Anche le cartoline hanno un recto e un verso. Il recto del Golfo di Policastro è quel panorama mozzafiato a cavallo di tre regioni, da Scalea a Camerota o giù di lì (volendo includere Palinuro o fermarsi agli Infreschi). E di questo, come al solito, parlerò molto poco. Il verso include, in ordine sparso:
la Marlane,
l’isola di Dino,
il Cristo di Maratea,
il disastro edilizio intensivo di Scalea,
il disastro edilizio “distensivo” di San Nicola Arcella.
Il conte, il monte e il Cristo
La strada che conduce al Cristo di Maratea, che sovrasta il Golfo di Policastro
Avviciniamoci un po’ alla volta: il Cristo di Maratea sembra fare spallucce e dirti a braccia aperte «dotto’, io quello che potevo fare l’ho fatto»… ma è un bluff: la pacchianata, a imitazione di Rio de Janeiro, non sorge sul Pan di Zucchero ma sul monte S. Biagio, spodestando perciò anche il vecchio titolare aureolato.
L’ottovolante per arrivare lassù è opera di un progettista che meriterebbe l’anatema per diverse ragioni (è brutto, sta cadendo a pezzi, ha deturpato il panorama, fa venire le vertigini non solo ai più inclini ad averle). Eppure i ruderi di Maratea antica stanno praticamente lì. e nessuno si chiede mai in che modo un tempo ci si arrivasse. Ah, se si fosse un minimo curiosi…
Il viso del Cristo, pacchianata delle pacchianate, pare non fosse altro che il ritratto del committente da giovane, ovvero il conte Stefano Rivetti di Val di Cervo, quell’imprenditore piemontese che dagli anni Cinquanta si fece finanziare diverse opere quaggiù grazie alla Cassa per il Mezzogiorno e ai buoni uffici del ministro Emilio Colombo, buoni uffici che gli portarono in tasca più di 4 miliardi di lire di quegli anni.
Vasche per il trattamento dei tessuti all’interno della Marlane
Lavoratrici all’opera sui telai della Marlane
Operai al lavoro nello stabilimento Marlane
Una protesta dei parenti degli ex operai della Marlane morti di tumore
Quel che resta di uno dei due stabilimenti Marlane
E qui comincia l’avventura nel paesaggio post-atomico distopico (e anche un po’ dispotico) di certi angoli di Calabria costiera nordoccidentale. Il grande scempio di Policastro prosegue sull’Isola di Dino. Da qualche parte si legge la fantasiosissima fandonia in base alla quale si chiamerebbe così in memoria del figlio di Enzo Ferrari, deceduto nel 1956. Bene, l’Isola si chiama come si chiama già dall’antichità, e per fortuna esiste la cartografia storica che lo conferma.
Apparentemente amena e lussureggiante, in realtà è ben altro: acquistata da altro imprenditore piemontese un po’ più noto del precedente (tale avv. Gianni Agnelli) per farne un polo turistico, anche qui il savoiardo se ne lavò le mani. Costruiti alcuni tucul, un mezzo bar-ristorante e qualche villetta, tutto cadde in abbandono nel giro di pochi anni. Dopo ulteriori passaggi di proprietà, solo pochissimo tempo fa il Comune di Praia a Mare ha riottenuto, riperso e riottenuto ancora la proprietà dell’isola.
Anni ’70, clienti al ristorante (oggi semidistrutto) dell’hotel Totem sull’Isola di Dino
E poi ci si lagnava, nei decenni passati di quanto fosse inopportuno il villaggio del Bridge, sul monte sopra San Nicola Arcella… che a ben vedere sarà troppo esteso, troppo colorato, ma è pur sempre più caratteristico e accettabile rispetto alle vergogne edilizie che hanno riempito la zona più costiera, tra calette in cui fare il bagno in mezzo ai liquami, non-luoghi dei più “classici”, e piccoli ecomostri: orrende villette a schiera dei parvenu che per voler imitare ingenuamente le villone dei papaveri democristiani o dei più altolocati professionisti napoletani, si schiacciano l’una all’altra sgomitando tra l’immondizia quasi fino alla Torre Crawford e al magnifico Palazzo del principe Spinelli di Scalea, poi Lanza di Trabia, ora restaurato, passato nelle proprietà del Comune di San Nicola Arcella e nuovamente abbandonato nella sua interezza.
Il villaggio del Bridge, sulle colline di San Nicola Arcella
Oceano mare (Tirreno)
Il brutto e il bello, come al solito. Il buon gusto e quello cattivo, pessimo, inguaribile.
E qui nel Golfo di Policastro ricomincia quel ciclico degrado antropologico, in quelle che d’inverno diventano terre di nessuno dove – puntualmente – torna ad essere assente pure il minimo segnale stradale, anche solo quello che malauguratamente riporti sulla Strada Statale. Gli unici segnali sono quelli dei lidi, dei ristoranti, dei discopub, tutti rigorosamente muniti di nomi esotici. Ma che bisogno c’è di essere esotici nel mezzo del Mediterraneo, nel cuore del Tirreno? Cosa abbiamo da invidiare?
E allora ecco i vari Copacabana, Martinica, Tequila, e via dicendo. Come se alle Maldive avessero bisogno di intitolare un bar ad Anacapri, a Portofino, al Gargano, alla Scala dei Turchi o alla Chianalea.
Ecomostri piccoli e grandi, barche e ombrelloni a due passi dalla Torre Crawford
Esoterismo e presepi viventi
Il cattivo gusto, dicevo, inguaribile come il destino tristissimo dell’altra torre lì vicino, la torre Talao, passata dall’essere un leggendario luogo di ritrovo di esoteristi di calibro non indifferente – tra cui Aleister Crowley, Arturo Reghini, Giulio Parise e Giovanni Amendola in veste di teosofo – all’ospitare, quando va bene, i presepi viventi organizzati dal Comune di Scalea. Dalle stelle alle stalle, mai come in questo caso. Dal neopaganesimo sotto le volte stellate… alle mangiatoie. E pensare che proprio durante un soggiorno presso la Torre Talao, nel ’22, Reghini scrisse Le parole sacre e di passo. Studio critico ed iniziatico. E pazienza, anche qui.
Torre Talao, primi del Novecento
Erre come Livorno
Tutto in linea con gli abusi edilizi e lo sfruttamento del territorio nel Golfo di Policastro in termini di edificabilità. Fate un confronto tra due mappe di Scalea pre e post anni ’60 del Novecento e resterete piuttosto sorpresi per la quasi assoluta irriconoscibilità della forma urbana. Eppure non doveva essere male neppure Scalea, un tempo, molti molti decenni prima di essere definita – non a torto – Napoli Lido. Quando magari vi passeggiava tranquillamente il suo cittadino più illustre, quel Gregorio Caroprese che tutti si ostinano ancora a chiamare Caloprese, secondo il vezzo umanistico che portò Parisio a trasformarsi in Parrasio, Gualtieri in Gauderino, Terapo in Lacinio, Rosselli in Russilliano e finanche un mio omonimo nel canonico Frugali.
Niente da fare: Caroprese era e Caroprese resta, così come del resto tale cognome sopravvive nel circondario di Scalea e da lì in tutta Italia, a differenza dell’inesistente Caloprese. E state tranquilli, lo dice persino la lapide settecentesca in sua memoria: “heic sunt Gregorii Caropresii italorum philosophorum maximi viri omnigena eruditione praestantis virtutibus pietate morbus praeclarissimi Iani Vincentii Gravinae i. c. Petrique Metastasio magistri sita ossa. Viator tametsi properas siste. Da sacro cineri flore set ne sit tibi dicere grave molliter Caropresii ossa cubent”…
«In Emilia Romagnale mafie sono figlie adottive». Così, appena pochi giorni, fa, il procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, definiva la presenza della criminalità organizzata in quella regione. Terra di affari l’Emilia Romagna. Ma anche terra di omicidi e di faide.
La statua di Peppone a Brescello (RE)
Nicolino Grande Aracri: da Cutro all’Emilia Romagna
Se oggi si può parlare di presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, molte delle responsabilità sono in capo a Nicolino Grande Aracri. Il boss venuto da Cutro, in quei luoghi, avrebbe ricreato nell’economia, ma anche nella politica, le medesime dinamiche della casa madre. Lo chiamano “Il Professore” o “Mano di gomma”.
Quando, nel gennaio 2015, i carabinieri lo arrestano, nel corso di una perquisizione domiciliare rinvengono anche una spada simbolo dei Cavalieri di Malta. È la maxi-inchiesta “Aemilia” a mostrare e dimostrare, in tutta la sua ampiezza, la capacità della ‘ndrangheta non solo di penetrare tutti i territori, ma anche di entrare in stanze apparentemente inaccessibili. Da Cutro, paese in provincia di Crotone, Grande Aracri infatti avrebbe costruito un impero in Emilia Romagna, ma si sarebbe mosso in ambienti impensabili, se non si considera la ‘ndrangheta come l’organizzazione criminale più potente d’Italia e tra le più potenti in Europa e al mondo.
Una guardia svizzera in Vaticano
Le ingerenze di Grande Aracri, infatti, sono da registrare negli ambienti massonici, ma anche in Vaticano e fino alla Corte di Cassazione. Un’inchiesta mastodontica, quella che svela gli affari della ‘ndrangheta crotonese in Emilia Romagna, con cui gli inquirenti scoprono lucrose operazioni finanziarie e bancarie che alcuni soggetti avrebbero messo in atto per conto di Grande Aracri, ponendosi come intermediari tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati.
Ancora una volta la ‘ndrangheta si mostra per quella che è: non solo una banda armata, ma un’organizzazione che ha come proprio principale scopo quello di tessere relazioni sociali e istituzionali al fine di arricchirsi e condizionare i territori su cui opera.
Grande Aracri e la massoneria
Nicolino Grande Aracri in un’immagine di qualche anno fa
Come emerge dalle intercettazioni agli atti dell’inchiesta “Kyterion”, Nicolino Grande Aracri sarebbe stato molto ben inserito in ambienti massonici, ottenendo anche l’investitura a “Cavaliere”. È lo stesso boss originario di Cutro a confermarlo in una conversazione captata: «Io ho avuto la fortuna di capire certe cose…sia dei Templari…sia dei Cavalieri Crociati…di Malta…la Massoneria di Genova…». Sono gli stessi soggetti intercettati nell’inchiesta a dar peso al legame tra massoneria e criminalità organizzata: «E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure».
Il meccanismo è quello che nasce con la “Santa”. Grazie alla massoneria, alcuni soggetti, pur se non affiliati alla ‘ndrangheta, sono in grado di assicurare al sodalizio entrature nelle sedi istituzionali più disparate come quelle della Chiesa e della magistratura, per garantire – è scritto negli atti processuali – “pressioni e capacità di intervento circa le vicende processuali degli affiliati”.
