Categoria: Rubriche

  • MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    MAFIOSFERA | L’ombra della ‘ndrangheta sull’omicidio Winchester?

    Il 22 marzo 2023, in Australia, sul canale commerciale Channel 9, è andato in onda The Hit, un episodio del programma Under Investigation, che in stile talk-show si occupa di riconsiderare, riaprire e discutere le prove su casi criminali controversi, finiti male o non ancora del tutto finiti.

    Chi ha ucciso il superpoliziotto Winchester?

    The Hit, anche disponibile su YouTube, si pone due domande chiare: chi ha ucciso Colin Winchester, Assistant Commissioner della Polizia Federale Australiana (AFP), il 10 gennaio del 1989? E un’altra domanda che fa rabbrividire: e se la mafia l’avesse fatta franca nell’omicidio di un poliziotto d’alto rango? Siccome siamo in Australia, ed era il 1989, mafia significa Honoured Society, l’Onorata Società, quindi la ‘ndrangheta.

    Riaprite questo caso

    A questo talk-show per Under Investigation ho partecipato da remoto, come accademica esperta di ‘ndrangheta: ma ero affiancata da persone che il caso Winchester lo conoscono molto bene: Terry O’Donnell, uno degli avvocati di David Eastman, colui che per anni è stato considerato il colpevole dell’omicidio, poi scarcerato con tante scuse; Jim Slade, un ex capo dell’intelligence nel Queensland vicino alle indagini, e un altro avvocato, Geoffrey Watson, coinvolto nel caso in vari momenti per assicurarne l’integrità. L’obiettivo – guidato primariamente da Watson, non è solo raccontare il caso, ma chiedere ufficialmente che si apra un’inchiesta pubblica sull’omicidio Winchester che, ad oggi, risulta non solo impunito, ma praticamente “chiuso”.

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    Per la polizia federale australiana non ci sono prove del legame tra l’omicidio Winchester e la ‘ndrangheta

    La Polizia federale australiana: non ci sono prove

    La AFP ha infatti dichiarato nel luglio 2022, in seguito a una serie di articoli che ripercorrevano alcuni degli indizi della cosiddetta pista mafiosa nel caso:  «L’AFP non ha riaperto i fascicoli precedentemente chiusi sull’assassinio di Winchester. Non ci sono prove che suggeriscano che la criminalità organizzata italiana sia responsabile della morte di uno dei nostri, il vicecommissario Colin Winchester. I nostri pensieri sono sempre rivolti alla famiglia Winchester».
    Nello stesso documento si legge: «L’AFP vuole essere chiara: non c’è alcun esame, rapporto o intelligence recente dell’AFP che suggerisca che la mafia sia responsabile dell’omicidio dell’ex vicecommissario Winchester. Non c’è alcuna indagine aperta su questa vicenda. Non è in corso di revisione».

    Winchester, ‘ndrangheta e Rapporto Martin

    Il caso Winchester è piuttosto complicato dopo decenni di tira e molla giudiziari. Un funzionario pubblico, David Eastman, fu condannato per l’omicidio nel 1995, ma 20 anni dopo, nel 2014, a seguito di una Commissione d’Inchiesta (“Rapporto Martin”), un tribunale ha ordinato un nuovo processo e ha riaperto il caso. Il rapporto disse che altre piste investigative non erano state esplorate a fondo; alcune cose erano state attivamente insabbiate. C’erano, tra queste, anche alcune “piste calabresi”. Il 22 novembre 2018, la giuria del nuovo processo dichiarò Eastman non colpevole dell’omicidio. Eastman, che aveva intanto scontato 19 anni di detenzione, ottenne un risarcimento di 7 milioni di dollari australiani nell’ottobre 2019: il caso collassò per problemi legati all’ammissione delle prove, e soprattutto perché ai tempi dell’indagine le forze di polizia avevano avuto una cosiddetta tunnel vision e non avevano adeguatamente escluso altre piste investigative.

    Piantagione di cannabis

    I calabresi coinvolti nella produzione di droga

    Il Rapporto Martin aveva descritto come Winchester fosse percepito come un poliziotto corrotto da alcune famiglie di origine calabrese coinvolte nella produzione di droga. Si tratta di famiglie della zona della Riverina Valley, in particolare legate ai clan di Platì stabilitisi a Griffith, nel Nuovo Galles del Sud. Questi clan hanno fatto la storia della mafia italiana in Australia, in quanto coinvolti in altri eventi “misteriosi” della storia australiana, indirettamente o direttamente. Tali clan, disse l’inchiesta, avrebbero ritenuto che Winchester – corrotto – avesse fallito nel proteggerli, come aveva invece promesso di fare – lasciandoli quindi esposti al controllo della polizia. Erano gli anni delle operazioni Bungadore 1 e 2, condotte da Winchester quando era ancora nella polizia a Canberra, prima della promozione a vice-commissario, sulle piantagioni di cannabis nella Riverina Valley, a firma Sergi-Barbaro-Trimboli.

    Ammazzato prima del processo 

    Winchester fu ucciso due settimane prima dall’inizio dei processi per Bungadore, contro alcuni calabresi ‘ndranghetisti. Giuseppe Verduci, che era l’informatore primario di Winchester – colui che forse faceva il doppio gioco tra i clan e la polizia – si rifiutò di testimoniare a processo per paura, e il processo di fatto finì in un nulla di fatto.

    La pista di mafia, però, fu eliminata quasi subito dalla polizia federale che gestiva l’indagine. Un misto tra difficoltà investigative e possibili insabbiamenti. Non tutti all’epoca si trovarono d’accordo con l’abbandono della pista mafiosa. Per esempio, si legge in una dichiarazione dell’Australian Bureau of Criminal Intelligence del dicembre 1990: «L’omicidio del vicecommissario Winchester, avvenuto il 10 gennaio 1989, è stato commesso da, o per conto di, un gruppo organizzato di italiani, residenti a Griffith e Canberra per proteggere i beni e la libertà delle persone coinvolte nella produzione e commercializzazione su larga scala della canapa indiana in Australia».

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    L’omicidio di Winchester raccontato nel giornale australiano “The Canberra Times”

    I soliti sospetti

    Dello stesso avviso si era in Italia, dove l’omicidio viene infatti annoverato tra i reati di ‘ndrangheta. I dati del rapporto Martin sulla pista calabrese citano i soliti sospetti: membri della famiglia Barbaro-Sergi a Griffith e Melbourne; noti esponenti della criminalità organizzata italo-calabrese con cognomi importanti – Pelle, Nirta, Tizzoni – tutti affiliati a clan mafiosi estremamente noti in Calabria nel locale di Platì, tutti intrecciati in reti familiari e d’affari, come rivelato anche in Australia proprio nelle operazioni Bungadore 1 e 2 e da altre indagini, ad esempio, in occasione della scomparsa (e presunto omicidio) dell’attivista e politico Donald MacKay, nel 1977, a Griffith, commissionato – disse una Royal Inquiry del tempo – dai clan Sergi-Barbaro-Trimboli. Anche in quel caso non si arrivò a un processo penale.

    Winchester, ‘ndrangheta nella pista calabrese?

    C’è comunque una pistola abbastanza fumante, quanto meno come pista investigativa, in tutta questa storia. Riguarda un’altra indagine, l’Operazione Seville, un’operazione congiunta dell’AFP di Canberra e della polizia del Nuovo Galles del Sud, all’inizio degli anni ’80 sulla produzione di canapa indiana all’interno della comunità italiana. Nei file di Seville – che ho visionato nel 2017 quando ho espresso un parere da esperta per la difesa di David Eastman nell’ultima parte del processo che poi lo avrebbe assolto – c’è un documento redatto dai Carabinieri, in Calabria, il 25 gennaio 1989, sei mesi prima dell’omicidio Winchester. Due individui, B. Musitano e G. Ielasi, dice il documento, sarebbero partiti dall’Italia, da Platì, per commettere l’omicidio di un poliziotto, dicono le autorità italiane. I Carabinieri avevano inviato queste informazioni all’AFP dicendo che l’atto sarebbe stato compiuto per “riscattare l’onore della famiglia”.

    I carabinieri avevano inviato un documento alle autorità australiane

    Le autorità italiane avevano avvertito

    Le autorità italiane avevano dunque avvertito che «B. Musitano è noto per le sue associazioni di ‘ndranghita [sic]» ed era considerato una «persona pericolosa a causa del suo background familiare». Inoltre, era un abile maneggiatore di armi. Il 12 giugno 1989, un mese prima dell’omicidio, le autorità italiane inviarono ulteriori informazioni, informando che Musitano era stato mandato in Australia per uccidere il vicecommissario Winchester e che erano stati presi accordi per farlo rimanere in Australia e sposare una residente australiana. Ulteriori dettagli fanno poi riflettere. I carabinieri dicono che Musitano fosse già stato in Australia in passato, nel 1985, per pagare quel «capo della polizia» (che sarebbe Winchester) corrotto, e per garantire, grazie a lui, il passaggio della droga. Musitano dovette poi tornare in Italia ma, quando Winchester apparentemente non accettò la tangente, Musitano tornò per ucciderlo.

