Investigation), al Department of Justice. Un tour proseguito incontrando procure specializzate tra Washington e New York, per finire con la Rappresentanza permanente italiana presso l’ONU.

    Nelle puntate precedenti

    Quali i risultati di questo viaggio alla scoperta dell’America? Innanzitutto, una descrizione di come funzionano le autorità statunitensi e soprattutto un’analisi della legislazione sia penale che patrimoniale contro il crimine organizzato. E fin qua, si potrebbe anche dire che sia un esercizio compilativo utile, sebbene si potesse, ovviamente, fare comodamente da casa, sui libri scritti sull’argomento e sui siti web appositi.
    Il resto è un riassunto delle puntate precedenti. La DEA che riassume i suoi rapporti annuali – a consultazione aperta sul web – comunicando le ultime novità in merito a chi traffica cosa e soprattutto chi ricicla denaro: informazioni ancora una volta ricavabili da fonti aperte da un qualunque ricercatore.

    Con altre autorità, soprattutto le procure, si parla di casi negli anni precedenti. L’arresto di Ferdinando “Freddy” Gallina, latitante palermitano vicino a Matteo Messina Denaro, a New York nel 2016, per esempio. Oppure le operazioni New Connection, New Bridge, tra il 2011 e il 2014 e Columbus nel 2015, che hanno riguardato indagini sulla famiglia Gambino in Sicilia e in USA e arresti di soggetti residenti a New York connessi alla ‘ndrangheta. O, ancora, operazioni locali contro le cinque famiglie newyorkesi (Bonanno, Lucchese, Colombi, Gambino e Genovese).

    Basso profilo is the new basso profilo

    L’FBI ha poi confermato «un vero e proprio ruolo di superiorità gerarchica che la mafia di New York esercita rispetto alle altre organizzazioni criminali diffuse sul resto del territorio nazionale», altro fatto decisamente noto alla ricerca. Alle organizzazioni criminali italiane si attribuisce un “nuovo” trend – che nuovo non è per niente, basta chiedere a chiunque si occupi del tema – che sarebbe quello di mantenere un basso profilo, senza violenza.
    Si ritiene rilevante – definito «impressionante» – «il numero di siciliani aventi legami con organizzazioni mafiose che ogni anno compiono viaggi nella città di New York», anche questo fatto noto. Soprattutto, già rilevato in connessione al porto di New York.

    ‘Ndrangheta, molto rumore per nulla

    E poi c’è la ‘ndrangheta, ovviamente, immancabilmente. Ancora una volta molto rumore per nulla, però.
    La Commissione ha sentito di come clan di ‘ndrangheta siano stati accertati a New York (Commisso, Aquino- Coluccio, Mazzaferro, Piromalli). Non sorprende, visto che il cosiddetto Siderno Group of Crime è attivo tra Stati Uniti e Canada da oltre mezzo secolo.
    Operazione Provvidenza, poi, aveva dato dettagli sulla presenza dei clan della Piana in un business di prodotti Made in Italy verso gli Stati Uniti nel 2017.
    Che la ‘ndrangheta abbia attivato collaborazioni con le cinque famiglie newyorkesi è anche roba vecchia. Tale collaborazione di fatto esiste da quando il Siderno Group è attivo, come ha fatto plurime volte notare negli anni la Waterfront Commission per il porto di New York e New Jersey.

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    Il porto di New York

    Questo porta poi a raccontare che tali clan di ‘ndrangheta mantengono rapporti con il Canada e con altri gruppi sul territorio, ad esempio in California. Laddove la ricerca sulla ‘ndrangheta in Canada è notoriamente avviata da decenni, la California sembrerebbe dato nuovo, Ma può leggersi nella più ampia considerazione che tra le 5 famiglie almeno una, i Gambino, sono notoriamente legati a Los Angeles e che i collegamenti tra clan sidernesi e i Gambino sono anche li, notoriamente avviati.

    Da ultimo, la Commissione in America ha fatto il punto sulla collaborazione internazionale e sullo stato dell’arte della normativa penale legata alla Convenzione di Palermo e alla possibilità di attivare non solo arresti, ma anche sentenze e pene transfrontaliere.
    Anche stavolta la ricerca a livello europeo è molto attiva a riguardo. E conforta forse vedere come la Commissione arrivi a risultati in fondo simili: le raccomandazioni sulle squadre investigative comuni, sullo scambio di informazioni, sulla formulazione di indirizzi di pena comuni e via discorrendo.

    Commissione Antimafia impreparata?

    Probabilmente molte più cose avranno ascoltato i membri della Commissione Antimafia in missione negli Stati Uniti, cose che non sono scritte in questo rapporto.
    Il problema non è solo di “risultati” scritti, ma di capacità analitica: se non c’è preparazione a monte, come si fa l’analisi dei dati a valle? Se non si assorbe la conoscenza già in circolazione, come si può davvero elaborare la nuova conoscenza?

    E dunque il dubbio ab origine: sono necessarie queste missioni, che di nuovo non solo non dicono nulla, ma mostrano – urlano – con chiarezza l’assenza di interazione con ricerca sul tema e con la conoscenza pregressa che dovrebbe essere la base per tutti gli interessi di approfondimento politico e istituzionale?
    Alla luce anche dell’operazione di Rocca di Neto, questo porta a un’ulteriore dolorosissima domanda: come possono le forze politiche del nostro paese commentare, intervenire, direzionare il discorso pubblico sull’argomento, se di questo argomento sanno solo notizie di seconda mano raccolte in missioni di 5 giorni?

    Errori da non ripetere

    Morta una Commissione Parlamentare Antimafia se ne fa un’altra. E speriamo che gli errori dei padri non ricadano sui figli. E che magari, oltre a fare le audizioni di qualche sparuto collega accademico, si scelga – che so – di creare una unità di ricerca più strutturata, capace di ricerca su fonti aperte, in lingue diverse, e già pubblicate (che già aiuterebbe) e anche collegata con chi sul campo – sui campi – della ricerca sulla criminalità organizzata ci sta da anni.