Le amicizie romane di Grande Aracri
Grande Aracri avrebbe cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto del cognato. Quella sentenza fu effettivamente annullata con rinvio dalla Cassazione, ma gli inquirenti non riusciranno ad accertare il coinvolgimento di un magistrato.
Sempre per aiutare il cognato, Nicolino Grande Aracri avrebbe speso (senza successo, tuttavia) anche le proprie amicizie in Vaticano. L’obiettivo è spostare il parente detenuto dal carcere di Sulmona a quello di Siano, a Catanzaro, in modo tale che fosse più vicino ai familiari: la provincia crotonese, infatti, non dista molti chilometri dal capoluogo di regione. Tramite un’amica giornalista, Grande Aracri prova a intervenire in Vaticano.
Il carcere di Siano
La donna, infatti, è in stretto contatto con un monsignore, nunzio apostolico e, nel 1995, “cappellano di sua Santità”. Un prelato che sarebbe capace di smuovere cardinali e non solo. «Il nostro piccolo Giovanni tra una settimana starà vicino casa sua», dice la donna dopo l’incontro, avvenuto in Vaticano. Il monsignore manda anche i saluti alla moglie del detenuto: «Ha detto che è stata generosa e splendida. Gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso volentieri per i suoi poveri».
In Emilia Romagna si spara
Non solo affari. Anche sangue. E a fiumi. Nonostante il negazionismo della classe dirigente, in Emilia Romagna la ‘ndrangheta è presente e influente almeno dagli anni ’80. Ma è negli anni ’90 che l’Emilia Romagna si trasforma, sostanzialmente, nella provincia di Crotone. Non solo per la presenza delle cosche che, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia, sarebbe organizzata in cerchi, con un ruolo predominante da parte di Nicolino Sarcone. Ma anche perché, nei primi anni ’90, in Emilia Romagna si spara. Proprio come se ci si trovasse nell’entroterra calabrese.
Nicolino Sarcone
È il 1992 quando vengono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe “Pino” Ruggiero. Non a Cutro. Il primo (a settembre) a Pieve Modolena. Il secondo (a ottobre) a Brescello. Proprio sui luoghi di don Camillo e Peppone.
E i mandanti sarebbero proprio due tra i boss più carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone, che delle cosche di Cutro sarebbe l’avamposto a Reggio Emilia.
Per Grande Aracri la svolta arriva con la carcerazione di Antonio e Raffaele Dragone, i boss crotonesi a cui era inizialmente legato. La scissione con il clan Dragone comincia a maturare proprio in quegli anni fino a sfociare in una vera e propria faida che raggiunge il culmine quando, nel 1999, viene assassinato a Cutro Raffaele Dragone, figlio dell’anziano capobastone. Seguirà una lunga scia di sangue. Tra il 1999 e il 2004 in provincia di Reggio Emilia cadono uccise dodici persone. Eppure, dovranno passare diversi lustri, con l’inchiesta “Aemilia” prima, curata dal pm Beatrice Ronchi, e con l’inchiesta “Grimilde” poi, per poter parlare, con voci negazioniste più blande, di ‘ndrangheta in Emilia Romagna.
L’auto di Antonio Dragone dopo l’agguato mortale
Il 19 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro ha condannato Nicolino Grande Aracri ed il fratello Ernesto, entrambi all’ergastolo. Sentenza divenuta definitiva nel giugno del 2019, per l’omicidio del vecchio capobastone di Cutro, Antonio Dragone, avvenuto nel 2004 nelle campagne del Crotonese, del quale Nicolino Grande Aracri era stato il braccio destro.
Gli affari di Nicola Femia
Nicolino Grande Aracri e Nicolino Sarcone sono forse i due boss maggiormente carismatici della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Ma non gli unici.
Un nome importante è quello di Nicola Femia. Per anni fa girare diversi soldi in quei luoghi, poi lo arrestano e diventa collaboratore di giustizia.
Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. L’impero delle slot machine, soprattutto.
Nicola Femia
Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori nella stagione dei sequestri che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
Questo ruolo, gli avrebbe consentito di conoscere la trattativa che le Istituzioni avrebbero imbastito con la ‘ndrangheta, in particolare per la liberazione di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni.
Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza
Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: quella liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire, in una valigetta che avrebbe fatto il giro della Locride tra le mani proprio di Mazzaferro, appositamente fatto uscire dal carcere di Regina Coeli – in base all’oscuro “accordo” – per assolvere tale ruolo. Una delle stagioni più oscure della storia d’Italia, di cui, al momento, si conoscono solo pochi flash, come quelli, inquietanti, spiegati da Femia: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi».
Il finto pentimento di Nicolino Grande Aracri
Anche i protagonisti della ‘ndrangheta emiliana si muovono sempre in ambienti torbidi e occulti. E, stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, utilizzano anche i metodi più subdoli della ‘ndrangheta d’élite. Nell’aprile 2021, infatti, è dirompente la notizia del pentimento di Grande Aracri. In tanti sperano che la ‘ndrangheta possa aver trovato il suo Tommaso Buscetta. Un boss di altissimo rango in grado di aprire le porte più inaccessibili sulla struttura della ‘ndrangheta unitaria, ma anche sui suoi riferimenti istituzionali.
Il procuratore Nicola Gratteri
L’illusione durerà solo pochi mesi. La collaborazione di Grande Aracri viene gestita dalla Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, che impiegherà pochi mesi per bollare come inattendibile la scelta e fantasiose le rivelazioni di Grande Aracri e a smascherare la manovra, rispedendolo al 41bis.
Una manovra per incolpare qualche nemico storico, per sminuire i suoi crimini, ma, soprattutto, per salvare la famiglia. La moglie e la figlia, soprattutto. In una relazione depositata, i pm antimafia parleranno anche del “sospetto peraltro che l’intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso”.
Cosa può imparare da noi italiani – e calabresi in particolare – la Colombia?
Parliamo di un Paese che ha (e ha avuto) gruppi criminali armati, alcuni anche ideologicamente orientati: ricordate le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e il negoziato di pace del 2016?.
Non solo: la Colombia rimane ad oggi il primo produttore al mondo di cocaina, sfruttata e gestita da gruppi criminali organizzati più o meno territorialmente radicati.
Calabria e Colombia: ridurre la violenza
Presto fatto. La prima domanda emersa nella conferenza internazionale organizzata da Fundación Ideas Para La Paz, Global Initiative Against Transnational Organized Crimee Konrad Adenaur Stiftung (enti che si occupano di consulenza e ricerca su strategia internazionale e sicurezza), è: come si riduce la violenza della criminalità organizzata?
Questa, nella loro prospettiva internazionale, diventa la domanda posta anche a me: come ha fatto l’Italia a ridurre la violenza mafiosa? E cosa può insegnare la Calabria con la mafia più importante d’Italia?
Esercito e polizia colombiani in un’operazione interforze
Due giorni su Calabria e Colombia
Le risposte sono difficili. Vi si sono impegnati, per due giorni, il presidente del Congresso colombiano Roy Barreras, il capo della Procura generale del Paese (la Fiscalia) Francisco Barbosa, l’ex capo della Polizia nazionale ed ex vicepresidente colombiano, Oscar Naranjo, insieme a Sergio Jaramillo, ex viceministro della Difesa ed ex Alto Commissario per la pace (per capirci, l’incaricato della gestione dei negoziati con le Farc fino all’agosto 2016).
A loro si sono uniti accademici nazionali e internazionali (come chi scrive), giornalisti da tutto il Sudamerica, analisti ed esperti del territorio.
Il tutto è terminato in una cena-discussione con il ministro della Giustizia, il Viceministro della difesa, e il capo dell’Unità investigazioni della Polizia colombina.
Un momento del convegno di Bogotà
Faide, sequestri e stragi
La violenza mafiosa, e della criminalità organizzata in generale, non è una caratteristica dell’Italia odierna, ma è parte di tutta la nostra storia.
Oltre le stragi di Cosa Nostra, tutte le mafie hanno prodotto in diversi periodi livelli di violenza molto elevati.
Nella guerra di ’ndrangheta tra il 1985 al 1991 a Reggio Calabria, i morti accertati furono poco più di 600, ma le stime oscillano tra i 500 e i 1000.
La ’ndrangheta, infatti, ha costruito la sua reputazione sulla violenza.
Ne sono esempi le faide per il controllo del territorio che hanno decimato intere famiglie (ad esempio quelle di Siderno, 1987-1991, tra i Costa e i Commisso, in cui vinsero questi ultimi), o che addirittura si sono manifestate all’estero (la strage di Duisburg del Ferragosto del 2007, segmento della guerra di San Luca tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari iniziata nel 1991).
E ne sono altri esempi gli oltre 200 sequestri di persona in Aspromonte tra gli anni ’70 e i primi ’90, alcuni caratterizzati da inaudita bestialità.
La violenza sistemica della ‘ndrangheta ha sicuramente lasciato un’eco nella popolazione che è parte del fenomeno mafioso calabrese e della sua reputazione.
L’esterno del locale in cui si è consumata la Strage di Duisburg
Tre lezioni dall’Italia
Cosa può insegnare l’Italia alla Colombia? Tre cose principalmente:
Una risposta dello stato molto forte, con un arsenale antimafia fatto di normative dirette (repressive) e indirette (di prevenzione) che contengono un messaggio primario: la violenza non conviene.
Una capacità delle organizzazioni criminali (non ideologiche né insurrezionaliste) di trovare altri mezzi per risolvere i propri problemi (tra cui il coordinamento, l’alleanza e soprattutto la corruzione).
L’accettazione di un livello di violenza “tollerabile” e la definizione (negoziazione interna) della soglia di tollerabilità. La violenza mafiosa non è sparita, ma il suo allarme sociale si: dà allarme quella violenza oltre un certo soglia, o in mercati “anomali” (sorprenderebbe violenza nelle attività semi-lecite delle mafie, ma non nel mercato della droga).
Scorcio di piazza Bolivar a Bogotà
Tre lezioni calabresi
Altre cose le può insegnare proprio la Calabria.
Innanzitutto, il decentramento della violenza nel crimine organizzato moderno: non c’è una testa pensante nella ’ndrangheta che commissiona o modula la violenza. Questo da una parte è un un vantaggio, dall’altra porta anche a reazioni molto diverse a seconda di luoghi e tempi in cui questa violenza si manifesta.
Si è anche parlato di quella violenza che per alcuni violenza non è, ma che tuttavia è pronunciata in certi posti della Calabria: l’estorsione ambientale. Questa si configura quando il clan è abbastanza potente da non avere più necessità di fare richieste palesi, con le relative minacce. Ormai basta il sussurro e l’allusione.
Per ritenere estinta o ridotta qualsiasi violenza la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. Laddove si riuscisse, come in Italia e Calabria, a ridurre il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità, la vittimizzazione diventerebbe più subdola quanto più l’organizzazione rimanesse economicamente e socialmente potente, come la ‘ndrangheta in alcune parti del nostro territorio.