    Tutto ciò fu incluso nell’Operazione Peat del 1989 che era sottotitolata “Sospetti di coinvolgimento della criminalità organizzata calabrese nell’omicidio del vicecommissario Colin Stanley Winchester”. Sembra ovvio chiedersi, come è possibile che queste informazioni non abbiano ribaltato all’epoca l’intero caso, se non altro per introdurre un ragionevole dubbio nel processo contro Eastman?

    winchester-ndrangheta-piste-poco-battute-cold-case
    Domenic Perre (foto Adelaidenow.com.au), condannato 28 anni dopo l’Nca bombing

    Musitano e Ielasi

    Operazione Peat si concluse e all’epoca l’AFP dichiarò di non aver trovato «alcuna prova concreta a sostegno delle informazioni ricevute» anche se «le informazioni di Musitano/Ielasi sono state l’indicazione più promettente fino ad oggi che l’omicidio sia stato organizzato ed eseguito da elementi della criminalità organizzata calabrese». Qualche riscontro emerse però in seguito: Musitano aveva parenti a Melbourne – nella famiglia Barbaro – e ad Adelaide – nella famiglia Perre; fu arrestato nel 1993 per produzione di stupefacenti nell’HIdden Valley, in un’organizzazione criminale di matrice ‘ndranghetista guidata da Domenic Perre (e la storia di Perre e un’altra delle storie significative australiane). Ielasi, l’altro uomo citato dalle autorità italiane, rimase invece a Melbourne.

    Troppi ragionevoli dubbi

    Ad oggi i dubbi sono tanti. Ci sono dubbi sul fatto che Winchester fosse o meno corrotto; ci sono dubbi che Verduci, il suo informatore, fosse effettivamente affidabile per Winchester; ci sono i processi falliti di Bungadore 1 e 2; ci sono i documenti dalla Calabria; e c’è, infine, oggi, ma non c’era forse ieri, la consapevolezza che in quegli anni quei clan e in quella zona dell’Australia erano effettivamente all’apice del proprio potere, criminale, sociale, economico ma anche e soprattutto politico.

    Al netto dei dubbi c’è forse una certezza: dopo 34 anni, l’omicidio di uno dei poliziotti più titolati e più senior d’Australia al suo tempo, vicecommissario della polizia federale, non dovrebbe poter rimanere insoluto, che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta o meno.

  • MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    MAFIOSFERA | Coca, stragi e prestigio: gli “arcani” dei Piromalli

    I Piromalli, il narcotraffico e non solo. È il 2 novembre 2020: 800 panetti di cocaina, per un peso totale di circa 932 kg vengono sequestrati e recuperati sul container reefer MSCU7430870, proveniente da Coronel (Cile) e diretto a Napoli, con scalo intermedio a Rodman (Panama).
    Due settimane dopo, il 17 novembre 2020, un altro sequestro recupera 38 imballi per un peso totale di circa 720 kg di cocaina sul container siglato MSDU9014828. La merce, stavolta, proviene da Guayaquil (Ecuador). Siamo a Gioia Tauro e questi sequestri di quasi due tonnellate di cocaina fanno male ai clan.

    Un sequestro in Brasile

    Il 26 novembre del 2020 le autorità sequestrano 298 kg in 270 panetti di cocaina al porto di Santos, in Brasile.
    La spedizione sarebbe passata da Gioia Tauro, e poi sarebbe finita in Israele. Lo stupefacente era nel mezzo di un carico di carta.
    Tuttavia, grazie a un’analisi basata su criteri oggettivi di rischio, il contenitore in cui era nascosta la cocaina è finito nei controlli. E questo a dispetto dei risultati del Rapporto globale sulla cocaina di metà marzo 2023 dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime), per cui le confische di cocaina nel 2020 in Brasile erano in calo.
    Anche questo sequestro fa male ai clan. Specie a Gioia Tauro.

    Finanzieri in azione a Gioia Tauro

    Chiacchiere tra trafficanti dei Piromalli

    Lo sanno bene i fratelli Domenico e Cosimo R., che aspettavano quei panetti di coca al porto della Piana, tra l’altro in periodi di restrizioni dovute al Covid. «Ieri sera ci è caduto il lavoro dei trecento», ha detto uno di loro all’indomani del sequestro a Santos.
    «L’hanno trovata di sotto», dice uno. «L’hanno trovata?», incalza l’altro. «Mhm …in Brasile», conferma. «Non mi fare … (imprecazione)… mille e trecento, io me n’ero dimenticato, e tu ora me li hai messi di nuovo in testa …», conclude l’interlocutore. Parlano di quei chili di droga già sequestrati nello stesso mese.

    Altro sequestro dal Brasile

    I due fratelli non si danno per vinti. Già qualche giorno dopo parlano di un nuovo carico, partito il 29 novembre con la MSC Adelaide dal Brasile. Aspettano 216 kg di cocaina («Ieri sera sono partiti altri duecento»).
    Ma anche stavolta, il 18 dicembre successivo, lo stupefacente finisce sotto sequestro a Gioia Tauro.
    Il 17 dicembre, Domenico e Cosimo R. ricevono una visita da San Luca e insieme commentano l’arrivo, proprio in quelle ore, della MSC Adelaide al porto, controllabile da Marine Traffic, un sito semi-aperto dove è possibile seguire le navi e gli scali portuali di tutto il mondo. Hanno paura che anche questo carico venga sequestrato e che, ovviamente, questo provochi dei problemi con altri compratori, che crederanno al sequestro «solo quando esce sui giornali».

    piromalli-tutti-segreti-potere-dinastia-ndrangheta
    Un indagato in manette durante l’operazione Hybris

    Hybris racconta i Piromalli

    Queste tonnellate di cocaina non arrivano a Gioia Tauro grazie a un’efficace serie di interventi delle forze dell’ordine.
    I dettagli dei fallimenti di Domenico e Cosimo R. sono immortalati nell’operazione Hybris. Quest’operazione ha fatto scattare le manette a metà marzo 2023 a vari soggetti gravitanti attorno ai clan di Gioia Tauro. In particolare, Piromalli e Molé (Domenico e Cosimo, infatti, sono considerati parte del clan Piromalli). Oltre che dell’importazione di cocaina, i due fratelli dovranno rispondere di vendita di vari chili di cannabis, detenzione di armi, estorsioni, danneggiamenti e intimidazioni.

    Non solo coca: anche l’erba conta

    I problemi con la cocaina, tra l’altro, non bastano: si mescolano a quelli legati allo smercio di cannabis;
    Domenico B., che fa affari con i due fratelli per la cannabis, si lamenta infatti della scarsa qualità dell’erba e dello scarso profitto tra ottobre e novembre dovuto a «brutte figure» con chi di cannabis invece se ne intende.
    Ci sono problemi di capitali investiti e non recuperabili. Tuttavia i costi della cannabis – si ragiona su 1.300 euro per kilo, a seconda della qualità del prodotto – non sono quelli della cocaina, che invece va a 35-37 mila euro al kilo.

    Coca e cannabis: l’oro vegetale dei clan

    La leadership dei Piromalli

    Gioia Tauro è un centro nevralgico del crimine organizzato, mafioso e non, grazie all’esistenza e operosità del porto e alla versatilità del clan Piromalli, il gruppo più forte, alleato con i Molé in diversi momenti storici e per varie attività. L’insuccesso e la difficoltà sono la normalità del crimine.
    Invece, la capacità di risolvere i problemi e mantenere la reputazione è una specialità dei Piromalli. Non a caso nell’operazione Hybris vi sono affiliati e simpatizzanti dei Piromalli e Molé imputati di una serie di condotte illecite che restituiscono la fotografia di una realtà mafiosa poliedrica e stratificata, nonostante i problemi.

    Una criminalità piena di “hybris”

    Si legge infatti nell’ordinanza di Hybris:
    «Ciò che si ricava è l’immagine di un aggregato criminale che, seppur provato dalle vicende interne legate alla mancanza di un capo carismatico accettato da tutti i propri componenti, mantiene intatta la propria “hybris”, ovvero la propria tracotanza criminale e, in un periodo di depressione economica e sociale, determinato dalla restrizione connesse all’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia da covid-19 che caratterizzano l’interno arco temporale investigato, trova nuovo linfa ripiegandosi in attività delinquenziali “classiche”, quali le estorsioni ai commercianti e ai piccoli imprenditori agricoli della zona di stretta competenza territoriale (coincidente con il territorio del Comune di Gioia Tauro), il traffico di armi e di stupefacenti».

    piromalli-tutti-segreti-potere-dinastia-ndrangheta
    Pino Piromalli, alias “Facciazza” tra i carabinieri

    Il ritorno di Pino “Facciazza” Piromalli

    Dall’operazione Hybris arriva un’intercettazione bomba ammessa al processo ’ndrangheta stragista, che conferma il ruolo che i Piromalli avrebbero avuto nella strategia stragista di Cosa Nostra negli anni 90.
    Pino Piromalli (Facciazza) scarcerato nel maggio 2021, quindi nel pieno degli eventi descritti in questa indagine, sarebbe stato l’artefice dell’accordo con i siciliani, avallando le stragi di stato.
    Il suo rientro a Gioia Tauro dopo anni di detenzione è il perno di tutto ciò che accade in questi anni nel sottobosco mafioso della città della Piana. Senza il capo meccanico, come lo definirà uno dei reggenti del clan, Girolamo Piromalli, alias Mommino, c’è anarchia, c’è confusione, e si rischia che la gente non sappia stare al suo posto. Senza il capo legittimo, riconosciuto da tutti, il caos degli insuccessi è più difficile da superare.

    Un’immagine simbolo della strage di Capaci

    La ’ndrangheta? Tutta questione di prestigio

    Come si collegano dunque le attività delinquenziali classiche – l’estorsione, il traffico d’armi e di stupefacenti – con il ruolo storico della dinastia mafiosa gioitana per eccellenza?
    È tutta una questione di riconoscimento sociale e di reputazione, nonché di amplificazione del potere mafioso-criminale.
    La scarcerazione di colui che per successione dinastica guida il clan è questione di reputazione. Il clan deve avere un suo capo “storico”, dal cognome e dalla storia pesante, anche se questo capo non dovesse decidere di tutte le attività criminali dei vari segmenti della ’ndrina e della “locale”.
    Ma c’è di più: la perdita dei carichi di stupefacente non è solo un fatto negativo: è un vero e proprio smacco per i clan.