  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta compie 100 anni

    Cento anni fa la nave Re d’Italia lasciava il porto di Genova e il 18 dicembre 1922 arrivava al porto di Fremantle, borgo marino vicino a Perth, la capitale dell’Australia Occidentale. Da Fremantle, la nave proseguì poi verso Adelaide, nell’Australia Meridionale, poi verso il Nuovo Galles del Sud, a Sydney, e infine a Melbourne, nello stato di Victoria nel nuovo anno (1923). In ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì).

    Front Page King of Italy, National Archives of Australia

    Australia: la ‘ndrangheta più longeva del mondo

    Cosa avevano in comune questi tre soggetti? E perché ne spulciamo ancora nomi e dati negli archivi nazionali a Canberra? Antonio Macri(ì) avrebbe fondato il locale di Perth; Domenico Antonio Strano rimarrà nel nuovo Galles del Sud, dove, si dice, morirà nel 1965 con funerali sontuosi. Infine, Antonio Barbara(o) conosciuto come The Toad (il Rospo), sceso ad Adelaide, si sposterà a Melbourne dove sarà una figura singolare nel mondo criminale cittadino. La relazione di una squadra d’indagine guidata da Colin Brown nel 1964 per l’Australian Security Intelligence Organisation e intitolato The Italian Criminal Society in Australia dirà che è proprio con la Re d’Italia che arrivò l’Onorata Società down under, in Australia. Tutti e tre i nostri uomini sono conosciuti – o meglio raccontati – come i fondatori della ‘ndrangheta in Australia. La ‘ndrangheta d’esportazione più longeva del mondo.

    Una pagina del report firmato da Brown

    Three is a magic number

    Chi conosce anche solo le basi della mafia calabrese avrà già forse sorriso. Tre sono i cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero fondato la mafia in Italia partendo proprio dalla Calabria. Sempre tre sono gli individui della ‘copiata’ nei locali di ‘ndrangheta: il contabile, il capo-locale e il capo-crimine che insieme gestiscono le doti sul territorio. Così come tre sono i mandamenti della ‘ndrangheta reggina che confluiscono nella Provincia. E tre sono anche i personaggi su cui giura(va)no i Santisti: Garibaldi, Mazzini, La Marmora. Insomma, nella numerologia della ‘ndrangheta, (e non solo) il numero tre è trinità e fa storia quanto leggenda.

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    Osso, Mastrosso e Carcagnosso

    Tra storia e leggenda

    Come in tutte le leggende, anche in quella della fondazione della ‘ndrangheta in Australia c’è un fondo di verità storica, oltre all’arrivo comprovato della nave Re d’Italia nel 1922. Le storie su Antonio Barbara(o), per esempio, ci raccontano di come appariva la ‘ndrangheta dei primordi a Melbourne. Barbara(o) fu arrestato varie volte a Melbourne: nel 1926 per stato di ubriachezza; nel 1929, per aggressione; nel 1936, per la vendita di alcolici senza licenza. Per tutti questi reati fu condannato a pagare pene pecuniarie o scontare qualche settimana di carcere, ma nel 1937 fu condannato a 5 anni per omicidio colposo di una donna vicino al Queen Victoria Market, noto mercato di frutta e verdura della città.

    È arrivato un bastimento carico di… calabresi

    Non è inusuale, soprattutto in quegli anni, che l’Onorata Società si faccia vedere con reati contro l’ordine pubblico, e l’escalation fino all’omicidio sarebbe in linea con il profilo di uno ‘ndranghetista in crescita. Barbara(o), infatti, si dedica anche ad altre attività più “organizzate”. Ad esempio, gli archivi ci raccontano che ‘il Rospo’, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva ideato un sistema fraudolento per far arrivare alcuni suoi conterranei dalla Calabria, Platì e zona aspromontana per la precisione, verso l’Australia. Lavorando in un ufficio per l’immigrazione, utilizzava nomi di Italiani già sul territorio per contraffare richieste di sponsorizzazione, senza che questi lo sapessero.

    Il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia

    Ma Barbara(o) il Rospo è coinvolto anche in quello che, molto probabilmente, è il primo omicidio legato alla ‘ndrangheta in Australia; si tratta dell’omicidio di Fat Joe (Joe il Grasso) Versace, i cui documenti giudiziari sono stati desecretati solo nel 2020, 75 anni dopo. Siamo in una sera d’ottobre del 1945 nel quartiere Fitzroy di Melbourne. Quattro uomini stanno giocando a carte e bevendo birra a casa di Antonio Cardamona: Michele Scriva, Giuseppe Versace, Domenico De Marte e Domenico Pezzimenti. Tutti immigrati calabresi, tutti impiegati in attività del mercato di frutta e verdura. In seguito a una lite, Pezzimenti avrebbe attaccato Versace con un coltello. Novantuno ferite, alcune post mortem; una ferocia bestiale, l’avrebbe definita il coroner.

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    La morte di Fat Joe Versace sulle pagine di The Truth del 4 novembre 1945

    Una questione di donne?

    Sembra essere una questione di donne. Honneth Edwards era la compagna di Joe Versace, e sua sorella Dorothy Dunn era uscita un paio di volte con Pezzimenti, il quale però l’aveva insultata dicendole che «puzzava più di sua sorella». Dorothy e Honneth si sarebbero dunque lamentate con Joe e tanto sarebbe bastato per far iniziare una lite tra i due uomini. Dopo l’omicidio, Cardamone prima, Pezzimenti e De Marte poi, decisero di andare a raccontare quanto avvenuto alla polizia – accusando principalmente Pezzimenti di aver colpito Versace, ma allo stesso tempo confermando che era stata auto-difesa.