Paz Total: il sogno di Gustavo Petro
Questa domanda sulla riduzione della violenza deriva dalla proposta ambiziosa, forse troppo, del nuovo presidente della Colombia, Gustavo Petro.
Petro, ex guerrigliero del gruppo M-19, è stato eletto nel giugno 2022 con una piattaforma politica incentrata sulla promessa della Paz Total, la pace totale.
Questa pace, secondo Petro e i suoi ministri, si può raggiungere negoziando con l’ultimo gruppo di guerriglia rimasto, l’Eln (Ejército de liberación nacional), come si è fatto con le Farc, ma anche con oltre altri 20 gruppi “ad alto impatto”, solo criminali, coinvolti nel mercato di cocaina, marijuana e altre attività illecite di criminalità organizzata.
Gustavo Petro, il presidente della Colombia
Tregua delle armi e legalizzazione
Aprire i negoziati di pace – strumenti di solito legati ai conflitti internazionali – alla criminalità organizzata, che non è in conflitto con lo Stato colombiano ma è spesso violenta al suo interno, crea cortocircuiti concettuali e pratici.
Già: cosa si offre a questi gruppi? Come si permette ad essi un incentivo a collaborare? In che modo si riduce la loro violenza? E si può impedire che “morto un gruppo se ne faccia un altro”?
Quesiti molto politici (e metodologici) per la paz total immaginata da Petro. Ma Petro non vuole fermarsi qui: il suo esecutivo ipotizza anche una depenalizzazione della cocaina e della marijuana, che sono tra i business illegali più lucrativi del Paese, e non solo.
La decriminalizzazione della cocaina, unita a un tentativo di pacificazione del crimine organizzato, avrebbe effetti rivoluzionari – positivi e negativi – sul mercato globale dei narcotici. Cioè sul settore più redditizio dell’economia criminale.
Guerriglieri di Eln
La ’ndrangheta senza Colombia
E qui arriva la seconda domanda sottoposta alla prospettiva internazionale, e soprattutto relativa alla ‘ndrangheta.
Eccola: cosa succederebbe a quegli importatori più attivi sul mercato internazionale della cocaina – cioè alcuni gruppi di ’ndrangheta – se si arrivasse, anche parzialmente, alla paz total in Colombia con qualche cartello?
Meglio ancora: cosa accadrebbe alla ’ndrangheta e ai suoi traffici se si sconvolgesse – coi negoziati e la decriminalizzazione – il mercato colombiano?
Broker ’ndrine e narcos tra Calabria e Colombia
Le risposte non sono semplici: siamo nel regno delle ipotesi.
Come detto nella puntata precedente di questo viaggio, i rapporti tra ’ndrine storiche e cartelli storici del narcotraffico in Colombia sono consolidati e intergenerazionali, intra-cartello (a monte e a valle), e basati su contratti a rinnovo automatico. La cocaina arriva dalla Colombia in Calabria grazie a broker specializzati con rapporti solidi in entrambi i territori. Dunque, è possibile immaginare che tali broker si muoveranno per restaurare l’“ordine”, a dispetto delle politiche di “pace” e decriminalizzazione.
Un carico di cocaina sequestrato
Liberalizzare? Impossibile, in Calabria e Colombia
È improbabile che si arrivi a una liberalizzazione delle droghe a livello internazionale. Perciò il mercato delle importazioni rimarrà inalterato, seppur con iniziali possibili difficoltà di procacciamento della merce.
Infatti, la cocaina è un bene a domanda “rigida” (vale a dire che non solo non esistono beni simili sul mercato, ma a domanda pressoché fissa) perci l’offerta rimarrà quanto meno costante.
Bolivia e Perù: gli astri nascenti della coca
Quindi se la situazione diventasse più complessa in Colombia, anche temporaneamente, la Bolivia (dove la coca è anche spesso più pura) e soprattutto il Perù (dove i gruppi criminali hanno uno stile imprenditoriale) potrebbero sostituirla nella produzione e nell’approvvigionamento. Per farla breve, ai nostri ’ndranghetisti servirà rimanere flessibili, comprendere il sistema locale e offrire soldi e risorse anche all’estero per risolvere problemi.
I partecipanti al convegno internazionale di Bogotà
La lezione colombiana
Dalla Colombia, però, abbiamo da imparare anche noi.
A sentire l’insistenza con cui si parla di pace, inclusa quella dal crimine organizzato, è interessante riflettere sugli strumenti collettivi per ottenerla. Tra questi, la ricerca della verità, la riconciliazione tra vittime e carnefici, la memoria.
Senza memoria (del dolore, delle armi, della violenza, dei traumi collettivi) non si può avere riconciliazione e non si può tentare la pace.
Questo, forse, dovrebbe essere uno spunto di lavoro per la nostra classe dirigente, che si scorda come intere fette della popolazione, soprattutto del Sud (per esempio alcune comunità Aspromontane), debbano ancora comprendere e affrontare le ferite della violenza che fu, con memoria storica, verità e per riconciliarsi con l’eco della violenza attuale.
Ma questa è un’altra storia.
«Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.
I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta
La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici. La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato. A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.
La sede dell’Interpol in Colombia
La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa
È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa. La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).
Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi. La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.
Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico
Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.
Salvatore Mancuso Gómez, ex leader delle Auc e re della droga
Il re della droga
Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro. L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.
Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso
Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.
Il ritratto di Pablo Escobar in un mercatino di Bogotà
Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso
Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.
Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia
Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.
Roberto Pannunzi
Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.
Il mercato maledetto
È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.
Poliziotti colombiani in azione
Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
«Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.
Strani traffici a Livorno
C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.
Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel
Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.
Una mafia senza nomi
La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.
‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti
Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.
Reggio Calabria e la sua provincia sono riconosciute, unanimemente, come le capitali “politiche” e “amministrative” delle ‘ndrine. Milano è invece la capitale economica della ‘ndrangheta. Il capoluogo lombardo e il suo hinterland, da sempre, sono terra di conquista per le cosche. E nulla conta la convinzione del profondo Nord di avere gli anticorpi per resistere al contagio del crimine organizzato su quei territori.
Milano, l’altra capitale della ‘ndrangheta
È proprio a Milano e dintorni che la ‘ndrangheta muove le masse di denaro più cospicue. E, come spesso accade, tra i primi a capire che quello è il canale giusto ci sono i De Stefano. Ossia la cosca che maggiormente ha modernizzato la ‘ndrangheta, facendola passare da una condizione agro-pastorale a una holding del crimine.
La presenza capillare della ‘ndrangheta a Milano è ormai anche riconosciuta da sentenze definitive, quali quelle arrivate con le due maxi-inchieste “Crimine” e “Infinito”. Entrambe testimonieranno la fitta comunicazione, sempre attiva, sempre costante, tra chi opera al Nord e la “casa madre” calabrese. Partirà, per esempio, proprio dalla Calabria la decisione di “posare” Carmelo Novella, detto Nunzio, boss scissionista. Voleva fare le cose in grande, ma la sua voglia di indipendenza verrà soffocata sul nascere e nel sangue.
Gli affari nella “Milano da bere”
Già a partire dagli anni ’80, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investono ingenti capitali nel Nord Italia, in particolare nel capoluogo meneghino. A Milano spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa 6 mesi una sanguinosa faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi. Il pretesto per scatenare la guerra era un diverbio tra Franco Coco Trovato e Salvatore Batti durante un incontro nell’appartamento dove Pepè Flachi si nascondeva durante la sua latitanza.
Pepè Flachi
Negli anni ’90, dunque, la ‘ndrangheta capitalizza quello che ha costruito a partire dagli anni ’70. La forza della ‘ndrangheta sta anche nell’essere riuscita a colonizzare Milano e il ricco Nord, entrando con maggior forza nel traffico di stupefacenti e vedendo accrescere il proprio potere nel contesto delinquenziale anche a livello nazionale. Secondo alcune fonti, nel 1980Giuseppe Piromalli entra a far parte della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostrain rappresentanza di tutte le famiglie calabresi. Ruolo centrale quello rivestito, ancora una volta, dalla famiglia De Stefano, che riuscirà a comprendere prima di tutti l’importanza di colonizzare luoghi come la Lombardia, attraverso famiglie ad essa collegate.
De Stefano a Milano: la ‘ndrangheta mette su famiglia
Uno dei figli di don Paolino De Stefano, Carmine, dopo l’uccisione del padre si trasferisce per alcuni mesi, unitamente al fratello Giuseppe ed alla madre, nella residenza francese dei De Stefano e, precisamente, nella villa “Tacita Georgia” di Cap d’Antibes. Nel capoluogo meneghino, poi, la cosca De Stefano mette radici. E famiglia. Carmine De Stefano, infatti, diventa genero di Franco Coco Trovato, considerato uno degli esponenti più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia.
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Quello, infatti, è un territorio fondamentale e assai fluido: personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte.
Basta la parola
L’attività delle cosche sul territorio si svolge soprattutto nella commissione dei reati di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi, di rapine, furti e truffe, nonché di fabbricazione e spaccio di banconote false. Ma i clan mettono le mani anche sui locali della “Milano da bere” e non solo: discoteche e night club anche nel Comasco e nel Varesotto.
Spesso non sono necessari atti di violenza per riscuotere le tangenti. Ormai la situazione si era stabilizzata nel senso che i titolari degli esercizi pubblici taglieggiati erano in condizioni di sottoposizione e di impossibilità di reagire, che rendono palese l’efficacia minatoria dell’associazione indipendentemente dall’effettivo ricorso alla violenza, di cui bastava solo la prospettazione, anche implicita.
Franco Coco Trovato, uno dei signori della ‘ndrangheta a Milano
Uno dei gruppi più importanti nasce nel 1986 dalla fusione di due sodalizi distinti, quello dei Flachi e quello dei Coco Trovato. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ‘ndrangheta gliela fornisce. Emblematico quanto dichiara in collaboratore di giustizia: «[…] In Comasina si smerciavano due chili di eroina ogni settimana, in Bruzzano altrettanti, alle “baracche” 7 kg ogni mese, ne smerciavano circa due al mese. Quindi alla fine del mese, si trattava di uno smercio di almeno 25 kg circa di eroina… Questo almeno dall’82 all’86 con incrementi progressivi… per la cocaina confermo quello che ho detto, e cioè che dai palermitani riuscivamo ad avere al massimo due kg al mese, quando loro l’avevano. Tanta ne smerciavamo. Naturalmente, i quantitativi che io ho prima indicato sono da riferire alla sostanza intesa come “pura” che, da me tagliata, si raddoppiava almeno».
Franco Coco Trovato
Gli esordi di Franco Trovato (chiamato Franco Coco fino al 1991, anno in cui è intervenuto un riconoscimento di paternità), notoriamente caratterizzati dall’esecuzione di gravi rapine, sono stati narrati dal collaboratore Antonio Zagari nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero di Milano l’11 novembre 1992.