    Una macchina economica

    Don-Mommo-Piromalli
    Don Mommo Piromalli, storico leader del clan

    Non riuscire, per ragioni indipendenti dalla propria volontà, a portare a casa tonnellate di cocaina è certamente un danno economico. Ma la capacità di organizzare importazioni ogni due settimane – mettendo quindi in allerta le forze dell’ordine e il porto- aiuta il riconoscimento sociale del gruppo che cura l’importazione.
    Si sa che sono loro a importare: lo sanno gli altri clan, lo sanno i “capi”. I soldi del traffico di cocaina – tanti – girano e le perdite si ammortizzano grazie anche ad altre attività criminali che confluiscono nelle “bacinelle”.
    Ciò accade perché i Piromalli non sono un clan come gli altri. Sono una dinastia mafiosa della prima ora, che ha partecipato alla formazione della ’ndrangheta contemporanea, come nessun’altra famiglia.

    Contro i Piromalli la repressione non basta

    Appurato che il capo legittimo è fuori, che l’ordine si può ristabilire e che le alleanze sono sotto controllo, perdere denaro in fondo non è un problema. Beninteso: fintanto che reputazione e riconoscimento sociale restano.
    Pertanto, continuino pure le forze dell’ordine a fare un eccellente lavoro di interruzione delle attività criminali a Gioia Tauro.
    Ma non ci si scordi neppure un momento che il potere di questo casato sta nella caratura criminale dei capi storici. E che essa amplifica ogni attività degli affiliati. Interrompere questo circolo vizioso richiede molto di più che semplici repressioni.

  • RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    RITRATTI DI SANGUE | Nino Imerti, il “nano feroce” da 30 anni in silenzio

    Lo chiamano “Nano feroce”. Sicuramente non in sua presenza. Antonino Imerti è uno dei boss storici della ‘ndrangheta del Reggino. C’è il suo nome sull’evento che, nell’ottobre del 1985 cambia la storia della provincia di Reggio Calabria e, forse, anche dell’intera Calabria. La sua, come tante di quelle dei boss della ‘ndrangheta, è una vita da romanzo noir.

    1985: si parla già del ponte sullo Stretto

    Nino Imerti è originario di Fiumara di Muro ma, ormai da tempo, ha spostato il centro degli affari a Villa San Giovanni: un luogo più redditizio. Villa San Giovanni è un paese in crescita, un centro che ben presto potrebbe diventare una gallina dalle uova d’oro. Questo le cosche reggine lo hanno capito. Lo hanno capito gli Imerti, che tengono parecchio alla leadership nel Villese. E lo hanno capito i De Stefano, di cui Imerti è stato, per tanto tempo, fedele alleato.

    Le cose però, negli ultimi mesi del 1985, sono cambiate: i rapporti tra le famiglie De Stefano e Imerti non sono più cordiali come lo erano in passato. Da un po’ di tempo, inoltre, si parla con insistenza della possibilità di costruire un ponte sullo Stretto di Messina, che congiunga Calabria e Sicilia: con i soldi a nessuno piace scherzare e gli appalti del ponte mettono sul piatto decine di miliardi. È un’occasione che le cosche non vogliono assolutamente lasciarsi scappare.
    Siamo nel 1985 e oggi, a distanza di oltre trentacinque anni, del famigerato ponte non esiste nemmeno un pilastro. Ma questa è un’altra storia.

    Nino Imerti, “Nano feroce”

    Nino Imerti è un uomo giovane, non ha nemmeno quarant’anni, di corporatura minuta: per questo lo chiamano “Nano Feroce”.  Un soprannome che Imerti non gradisce affatto. E non perché non si riconosca nell’aggettivo “feroce”.
    Nino Imerti è, fin dagli anni ’70, un boss di tutto rispetto: nel 1975 evade dal carcere di Augusta, all’interno del quale è detenuto, e vive da latitante per cinque anni. Poi, viene arrestato. Adesso, nell’autunno del 1985, è libero da un anno e mezzo. Imerti è in libertà vigilata, è un sorvegliato speciale. Non solo da parte delle forze dell’ordine, a quanto pare.

    domenico-condello
    Domenico “Micu ‘u pacciu” Condello

    Dichiara il collaboratore di giustizia Giuseppe Scopelliti: «Nel corso della guerra di mafia che ha visto tutte le famiglie di Reggio Calabria schierate su due fazioni contrapposte, posso riferire che per quanto riguarda il nostro gruppo si sono succedute due fasi: la prima concerne il periodo in cui era detenuto Pasquale Condello. In tale fase la direzione delle operazioni militari era stata assunta da Nino Imerti, che si avvaleva della consulenza di Mimmo Condello […] Nel momento in cui uscì dal carcere Pasquale Condello, egli assunse la direzione di tutte le azioni belliche sul territorio del capoluogo, lasciando a Nino Imerti le decisioni sulla zona di Villa San Giovanni e comuni limitrofi. Si costituì una direzione strategica delle operazioni tra Pasquale Condello, Paolo Serraino e Diego Rosmini (senior), lasciando sempre a Nino Imerti la zona di Villa San Giovanni…”.

    I matrimoni prima della guerra

    giacomo-lauro-pasquale-condello-supremo
    Giacomo Lauro

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, da quel 16 giugno 1985, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile.  Il collaboratore di giustizia, Giacomo Lauro, racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel 16 giugno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

    La famiglia De Stefano “risponde”, nello stesso anno, con un altro matrimonio di prestigio: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

    L’autobomba di Villa San Giovanni

    Nino Imerti non è né stupido, né, tantomeno, sprovveduto. Per questo si muove a bordo di un’auto blindata, nel caso in cui a qualcuno venisse qualche strana idea. L’11 ottobre del 1985 è un venerdì, sono le 19.10. Nella centrale via Riviera di Villa San Giovanni, a pochi metri dalla caserma della Guardia di Finanza, parcheggiata accanto all’auto blindata di Nino Imerti, c’è una Fiat 500.

    Nessuno, probabilmente, nota quella Fiat 500, un’automobile come tante altre, in sosta in una delle zone più frequentate di Villa San Giovanni. Quell’auto, però, non è un’auto come le altre. Nino Imerti e i suoi uomini di scorta non lo sanno, ma quella Fiat 500 è imbottita di esplosivo.  Imerti e i suoi quattro guardaspalle sono appena usciti dalla sede dell’Italia Assicurazioni, che è gestita proprio dal “Nano Feroce”.

    autobomba-nino-imerti
    La scena dell’attentato a Nino Imerti

    È un attimo. Un boato assordante che riecheggia anche a diversi chilometri di distanza: sul selciato restano in tre e la notizia si diffonde a macchia d’olio, nel giro di pochi minuti. Nino Imerti sarebbe morto sul colpo, insieme con altri due uomini. Altri due individui rimangono feriti. Via Riviera viene isolata, recintata da Polizia e Carabinieri. I rilievi proseguono fino a notte fonda: il commissario Blasco, il tenente colonnello Palazzo, nuovo comandante del Gruppo carabinieri di Reggio Calabria, e il capitano Pagliari si danno da fare per raccogliere possibili prove, elementi anche apparentemente insignificanti.

    Nino Imerti è morto?

    Per tutta la notte il nome di Antonino Imerti è inserito nella lista dei morti. Gli avversari festeggiano, hanno fatto bingo: avendo mandato all’altro mondo un leader così potente e carismatico, potranno adesso gestire a proprio piacimento gli affari di Villa San Giovanni e, soprattutto, gli appalti miliardari del ponte sullo Stretto di Messina.

    La “festa”, però, dura solo poche ore perché, alle prime luci dell’alba, arriva il colpo di scena, la rettifica. Nino Imerti è vivo. È lui, insieme con Natale Buda, uno dei due feriti. Morti, ed irriconoscibili per l’effetto della dinamite, Umberto Spinella e i fratelli Vincenzo e Angelo Palermo, guardie del corpo di Imerti: il “Nano Feroce” usa lo sportello dell’auto, che è blindata, come scudo e rimane illeso.

    Antonino_Imerti-nano-feroce-731x1024
    Nino Imerti

    Così Pantaleone Sergi su La Repubblica racconta quel giorno: «Per gli inquirenti è un boss di spicco, di quelli che contano, con legami saldi ed importanti in Calabria e fuori: al suo matrimonio con una maestrina elementare, nella scorsa primavera, sarebbero stati visti gli “ambasciatori” di cosche palermitane, catanesi, della camorra campana. Ora è in stato di arresto. Si rifiuta di collaborare con la giustizia e per gli inquirenti proteggerebbe così i propri mancati killer».

    È forse questo il punto cruciale della scalata criminale di Antonino Imerti, fino ad allora esecutore integerrimo degli ordini impartiti dal di lui cugino Pasquale Condello, e ora oggetto dell’attenzione del contrapposto schieramento destefaniano, che riesce a capire l’effettiva caratura del personaggio.

    La “tragedia”

    L’autobomba da cui si salva miracolosamente Nino Imerti è l’inizio della fine. L’inizio di circa sei anni di guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria e nella sua provincia. Sei anni cui si conteranno sul selciato circa 700 morti ammazzati.
    L’inizio delle ostilità viene ricordato anche dal collaboratore di giustizia Cesare Pollifroni nel verbale del 14 aprile del 1994 davanti al pm Enzo Macrì: «Tutto ebbe inizio con una “tragedia” organizzata da Paolo De Stefano in danno di Imerti Antonino. Avvenne, infatti, che di un carico di droga o armi, organizzato insieme ai palermitani, non venne dato conto ai palermitani di Cosa Nostra che vi avevano interesse. Richiesto dai siciliani, Paolo De Stefano addossò tutta la colpa su Nino Imerti, contrariamente al vero, aggiungendo che lui non poteva intervenire contro Imerti, in quanto suo alleato, ma che avrebbe appoggiato le decisioni prese da Cosa Nostra. Fu così che venne organizzato l’attentato con autobomba ai danni di Imerti, al quale prese parte qualche uomo di Cosa Nostra. Imerti, però, scampò all’attentato e capì il gioco. In seguito egli riuscì a chiarire con i palermitani la sua estraneità alla vicenda e a diventarne alleato».

    paolo-de-stefano-il-boss-che-cambio-la-ndrangheta
    Paolo De Stefano

    La vendetta di Nino Imerti e l’inizio della guerra

    Nino Imerti è vivo, dunque. È stato fortunato, molto fortunato. E, conoscendolo, vorrà sfruttare tale fortuna per vendicarsi di chi lo voleva morto.  Ci sono equilibri da rimettere in discussione, conti da far quadrare e affronti da punire.
    Paolo De Stefano conosce bene Nino Imerti, sa quanto possa essere “feroce”. Non sembra preoccupato, però. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò.