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    Antonio Barbaro riconosce il cadavere di Fat Joe Versace. Il documento riporta anche i suoi precedenti penali in Australia

    Scriva venne intercettato poco dopo a casa sua, intento a lavar via il sangue dai vestiti. Versace, dissero i tre calabresi, era notoriamente un poco di buono, un uomo violento e spesso in possesso di armi, era uno che portava guai. Tra le sue frequentazioni c’era Antonio Barbara(o). Sarà proprio lui, il Rospo, uscito dal carcere da poco in seguito alla sentenza per omicidio, a identificare Versace all’obitorio. Aveva lavorato con Versace e i due erano amici.

    Confessioni che non tornano

    Ci sono però varie cose che non tornano in questo caso. Innanzitutto, colpisce lo zelo delle confessioni: in quel periodo i calabresi, e gli italiani più generalmente, non erano molto in confidenza con le forze dell’ordine australiane; spesso vittime di discriminazione e ancora più spesso di pregiudizio, la comunità migrante era notoriamente reticente in quegli anni a collaborare con la giustizia, figuriamoci a farlo volontariamente. Inoltre, le confessioni sembrano in qualche modo artefatte, soprattutto perché non spiegano come sia stato possibile che, da una semplice lite tra due uomini, si fosse arrivati al corpo della vittima sfigurato, «con lo stomaco di fuori, e con larghe ferite sulla faccia e sulla testa», per citare le annotazioni dei detective. Queste ferite sanno di punizione precisa. E poi, il sangue trovato sugli abiti di Scriva e degli altri suggeriscono che probabilmente tutti i presenti erano intervenuti nella lotta.

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    Una foto scattata sulla scena del delitto

    Il Rospo, il Papa e la ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, che fosse un’escalation di violenza dovuta a una rissa per donne, o che ci fossero altre motivazioni alla base di tale lite, fatto sta che la presenza di Barbara(o) a sancire la morte di Versace non sembra casuale. Antonio Barbara(o) da lì a poco diventerà uno degli uomini più (ri)conosciuti dell’Onorata Società a Melbourne. Partner del capo Domenico Italiano, detto il Papa, e fino alla morte di entrambi nel 1962, questo gruppo mafioso cittadino sarà responsabile di una serie di eventi violenti, estorsivi, fraudolenti e legati a questioni di “onore” all’interno di una ristretta comunità di calabresi che lavorava nel mercato ortofrutticolo.

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    1962, I funerali di Domenico “The Pope” Italiano

    Alla morte di Italiano e di Barbara(o) e nel vuoto di potere che essi lasciarono, scatterà una guerra di mafia, meglio conosciuta come The Queen Victoria Market Murders – gli omicidi del mercato Queen Victoria. La ‘ndrangheta delle origini, dalla Re d’Italia, era ormai cresciuta. Ma questa, e per i decenni a venire, è un’altra storia.

  • MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

    MAFIOSFERA| Pizza&Coca connection: ‘ndranghete d’Europa

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    Nella prima settimana di dicembre, due eventi ci raccontano le ‘ndranghete d’Europa. Al plurale, le ‘ndranghete, perché se non si guardano tutti gli aspetti di questo fenomeno criminale (e sociale) e ci si accontenta della conclamata ‘ndrangheta unitaria – versione da processo necessaria quanto incompleta in realtà – non se ne capisce l’evoluzione. In Europa, in questi primi giorni di dicembre, c’è una storia sulla ‘ndrangheta austriaca impegnata (parrebbe) nel riciclaggio di denaro e una storia sulla ‘ndrangheta imprenditrice della cocaina coinvolta con una rete di importazione tra le più influenti degli ultimi anni. Che differenza e che rapporto c’è tra queste ‘ndranghete? E soprattutto, che ruolo hanno queste ‘ndranghete nei più ampi mercati (criminali) europei?

    I clan e il made in Italy: l’ultimo caso in Austria

    Andiamo con ordine. Entrambi gli eventi appaiono sui giornali il 6 dicembre. Quel martedì, di mattina, i giornali austriaci riportano un imponente raid antimafia nei dintorni di Linz, Leonding e Gallneukirchen, nell’Alta Austria. Centoventi agenti tra la polizia federale (BKA) e la polizia locale, hanno perquisito 14 locali, tra cui appartamenti, pizzerie, uffici, concessionarie d’auto. Non ci sono arresti, ma al centro dell’indagine è un ristoratore italiano, calabrese di Tropea, già noto alle forze dell’ordine, e di interesse della procura antimafia di Catanzaro che ha richiesto assistenza giudiziaria per questo caso.

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    Non è la prima volta, e non sarà l’ultima, che si avanza l’ipotesi d’indagine che dietro al Made in Italy ci sia un interesse dei clan di riciclare soldi all’estero. Anzi, si potrebbe dire che sembra proprio uno dei marchi di fabbrica della ‘ndrangheta – e di altre mafie – quella di utilizzare ristoranti, pizzerie, gelaterie italiane all’estero a fini di riciclaggio. Tali attività commerciali sono di poco impatto sociale e culturale – ci si aspetta che ci siano all’estero ristoranti italiani – e sono anche di poco impatto economico, con ricavi spesso nella media e/o nella norma che non destano dubbi nelle autorità locali.

    Irpimedia, per esempio, aveva raccontato nel 2021 di come, in Lussemburgo, imprenditori della ristorazione originari di Siderno, nel Reggino, si fossero stanziati in una comunità locale ad alto tasso di migrazione dalla Calabria, soprattutto della zona di Mammola, sfruttando e inquinando la migrazione sana dei nostri conterranei. Anzi, ben conosciuti sono gli esempi di estorsione proprio ai danni della comunità italiana all’estero: ricordiamo il caso di operazione Stige, in cui ristoratori italiani in Germania si vedevano imporre vini dalla Calabria per “rispettare” patti estorsivi col clan giù a casa e mantenere rapporti non belligeranti.