Dalle rapine e i sequestri al traffico di stupefacenti
«Ho conosciuto Franco Coco … nel 1969 o 70. Io, all’epoca, ero giovanissimo ed avevo circa 15/16 anni. […] Ricordo che, trasferitosi al nord, entrò subito a far parte di un gruppo di persone dedito alla consumazione di rapine; di questo gruppo mio padre era il “basista” nella provincia di Varese e ne facevano parte varie persone, tra cui alcune molto importanti nella ‘ndrangheta… su un livello inferiore vi erano membri della ‘ndrangheta più giovani, quali Franco Coco (originario di Marcedusa e trasferitosi nel lecchese)», racconta Zangari.
«Tutti costoro erano pacificamente e con certezza assoluta appartenenti alla ‘ndrangheta e come tali frequentanti la casa di mio padre… Rividi fuori dal carcere il Coco nell’82 e ’83… a questo punto era assolutamente noto tra di noi che il Coco aveva abbandonato le vecchie attività di rapine e di sequestri di persone e si era dato al traffico di stupefacenti che controllava e dirigeva nella zona di Lecco», prosegue.
Un locale ufficiale nel lecchese
La rapida ascesa di Coco Trovato nel panorama della criminalità organizzata di matrice calabrese trova riscontro nei racconti di tutti i collaboratori di rilievo. Anche Saverio Morabito ha riferito che Coco si era rapidamente radicato nella zona di Lecco, intrattenendo rapporti di buon vicinato con altre cosche (egli per esempio, al pari di Flachi e Schettini, si recava a Corsico per intrattenere pubbliche relazioni con la famiglia Sergi e con lo stesso Morabito).
Un panorama di Lecco, sul lago di Como
D’altra parte, grazie ai rapporti sempre più stretti instaurati con la famiglia De Stefano di Reggio Calabria, e dopo alcuni insuccessi, Coco era riuscito ad ottenere il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un “locale” della ‘ndrangheta nel lecchese, struttura della quale era ovviamente il capo riconosciuto.
Vacanze, Jaguar e colletti bianchi
Racconta ancora Zagari: «Rammento anche che De Stefano, durante la comune carcerazione a Lecco, offrì ai figli di Coco un soggiorno gratuito a Reggio Calabria per le ferie dell’estate dell’83. Anche noi Zagari, come avevo detto, eravamo all’epoca molto legati al Coco tanto che, sempre nell’83, quando si sposò la sorella del Coco, su richiesta di quest’ultimo formulatami in carcere, io dissi a mio fratello Andrea e a mio cugino Sergi Franco di mettere a disposizione della sorella di Coco, per il matrimonio, una Jaguar nera adatta per le cerimonie, che servì agli spostamenti della sposa».
Personaggio da Romanzo Criminale, Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da ampia tradizione della ‘ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi”, piegati alle esigenze dei clan. Tra questi, l’avvocato Franco Mandalari (coinvolto in indagini proprio in Lombardia), che secondo alcune fonti giudiziarie poteva ungere gli ingranaggi giusti per ottenere benefici nelle sentenze, qualora gli uomini di Coco Trovato fossero stati arrestati.
‘Ndrangheta a Milano: l’unione fa la forza
L’alleanza tra Pepè Flachi e Franco Coco Trovato, dalla quale nacque l’organizzazione unitaria, fu definitivamente sancita durante l’estate del 1986. Flachi aveva liquidato la sua vecchia società, ed era rimasto con pochi uomini di elevato livello al proprio fianco. Coco, d’altra parte, estendeva sul milanese, per via dell’alleanza, il dominio già esercitato nella zona nord occidentale della Lombardia. E la comune appartenenza dei due uomini alla ‘ndrangheta, che certamente aveva favorito i rapporti tra i due gruppi anche in anni precedenti, aveva di fatto contribuito, dopo uno sviluppo graduale delle relazioni, alla creazione di un’unica struttura delinquenziale retta da un patto di “società”.
Un altro collaboratore di giustizia, Emilio Bandiera, per anni uomo inserito nella ‘ndrangheta milanese, specifica: «Furono fatti, naturalmente, vari discorsi ed alla fine fu deciso che i due gruppi si mettevano insieme: i proventi del traffico di stupefacenti e di altre attività delittuose (tra cui estorsioni) sarebbero stati divisi al 50%, mentre Coco e Flachi avrebbero unito le forze mettendo insieme le rispettive bande e i propri fornitori di stupefacenti e i clienti».
«Da quel momento – prosegue Bandiera – presero a controllare un vasto territorio comprendente la Comasina, le baracche di via Novate, Bruzzano e tutto il territorio di Lecco e di parte della Brianza (controllato da Franco Coco). La società determinò subito un vero e proprio salto di qualità nella misura dei profitti che da parte loro si conseguivano. Non esito ad affermare che i due sono proprietari di un patrimonio immobiliare e liquido che è valutabile in decine di miliardi».
Ci sono anche gli Arena-Colacchio
Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano, sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto. Le attività criminali, esercitate dal clan, spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni), a quelli relativi a traffici di stupefacenti, di armi, omicidi di appartenenti ad organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche.
In particolare mettono le mani su ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina ed autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, imprese di demolizione auto e commercio rottami, imprese di trasporto. Tutto, riportano gli atti, per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore, e per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari.
I rapporti con la mafia siciliana e le stragi
La Lombardia, da sempre, è una sorta di camera di compensazione. Lì le consorterie criminali dei vari territori d’Italia si incontrano e si spartiscono gli affari. Quasi sempre in maniera piuttosto lineare e senza bisogno di spargimento di sangue.
Sul punto riferisce, tra gli altri, il collaboratore Franco Pino, uomo forte della ‘ndrangheta del Cosentino in contatto con i Piromalli, i Mancuso, i Pesce, ma anche con i casati del capoluogo reggino, e quindi i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Fontana. Pino ricorda traffici di armi con la Sicilia e in particolare un carico di kalashnikov proveniente da Palermo arrivato a Cosenza.
Il boss, poi pentito, Franco Pino
Pino racconta anche dell’ormai celeberrima riunione di Nicotera, dove Cosa Nostra, in quel periodo impegnata nella sua strategia stragista, avrebbe chiesto il coinvolgimento della ‘ndrangheta. In quell’occasione Coco Trovato e Pesce illustrano una proposta portata dai Brusca per conto di Totò Riina.
I siciliani avevano già iniziato a commettere le stragi. E dicevano di volere un appoggio sull’attività stragista da parte della ‘ndrangheta, anche perché le eventuali conseguenze negative della legislazione sarebbero ricadute sulla criminalità calabrese.
Il racconto di Franco Pino
«In particolare chiedevano se noi fossimo disposti a commettere, da parte di chi ne aveva la maggiore possibilità, attentati ad obiettivi istituzionali, non per forza rivolti ad uccidere un numero indeterminato di persone ma certamente finalizzati a far capire che si trattava di attentati veri, in modo da procurare più terrore possibile e più danni possibile, ed eventualmente anche vittime; ad esempio obiettivi idonei potevano essere caserme o piccole stazioni dei Carabinieri site nei paesi, o simili. La contropartita consisteva, come fu detto espressamente, nel cercare di ottenere vantaggi dallo Stato, come una sorta di trattativa», afferma Pino.
‘Ndrangheta a Milano: Paolo Martino e gli anni 2000
Ruolo importante, nel Milanese, quello svolto dai De Stefano. Non solo attraverso Coco Trovato. Un nome di grande peso è quello di Paolo Martino, cugino dei De Stefano. Martino viene indicato dai collaboratori di giustizia come uomo forte già negli anni ’90 con riferimento alle riunioni tenute per prendere le decisioni sulla strategia stragista. Negli anni 2000, invece, Martino torna prepotentemente alla ribalta sotto altra veste. Sarebbe lui, infatti, il contatto tra la Giunta Comunale di Reggio Calabria, del sindaco Giuseppe Scopelliti, e l’impresario dei vip, Lele Mora. Il Comune del sindaco Scopelliti, infatti, spenderà oltre 100mila euro per la realizzazione della “Notte Bianca” in riva allo Stretto.
L’ex presidente della Regione, sindaco di Reggio Calabria e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti
All’impresario delle star, Scopelliti sarebbe arrivato infatti tramite quel Paolo Martino, legato da rapporti di parentela alla potentissima cosca De Stefano e della quale sarebbe la diretta proiezione in Lombardia. Così lo definiscono gli investigatori nelle carte d’indagine che lo conducono in carcere per i propri rapporti con il clan Flachi: «Martino è uno di quei personaggi che ha ampiamente superato la fase della delinquenza “nera” perpassare al livello della mafia imprenditoriale, con contatti ad alto livello economico e politico».
Scrive il Ros: «Non vi è dubbio che Martino Paolo, rispetto alla normalità dei soggetti attenzionati e gravitanti nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, rappresenti un livello qualitativo decisamente più elevato. Nato nel rione Archi del capoluogo calabrese, roccaforte destefaniana, è cugino del noto capomafia De Stefano Paolo e si è inserito, all’interno della cosca, con l’autorevolezza e la forza del mafioso di rango. Le sue vicende criminali, iniziate negli anni Settanta, lo hanno progressivamente qualificato come elemento di vertice di quell’aggregato mafioso».
Il boss, il sindaco e il manager dei vip
Oggi ultrasessantente, Martino comincia a sparare da minorenne e già a partire dai primi anni ’80 inizia a collezionare condanne su condanne, per associazione mafiosa e per droga, passando anche diversi periodi in latitanza. Sarà lui stesso a dichiarare al Gip di Milano, Giuseppe Gennari, il quale firma la maggior parte delle ordinanze contro la ‘ndrangheta in Lombardia, di aver messo in contatto Mora e Scopelliti: «Arriviamo lì e ci sediamo in ufficio. Io dico: “Lele, oltre a essere sindaco di Reggio Calabria è un amico mio. Però la cosa importante è che ti sto portando una persona che ti porta lavoro, cerca di fare qualche cosa interessante insieme”».
Lele Mora
Al Gip Gennari, Martino racconterà inoltre di conoscere un po’ tutti i membri della famiglia Scopelliti: oltre a Giuseppe il politico, anche Consolato (detto Tino) e un altro fratello, anch’egli impegnato in politica, a Como. «Perché sono una persona perbene», dice. Affermazioni che, tuttavia, non hanno mai portato ad alcun coinvolgimento penale delle persone menzionate da Martino.
Valle e Lampada: al servizio della cosca Condello
Non ci sono solo i De Stefano, tuttavia. Anche la cosca Condello, soprattutto nei primi anni 2000, avrebbe avuto i propri importanti avamposti milanesi. In particolare nei membri delle famiglie Valle e Lampada. Secondo gli accertamenti svolti dal Ros, «i fratelli Lampada (Giulio e Francesco, ndr) rappresentano quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso, compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso investigato, riconducibile a Condello Pasquale». Non una cosca indipendente, dunque, ma una propaggine del più famoso clan Condello.