    La vendetta scatta due giorni dopo, con la morte di Paolo De Stefano. Il 13 ottobre, nel rione Archi di Reggio Calabria e cioè nel cuore del suo regno incontrastato, viene ucciso il boss Paolo De Stefano insieme al quale cade il suo fido picciotto Antonino Pellicanò. I due (entrambi latitanti: Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiavano a bordo di una moto Honda Cross, intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio De Stefano (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.

    corrado-carnevale-nino-imerti
    Corrado Carnevale

    Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello, per quel duplice omicidio. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna, in Corte di Cassazione.

    Gli ultimi 30 anni di Nino Imerti

    Nino Imerti ha oggi 76 anni. In varie tranche, ne ha trascorsi più della metà in carcere. L’autobomba di via Riviera, peraltro, non è l’unico attentato cui sfugge il “Nano feroce”. Meno di un anno dopo rispetto all’inizio della guerra, Imerti scampa a un altro tentativo di ucciderlo. È il 7 luglio del 1986. Da quel momento si dà alla latitanza.

    Viene arrestato diversi anni dopo, circa trent’anni fa esatti: il 23 marzo 1993, insieme a Pasquale Condello, il “Supremo”. Negli anni, sul suo conto arriveranno diverse condanne: all’ergastolo per omicidio e quindici anni di reclusione per associazione mafiosa.

    nino-imerti-oggi
    Nino Imerti dopo l’uscita dal carcere

    Poco meno di trent’anni in carcere, di cui quasi dieci in regime di carcere duro, disposto dal Ministero della Giustizia, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il 27 marzo 2012. Ma non ha mai scelto la via della collaborazione con la giustizia. Il 28 luglio 2021 è stato scarcerato dopo 28 anni dietro le sbarre e sottoposto al regime di libertà vigilata.

  • STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

    Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
    La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
    Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

    Un maniscalco illustre di Amendolara

    C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
    E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

    amendolara-formule-magiche-allevatori-cavalli
    Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

    Il trattato di Patarino

    Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
    Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
    Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

    Veterinaria e magia ad Amendolara

    Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
    La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
    Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

    L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

    Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
    «Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
    Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
    Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

    amendolara-formule-magiche-allevatori-cavalli
    Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

    Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

    • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
    • «Incanto da verme de Cavallo
      Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
    • Incanto de nervo attinto
      Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Ante parte + parte ante
      + Gion Grison + Tigris Eufrates».
    La botttega di un maniscalco

    Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

    Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
    Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

    Ci si mettono anche i preti

    Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
    «Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
    (Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

    amendolara-formule-magiche-allevatori-cavalli
    “Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

    Una scuola di equitazione

    Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
    Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

    I cavalli secondo il ministero

    Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

    Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

    Il ricordo di Vincenzo Padula

    Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
    Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
    Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

  • MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    MAFIOSFERA | La Calabria a Palermo: la ‘ndrangheta durante le stragi

    Entrare in aula bunker al carcere dell’Ucciardone a Palermo è un’esperienza che induce alla modestia e alla riflessione. La storia scritta in quest’aula, dagli eroi della prima antimafia giudiziaria in Italia, non è solo storia di Cosa nostra siciliana, o storia della mafia italiana. È storia d’Italia. È solenne, la memoria di quest’aula, le parole dette qui dai pubblici ministeri del pool antimafia siciliano durante il maxiprocesso degli anni Ottanta (e dopo), le parole dette dai mafiosi prima e dopo le condanne da dietro le sbarre delle 30 celle, e infine le ore della corte per leggere i verdetti.

    aula-bunker-palermo
    L’aula bunker dell’Ucciardone (foto Anna Sergi)

    La memoria di quei mesi e quegli anni ha cambiato il paradigma di quello che la mafia siciliana, Cosa nostra, avrebbe rappresentato da quel momento in poi per l’Italia e i metodi dei suoi investigatori e martiri, per il mondo. Ecco perché, entrare in aula bunker è un’esperienza emotivamente carica. L’essere italiani è in parte definito dalla storia di questa aula. Per questo The Global Initiative Against Transnational Organised Crime, GI-TOC, ha voluto organizzare il 9 marzo proprio nell’aula bunker una giornata di riflessione e conferenza insieme al Tribunale di Palermo.

    L’occasione è stata la discussione dei risultati italiani del Global Organized Crime Index, un imponente lavoro di raccolta dati intorno agli attori e alle attività del crimine organizzato che GI-TOC ha effettuato nel 2021 e si appresta ad aggiornare nel 2023, per tutti i paesi del mondo, con un’infografica snella ed efficace che ben si presta ai canoni comunicativi di oggi.

    ‘Ndrangheta e stragi: un pezzo di memoria mancante

    Nel corso di questa giornata si è discusso dell’apparente paradosso italiano: un ‘punteggio’ molto alto assegnato dall’Index per quanto riguarda alcuni attori criminali (la presenza di gruppi mafiosi), alcune attività criminali (principalmente, il mercato della cocaina e la tratta di esseri umani) assieme a un punteggio molto alto assegnato per la ‘resilienza’ italiana a questi fenomeni. Della serie, l’Italia ha sì un problema di criminalità organizzata molto distinto e molto serio, ma ha anche gli strumenti, non solo giuridici ma anche di attivismo sociale, per rispondere a questo problema. La resilienza italiana al crimine organizzato certamente nasce e si consolida in aula bunker, e ‘scoppia’ in seguito al periodo delle stragi.

    stragi-mafia
    La strage di Via D’Amelio

    Il modo in cui il Global Organized Crime Index vede l’Italia ha certamente molto a che fare con la Calabria e sicuramente con la ‘ndrangheta, coi traffici di cocaina legati ai nostri clan, e con la presenza che le ‘ndrine hanno nel resto del paese. Ma c’è un’altra ragione – per ora non accertata in tutte le sue componenti – per cui la Calabria, e la storia della ‘ndrangheta, è importante per l’analisi dell’Index. E questa ragione riguarda proprio la memoria delle stragi e il ruolo della violenza e dell’arroganza mafiosa in Calabria e la reazione ad esse. Perché, lo sappiamo, seppur solenne e colossale, la memoria nata e mantenuta in quest’aula bunker non è ancora completa. E tra i pezzi mancanti del periodo delle stragi c’è sicuramente la memoria calabrese.

    Slitta la sentenza

    Questa memoria – o meglio la sua correzione – è il cuore del processo ‘Ndrangheta Stragista, che tra il 10 e l’11 marzo, attendeva a Reggio Calabria il verdetto del processo d’appello. Conferme o ribaltamenti delle sentenze di condanna del primo grado e la definizione (giuridica oltre che storica) dell’apporto che la ‘ndrangheta apicale avrebbe dato ai vertici di Cosa nostra nel periodo delle stragi arriveranno il 23 marzo. Tale apporto sarebbe dietro al duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994.

    fava-antonino-garofalo-vincenzo
    Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

    Il verdetto d’appello va posticipato perché, nonostante si tratti di fatti ormai datati, di oltre 30 anni fa, arrivano ancora novità che integrano la mole dei dati a processo. Proprio mentre si attendeva il verdetto, il procuratore generale Giuseppe Lombardo ha infatti chiesto che venissero acquisiti i contenuti di un’intercettazione rivelata all’interno dell’operazione Hybris, di qualche giorno fa, contro il clan Piromalli a Gioia Tauro. Nell’intercettazione, due affiliati, che non sapevano di essere intercettati, discutono del ruolo dei Piromalli nelle stragi e dell’incontro al club Sayonara a Nicotera Marina in cui nei primi anni ‘90 si sarebbe deciso se la ‘ndrangheta si dovesse o meno unire alla strategia siciliana.

    Un posto di serie B

    Ma cosa c’entra tutto ciò con l’Italia, il global index di GI-TOC e l’aula bunker di Palermo? C’entra perché la ‘ndrangheta come la conosciamo oggi – con alcuni clan che si sono resi leader del narcotraffico, altri clan che si sono distinti per le capacità imprenditoriali, in investimenti pubblici e privati e altri ancora che hanno fatto politica cittadina e regionale, non è stata – per la storia – la mafia delle stragi.

    La ‘ndrangheta non è la ragione per cui l’Italia avrebbe sviluppato anticorpi invidiati in tutto il mondo, giuridici e di associazionismo sociale e civile. La ‘ndrangheta violenta delle faide e dei sequestri non ha scritto la storia d’Italia, anzi, è stata relegata dalla storia d’Italia – proprio per la sua violenza primitiva – ad avere un posto di serie B, accanto alla ‘sorella’ siciliana che di quella violenza ne ha fatto politica e strategia di attacco allo stato. Ma, a prescindere dai risultati processuali, e dalle responsabilità personali ivi confermate o meno, sembra accertato che i collegamenti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta ci fossero e ci fossero inter pares – tra persone a pari livello.

    graviano
    Giuseppe e Filippo Graviano

    Ecco perché durante la giornata organizzata in aula bunker a Palermo si è discusso della violenza della ‘ndrangheta e delle scelte durante le stragi: perché che si siano accordati o meno, i Graviano e i Piromalli (tra gli altri), per fare le stragi congiuntamente, alcune tra le dinastie storiche della ‘ndrangheta in quegli anni avevano comunque la facoltà di scegliere se farlo o meno, perché gli era riconosciuto e detenevano il potere per farlo. E questo nella storia ufficiale dell’antimafia ancora non c’è.