    Alla luce del sole

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta principalmente “raccontata” come capace di agire ‘in segreto’ e passare inosservata, a metà tra organizzazione di tipo spionistico e organizzazione eversiva. In realtà, contrariamente alla narrazione, i soggetti che vengono legati alla ‘ndrangheta – spesso solo emissari – come il ristoratore austriaco, se ciò verrà confermato – sembrano essere particolarmente a proprio agio nell’agire alla luce del sole, abbandonando il segreto, all’interno di quelle che sono le opportunità, spesso legali, dei luoghi di destinazione per aprire locali, attività commerciali e anche sfruttare gli stereotipi che spesso accompagnano gli italiani all’estero e le comunità ospitanti: l’italiano si fida meno dell’italiano che del tedesco, il tedesco si fida di più dell’italiano che del greco, l’austriaco valorizza l’intraprendenza dell’italiano ma non si fida di nessuno (questi solo a livello esemplificativo).

    È una ‘ndrangheta che manda via il denaro dall’Italia, come farebbe qualunque soggetto, mafioso o meno, che non vuole perdere i propri soldi, per raccontarsi sempre la stessa storia: me li sono guadagnati (anche se illegalmente), e ne voglio prima o poi poter disporre. Per utilizzare questi capitali, spesso, si vuole immaginarne un loro riutilizzo semi-legale, come se tale riutilizzo semi-legale potesse giustificare l’origine illegale anche moralmente. E qui poi si vede la volontà di investire in ciò che più ci è ‘familiare’, quasi stereotipato: il cibo, l’Italianità all’estero, le Porsche o le case.

    Raffaele Imperiale, il narcotrafficante pentito

    Ma torniamo al 6 dicembre 2022. Sempre quello stesso martedì, in serata, La Repubblica dà la notizia che Raffaele Imperiale si è pentito a Napoli. Imperiale, per anni ricercato dalle polizie di mezzo mondo e finalmente arrestato a Dubai nell’agosto del 2021, è stato un narcotrafficante di riferimento per network criminali italiani, irlandesi, olandesi e ovviamente latinoamericani. La storia di Imperiale è rocambolesca, al punto da includere il rinvenimento di due quadri di Van Gogh rubati ad Amsterdam nel 2002 nella sua casa di Castellammare di Stabia nel 2016.

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    I due Van Gogh trovati in casa di Imperiale

    Riduttivamente, si racconta di Imperiale come un camorrista che ha fatto strada a livello internazionale nel mercato della cocaina. Sono noti i suoi rapporti col clan napoletano Amato-Pagano, consolidatisi in occasione della guerra di mafia degli Scissionisti di Secondigliano dal clan di Lauro a Scampia. In quella faida Imperiale si sarebbe non solo schierato con gli Amato-Pagano, ma a detta dei pentiti ne sarebbe diventato un affiliato a tutti gli effetti. Ma la storia di Imperiale non è una storia (solo) di camorra.

    Il super cartello della cocaina

    È una storia di un network internazionale che secondo la DEA (Drug Enforcement Administration) statunitense avrebbe per anni rifornito di cocaina mezza Europa grazie a varie ‘teste’ tra cui, oltre a Imperiale, figurano Ridouan Taghi – membro di spicco della criminalità di origine marocchina in Olanda (la cosiddetta Moccro-Mafia, anche se di mafia non ha proprio nulla…) arrestato nel 2019, e Daniel Kinahan, irlandese e capo del clan che reca il suo nome, su cui il Dipartimento di Stato degli USA ha stanziato una ricompensa per informazioni che portino alla sua cattura di addirittura 5 milioni di dollari.

    Il “super cartello” della cocaina, come lo chiama(va) la DEA e in seguito Europol, non era però uno e trino. Nonostante i tre nomi di spicco, moltissimi gli attori – clienti e partner – che alimentavano sia la reputazione sia la capacità di questi network intrecciati di intensificare i traffici dello stupefacente più lucrativo al mondo. Tra questi, anche uomini di ‘ndrangheta.

    I rapporti con la ‘ndrangheta

    Grazie a un intenso coordinamento di polizia da parte di Europol sulla decriptazione di chat sulle piattaforme Encrochat e SkyECC, si sono potuti tracciare i collegamenti tra i vari ‘nodi’ dei network criminali in questione. Imperiale aveva rapporti intensi con i Morabito-Palamara-Bruzzaniti, ‘ndrina egemone nel locale di Africo (RC) e con il clan Mammoliti, di San Luca. Giuseppe Mammoliti acquistava cocaina da Imperiale e il suo gruppo la trasportava e distribuiva nel sud e centro Italia, spesso con carichi in arrivo in Belgio o Olanda o a Milano attraverso altri corrieri di Imperiale anche connessi con il clan nella sua propaggine lombarda.

    Bartolo Bruzzaniti, detto Sonny, nato a Locri ma iscritto all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) in Costa d’Avorio e domiciliato a Invorio (Novara), si metteva a disposizione di Imperiale per il recupero della cocaina importata via mare dal Sud America e in arrivo in vari porti europei tra cui Gioia Tauro, grazie all’aiuto di Jolly, un funzionario doganale, e di una squadra ben rodata nel porto della Piana.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Quale ‘ndrangheta è questa qui? È una ‘ndrangheta opportunista, disinvolta, che utilizza il proprio nome (cognome) quando serve, se serve, ma con poca attenzione all’onore, o al potere di sovranità mafiosa più largamente intesa.
    È interessante uno scambio in chat tra Bruzzaniti e un suo interlocutore a Gioia Tauro, in cui Sonny spiega di dover mantenere un basso profilo in Calabria «Se sapevano i miei quantitativi mi impazzivano compà… Sanno che lavoro ma non sanno niente… Compare se i miei parenti sapeva che numeri faccio al mese mi dovevo dare latitante ahahahaha compà».