Franco Morelli ed Enzo Giglio
Negli anni in cui gli uomini del Ros redigono l’informativa, i Lampada sono ancora degli “illustri sconosciuti”. Che, però, svolgerebbero già il ruolo di teste di ponte del “Supremo” in Lombardia «con il compito di reinvestire nell’economia pulita, gli enormi profitti illeciti». Lì a Milano, i Valle-Lampada avrebbero avuto relazioni privilegiate con diversi esponenti politici, tra cui l’allora consigliere regionale Franco Morelli. Ma anche con i magistrati Enzo Giglio e Giancarlo Giusti. Anche i rapporti con il mondo della politica, sarebbero, secondo il Ros, indicativi del legame, strettissimo, tra i Lampada e i Condello. Dati, quelli raccolti dai Carabinieri che darebbero la misura di «quanto fosse forte l’esistenza di un intreccio di affari criminali – economici tra gli appartenenti alla famiglia Lampada e lo stesso mondo politico calabrese, asserviti alle esigenze ed all’ottenimento di “favori” personali, comunque, riconducibili alla consorteria di Pasquale Condello».
Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri
I macellai e il Supremo
I Lampada, dunque, anche attraverso il business delle slot machine, sarebbero riusciti, in poco tempo, a costruire un impero partendo praticamente da zero: quando vanno via da Reggio Calabria, infatti, sono proprietari solo di una macelleria nel rione Archi. A Milano, invece, avrebbero conquistato fette enormi di mercato nei settori più svariati: «Si tratterebbe e non potrebbe essere diversamente, di patrimonio riconducibile alla cosca Condello, reinvestito nella città di Milano dai suoi sodali. E qui emerge tutta la forza e la potenza della cosca indagata, capace di mimetizzare l’immenso capitale acquisito illecitamente, mediante nuove e più efficienti forme di riciclaggio e di reinvestimento dello stesso, sempre più tendente ad un’unificazione del mercato legale e di quello illegale».
‘Ndrangheta a Milano: i Piromalli
Ma, come nei più classici cliché dei “corsi e ricorsi storici” di Giovambattista Vico, si parte dai Piromalli di Gioia Tauro, per ritornare, infine, proprio al grande casato di ‘ndrangheta. Una delle grandi inchieste degli ultimi anni, denominata “Provvidenza”, certificherà la presenza, ancora importante, ancora pervasiva dei Piromalli negli affari milanesi.
Giuseppe “Pino Facciazza” Piromalli
Elemento centrale, Antonio Piromalli, figlio di Pino Piromalli, detto “Facciazza”. Proprio per volere del padre, Antonio Piromalli si era trasferito a Milano, nel tentativo di abbassare l’attenzione su di lui, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle altre famiglie mafiose. Pino Piromalli “Facciazza”, classe 1945, aveva infatti investito il figlio di pieni poteri, sebbene l’uomo avesse continuato a reggere le fila della cosca, prima dal 41bis dopo la condanna definitiva nel processo “Cent’anni di storia”, e poi da uomo libero, con la scarcerazione avvenuta nel 2014.
«Hanno amici dappertutto»
Lo storico casato gioiese, peraltro, muoveva ingenti somme di denaro con l’esportazione di prodotti ortofrutticoli verso i mercati del nord Italia, controllando alcune aziende inserite nel mercato ortofrutticolo milanese, a cui assicurava, per il tramite di un consorzio con sede nella Piana di Gioia Tauro, la fornitura dei prodotti, garantendo, con le note tecniche di intimidazione, prezzi di acquisto concorrenziali e il buon esito delle operazioni commerciali
Per il pentito Furfaro, inchieste, arresti e decessi non hanno incrinato la leadership della cosca di Gioia Tauro: «Oggi i Piromalli sono la famiglia militarmente più forte d’Italia. Hanno “amici ” dappertutto. Questo tanto a Gioia Tauro quanto fuori. La Lombardia è nelle loro mani, ogni questione relativa ad appalti e quant’altro viene ripartita tra le famiglie più importanti. È quindi inevitabile che abbiano un peso specifico anche lì. Si diceva fosse Antonio Piromalli, classe 1972, occulto gestore del mercato ortofrutticolo a Milano e che questi avesse significativi interessi anche in questo settore; Gioacchino Piromalli andava spesso a Milano. Credo che lì avesse uno studio in comune con altro avvocato».
Riassunto delle puntate precedenti: Matteo Messina Denaro viene arrestato il 16 gennaio 2023 dopo latitanza trentennale. Nel frastuono mediatico, si è rinvigorito lo spettro massonico, ossia l’evocazione di un potere occulto, nutrito di mentalità mafiosa, che avrebbe coperto il boss impedendone la cattura. Tesi accattivante, non fosse per la vaghezza di queste affermazioni.
Troppo spesso una presenza massonica viene richiamata senza curarsi delle evidenze storiche e sociologiche (per non parlare della rilevanza penale) di quel fenomeno – esistente, seppur dai confini labili – che è la borghesia mafiosa. Tale si definisce quella classe sociale connotata da pratiche illecite sistematiche, alimentate dal contatto ravvicinato tra mafie e “potere” (istituzionale o politico). Nonostante le ambiguità, rimane valida la domanda: che tipo di protezioni ha avuto Matteo Messina Denaro, e soprattutto, quanto c’entra la massoneria?
Massondrangheta e apericene
I termini massomafia e massondrangheta dovrebbero cadere in disuso. Parole assimilabili a ristopizzerie, gastropub, o apericene: espressioni lessicali che fondono due cose diverse, preservandone l’identità doppia. Per pigrizia linguistica, non si trovano espressioni più appropriate e articolate. Si uniscono due concetti singolarizzati all’estremo – tutti fenomeni plurali, compositi, stratificati – come massoneria e mafia o ‘ndrangheta (fino a che non esca una massocamorra, o peggio una massosacracoronaunita…). Poi li si semplifica fino all’osso sublimandone la natura in un concetto sdoppiato, indefinito, inutilizzabile a livello di analisi.
La massoneria è un fenomeno storico, sociale e organizzativo, contraddistinto da fumose aspirazioni di elevazione personale e sociale. La mafia e la ‘ndrangheta sono organizzazioni criminali, da contestualizzare storicamente e sociologicamente. Di fatto, le condotte di mafiosi e massoni vanno attribuite a specifiche persone e sottogruppi, con un impatto differenziato a seconda della funzione esercitata.
Massoni deviati e mafiosi
Il ruolo sociale con cui si arriva alla massoneria spesso detta la motivazione per entrarvi: opportunità di affari, per molti; volontà di seguire un percorso d’illuminazione spirituale, per alcuni; opportunità di incontrare persone di analoga estrazione sociale e accrescere il proprio prestigio, per altri. Il comportamento qui conta più che lo status. Del resto, lo status di “massone” – a differenza, in certi casi, di quello del “mafioso” – non è affatto indipendente. Nessuno è “professionalmente” soltanto massone (a parte forse i vertici delle principali obbedienze). Esistono il medico-massone, l’avvocato-massone, il politico-massone, e via discorrendo.
Si possono individuare quattro formule di interazione in cui la figura di un massone deviato, cioè un massone che non segue la vera ‘chiamata’ della massoneria – all’interno di logge irregolari, spurie, coperte, segrete, o interamente devianti – interferisce nel rapporto tra mafie e potere. Le abbiamo individuate e analizzate in una ricerca sviluppata assieme al professor Alberto Vannucci.
P2 e Iside 2: comandano i venerabili
Prima formula: il massone (formalmente in regola o meno con gli statuti della sua obbedienza, ma comunque deviato) è promotore di condotte illecite in un network in cui egli stesso fa da garante agli scambi tra attori di varia estrazione, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari. Questo è il caso della P2 di Licio Gelli – ragno in mezzo alla sua ragnatela, o meglio burattinaio, come lui stesso si autodefinì – nella vicenda che ha irreversibilmente modificato la narrazione sulla natura della massoneria contemporanea in Italia, ridotta nell’immaginario collettivo a sede occulta di affari illeciti e maneggi loschi affidati alle potenti mani di insospettabili.
Licio Gelli, è stato il capo della P2
È anche il caso, sempre negli anni ’80, della loggia Iside 2 di Trapani (che faceva capo al Centro studi Scontrino) – unico processo penale in cui si è applicata con successo la legge Anselmi(approvata dopo lo scandalo P2) contro l’interferenza nella vita pubblica delle società segrete. Il maestro venerabile della loggia Iside 2, il docente Giovanni Grimaudo, imitando Licio Gelli, pilotava le attività illecite di un reticolo di affiliati composto da “colletti bianchi”, ma anche da alcuni esponenti di Cosa nostra: tutti portavano in dote opportunità, entrature, risorse.
Grimaudo, come Gelli, offriva servizi di “protezione”, risolvendo i problemi che affliggevano i fratelli nei loro rapporti con l’apparato pubblico. Sia nella P2 che in Iside 2 ai massoni era reso pressoché impossibile incontrarsi e accordarsi tra di loro: tutto doveva passare per l’intermediazione dei maestri venerabili, realizzando così una piena personalizzazione in capo a un solo soggetto dell’attività massonica deviata.
Rinascita-Scott, la quasi massondrangheta
Seconda formula: il massone (deviato) è parte di un network di vari soggetti, coinvolti in attività e scambi informali, illeciti, o criminali, inclusi i mafiosi e i politici/funzionari, senza che nessuno abbia un ruolo dominante. Qui il massone deviato opera all’interno di una cerchia in cui gli scambi di favori, gli illeciti e gli abusi coinvolgono congiuntamente una pluralità di attori. Sono le frequentazioni tra avvocati, medici, politici e imprenditori, oltre che con mafiosi o ‘ndranghetisti, più che lo status di massone, a facilitare la loro proficua interazione. Lo status di massone può amplificare la devianza, all’interno di una camera di compensazione tra contropartite.
Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott
È questo il caso presentato nel maxiprocesso Rinascita-Scott– non concluso– quando si fa riferimento ad avvocati presunti massoni coinvolti in pratiche di corruzione e presunti reati di concorso esterno in associazione mafiosa.
È anche il caso dell’operazione Geenna, in Valle D’Aosta: un massone (presunto/irregolare) avrebbe tentato di coordinarsi con ‘ndranghetisti locali per convincerli a entrare in una nuova loggia utile a canalizzare consenso elettorale; alcuni degli ‘invitati’ si sentono tra loro per valutare questa opportunità e rinunciano, ma stringono altri accordi sottobanco.
La paramassoneria e la mafia defilata
Terza formula: il massone (deviato) è figura marginale in un network dominato da ‘potenti’ (in ruoli politici e istituzionali) che regolano autonomamente attività illecite, con la sporadica inclusione dei mafiosi. Nell’Operazione Artemisia (2019) a Trapani, o meglio a Castelvetrano (paese di Matteo Messina Denaro) un ex assessore regionale siciliano avrebbe dato vita a un’entità para-massonica, in parte sovrapposta ad una loggia ufficiale, della quale il vero maestro venerabile ignorava l’esistenza. Il gruppo operava a prescindere dalle direttive della loggia regolare, permettendo ai suoi membri ‘coperti’ di aiutarsi a vicenda, a spese dei massoni regolari, in caso di necessità. A queste intese nell’ombra partecipavano altri soggetti, spesso neppure massoni, che influenzavano assunzioni e carriere negli enti pubblici.