    Paese che vai, violenza che eserciti

    La scelta di essere stragisti – andata o meno a ‘buon fine’ – ci porta ad affermare che, non per la prima volta, i clan di ‘ndrangheta più stagionati e più importanti usano la violenza strategicamente. E lo fanno perché nonostante l’organizzazione frammentata dei clan del territorio – autonomi per signoria territoriale e attività criminale – i boss dei clan apicali sanno che i contraccolpi dallo Stato e dalla società civile coinvolgono tutti, quando c’è violenza manifesta ed ‘esterna’ all’organizzazione.

    La violenza, per la ‘ndrangheta, si espone in prima linea spesso solo localmente, dove lascia un’eco per anni ma dove storicamente non ha spesso ispirato atti di denuncia durativi da parte della popolazione. Ma quando la violenza di ‘ndrangheta si è fatta più visibile oltre il locale e l’interno – pensiamo alla strage di Duisburg in Germania o all’omicidio Fortugno – le conseguenze sono state pesanti per l’organizzazione tutta, anche se si trattava di una faida tra due gruppi soltanto.

    'ndrangheta-al-nord-i-calabresi
    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Inoltre, ricordiamo che la spinta stragista della ‘ndrangheta, diversamente da Cosa nostra, non poteva essere comunque una decisione di ‘tutta’ l’organizzazione, quanto solo di alcuni capi, proprio per la diversa organizzazione delle due mafie. Questo ci conferma che allora come oggi la ‘ndrangheta funziona a compartimenti stagni, dove solo chi deve sapere sa e dove si fanno alleanze strategiche a stretto raggio, con chi serve e con chi è utile senza ‘sprecare’ connessioni. Questo è il modus operandi che si vede nei mercati illeciti, dove la ‘ndrangheta entra ‘piano’ e con alleati misti, dalla cocaina agli appalti, oggi senza il rumore della violenza.

    La storia d’Italia e le scelte della ‘ndrangheta

    Le scelte – o non scelte – di allora ci hanno consegnato la ‘ndrangheta contemporanea. ll Global Index vede l’Italia come estremamente influenzata da gruppi criminali mafiosi – forti in quanto capaci di entrare in vari mercati legali e illegali – ma allo stesso tempo, resiliente perché le stragi (e non solo) hanno reso il paese consapevole del proprio problema mafioso. Questa fotografia del paese è anche, a sorpresa, il risultato della storia della ‘ndrangheta, oltre che quella di Cosa nostra. Quello che i capi della ‘ndrangheta hanno fatto all’epoca delle stragi, o quello che non hanno fatto ma avrebbero potuto fare, la violenza manifesta e quella ‘trattenuta’, hanno definito la storia d’Italia anche senza far parte della ‘narrativa’ principale della nascita dell’antimafia. Proprio come si confà alla ‘ndrangheta nella sua caratteristica più primitiva, l’essere riservata e ‘dimessa’ come l’altro lato della luna.

  • MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    MAFIOSFERA| Nirta Dinasty: tanta “rrobba” di famiglia

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Nessuno, nemmeno i capibastone della ’ndrangheta come Giuseppe Nirta o Pasquale Condello o Paolo De Stefano, è solo un “cattivo”.
    Certo, sono tante le storie di ferocia nella mafia calabrese che toccano i lati disumani di certi soggetti, soprattutto uomini legati una certa generazione di ‘ndrangheta.
    Ma guardare solo alla loro malvagità, e alla loro disumanità non racconta tutta la loro storia. Perché la loro è anche una storia di famiglia.

    pasquale-condello-il-supremo-della-ndrangheta-ritratto-del-boss
    Latitanza finita per “il Supremo”: l’arresto di Pasquale Condello

    La parabola di un boss

    Giuseppe Nirta è morto il 23 febbraio 2023 in carcere a Parma, dove si trovava dal 2016.
    La cronaca racconta che Nirta si sia complimentato con le forze dell’ordine al momento del suo arresto, avvenuto nel 2008 nel suo bunker a San Luca.
    Il boss doveva rispondere della strage di Duisburg, in cui morirono sei appartenenti alla cosca Pelle-Vottari, con cui i Nirta-Strangio erano in faida.
    Inoltre, su Giuseppe Nirta pesava anche l’omicidio di Bruno Pizzata, sempre dovuto alla stessa faida.

    Matrimoni e sangue di ‘ndrangheta

    La faida in questione, si ricorderà, era vecchia di decenni, ma era ripresa in seguito a due omicidi. Quello di Antonio Giorgi ammazzato nel 2005 e quello di Maria Strangio – nuora di Giuseppe Nirta perché moglie di suo figlio Giovanni Luca (il vero obiettivo dell’attacco) – uccisa il giorno di Natale del 2006 in un agguato proprio davanti casa del boss Giuseppe. Giuseppe Nirta era un vecchio capobastone della ‘ndrangheta, un mammasantissima, a cui è legata più di una pagina nera della cronaca calabrese, dai sequestri di persona, alla faida.

    La parola ai Nirta

    Ma nessuno, nemmeno Giuseppe Nirta, ripetiamo, è solo malvagio. Al contrario, una certa complessità accomuna il boss a tutti gli altri uomini della sua famiglia, e di altre famiglie del territorio, con passato e presente di ‘ndrangheta.
    Suo figlio Giovanni Luca, parlando a Fabrizio Caccia sul Corriere della Sera all’indomani della strage di Duisburg dirà:
    «Io sarei ’u boss? La mia casa è blindata? Lo vedete voi, sono qui, niente reti, niente cancelli, io sono solo un bracciante agricolo, coltivo l’orto e sto coi bambini. Da gennaio non esco più di casa perché sono in lutto. (…) A San Luca c’è la faida? Non lo so, mettete un punto interrogativo alla risposta. La faida c’è in tutti i paesi. (…) Ora si dice che la prossima data a rischio qui a San Luca sia il 2 settembre, la festa della Madonna di Polsi. Io ho paura di morire, certo, però mi auguro che non succeda più niente».

    Cesare Casella

    A proposito del sequestro Casella

    I bambini, il lutto, la festa della Madonna della Montagna, a Polsi.
    Riecheggiano in queste frasi le parole di un altro uomo della ‘ndrina Nirta, Antonio, alias ’Ntoni, sorpreso al summit di Montalto del 1969 e all’epoca ritenuto capo-crimine a San Luca (morirà nel 2015, a 96 anni).
    «Ma quale padrino e quale mafioso, io ero e resto un uomo che ha il senso dell’onore, un uomo che ha sempre lavorato per la propria famiglia», dirà a Pantaleone Sergi, come si legge ne La Santa ‘Ndrangheta.
    Erano i mesi del sequestro di Cesare Casella, e della battaglia di sua madre Angela scesa in Aspromonte per smuovere le coscienze e accelerare la liberazione del figlio e che per farlo, menziona proprio i Nirta, che si dice a San Luca, possano tutto.

    La testimonianza di ’Ntoni

    matrimoni-ndrangheta-segreti-potere-giuseppe-nirta
    Le alleanze e le parentele della ‘ndrangheta che conta [da Catino, M., Rocchi, S., & Marzetti, G. V. (2022)]
    Dice ancora ’Ntoni Nirta a Sergi:
    «Mi dispiace, mi creda, per quel ragazzo e per i suoi genitori, mi dispiace pure per la gente di San Luca che viene ingiustamente criminalizzata. Se potessi far qualcosa, come cittadino e come padre, glielo ripeto, lo farei subito. Ma cosa posso fare? Non faccio parte di un mondo “extra”, non sono in grado di intervenire. Come genitore dico: liberatelo, restituitelo alla famiglia. Solo un genitore snaturato agirebbe diversamente. lo sono contrario ai sequestri, alla droga, alla violenza».

    Legami d’acciaio coi matrimoni di ‘ndrangheta

    La famiglia, la paternità, la genitorialità, la gente di San Luca, la Montagna.
    Non è un mistero per nessuno, ormai, il ruolo della famiglia Nirta (e della loro alleanza con gli Strangio) nella ’ndrangheta aspromontana.
    Sono più che noti i vari rami della famiglia (la ’ndrina Maggiore e quella Minore). I suoi uomini si sono distinti per il coinvolgimento ripetuto in una serie di reati: dalla cocaina all’estorsione, dall’associazione mafiosa all’omicidio.
    Ma quello che si tende a dimenticare, non solo in questa storica ’ndrina di San Luca, ma un po’ in tutta la ‘ndrangheta, è proprio la famiglia, l’aspetto famigliare.

    strangio-giovanni
    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Rrobba di famiglia

    La paternità, la maternità, i figli, il quotidiano, il lutto, i compleanni, i matrimoni, le feste del paese. Nemmeno Giuseppe o ‘Ntoni Nirta sono sempre e solo malvagi o sempre e solo ’ndranghetisti; sono anche padri, nonni, zii. Coesistono, in queste persone, molti aspetti, negativi e “normali”.
    Non è una provocazione, tanto meno una giustificazione tipica di quelle tecniche di neutralizzazione di cui molti mafiosi si sono serviti negli anni: ricordare che dietro alla ’ndrangheta ci sono le dinamiche familiari è non solo una necessità storica-sociologica, ma anche giudiziaria.