    I compari non devono sapere

    È chiaro che entrare in contatto con Imperiale e il suo network è stata una svolta per Bruzzaniti: il contatto con Imperiale ha reso possibile – a lui e non necessariamente a tutto il suo gruppo di ‘ndrangheta – importare e rivendere ulteriori quantità di stupefacente, più di altri conterranei. C’è invidia da parte di altre organizzazioni criminali mafiose sul territorio, conferma l’interlocutore di Sonny: «Si compare qua da noi nn posso parlare con nessuno se sentono questi numeri a 24 ore siamo bruciati…Che qua se la contano per invidia… Altro che Sud America… Sanno che invece di 3 scaricatori ne ho mandato 6 per trasportare le borse… Chi ai (sic)dovere lo sa quanto e il lavoro… abbiamo fatto una bella selezione».

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    Questa ‘ndrangheta ha evidentemente il know-how per partecipare ai grandi traffici, che però sono gestiti da Imperiale e dai suoi contatti in Europa. È Imperiale che comunica coi fornitori e comunica l’arrivo dello stupefacente. È Imperiale ad avere il controllo e la supervisione; Bruzzaniti coordina e rivende. L’uno non potrebbe funzionare senza l’altro, ma il livello a cui opera Imperiale è di gran lunga più ad ampio raggio di quello di Bruzzaniti.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questa ‘ndrangheta che si occupa di traffici di cocaina in giro per l’Europa è una ‘ndrangheta che guarda in faccia solo se stessa, vive in un eterno presente, cerca di evitare i conflitti sul territorio, perché col territorio non vuole necessariamente condividere tutto di sé. Vuole sedere al tavolo, meglio se internazionale, con chi, come Raffaele Imperiale, può attivare circuiti, aprire porte e garantire guadagni grazie a una fitta rete di contatti transfrontalieri. Il traffico di cocaina in Europa è concorrenziale e caratterizzato da una concentrazione di mercato: pochi attori emergono come nodi del network, e tutti gli altri cercano di legarsi a tali nodi. Bisogna essere capaci di stare al gioco, escludere i concorrenti (anche di famiglia) e soprattutto essere pronti ai cambiamenti repentini.

    Questa ‘ndrangheta della cocaina con Imperiale, e quella dei ristoranti in Austria per noi, Italiani, con cultura (giuridica) antimafiosa, è sempre la stessa ‘ndrangheta, calabrese, e collegata – quando serve – per ragioni di gestione di potere ‘reale’ sul territorio, e di potere politico, per la resilienza dell’organizzazione e del brand. Ma a livello criminale e in Europa si tratta di ‘ndrangheta diverse, che sebbene intenzionate a più livelli a fare e mantenere profitti illeciti, danno vita a fenomeni criminali diversi, spesso scollegati e soprattutto dipendenti più dal luogo di ‘destinazione’ e dagli attori con cui ci si interfaccia, che dalla reputazione criminale di casa propria.

  • BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Gassose: un “derby” tutto calabrese

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    Ancor più dell’agone calcistico è una bibita tutta calabrese a dividere le città di Cosenza e Catanzaro. Una bevanda semplice, che si ottiene aggiungendo caffè alla gassosa, determina una quasi fideistica adesione a due brand o “parrocchie”: la cosentina Moka Drink e la catanzarese Brasilena. Impossibile cercare di stabilire quale sia la più buona, ricercata o ancora la più datata. Ma un fatto è certo: in quanto ad “acque gassose” entrambe le città vantano, insieme a Reggio Calabria, una tradizione che affonda le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento.

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    Il derby delle bolle: “Brasillena” contro “Moka drink”

    Derby calabrese: in principio era Reggio contro Cosenza

    Nel 1879 erano soltanto tre le fabbriche calabresi che producevano “acque gassose”: due in provincia di Reggio Calabria e una a Cosenza, tutte classificate come produzioni “di minore importanza” e che davano lavoro a un manipolo di operai. Catanzaro non conosceva ancora una produzione locale di bollicine.

    Il successivo ventennio fece registrare per le bibite frizzanti con proprietà toniche e rinfrescanti un discreto successo, preludio al boom dei decenni che verranno. Alla metà del Novecento la gassosa era diventata un must, l’alternativa innovativa ad acqua e vino. Con quest’ultimo la gassosa formava un’abbinata “vincente” che accontentava persone poco avvezze all’alcol o serviva a camuffare vinacci di terza o quarta scelta.

    Questa tendenza ottocentesca ad “aggiustare” vini poco gradevoli era incoraggiata un po’ dovunque da pubblicazioni come la Rivista d’igiene e sanità pubblica del 1895. Qui apprendiamo che la produzione delle prime acque artificialmente gassate avvenne nel corso del Settecento, ma per molto tempo furono considerate un bene di lusso per l’alto costo.

    Acquafrescaio a Napoli

    Bollicine e progresso

    Poi negli anni ‘30 dell’Ottocento nella Francia funestata dal colera si diffuse «la credenza che l’acqua di Seltz, ed in generale tutte le bevande gassose, giovassero assai contro il morbo asiatico» al punto che «si pensò a svilupparne grandemente l’industria». Il prezzo scese notevolmente e la produzione s’incrementò, anche per la convinzione che «le acque gassose devono essere considerate come bevanda di notevole importanza dal lato igienico».

    L’aggiunta della gassosa al vino era addirittura incentivata: «Infatti un vino debole acquista così una certa sapidità per la quale il gusto è meglio soddisfatto». Ma soprattutto «si è osservato che i casi di ebbrezza sono tanto meno frequenti, quanto più si fa uso di acque gassose mescolate al vino» e per questo, come sosteneva il batteriologo Francesco Abba: «il crescere del consumo dell’acqua di Seltz è cagione ed indizio di progresso nella civilizzazione».