Matteo Messina Denaro nella sua foto più celebre
In un simile contesto la capacità di accordarsi ‘privatamente’ può tenere ai margini la mafia, giacché i mafiosi “portano problemi”. Un massone siciliano coinvolto in Artemisia racconta che il maestro venerabile della loggia aveva preferito cambiare obbedienza, dalla Gran Loggia d’Italia al Grande Oriente, per ragioni di opportunità, ossia “il tentativo dei massoni della Gran Loggia d’Italia di Agrigento di far entrare nella loggia di Castelvetrano personaggi vicini a Cosa nostra”. I mafiosi, dunque, e solo alcuni – persino qualcuno come Matteo Messina Denaro – possono restare defilati, clienti o amici di un gruppo di potenti “colletti bianchi” in grado di “governare” autonomamente i propri patti segreti senza ricorrere ai mafiosi. L’ex consigliere regionale dichiarerà di conoscere Messina Denaro fin dall’adolescenza, e di avere avuto il suo appoggio in ambito politico-elettorale, non massonico.
Massondrangheta: la Santa e Porta Pia
Quarta formula: il massone (deviato) è mafioso egli stesso o pienamente coinvolto in una struttura mafiosa che ha tratti (para/pseudo) massonici, essendosi appropriato del capitale simbolico (e relazionale) della massoneria. È quanto emerge a Reggio Calabria dagli ultimi processi Gotha, ‘Ndrangheta Stragista, Meta e altri più datati come Olimpia, trent’anni fa. In questo contesto alcuni massoni (deviati) vengono “plasmati” nella loro nuovo identità dalla ‘ndrangheta, facendo emergere col tempo un sistema di potere integrato, in cui solo i clan hanno mantenuto la loro identità criminale, mentre si è diluito fino a perdersi del tutto il senso di fratellanza a una “obbedienza massonica”. Non ci sono più politici che supportano i clan, o viceversa, bensì politici legati a doppio filo all’associazione tra vari clan dominanti in quel territorio.
Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta
Quest’associazione – a un dato momento chiamata Santa o Società di Santa – agiva/agisce come una setta segreta, una sezione riservata (invisibile, per gli inquirenti) che si eleva al di sopra della ‘ndrangheta dedita allo sgarro (la criminalità comune). Il santista era allo stesso tempo massone e ‘ndranghetista: perché ciò potesse accadere, si operò negli anni ‘60-‘70, un cambiamento radicale all’interno dell’élite dell’Onorata Società, ammettendo anche “esterni”, non ndranghetisti. Non più intermediazione massonica tra “mondi” (criminali e dei colletti bianchi) autonomi e separati, ma integrazione tra ruoli, all’interno di un’infrastruttura organizzativa, con un capitale simbolico e relazionale comune, che è terza – né massoneria, né mafia, ma con attributi di entrambe – cesellata da rituali massonici prestati alla ‘ndrangheta.
Dirà il collaboratore Cosimo Virgiglio: «Dopo il 1995, abbiamo descritto il rapporto con questa criminalità, con la ‘ndrangheta, come un “varco” e nel nostro linguaggio, nel nostro gruppo riservato, si parlava di “Porta Pia”, in riferimento alla “breccia di Porta Pia”… Diverso il discorso per gli ‘ndranghetisti, per i quali questa apertura era chiamata Santa». È il caso più eclatante di rapporto integrato tra massoneria deviata e ‘ndrangheta, in cui entrambe le organizzazioni sembrano cambiare pelle nel perseguire le finalità degli affiliati, al punto da dar vita a una nuova entità che conserva alcuni attributi delle sue matrici, ma non gli scopi originari.
La vera anomalia italiana
Che in Italia vi siano state molteplici occasioni di incontro tra mafiosi, politici, imprenditori e professionisti – che erano/sono anche massoni per scelta o per occasione – non implica che dalle loro relazioni nascoste sia germogliato il seme di un’integrazione, o che si siano alterate identità e finalità. La compresenza di fenomeni diversi non significa che siano correlati, né che tra essi esista un nesso causa-effetto.
Se cercassimo quanto più si approssima all’ambiguo concetto di massomafia, solo la quarta formula potrebbe esservi – con cautela – assimilata. Le altre realtà, in misura maggiore o minore, raccontano di sovrapposizioni e intrecci strumentali, talvolta solo occasionali, legati a personaggi e contesti specifici.
Ma da queste formule si ricava uno spunto importante: mafiosi e massoni deviati si trovano spesso in posizioni subalterne o paritarie rispetto a politici, funzionari e figure istituzionali o professionali coinvolti in scambi illeciti o favoritismi a sfondo criminale. Ciò è particolarmente evidente nella seconda e terza formula: la vera anomalia italiana è l’ampiezza delle sfere di informalità, illegalità e corruzione che coinvolgono i “potenti”. E la loro attività criminale si nutre di segretezza, simboli, riconoscimenti, frequentazioni, ostentazioni di onnipotenza, aspettative di impunità. Mafia e massoneria (deviata) sono interlocutori e sedi ideali per propiziare i crimini dei potenti, la cui complessità richiede però nuovi concetti e strumenti di analisi per essere compresa.
(in collaborazione con Alberto Vannucci, professore di Scienze politiche, Università di Pisa)
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.
Messina Denaro, eroi ed antieroi
Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.
Paolo Guido, il magistrato cosentino tra i protagonisti dell’arresto di Messina Denaro
La storia si ripete
Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.
Totò Riina dietro le sbarre
Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.
Messina Denaro e le zone grigie
Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.
Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.
Il medico Alfonso Tumbarello, espulso dalla massoneria dopo l’arresto del boss
Ma che cos’è questa massomafia?
Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.
Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?
La confusione aumenta
Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.
Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.
E poi c’è la massondrangheta
Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.
Un’udienza del processo ‘Ndrangheta stragista
La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustiziaMarcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.
Messina Denaro e «un’unica famiglia»
Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.
Matteo Messina Denaro tra gli uomini del Ros dopo l’arresto
Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.
Più sostanza, meno suggestioni
Pasquale Gallone
Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).
Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.
“Batterie per auto da smaltire, così la ’ndrangheta di Cosenza vuole trasformare il piombo in oro” – così titola LaCNews, a firma di Marco Cribari, il giorno dell’Epifania. Seguono altre testate, come CosenzaChannel“‘Ndrangheta Cosenza, ecco come i clan vogliono smaltire le batterie per auto”, Calabria7che riprende AffariItaliani, “Batterie esauste, il nuovo business della ‘ndrangheta che avvelena l’Italia”.
La notizia suggerisce chiaramente un business dei clan cosentini nei rifiuti speciali. Si fa riferimento ad un’informativa del 2020 allegata alle ultime indagini che la DDA di Catanzaro ha effettuato nel cosentino sugli interessi dei clan mafiosi cittadini. Tale informativa confermerebbe che carichi di batterie per auto esauste, ergo da smaltire, partono dal Cosentino per venire poi interrati in modo illecito in provincia di Caserta, a Marcianise per la precisione. Si tratta di rifiuti speciali e dunque, dicono le notizie riportando i risultati della DDA, di ingenti guadagni per le cosche, sempre fameliche di soldi facili e illeciti.
‘Ndrangheta, Cosenza e rifiuti speciali
Come ogni volta che sui giornali c’è una notizia che riguarda faccende di mafia – che ha nel titolo la ‘ndrangheta e qualche suo business come in questo caso – è spesso necessario “pelare” la notizia, come si fa con le cipolle per capirci. Strato dopo strato, bisogna levare via le superfici per cercare di arrivare al cuore della faccenda, possibilmente senza lacrimare troppo.
Appare chiaramente dalle notizie, una volta lette fino in fondo e una volta approfonditi i dati riportati, che prima di reati di mafia qui si tratta innanzitutto di reati ambientali.
Cosa è successo, dunque, in questo caso?
‘Ndrangheta, Cosenza e il traffico di rifiuti
Nella geografia dei clan mafiosi della città di Cosenza (spesso per semplicità chiamati clan di ‘ndrangheta, nonostante per alcuni non sembra essere confermata l’affiliazione alla casa madre) si trovano i cosiddetti clan ‘italiani’ a confronto con i clan degli “zingari” o “nomadi”. Quest’ultimo gruppo, secondo le cronache, avrebbe detenuto un monopolio sul traffico di rifiuti speciali fino a qualche anno fa.
Ma ecco che un imprenditore cosentino – e qui la questione diventa interessante – è intenzionato ad ampliare il mercato e a coinvolgere anche gli altri clan “italiani” della città. Può farlo, tale imprenditore, perché in possesso della licenza che gli consente di smaltire batterie esauste in modo lecito e regolare.
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Ma avrebbe commesso una leggerezza: a fronte di un investimento iniziale di duecentomila euro, ne ha dovuto sborsare oltre la metà di tasca propria in quanto solo un’altra persona ha risposto all’appello per investire nel business. L’obiettivo, dunque, è recuperare gli investimenti e per farlo serve coinvolgere altre società del cosentino e del crotonese, di fatto interessate a frodare lo Stato – quindi a non smaltire regolarmente le batterie esauste – e così facendo, a condonare quell’avvelenamento che lo smaltimento illegale necessariamente provocherà, a Marcianise nel casertano.
I clan al servizio delle imprese
Nella gerarchia della serietà della condotta criminosa in questo caso, il traffico di rifiuti speciali e pericolosi sovrasta – per danno sociale – il coinvolgimento mafioso. In pratica questo vuol dire che i reati relativi ai mafiosi sono dipendenti dal reato madre, che è il reato ambientale a opera di colletti bianchi. Detto ancora più chiaramente: la condicio sine qua non di questa vicenda – cioè l’elemento che, qualora mancasse, cambierebbe l’evento stesso – non è la disponibilità della mafia cosentina, italiani o zingari che siano, a essere coinvolta nel traffico di rifiuti, bensì l’esistenza di imprenditori che tentano di aggirare le regole sullo smaltimento dei rifiuti. E che, per farlo, chiedono aiuto a chi, come certi gruppi mafiosi, non si fa problema a entrare nel business illecito.
La mafia che presta servizi in mercati illeciti lucrativi è variabile dipendente rispetto all’intenzione dell’imprenditore di turno, che dà il via alla partita. Europol, nel suo report sui rischi legati ai crimini ambientali del 2022, ricorda appunto come, a differenza di altri settori in cui sono gruppi di criminalità organizzata si attivano autonomamente, nel settore del traffico di rifiuti, pericolosi e non, il motore criminale parte dalle imprese che cercano di tagliare e evitare i costi dello smaltimento. I gruppi criminali, dunque, non solo in Italia, agiscono sempre più a servizio delle imprese, o “da dentro” di esse.