    Il familismo dei capibastone

    Infatti, non è banale ricordare che dietro alla ‘ndrangheta, in particolare quella reggina e aspromontana, ci sono i legami di sangue. Al contrario, questi legami hanno implicazioni molto concrete.
    La “familiness”, l’aspetto familiare che entra negli affari di famiglia, è assolutamente centrale nella ’ndrangheta: chi si sposa, chi ama, chi non ama, chi è gay e non lo dice, chi vorrebbe studiare e non può, chi deve seguire le orme del padre, chi vuole proteggere la madre, chi vuole proteggere i figli, chi muore prima del tempo, e via discorrendo.

    Parenti e affari

    Gli aspetti familiari sono anche business: i valori della famiglia si confondono o influenzano gli affari di famiglia e gli eventi della famiglia, le caratteristiche delle relazioni familiari, assumono diverse forme che diventeranno eventualmente forme di ’ndrangheta.
    Non ci sono famiglie uguali, nemmeno nella l’ndrangheta. Ogni famiglia ha una sua propria “cultura” , che si riflette nell’attività ’ndranghetistica.
    Ciascuna famiglia ha dei meccanismi propri per gestire gli incidenti di percorso. Ha membri che sono più portati al comando in momenti di crisi, o sono più fragili nelle difficoltà.
    Ogni famiglia, anche quella di ‘ndrangheta, dovrà gestire la successione. E non c’è determinismo, soltanto fattori socio-economico-culturali che in Calabria come in Piemonte o in Canada creano mix diversi da individui diversi, nonostante regole comuni e piani di collaborazione criminale.

    'ndrangheta-al-nord-i-calabresi
    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    Matrimoni strategici

    Una dimostrazione di questa “sinergia” tra aspetti organizzativi e aspetti prettamente familistici sono ad esempio i matrimoni strategici, che storicamente e soprattutto in Aspromonte hanno costituito una delle caratteristiche più conosciute della ’ndrangheta.
    Ma i matrimoni “strategici” non sono un’esclusiva della mafia ma sono tipici di alcune élite (ricordiamo che esistono matrimoni strategici in tutte le famiglie reali e nobili, nonché in dinastie imprenditrici).
    Ricorrere alle alleanze matrimoniali avrebbe avuto, secondo la ricerca, una funzione di amplificazione e di protezione sia degli affari sia della coesione interna del gruppo ’ndranghetista, in alcuni posti più che altri.

    A giuste nozze…

    È famoso, per esempio, il matrimonio del “giorno 19” – tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe Pelle detto Gambazza, e Giuseppe Barbaro, figlio di Pasquale Barbaro ’u Castanu, avvenuto il 19 agosto del 2009 – fondamentale per le indagini durante l’operazione Crimine degli stessi anni. I matrimoni sono una costante nelle stesse dinastie, in Calabria come altrove.
    I Sergi e i Barbaro ad esempio, mantengono storicamente una stretta parentela con altre famiglie aspromontane – come i Romeo e i Perre – anche in Australia.

    matrimoni-ndrangheta-segreti-potere-giuseppe-nirta
    Lo schema di potere dei Barbaro (a cura di Anna Sergi)

    Strumenti di potere

    I legami familiari, i cognomi, sono spesso legami ascrittivi, cioè oggettivi: i parenti non si scelgono, in altre parole.
    Ma questi legami familiari possono essere manipolati e alcune dinastie di ’ndrangheta storiche e tradizionali ne fanno strumento di potere. Nessuno è sempre e solo malvagio, nemmeno un mammasantissima. Anche gli ’ndranghetisti hanno molte facce che coesistono. Quella familiare, in cui si manifestano il carattere personale e i valori (reali o meno che siano) del casato, rivela scelte più ampie e capacità di business.

  • RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Una volta, in aula, in un procedimento pubblico, un collaboratore di giustizia ammonì il pubblico ministero che lo interrogava: «Dottore, Pasquale Condello non è chiamato “Il Supremo” a caso» disse, in maniera più o meno letterale. No, nella ‘ndrangheta i soprannomi non sono mai casuali. Ed è la storia criminale a parlare per Condello, uno dei capi più carismatici che la ‘ndrangheta abbia mai avuto.

    Pasquale Condello e l’omicidio di don ‘Ntoni Macrì

    giacomo-lauro-pasquale-condello-supremo
    Giacomo Lauro

    C’era anche lui nel gennaio del 1975, quando finisce la vita terrena e il comando mafioso del boss sidernese, don ‘Ntoni Macrì, esponente della vecchia ‘ndrangheta, che sarà spazzata via, nel corso della prima guerra tra cosche degli anni ’70. È il pentito Giacomo Lauro, nel proprio memoriale a ricostruire gli eventi di quel 20 gennaio 1975: «Macrì aveva appena terminato una partita di bocce presso il campo di Siderno e si accingeva in compagnia di Francesco Commisso inteso “u quagghia“, a far rientro presso la sua abitazione, quando nell’atto di salire sulla vettura di quest’ultimo, una Renault 5, venne affrontato, a viso scoperto, da Pasquale Condello e Giovanni Saraceno, i quali esplosero al suo indirizzo più colpi di pistola, uccidendo Macrì e ferendo gravemente il suo braccio destro, Francesco Commisso».

    Sul posto vennero rinvenuti e repertati 32 bossoli di arma da fuoco corta di vario calibro, appartenenti verosimilmente a quattro armi. Stando al racconto di Lauro, i killer sarebbero giunti sul posto a bordo di un’Alfa Romeo Giulia, rubata a Reggio Calabria, nella zona del tribunale e custodita a Locri dal clan Cataldo. Il gruppo dei killer dopo l’omicidio avrebbe proseguito il proprio viaggio verso Gioiosa Marina trovando rifugio presso il clan Mazzaferro, alleato dei De Stefano.

    La riunione del “Fungo”

    Dettagli che, a dire di Lauro, avrebbe appreso dallo stesso Pasquale Condello durante la comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria: «Condello si abbandonò a questa e ad altre confessioni in quanto indignato per l’ingratitudine della famiglia De Stefano, che gli aveva scatenato contro una guerra nonostante la fedeltà da lui dimostratagli in circostanze significative quali quella dell’omicidio Macrì».

    gianfranco-urbani
    Gianfranco “Er pantera” Urbani

    Sì, perché per anni Pasquale Condello è stato uno degli uomini più vicini a Paolo De Stefano. C’era anche lui, nell’aprile del 1975, circa tre mesi dopo l’omicidio Macrì, all’ormai celeberrima riunione romana presso il ristorante “Il Fungo”, del quartiere EUR. Lì ci sono pezzi della banda della Magliana, come Giuseppe Nardi e Gianfranco Urbani, detto “Er Pantera”. Ma anche soggetti di primissimo livello (seppur giovanissimi) all’interno della ‘ndrangheta. Da Paolo De Stefano a Giuseppe Piromalli. E poi lui, Pasquale Condello, che in quel periodo non è ancora “Il Supremo”.

    pasquale-condello-supremo-giovane
    Pasquale Condello da giovane, prima di diventare “Il Supremo”

    Le forze dell’ordine si appostano per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi erano giunti su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si erano allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo era in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.

    L’alleanza si rompe

    Un rapporto duraturo, che, di fatto, si incrina nei mesi antecedenti a quella che sarà la sanguinosissima seconda guerra di ‘ndrangheta, che lascerà sull’asfalto oltre 700 vittime tra il 1985 e il 1991. In quel periodo, infatti, si celebra il matrimonio fra Giuseppina Condello ed Antonino Imerti. La prima è la sorella di Pasquale Condello, il secondo è il boss di Fiumara di Muro. Ciò determina la nascita di un’alleanza tra queste due famiglie delle quali, in special modo, quella di Imerti era estranea al territorio reggino poiché esercitava la propria egemonia esclusivamente a Villa San Giovanni e dintorni.

    imerti-antonino-jpg
    L’arresto di Antonino “Nano feroce” Imerti dopo l’omicidio di Paolo De Stefano

    Paolo De Stefano avverte subito il pericolo di una simile unione matrimoniale che determina nuove alleanze mafiose e la conseguente crescita del gruppo Condello, il cui capo Pasquale già da tempo rivendicava una maggiore autonomia sui “locali” di Mercatello e di Archi Carmine.

    La seconda guerra di ‘ndrangheta

    Il matrimonio che avvicina le famiglie Condello e Imerti segna uno spartiacque fondamentale. Da quel giorno, il malumore di don Paolino De Stefano cresce in maniera veloce e inesorabile. Il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro racconta che De Stefano affermava che «dopo il matrimonio contratto da Nino Imerti con Giuseppina Condello, i medesimi erano diventati arroganti ed irriguardosi nei suoi confronti». Da quel giorno, infatti, Nino Imerti manifesta un’evidente insofferenza rispetto all’autorità di quello che, fino al momento, è stato il capo incontrastato della ‘ndrangheta reggina, Paolo De Stefano, cominciando a gestire autonomamente taluni affari nel territorio di Villa San Giovanni.

    uscita-orazio-de-stefano-1
    Una foto recente di Orazio De Stefano

    La famiglia De Stefano risponde a stretto giro con un altro matrimonio” di prestigio”: Orazio De Stefano, fratello di Paolo, sposa Antonietta Benestare, nipote di Giovanni, Giuseppe e Pasquale Tegano. Le alleanze si fanno a suon di matrimoni, come in una realtà arcaica: e quella con i Tegano non è un’alleanza da poco. La frattura tra i due clan, i De Stefano e gli Imerti, con il passare dei giorni si acuisce, senza possibilità di ricongiungimento. D’altra parte, se la famiglia De Stefano, comandata da don Paolino, è una potenza assoluta, quella degli Imerti non è da meno.

    tegano-giovanni
    Giovanni Tegano

    La guerra è quindi alle porte. A contrapporsi, lo schieramento che faceva capo ai De Stefano-Tegano, da un lato e i Condello-Imerti, dall’altro. Sono proprio quelli gli anni in cui Pasquale Condello si guadagna l’appellativo di “Supremo”. A ciò, evidentemente, contribuisce il fatto che, per decenni, rimane uno dei boss liberi e latitanti. Tutto questo crea attorno a lui un’aura di mistero e di invincibilità anche negli anni della pax mafiosa.

    Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta

    In quegli anni, Condello diventa il “Supremo”. Ordina omicidi, anche omicidi “eccellenti” e rocamboleschi. Su tutti, quello del figlio naturale di don Mico Libri, Pasquale, alleato dei De Stefano. Il 19 settembre 1988, Pasquale Libri viene ucciso con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria. I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, in un luogo che si affaccia sul cortile del penitenziario. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

    pasquale-condello-supremo
    Pasquale “Il Supremo” Condello in una immagine di qualche anno fa

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine proprio del “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime. O quello dell’ex presidente delle Ferrovie, il politico democristiano Lodovico Ligato, da sempre ritenuto vicino alla cosca De Stefano, freddato sull’ingresso della propria residenza estiva a Bocale, località balneare alle porte di Reggio Calabria. Al termine di un complesso iter giudiziario verranno condannati Pasquale Condello, “il Supremo”, Santo Araniti e Paolo Serraino come mandanti, mentre Giuseppe Lombardo, “Cavallino”, verrà ritenuto uno degli esecutori materiali dell’agguato.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    L’incontro con Totò Riina

    La guerra di ‘ndrangheta termina nel 1991, dopo l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nell’atto finale del maxiprocesso a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone. Un omicidio che avrebbe commissionato la mafia in combutta con la ‘ndrangheta, offrendo in cambio il ruolo di garante per la pax mafiosa dopo anni di morti e violenze per le strade di Reggio Calabria e della sua provincia.

    tiradritto-morabito
    Giuseppe “Tiradritto” Morabito da giovane

    E appartiene al mito il presunto incontro che Totò Riina avrebbe avuto con i boss calabresi, tra cui, appunto, “Il Supremo”. Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso. Totò Riina, che peraltro in Calabria era già stato, ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito, avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato

    La cattura di Pasquale Condello, “il Supremo”

    Tra leggenda e realtà, è lunga l’epopea criminale di Pasquale Condello. Una carriera di sangue nata praticamente da minorenne, che si conclude il 18 febbraio del 2008, allorquando il Ros dei Carabinieri lo scova in un appartamento nella zona di Pellaro, periferia sud di Reggio Calabria. Non un dettaglio di poco conto, dato che, dopo la pax mafiosa, vi sarà sempre maggiore avvicinamento di cosche in precedenza storicamente contrapposte e ad una fattiva alleanza tra di esse. Proprio grazie alle nuove regole sancite dalla pace tra cosche.

    domenico-libri
    Don Mico Libri

    Non è un caso, che il “Supremo” venga scovato nel territorio di Pellaro, storicamente sottoposto al controllo mafioso dello schieramento opposto destefaniano. Sarebbe stato Mico Libri, potente boss oggi defunto, a dettare le regole propedeutiche alla pace, che richiedono una previa approvazione di ogni possibile azione delittuosa eclatante.  In nome degli affari. Perché, abbandonate (solo metaforicamente) le armi, Condello ha nei decenni di latitanza allacciato rapporti inconfessabili, con il mondo dell’imprenditoria e della politica.

  • MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    MAFIOSFERA| Processi alla ‘ndrangheta? All’estero non si può (o quasi)

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Nel novembre del 2022, in Germania, il Tribunale di Costanza ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di Salvatore Giorgi (33 anni) di origini calabresi, cameriere in un ristorante di Überlingen, sul Lago di Costanza. Il tribunale, la cui sentenza è divenuta definitiva questa settimana, ha giudicato Giorgi colpevole di traffico di droga e riciclaggio di denaro e lo ha condannato a un totale di tre anni e sei mesi di carcere (poi ridotta in appello a due anni e cinque mesi).

    tribunale-costanza-ndrangheta
    Il tribunale di Costanza

    Come hanno ricostruito i giornalisti di MDR, la cosa notevole di questa sentenza è che Giorgi ha subito la condanna anche per aver sostenuto un’organizzazione criminale straniera. Quale? La ‘ndrangheta.

    La prima condanna “ufficiale” per ‘ndrangheta

    Secondo la ricostruzione di MDR, questa è la prima volta che la Germania giudica la ‘ndrangheta in modo ufficiale in un tribunale. Il paragrafo 129 del Codice Penale tedesco – reato di formazione di un’associazione a delinquere – è stato riformato nel 2017 per facilitare il lavoro delle forze dell’ordine. Ma, come riportato sempre da MDR, le condanne sono ancora molto poche.

    Il paragrafo 129 recita, tra le altre cose:

    «Chiunque costituisca un’organizzazione o partecipi in qualità di membro a un’organizzazione i cui obiettivi o attività siano finalizzati alla commissione di reati punibili con una pena detentiva massima di almeno due anni incorre in una pena detentiva non superiore a cinque anni o in una multa. Chiunque sostenga tale organizzazione o recluti membri o sostenitori per tale organizzazione incorre in una pena detentiva per un periodo non superiore a tre anni o in una multa».

    La norma successiva, 129b, precisa che il paragrafo 129 si applica anche a organizzazioni criminali transnazionali e/o straniere.

    Il primato di Giorgi

    Ecco dunque che Salvatore Giorgi, condannato per reati di stupefacenti, risulta anche condannato – sebbene poco cambi per la sentenza in sé – per favoreggiamento della ‘ndrangheta, per aver sostenuto e supportato la mafia calabrese. La ‘ndrangheta è tutt’altro che sconosciuta in Germania anche a livello giudiziario: ricordiamo che nell’ottobre del 2020, in seguito agli arresti incrociati a livello europeo nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, conosciuta anche come Pollino, è iniziato a Düsseldorf in Germania, un processo contro 14 imputati principalmente per traffico di droga in cui si contestano, tra le altre cose, la partecipazione diretta all’associazione calabrese e suo favoreggiamento. Ma questa condanna a Giorgi è arrivata prima, per un procedimento separato, del 2021, in seguito all’operazione Platinum-Dia, sempre tra Italia e Germania, col supporto di Europol e Eurojust.

    Ristoranti, cocaina e omertà

    La sentenza tedesca ricostruisce l’organigramma dell’organizzazione criminale di San Luca a cui appartiene Salvatore Giorgi, e in particolare il clan Boviciani, noto per il particolare interesse nel traffico di cocaina, oltre che per il radicamento in Germania. Ricostruisce MDR come Salvatore Giorgi lavorasse come cameriere a Überlingen in un ristorante situato direttamente sul lungolago turistico. Gli investigatori considerano questo ristorante e altri due a Baden-Baden e a Radolfzell come appartenenti al gruppo.

    polizei_ristorante_ndrangheta_germania
    Agenti tedeschi perquisiscono un ristorante

    Giorgi era anche stato il direttore della società che gestiva il ristorante sul lago di Costanza. Il tribunale, dunque, ritiene che Giorgi abbia sostenuto il gruppo criminale di San Luca nella sua attività relativa ai narcotici. L’associazione ‘ndranghetistica di San Luca viene descritta nei ruoli dei suoi membri. Scrivono i giornalisti Margherita Bettoni, Axel Hemmerling e Ludwig Kendzia, per MDR: «Si parla di una cassa comune di circa cinque milioni di euro; si parla del voto di silenzio tipico della mafia, l’omertà». La ‘ndrangheta, e il clan Giorgi che ne fa parte, diventano per il tribunale l’organizzazione criminale straniera sottostante a una serie di altri reati.

    Canada e ‘ndrangheta

    Se questa è la prima volta che la Germania riconosce la ‘ndrangheta come organizzazione criminale straniera ai fini di una condanna penale, non è la prima volta che ciò accade all’estero. E febbraio è il mese fortunato.
    Il 28 febbraio 2019, la Corte Suprema dell’Ontario condannava Giuseppe Ursino (11 anni e mezzo) e Cosmin Dracea (10 anni) per reati di criminalità organizzata, incluso il traffico di stupefacenti. Tra le altre cose, si imputava ai due di aver trafficato cocaina «a beneficio di, sotto la direzione di, o in associazione con, un’organizzazione criminale, vale a dire la ‘Ndrangheta, commettendo così un reato contrario alla sezione 467.12 del Codice penale».

    In questo caso la norma riguarda un “reato commesso per conto di un’organizzazione criminale” e recita, al comma 1:
    «Chiunque commetta un reato perseguibile d’ufficio ai sensi della presente o di qualsiasi altra Legge del Parlamento a beneficio di un’organizzazione criminale, sotto la sua direzione o in associazione con essa, è colpevole di un reato perseguibile d’ufficio e passibile di reclusione per un periodo non superiore a quattordici anni».

    Boss in pensione

    Soprattutto, «In un’azione penale per un reato ai sensi del comma 1, non è necessario che l’accusa dimostri che l’imputato conosceva l’identità delle persone che costituiscono l’organizzazione criminale». Questa sentenza descrive la struttura e le attività della ‘ndrangheta grazie ad informazioni fornite da un ufficiale dei Carabinieri dall’Italia. Si descrivono le operazioni di questa mafia nella sua versione canadese, e soprattutto la Corona ha sostenuto che Giuseppe Ursino non solo era un membro della ‘ndrangheta, ma era un “boss” locale. Ciò si basava in modo significativo su conversazioni registrate con l’agente di polizia. Giuseppe Ursino ha negato in sede di testimonianza di essere un membro della ‘Ndrangheta e tanto meno un “boss”. Nella sua testimonianza ha ammesso di essersi riferito a se stesso come tale, ma ha detto che si stava vantando solo per provocare l’agente di polizia.

    ursino
    Giuseppe Ursino

    Ursino, originario di Gioiosa Ionica, emigrò in Canada a 18 anni nel 1971. I familiari lo descrivono davanti alla corte come «un marito, un padre e un nonno di buon cuore, premuroso e gentile». Questo, però, non gli impedirà di essere considerato un membro apicale della ‘ndrangheta. Non aveva precedenti penali ed era stato titolare di un’attività di distribuzione di prodotti alimentari a ristoranti e sale per eventi, ma al 2019 era in pensione da due anni. Invece i giudici non hanno considerato l’altro imputato, Dracea, un membro dell’organizzazione mafiosa nonostante della sua attività avesse comunque beneficiato la ‘ndrangheta anche perché sapeva chi era Ursino e che ruolo aveva.