    Il giro di affari cresce

    A fine Ottocento le fabbriche di acque “gassose” o “gazose” iniziarono a diffondersi capillarmente anche in Calabria. Nel 1891 la provincia di Reggio contava sette fabbriche, nelle quali lavoravano sedici operai e che quell’anno avevano prodotto nel complesso 197,69 ettolitri di acque gassose. Quattro di queste erano attive a Reggio e impiegavano 10 operai. Le altre tre fabbriche sorgevano a Bagnara Calabra, Gioia Tauro e Palmi e vi lavoravano due operai ciascuna.

    Le fabbriche nella provincia di Cosenza erano quattro: due a Rossano che davano lavoro a quattro operai, una a Cosenza con tre lavoratori e una a Castrovillari che contava un solo impiegato. Nel Catanzarese nel biennio 1890/1891 erano attivi quattro impianti per la produzione di acque gassose che impiegavano in tutto otto operai. Oltre alle due del capoluogo che davano lavoro a quattro operai, erano in funzione altre due fabbriche, una a Monteleone e un’altra a Nicastro che impiegavano due operai ciascuna. La produzione catanzarese complessiva si aggirò in quel biennio sui 123.87 ettolitri di bevande gassose.

    Il giro di affari continuò a crescere nel giro di pochi anni anche se non è facile disporre di dati esaustivi considerato che la produzione di acque gassose era spesso affiancata nell’ambito della stessa fabbrica ad altri generi: dolciumi, spiriti, materie vinose e confetture.

    Pubblicità di D’Atri da Indicatore postale-telegrafico del Regno d’Italia 1902-1903

    Gassose d’antan

    Nel 1902 a Castrovillari il proprietario del Gran Caffè Unione, un certo Alberto d’Atri, oltre a commerciare armi e altri articoli da caccia era noto come “Fabbricante di Acque Gassose”. Negli anni successivi gli elenchi dei produttori calabresi, spesso piccoli artigiani che inseguivano la fortuna nei settori più disparati, si fanno più fitti. A Castrovillari nel 1918 operava la “Società Riunite”, a Cosenza si dedicavano alla produzione di bollicine Agostino Deni e Giovanni Gallo, a Scigliano Luigi Virno.

    A Catanzaro operavano Raffaello Camistrà, Giuseppe Castagna, Demetrio Quattrone e Luigi Turrà. Antonio Scerbo era titolare di un’industria a Marcellinara. Nel 1924 a Catanzaro operavano i fabbricanti di gassose Giuseppe Corace e Nicola Taranto, a Nicastro Vincenzo e Fedele Ferrise e Santo Riommi, a Cutro Ferdinando Mancuso, a Sambiase Rocco De Silvestro, a Soriano Pasquale Vari mentre a Limbadi Vincenzo Musumeci.

    In provincia di Reggio nel 1918 era attiva l’industria di Spataro a Bova Marina, di Francesco Laganà a Motta San Giovanni, di Giovanni Belordi e Antonio Lazzaro a Sambatello, di Giuseppe Mittica a Sant’Ilario dell’Ionio, Matteo Laganà a Radicena, Mariano Ursino a Roccella, Domenico Spagnolo a Rosarno. A Gallina nella fabbrica di Pasquale D’Ascola si producevano insieme “Gassose e Birra” e lo stesso avveniva a Siderno negli impianti di Raffaele Pellegrino e Vincenzo Cremona.

    Il dato significativo riguarda il 1924, anno in cui si registrò una produzione considerevole. Tra i beni soggetti a dazio, le acque gassose erano associate alle acque minerali da tavola e raggiungevano una produzione di 2.717 ettolitri in provincia di Cosenza, per un reddito generato di 22.515 lire, 2.810 ettolitri ed un reddito di circa 20mila lire in quella di Catanzaro, e 2.402 ettolitri con un reddito di circa 24mila lire in quella di Reggio Calabria.

    Vuoti a rendere

    Negli anni ‘50 del Novecento fabbriche e fabbrichette si moltiplicano, dai centri più grandi fino ai piccoli paesi. La gassosa si è ormai ritagliata un posto sulle tavole e nei bicchieri dei calabresi, con l’immancabile bottiglietta di vetro “vuoto a rendere”.
    A Cosenza spopolavano le gassose di Gallo, di Bozzo, di Spadafora e di varie altre piccole fabbriche, in genere a conduzione familiare, che avevano sede in quella che era allora considerata la parte nuova della città.

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    Marchio di Fabbrica per le bibite di Annino Gallo a Cosenza depositato nel 1933

    Prima della Seconda guerra mondiale, stando all’Annuario generale d’Italia e dell’Impero italiano, la fabbrica di acque gassate di Annino Gallo aveva sede in corso Umberto, quella di Antonio Spadafora in via Monte Santo, quella di Sante Filice in corso Mazzini e quella di Alfio Deni di Agostino in via Rivocati.

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    Alcuni marchi di gassose cosentine (foto L. Coscarella)

    Nei decenni successivi molte si spostarono, altre aggiunsero nuovi prodotti al loro listino, qualcuna chiuse del tutto, qualche altra continua ancora la sua attività mutando col tempo forma e denominazione. Quella di Gallo è rimasta particolarmente impressa nei ricordi, anche perché il suo laboratorio, oltre alle semplici gassose, produceva anche bibite al limone, cedrate e, più in là, la mitica gassosa al caffè.

    Il marchio di fabbrica, che non poteva che rappresentare un gallo stilizzato, venne depositato nel 1931 da Annino Gallo per una generica “Bibita Gallo” e comparve poi con nuove forme sui tappi e sul vetro delle mitiche bottigliette di gassosa. Più in là comparve anche la marca “3 galletti”, mentre tra la concorrenza si diffondeva anche la gassosa della fabbrica di Eugenio Bozzo. Qualunque fosse la marca, in cantina e in famiglia la gassosa divenne per alcuni decenni ospite fisso della tavola, sia in cantina, accompagnando i famosi tre quarti di vino, sia in famiglia, soprattutto nelle ricorrenze.

  • STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    STRADE PERDUTE | Rende di sotto e la Borbonica dimenticata

    Popi popi vita mia: all’insegna di questa non eccellente lode amorosa si intraprende il 50% approssimativo dei viaggi autostradali degli abitanti di Rende (per chi non ci avesse fatto caso, sta scritta con lo spray sul lato sud di un cavalcavia a breve distanza dallo svincolo di Rende-Cosenza Nord). Tutto un programma, insomma, e soprattutto un’altra buona ragione per ignorare il tracciato autostradale e deliziarsi sul vecchio, su quell’antica Strada per Napoli, la borbonica, la Regia, delle Due Sicilie o come volete chiamarla.

    Quella che a Rende da svariati decenni, dopo secoli di doppi sensi di circolazione per i carri, le carrozze, i cavalli, i pedoni e pure gli alfieri, e infine poi per i primi mezzi a motore, è stata declassata a strada urbana a senso unico – sacrilegio! – sotto il nome di JFK, della Resistenza, di Giuseppe Verdi e di Alessandro Volta, nell’ordine da sud a nord: né santi né poeti né navigatori, quindi, per la strada che separa in due “Rende di Sotto”, e che un tempo separava soltanto una campagna da un’altra campagna.

    Lungo questa strada, fino a un secolo fa, sorgeva al massimo qualche casupola e forse riusciva a intravedersi, poco più a valle, la cappelletta nel mezzo degli ulivi, dei peri e degli eucalipti, della Commenda di San Giovanni Battista.

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    “Popi popi vita mia”, genio anonimo rendese

    Nord Sud Ovest Est

    Il panorama più lontano è rimasto un po’ più invariato: a ovest l’opprimente cortina scura della Catena Costiera: alta e monotona, sempre in ombra (anche quando non lo è, sembra esserlo), quasi una tenda pesante e opaca appesa al cielo.

    Là dietro ci sarebbe pure il mare, vicino e irraggiungibile, impercettibile. Ma è come se non ci fosse: un muro di acacie e di faggete impenetrabili. Dell’oscuro profilo della Catena si distingue solo il pizzo di Monte Cocuzzo. A sud, un pizzico del centro storico di Cosenza e un accenno di basse Serre. A nord, lontane ma più illuminate, le cime aguzze del massiccio del Pollino, spessissimo innevate nei canaloni a dirupo.

    Anzi, non tutte aguzze, quelle cime: fa eccezione il semicerchio glassato e goloso di Serra del Prete, di fianco al triangolino equilatero del Monte Pollino e all’altro scaleno della Serra Dolcedorme. A est? Gli ampi archi a sesti ribassati della Sila, feriti dai viadotti obliqui, messi lì come spillette su una risma di fogli neri: diagonali, a due due, luccicanti, taglienti nel buio delle abetaie e pinete silane. Insomma, una valle di lacr…, volevo dire un’infelice valle piovosa, quella rendese, anche a giudicare dalle precipitazioni medie.

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    L’elegante Casino Telesio nella contrada Feudo Telesio di Castrolibero (foto L.I. Fragale)

    Toponimi familiari

    Eccettuato il centro storico di Rende di cui anche troppo si scrive, e la chiesina di cui sopra, qua intorno resta d’antico poca roba oltre alla masseria S. Agostino – già dei nobili Spada – munita di propria cappella, posta ai piedi della collina omonima ma che omonima non era mai stata e semmai sempre indicata – assieme a contrada Difesa – come Monte Ventino, toponimo dimenticato. Là dietro, nella zona più impervia e selvaggia di tutto il territorio comunale (l’unica che avrebbe qualche spessore paesaggistico e persino naturalistico… chi se la ricorda la quasi pasoliniana “valle dei fossi”?), sorge l’enorme discarica a deturpare il tutto, nei pressi della Fontana Frassine e delle Destre Spizzirri, sopra la stradina che conduce a Ortomatera.

    E qui comincia l’avventura – per citare Sergio Tofano – della toponomastica prediale della zona, che ripete i cognomi delle più o meno antiche famiglie di proprietari terrieri. Spizzirri, De Matera, quindi, ma anche i fondi Monaco e persino il rione Cavalcanti, presso quella contrada Crocevia – con piccola ex-masseria di impianto cinquecentesco – da cui si arriva dritti dritti a Feudo Telesio, in territorio di Castrolibero, poco alle spalle della buffa contrada “Fontana Che Piove”. Tutto vero.

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    Contrada Fontana che piove

    E si potrebbe sconfinare fino a Cosenza, con questo criterio onomastico, fino alla contrada Mollo (città 2000 – Rende) o alla contrada Muoio (già possedimento della famiglia Mojo, che – chiariamo – non è Mollo pronunciato alla spagnola…) ma non mi va: restiamo in territorio rendese e cambiamo una vocale, passando da Mojo a Piano di Majo, la collina che soffre di complesso di inferiorità rispetto alla fintamente blasonata collina di Piano Monello alias, più modestamente, Serra Lupara, paradiso del parvenu da una cinquantina d’anni in qua.

    Una pseudo Beverly Hills in miniatura a Rende

    Non è l’“Italia in miniatura” ma più ambiziosamente una velleitarissima “Beverley Hills in miniatura”: telecamere, villa con piscina, villa con campo da tennis, villa con tutte e due, villino con ascensore per fare mezzo piano che non si sa mai, torretta d’avvistamento, casetta degli gnomi, castelletto delle fiabe, villone da Miami, cottage inglese, villino azzurro, villino rosa, tutta un’accozzaglia cromatica e stilistica da bazar del dubbio gusto (altrove, in altra zona rendese, addirittura un assai maldestro omaggio a Gaudì…). Torniamo a noi e dalla lupara scorgiamo contrada Femmena Morta, altrettanto ameno toponimo rimpiazzato dal più asettico “Failla” (chissà chi decise il maquillage…).