Privacy a imputati alterni
Ma c’è in questa notizia ancora altro che stona. Sui mafiosi o presunti tali coinvolti ci sono dettagli, nomi, cognomi e analisi di intenzioni e possibilità. Così non è né per l’imprenditore cosentino che avrebbe avviato il tutto, né per le società che si sarebbero prestate, o dimostrate interessate, alla frode insieme a lui. Non solo non sappiamo chi sono (e questo potrebbe essere giustificato in termini di privacy), ma non sappiamo nemmeno se e quando qualche provvedimento verrà preso nei loro confronti o se quanto meno ci sia un modo – ideato o potenziale – di protezione di questo mercato.
Sicuramente siamo tutti pronti a indignarci e gridare allo scandalo della mafia onnipotente perché i mafiosi cosentini fanno i mafiosi, o ci provano: vogliono fare soldi facilmente anche con attività di servizio altrui e questo è riprovevole, come sempre. Ma come mai non ci indigniamo allo stesso modo per i colletti bianchi che quel servizio lo creano? E come mai non ci indigniamo ancora di più quando oltre al mercato illecito che porta guadagni indebiti si commette anche un’atrocità ambientale?
Nonostante l’inserimento degli eco-reati nel Codice penale dal 2015, la complessità delle normative in materia di rifiuti, spesso associata a scarse risorse per il monitoraggio, l’ispezione e l’applicazione delle norme, comporta ancora rischi ridotti per coloro che infrangono la legge a monte – colletti bianchi, imprenditori e più o meno grandi società e imprese – mentre i profitti illeciti che possono trarre da questo settore sono elevati. Nel caso delle batterie si parla di 1.500-1.800 euro a tonnellata.
Chi sta sul carro
Ma il problema non è solo l’arricchimento indebito e illecito – reale o potenziale – di qualche clan mafioso; il problema vero qui è che ci sono pratiche, quasi interamente condonate, di avvelenamento del territorio con i liquidi contenuti all’interno delle batterie esauste, mistura di acqua e acido solforico. Il traffico di rifiuti speciali o la mala gestione dei rifiuti pericolosi non ha solo ha gravi implicazioni per l’ambiente e la salute. Ha un impatto economico anche sulla concorrenza, ponendo le imprese che rispettano i regolamenti per lo smaltimento in una posizione di svantaggio economico.
Qual è l’incentivo a seguire i regolamenti se chi non li segue, o cerca di aggirarli, di solito non viene punito? Infatti, si puniscono facilmente i mafiosi coinvolti in questo traffico proprio perché sono “già” mafiosi, ergo già sotto osservazione delle forze dell’ordine; ma in questo mercato i clan sono solo una delle ruote del carro: sul carro stanno imprenditori, colletti bianchi, a volte grandi imprese e i loro arsenali di avvocati.
Non solo ‘ndrangheta
Mi permetto un’ulteriore riflessione. A guardare le notizie di cronaca in Calabria sembra spesso che a fare da protagonista assoluta, in faccende criminali di una certa serietà e complessità, sia sempre e solo la ‘ndrangheta: estorsioni, droga, traffici illeciti, appalti truccati, corruzione politica. Sicuramente, nella nostra regione, esistono monopoli criminali; c’è una densità tale dell’operatività dei clan mafiosi che spesso erroneamente si presume che ogni nefandezza che succede qui da noi debba passare dalla ‘ndrangheta, sia collegata alla ‘ndrangheta, oppure sia ideata dalla ‘ndrangheta.
Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto
Non paiono esistere, nella pubblica percezione calabrese, reati complessi e attività lucrative che non coinvolgano la ‘ndrangheta: reati ambientali, reati societari, reati dei colletti bianchi, reati finanziari e via discorrendo. Fa eccezione, per ora, solo il traffico di migranti, che esula dagli interessi mafiosi perché di base non riguarda il territorio. Quando tali reati complessi si manifestano– e questo caso del traffico di batterie ne è esempio lampante – non paiono esistere in formula del tutto autonoma dall’interesse dei clan, da essi, o dalla loro narrazione, vengono fagocitati Questo non sorprende nessuno, vista appunto la capacità dei gruppi mafiosi locali di penetrare l’economia legale (come illegale) in modo totalizzante e vista la capacità legata alle indagini di mafia di ‘scoprire’ anche altri reati che ruotano intorno ai soggetti attenzionati per mafia.
I colpevoli dimenticati
Ma così facendo si rischia, come in questo caso cosentino, di mancare il focus, attribuendo tutto il male di vivere della nostra amara terra a una ‘ndrangheta onnivora mai sazia di denaro facile e moralmente sempre corrotta, senza vedere le sfumature, le differenze tra i clan. E, soprattutto, senza realizzare che le fattispecie criminali locali sono molto più complesse della volontà, dei successi e dei fallimenti della ‘ndrangheta. È un po’ come chi guarda il dito e non la luna: a furia di concentrarsi solo sul ruolo della ‘ndrangheta come protagonista in tutto ciò che non va in Calabria, si rischia di banalizzare fattispecie e attori criminali a volte molto più dannosi e a volte più scaltri di tanti gruppi mafiosi. Quando si riesce a identificare e accusare il mafioso, altri spesso finiscono nel dimenticatoio: per condannare la ‘ndrangheta, si finisce per assolvere de facto altri potenziali colpevoli.
Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.
Quartetto d’Archi
Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di donMico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.
Arresto di Mico Tripodo (a destra, in primo piano)
Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.
I rapporti di Paolo De Stefano
‘Ntoni Macrì
Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.
Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
Nero di Calabria
De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alladestra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.
Il potere di Paolo De Stefano
Giorgio De Stefano, fratello di Paolo e suo predecessore ai vertici dell’omonimo clan
All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.
De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.
Il braccio armato della Madonna
All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.
L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».
Gli equilibri in riva allo Stretto
Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.
Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».
Autobomba e moto
Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.
Orazio De Stefano
Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».
L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes
Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.
Il racconto del collaboratore
È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».
Pasquale “il Supremo” Condello
«Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».
La morte di Paolo De Stefano
La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.
È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.
Archi, Reggio Calabria
Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.
La guerra di ‘ndrangheta
Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.
L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti
Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.
C’è chi in Calabria di questi tempi, nonostante spopolamento e crisi delle municipalità e dei piccoli centri, vorrebbe far nascereun nuovo comune. Riproponendo disinvoltamente a pretesto, tra mito e storia, favolose antichità da guida turistica e suggestioni archeologiche che coprono a stento, con una araldica foglia di fico, vecchi e nuovi campanilismi.
Succede ad Amantea, contrapposta alla frazione di Campora San Giovanni. Intenti secessionistici che la frazione avanza rispolverando una pretesa continuità «etnica» (sic!) con l’antico «popolo di Temesa», risalente niente poco di meno che alla fondazione dell’antica città italica, citata da Omero (Odissea, I, vv.180-184).
Calabria saudita
E parte da qui una spericolata rivendicazione secessionista, a colpi di etnicismi e illazioni identitarie. «Da fonti storiche e sulla base di ritrovamenti archeologici si desume che il territorio dell’attuale frazione Campora, compreso tra il fiume Oliva e il torrente Torbido è stato precedentemente territorio appartenente a Temesa. Dalle testimonianze rinvenute si può evincere, fino ai giorni nostri, la naturale e spontanea simbiosi degli abitanti dei luoghi interessati, che mette in evidenza anche sulla base degli eventi archeologici già ampiamente dettagliati, l’uniformità ad un unico territorio (Campora San Giovanni – Serra d’Aiello) che affonda le proprie storiche radici nella città e popolo di Temesa».
Un cartello sulla Statale 18 dà il benvenuto ad Amantea in cinque lingue (ma non in arabo)
Si passa poi alle pretese del presunto «contesto linguistico, usi, costumi e tradizioni», che rincara la dose. «Il diverso aspetto socio-culturale viene ampiamente giustificato in quanto comprovato dall’esistenza della città di Temesa sull’attuale territorio di Campora San Giovanni e di Serra d’Aiello, che porta ad attribuire a entrambi gli abitanti dei due territori una comune discendenza riconducibile sotto il profilo etnico al popolo di Temesa. Stante ciò, è naturale spiegare come gli usi, i costumi e le tradizioni si identifichino in Campora San Giovanni e Serra d’Aiello: la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro. Palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».
Il consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano (foto Alfonso Bombini/ICalabresi)
All’influenza araba degli invasori non ho potuto trattenere le risate. Pure perché il testo citato tra virgolette non è la tesi abborracciata di qualche erudito locale. È il testo di un documento ufficiale della Regione Calabria a firma del consigliere Graziano.
Anche le frazioni nel loro piccolo si staccano
Date le premesse, non stupisce che la vicenda secessionista sia finta per adesso sulle carte bollate. Il nuovo comune che dovrebbe nascere dall’esito di un referendum, Temesa, sarebbe frutto dell’unione di Campora San Giovanni (popolosa frazione di Amantea) e Serra d’Aiello, un altro piccolo comune collinare del comprensorio, a danno del centro cittadino di Amantea. Quest’ultima, in caso di perdita della frazione di Campora e con la costituzione del nuovo comune limitrofo, scenderebbe sotto la soglia fatidica dei 10.000 abitanti. Per ora si tratta di un’ipotesi. Per avere la certezza dell’apertura dei seggi, serve attendere una pronuncia di legittimità del Consiglio di Stato, prevista per il 12 gennaio.
Prescindo ovviamente dal rilievo strettamente tecnico e politico-istituzionale della faccenda. Dal mio punto di vista, quello che rileva piuttosto da questa curiosa ed esemplare vicenda è un dato significativo antropologicamente paradossale. Ovvero che rivendicazioni autonomistiche che cavalcano gli istinti di restaurazione delle piccole patrie, come fenomeno collaterale del populismo sovranista dei nostri tempi, le aspirazioni che fomentano ormai ovunque secessioni e spinte autonomistiche sono ormai divenute moda anche dalle nostre parti. Anche nei paesi. Persino nelle frazioni.
Proprio laddove, invece, per contrastare spopolamento e crisi delle piccole comunità locali occorrerebbe mirare piuttosto a obiettivi contrari, come le unioni di comuni e il rafforzamento delle strategie di cooperazione e di rafforzamento dei servizi, alla crescita di movimenti civici e di cittadinanza attiva e consapevole necessari per contrastare il decadimento dei territori locali e per rafforzare la già fragile connessione tra piccoli centri, città secondarie e dimensione regionale-nazionale.