    La cappella Spada-Alimena, lungo il torrente Mavigliano (da Facebook)

    Ma torniamo alle strade: vogliamo andare a nord? E riprendiamola, questa benedetta strada borbonica! Anzi, zigzaghiamo tra lei e la vecchia strada consolare romana, perché in questo tratto la borbonica è troppo trafficata (siamo in territorio di Montalto, lì dove è una tragedia di semafori, rotonde, brutte insegne di altrettanto brutti negozi e svincoli per centri commerciali, e manifesti pubblicitari orripilanti, fino alla chiesa della SS. Trinità ovvero, più prosaicamente, fino al bivio d’Acri). A contrada Gazzelle – altro feudo telesiano – sorge l’ottocentesca e molto poco autoctona cappella Alimena-Spada, già dei marchesi Episcopia, in stile neogotico-neoceltico-neoirlandese. Una neobomboniera, insomma, a conferma che il problema del buon gusto non è recente.

    La casa nella prateria

    Con buona pace di questa, e poi di quella curva inaspettatamente boscosa – quasi un errore spaziotemporale – sul torrente Mesca, a metà strada tra il bivio per Montalto e Taverna, conviene invece scendere verso Coretto o Coretta, cioè su una parte di ciò che resta dell’antica Popilia. Precisamente sotto l’evocativa contrada Tesauri/Tesori (il tratto precedente della Popilia, dal confine nord del Comune di Cosenza, è impercorribile oltre Santa Chiara e Santa Rosa di Rende, all’altezza della confluenza tra il Surdo e l’Emoli).

    Qui si continua dritti e si infila la vecchia stradina che corre parallela all’autostrada. Qualche buca di troppo ma ne vale ampiamente la pena, specie quando ci si può beare del fatto che, di fianco, gli automobilisti in autostrada vanno spesso più lenti di noi. Una curva obbligata a sinistra, si passa sotto alla suddetta autostrada e ci si immette di nuovo sulla borbonica, all’altezza di una grande casa antica, in mattoni, di cui nemmeno le vecchie mappe registrano la titolarità. Poco più avanti, una casetta minuscola in mezzo alle erbe selvatiche era già crollata ad agosto. A settembre ne restava solo qualche mattone. Era bella, m’è dispiaciuto.

    Casetta scomparsa, lungo la vecchia strada tra Montalto e Torano (foto L.I. Fragale)

    Arrivano i Cavalcanti

    Ed eccoci a Torano Scalo, palma d’oro alla bruttezza – pari merito con almeno altri due Scali in questa provincia, come già accennavo altrove. Eppure questo deprimente abitato è sorto proprio in mezzo a un bel pezzo di storia, in quanto divide in due un antico nucleo feudale: a est, la contrada Sellitte (già Sellitteri/Sellitano) fu il primo possedimento calabrese dei nobili Cavalcanti fiorentini che qui si insediarono proprio per questo motivo (fu Filippo Cavalcanti a riceverlo in dono nel lontano 1363 direttamente dalla regina Giovanna d’Angiò, di cui era ciambellano); a ovest tutta la teoria dei principali insediamenti cavalcantiani: Sartano, Cerzeto e Torano Castello (e, poco più lontano, anche Rota Greca), ognuno con il proprio Palazzo dei duchi Cavalcanti in più o meno bella mostra.

    Portale del Palazzo Cavalcanti di Torano Castello

    Coincidenze

    Perché mi dilungo tanto? Per un dubbio: Wes Anderson è stato qui? Vi starete domandando cosa c’entri. Succede che nel 2013 questo regista ha dato alla luce, su commissione di Prada, un cortometraggio di 8 minuti – delizioso come tutte le sue opere – ambientato in un immaginario paesino italiano degli anni’50, alle prese con il passaggio non della Mille Miglia ma dell’altrettanto immaginaria Molte Miglia. Un pilota – Jed Cavalcanti – si schianta contro una statua nel mezzo del paese, ma sopravvive e scopre che il paese si chiama Castello Cavalcanti ed è proprio quello dei suoi antenati (ecc. ecc. e non vi dico altro). Solo alcune cose non mi quadrano: la livrea di Prada è bianca e rossa; quella della Mille Miglia idem; bianco e rosso sono pure gli smalti dello stemma Cavalcanti, allora perché mai Wes Anderson ha preferito optare per una livrea rossa e gialla? Chissà… Seconda domanda: perché in Calabria non ci si accorge mai di queste coincidenze?

    Il cortometraggio Castello Cavalcanti (Wes Anderson, 2013)
  • MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

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    La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.

    Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.

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    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

    Migranti in casa della ‘ndrangheta

    Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.

    Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale

    In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.

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    Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi

    Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.

    Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.

    Via dalla Calabria

    Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.

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    Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.

    Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta

    Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.

    Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).

    Affari paralleli

    Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.

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    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando

    Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.

    Il mercato dell’asilo politico

    Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.

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    Richiedenti asilo politico manifestano in strada

    Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.

    Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza

    Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.

    Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta

    Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il freezer era la Sila

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    Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.

    La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?

    In Magna Sila

    «Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.

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    Pinelli, venditore di Sorbetti a Napoli, 1840

    Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.

    A vineddra d’a nive

    Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
    La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.

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    La ‘vineddra d’a nive’ nei pressi di piazzetta Toscano

    Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.

    Caterina a nivara

    Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.

    Monopolio sulla neve

    La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.

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    Biblioteca Nazionale di Napoli. 1770. Documentazione della causa dei baroni calabresi contro il Conduttore delle Neviere

    I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.

    Appalti e multe

    «La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.

    Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.

    U Zumpo

    A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.

    La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.

    Una “dieci” di ghiaccio

    L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.

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    Un ‘vascio’ nella ‘vineddra d’a nive’

    Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!

    L’Anthony Quinn della Riforma

    «Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.

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    Piazza Riforma negli anni ’60: il distributore di benzina ha da poco preso il posto della ghiaccieria di Gervasi

    L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.