Amantexit
Il referendum scissionista tra Campora ed Amantea sembra riproporre su scala localissima una specie di derby paesano, fomentato da una sorta di populismo della porta accanto. In una realtà già falcidiata da fenomeni di crisi economica e sociale, da un forte declino delle rappresentanze istituzionali e della partecipazione democratica, ormai tipica dei piccoli comuni, una scissione in un centro medio-piccolo (Amantea arriva a stento a meno di 14mila abitanti), può rappresentare davvero una frattura traumatica nella storia e nella vita sociale di una intera comunità. Ci si chiede quale sia davvero la ratio – e la velleità culturalmente distintiva- che può spingere a separare definitivamente due entità insediative che in realtà sono e resteranno contigue e omogenee.
È una scelta che rischia di rivelarsi antistorica e avventurista. La separazione tra un comune e una frazione, Campora versus Amantea, potrebbe sommare così due debolezze senza creare davvero nessun punto di forza. E anche il tema retorico dello sviluppismo che differenzia, secondo i fautori del referendum scissionista, la realtà di Campora proiettata verso la crescita da quella di Amantea, cronicamente stagnante e in ritardo, affrontato e risolto a colpi di schermaglie burocratiche o con il ridisegno dei nuovi confini comunali a vantaggio dell’uno o dell’altro non farebbe certo avanzare di un passo i problemi di entrambi.
Fiato alle trombe
In certi aspetti la vicenda così come viene delineandosi tocca le punte tragicomiche di uno psicodramma familiare. Una disputa collettiva da strapaese. Alla rappresentazione mancano solo, per ora, un Don Camillo e un Peppone nostrano. Ma già pare di dover assistere a tratti a una questione di diplomazia da arbitrato internazionale Onu per ristabilire chi ha ragione e chi ha torto tra l’ex madrepatria di Amantiella ‘a terza e i neo-nazionalisti dell’ex-colonia rurale che nell’agro annovera i ricchi campi di cipolle (di Tropea) della Campora di San Giovanni.
Campora: l’inequivocabile giudizio dei tifosi dell’Amantea sui rivali cittadini
Con indubbio sprezzo del ridicolo intanto volano parole grosse da una parte e dall’altra.
«I promotori della separazione si stanno assumendo la responsabilità di compromettere la crescita e l’ammodernamento dell’intero comprensorio del Sud Tirreno cosentino», tuonano esagerando non poco dal confine amanteano.
Rispondono minacciosi e risentiti i ricchi colonizzatori neo-civici appostati sulle sponde del fiume Oliva: «Distaccandosi da Amantea, i residenti di Campora San Giovanni vogliono porre le basi per un’aggregazione futura, che magari alla lunga riguarderà anche altri municipi. L’atteggiamento sprezzante registrato nel tempo ha favorito il processo in corso auspicato dalla maggior parte dei cittadini di Campora».
Mare e monti
A parere dei leader locali, nella disputa autonomista «si scontrano due culture diverse: una meravigliosa cultura marinara, quella di Amantea, e una, differente, di Campora. Questa frazione è passata da 500 a 3800 abitanti, espressioni delle aree collinari limitrofe come, ad esempio, Cleto e Serra d’Aiello».
A parte l’enfasi, già numeri del genere inviterebbero alla cautela. Preoccuperebbero un demografo e stuzzicherebbero le indagini di un sociologo o di un economista sensato. Invece bastano a rinfocolare polemiche e rivendicazioni secessioniste degne del nazionalismo post-colonialista e terzomondista. È tutto un trionfo della retorica delle origini, dell’autenticità, del senso civico e dei valori tradizionali ad alimentare contrapposizioni artificiose, che fanno a cazzotti con realtà minuscole e pretese comunque sproporzionate. Ma tant’è, ormai la battaglia autonomista divampa, anche a colpi di infiammati comunicati e polemiche incrociate tra le diverse fazioni in lotta.
Mattarella e Carosello per Temesa
C’è persino chi ha rivolto un appello al presidente Mattarella «affinché impedisca l’indizione del referendum circa l’aggregazione della frazione di Campora San Giovanni al Comune di Serra d’Aiello-NuovaTemesa».
«C’è da trasecolare!», afferma invece il Comitato Ritorno alle origini di Temesa (sic!), che dichiara con lessico vagamente neoborbonico remixato con riferimenti iconici da Carosello-anni ’60, che «Lorsignori, evidentemente, spendono il proprio miglior tempo sul pianeta Papalla altrimenti saprebbero che in Italia dal 27 dicembre del 1947 vige una Repubblica democratica che fonda la propria essenza su un ordinamento a base democratica che si regge su tre poteri separati tra di loro, quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Al dunque, ma i fatti sono noti, i Camporesi, attraverso un proprio Comitato, Ritorno alla origini di Temesa, hanno avviato un iter giuridico-amministrativo davanti alla Regione Calabria perché fosse riconosciuta questa storica e corale aspirazione, quella di separarsi dal Comune di Amantea in quanto – ormai è verità storica – lo stesso Comune, con colpevole, inadeguata, negligente e assente azione amministrativa ha da oltre quaranta anni ignorato le più elementari esigenze di una grossa comunità a dispetto di un dinamismo economico che avrebbe imposto le migliori attenzioni e il miglior impegno. Così non è stato. Evidenziando, nei fatti un atteggiamento sprezzante, arrogante quanto egoistico che dà ragione, in qualche misura, all’eterno pregiudizio di parte di molti amanteani nei confronti dei camporesi.Loro nobile borghesia, e i camporesi campagnoli».
Insomma, ci manca solo una dichiarazione di guerra.
Statale 18 nel territorio di Campora San Giovanni (foto Alfonso Bombini)
Derby, indiani, eliporti
Incuriosito dalla polemica, nei giorni scorsi sono stato da quelle parti per un sopralluogo, per rendermi conto di persona. Alla fine del mio giro sulla SS 18, il nastro d’asfalto con vista mare che qui raccoglie e aspira come un sifone tutto quello che di antico, di vitale e di nuovo si muove intorno alla vita dislocata di questi paesi senza più un centro, ho pranzato in un ristorantino sul lungomare di Amantea. Il posto era frequentato per la pausa pranzo da un gruppo di persone. Prevalentemente bancari, tutta gente del luogo, ma già ben divisa tra tifosi amanteani e camporesi, anche se lavorano ogni giorno fianco a fianco in qualche banca o servizio finanziario locale. Il tono era accalorato ma conviviale. Volavano battute sarcastiche e sfottò pesanti. Il punto era naturalmente il prossimo referendum per l’autonomia.
Tra le tra le due opposte fazioni a tavola è venuto fuori di tutto: dal derby calcistico locale tra le due squadre che già si fronteggiano nel campionato di Promozione (dilettanti), agli 800 residenti indiani, braccianti occupati (come?) nei campi di cipolle, nell’agricoltura e nei servizi, ai numerosi altri immigrati e rifugiati trattenuti nei centri di assistenza o a spasso per le strade, agli appalti lucrosi previsti per la costruzione di grande piattaforma logistica di Conad. E persino di un eliporto da costruire: «Pe’ le Eolie? No, pe’ Iacucci, cussì piglia e porta!», e giù risate bipartisan (Franco Iacucci è il politico locale di lungo corso che molti indicano come artefice della scissione).
Franco Iacucci, consigliere regionale del Partito democratico (foto Alfonso Bombini)
Archeologia e cipolle
Qualcuno poi azzarda che forse sarebbe meglio prenotare invece uno stand per la prossima borsa del turismo archeologico in cui “vendere” le attrattive del vicino sito archeologico di Temesa: «Seeh!Addu ce su le cepulle» E giù altre risate e battutacce. Intanto un tempio arcaico venuto alla luce nel territorio dell’antica Temesa, l’edificio sacro in località Imbelli di Campora San Giovanni, langue insieme ad un ricco antiquarium, chiuso da tempo.
Per ora restano solo pochi fatti a giustificare i toni di un secessionismo spinto, convinto unicamente dall’esaltazione paesana, da un campanilismo da condominio: il porticciolo turistico ubicato nello specchio d’acqua antistante la frazione di Campora, le più importanti infrastrutture turistiche collocate sulla fascia costiera di circa otto km che fa capo alla frazione, più alcune imprese all’interno dell’area ex Pip.E appunto le cipolle. Una discreta estensione di preziosi campi piantati a cipolla di Tropea, (il cui areale tipico si spinge fin qui).
Campora vanta una produzione importante di cipolle
Campi di cipolle praticamente ormai sovrapposti alle aree archeologiche di Cozzo Piano Grande e di Piano della Tirena, che qui fanno sempre più gola, costituendo la risorsa territoriale che fa reddito più di ogni altra cosa da queste parti. Tutti terreni collocati tra le aste fluviali del torrente Oliva (lo stesso degli interramenti dei rifiuti tossici e radioattivi della Jolly Rosso, su cui non è mai stata fatta piena luce) e del torrente Torbido; superfici molto ampie che quindi passerebbero integralmente in dote al nuovo comune, a danno di Amantea.
Temesa, una favola senza lieto fine?
Questo strambo, comico e strapaesano apologo locale calabrese mi riporta ad un saggio che lessi da studente. Un libro eretico che indagava sulle metamorfosi sociali e culturali registratesi in un villaggio francese della Bretagna, Plodemet, scritto daEdgar Morin alla fine degli anni ’60 del secolo scorso. Qui tra Campora ed Amantea, come nel villaggio francese studiato di Morin, esiste un carattere “plodemetano” che li accomuna. Molti si sentono reclutati per un progetto neo-identitario tanto fantasioso quanto ritenuto ambizioso e necessario. Ingaggiati in una sorta di antropologia elementare del noi e dell’altro tale da definire e promuovere un’umanità in transizione.
Lo studioso francese Edgar Morin
Una confusa favola allegorica della modernità alla calabrese che vede di fatto la fine dei paesi, che in questo caso paradossalmente coincide però con la moltiplicazione molecolare dell’ideologia del paese. Con il rischio che alla fine ne resti solo l’involucro vuoto, anche se c’è chi adesso la mette sulla lezione del passato, e accampa radici più antiche della storia, e perciò pretende il riconoscimento di primazie civiche e culturali. Con la pretesa ulteriore che il progresso debba venire solo dalla radicalizzazione delle presunte differenze invece che dalla loro armonizzazione, da una rifondazione artificiale, una sorta di riesumazione del passato, da un ritorno forzato e del tutto nominalistico alle origini.
Un altro referendum dopo Campora e Amantea
A me quindi la vicenda secessionista Campora Vs Amantea richiama il paradosso della fragilissima vulnerabilità e infondatezza della gran parte dei cosiddetti “discorsi identitari” nostrani. E se peraltro allarghiamo la scala delle questioni in campo, se guardiamo ai risibili e asfittici campanilismi, alle dispute ottocentesche tra province defraudate di questo a favore di quella che riempiono le cronache di questa regione dal Pollino allo Stretto, dal Tirreno allo Ionio, arrivati al 2023 resta la conferma sconsolante che la Calabria non sa ancora pensarsi come un’unica grande città-regione, con un suo posto dentro la realtà di un paese moderno ed europeo.
Se per ora ci sia da ridere o da piangere decidetelo voi calabresi. Magari con altro referendum.
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