    ‘Ndrangheta all’estero: sempre e solo calabrese?

    Due paesi, due sentenze, due normative simili ma non uguali, e sicuramente diverse dalla normativa italiana. Rimane chiaro che laddove sembri ormai fattibile riconoscere la ‘ndrangheta all’estero come “organizzazione criminale straniera” – in Germania, come in Canada – l’appartenenza alla ‘ndrangheta come organizzazione radicata altrove non è ancora realtà. La criminalizzazione della ‘ndrangheta come organizzazione criminale tedesca o canadese, per capirci, non è ancora realtà. La ‘ndrangheta a processo all’estero rimane calabrese e all’estero per ora si punisce solo chi commette reati in supporto agli ‘ndranghetisti calabresi.

    figliomeni-toronto
    Beni confiscati al clan calabro-canadese Figliomeni di Toronto

    Se questo è un enorme passo avanti – soprattutto in paesi che hanno uno storico problema di mafia italiana sul loro territorio – denota ancora un’alienazione- alterità del problema – vale a dire, un riconoscimento del problema mafioso come ‘altro’, ‘straniero’ rispetto alla realtà locale. La ‘ndrangheta in Canada e in Germania – per quanto concerne queste sentenze soprattutto – rimane una questione di importazione criminale e non – come invece dimostra la ricerca – un fenomeno altamente legato ai contesti locali. Certo, la ‘ndrangheta è calabrese – ma in Canada è anche canadese, con dei connotati locali, e lo stesso in Germania -e non sempre si manifesta solo come criminalità di supporto.

    L’Italia nelle indagini sulla ‘ndrangheta all’estero

    L’alienazione-alterità giuridica del fenomeno porta a delle difficoltà procedurali, soprattutto quando c’è di mezzo la cooperazione internazionale. Per esempio, in Canada, un’indagine su un presunto ‘ndranghetista – Jimmy DeMaria rischia di andare a rotoli. Il governo canadese vuole espellere DeMaria sulla base di registrazioni ottenute da intercettazioni telefoniche condotte dalla polizia italiana, sostenendo che le registrazioni provano la sua associazione alla ‘ndrangheta. Ma l’avvocato di DeMaria sostiene che queste sono state ottenute illegalmente – perché effettuate su territorio canadese dalle autorità italiane.

    demaria-ndrangheta-estero-canada
    L’arresto di Vincenzo “Jimmy” DeMaria

    Infatti, fornire le prove dell’associazione alla ‘ndrangheta rimane spesso una faccenda ‘delegata’ all’Italia e non sempre riconosciuta all’estero. In alcuni casi questo porta all’incomunicabilità tra i sistemi giuridici: si pensi al caso della Svizzera che, in seguito ad operazione Helvetia portò a processo alcuni individui che si ‘dichiaravano’ ‘ndranghetisti, parlavano di rituali e anche di estorsione. Li hanno assolti perché non basta raccontarsi mafiosi, se non lo si fa in pratica. Costoro in Svizzera non commettevano reati identificabili come ‘crimine organizzato in supporto della ‘ndrangheta’ dunque il loro essere o dichiararsi ‘ndrangheta non serviva a molto, giuridicamente.

    Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

    Questo per concludere: ottimo il passo avanti della Germania e in bocca al lupo al Canada nelle loro lotte contro la ‘ndrangheta -o, meglio, le ‘ndranghete – all’estero. Ma il fenomeno mafioso all’estero non è sempre e solo ‘straniero’; la ‘ndrangheta non è solo quello che in Italia chiamiamo ‘ndrangheta. Bisogna che i sistemi giuridici internazionali introiettino la propria ‘ndrangheta, o mafia che sia, senza soltanto ‘trasferire’ conoscenza e aspettative dall’Italia.

    germania-ndrangheta-estero

    Serve che in altri paesi si capiscano – oltre alle ramificazioni transnazionali – le evoluzioni locali delle mafie, di varia origine. E, soprattutto, i comportamenti mafiosi “migranti” – che saranno parzialmente diversi, e storicamente differenti, in Germania come in Canada. La ricerca già lo fa. In questo senso, ha successo il modello statunitense che ‘legge’ il fenomeno mafioso – siciliano, calabrese, americano, svedese (se esistesse) non importa – come comportamento di “corrupt enterprise” (impresa corrotta) lesivo dell’economia e della politica locale, in seguito a comportamenti penalmente rilevanti per il sistema nazionale. Ma questa è un’altra storia.

  • RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

    RITRATTI DI SANGUE | ‘Ndrine e Servizi: la stagione dei sequestri

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    La vecchia ‘ndrangheta dei don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo, spazzata via dal nuovo che avanza, dalla famiglia De Stefano, soprattutto. Ma anche dai Piromalli di Gioia Tauro. Negli anni ’70 si registra il cambio di passo della ‘ndrangheta. I vecchi capi, ancorati al traffico di sigarette e contrari a quello della droga, cadono uno dopo l’altro. Si apre così una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. Con manovre torbide tra uomini delle ‘ndrine, faccendieri e pezzi dello Stato.

    mommo-piromalli
    Girolamo “Mommo” Piromalli

    La ‘ndrangheta vuole darsi una svolta. È, in particolare, don Mommo Piromalli, leader carismatico di Gioia Tauro, a tracciare la via. E, immediatamente, la seguono in molti. In particolare Paolo De Stefano, boss dell’omonima, potentissima, cosca di Reggio Calabria.

    La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978). E, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia. È una vera e propria escalation. E, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano.

    Le parole dei pentiti

    «Per quanto mi risulta, la morte di Antonio Macrì ebbe una duplice motivazione: la prima, più generale, dovuta al fatto che egli si opponeva al riconoscimento della Santa entrando per questo in conflitto con Mommo Piromalli; la seconda perché aveva protetto e continuava a proteggere a Mico Tripodo e quindi si era creato quali nemici coloro che si opponevano al potere del Tripodo a Reggio Calabria» dice il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, in un interrogatorio del 12 marzo 1994 confluito agli atti dell’indagine “Olimpia”.

    don-mico-tripodo
    Don Mico Tripodo

    Un pensiero ribadito anche da un altro pentito, Giuseppe Albanese, nel tratteggiare la nascita della “Santa”, la sovrastruttura della ‘ndrangheta che permette di gestire i rapporti con mondi occulti come quelli della massoneria e dei servizi segreti deviati. «La “Santa” si proponeva qualunque forma di illecito guadagno, la commissione di delitti che in passato la ‘ndrangheta non consentiva (sequestri di persona e traffico di droga) e il santista aveva l’opportunità di avere contatti con esponenti delle istituzioni, contrariamente con quanto avveniva in passato».

    “Due Nasi”

    Personaggio emblematico di questo nuovo modo di fare è ‘Ntoni Nirta, detto “due Nasi” per il suo vezzo di portare sempre con sé un’arma a doppia canna. Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino, che poi farà grande carriera all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Chiaramente entrambi hanno smentito tale circostanza.

    John-Paul-Getty-III
    John Paul Getty III

    Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate statunitense, ma naturalizzato britannico, Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove.
    Il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni: il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, a Paul Jr il taglio del lobo di un orecchio.
    Quello è forse il sequestro di persona più celebre: a Bovalino, nella Locride, esiste un intero quartiere denominato “Paul Getty”, proprio perché sarebbe stato interamente edificato con i soldi del riscatto pagato dal miliardario.

    Il caso Paul Getty

    Dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70, la ‘ndrangheta avrebbe rapito quasi 500 persone. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta fa i soldi in quel modo: sequestri di persona e traffico di sigarette. Sarà la prima guerra di ‘ndrangheta, con l’uccisione dei boss Macrì e Tripodo a sancire il cambio di rotta sugli affari, con l’ingresso, prepotente, del traffico di droga, voluto dal “nuovo che avanza”, rappresentato dai De Stefano, soprattutto.

    cesare-casella-ndrangheta-servizi-sequestri
    Cesare Casella

    Ma tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il business è quello: furono nel mirino dei sequestratori i professionisti e gli imprenditori più benestanti della ‘ndrangheta; unico sequestro avvenuto in un arco temporale diverso, quello (tra i più celebri) del giovane Cesare Casella, del 1988 e durato 743 giorni. Le persone sequestrate venivano nascoste nel territorio aspromontano, le ‘ndrine coinvolte erano quelle di Platì e San Luca che operavano in Piemonte, quelle del reggino e del lametino in Pianura Padana e infine quelle di Gioia Tauro e della Locride a Roma.

    La stagione dei sequestri: la ‘ndrangheta e i servizi segreti

    La stagione dei sequestri, comunque, non sarebbe stata solo una questione delle ‘ndrine. Ancora una volta, le cosche calabresi e i pezzi deviati dello Stato si sarebbero seduti allo stesso tavolo. È il collaboratore di giustizia Nicola Femia ad aprire nuovi inquietanti scenari. Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori per porre fine a quella fase, che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.

    nicola-femia-ndrangheta-servizi-sequestri
    Nicola Femia

    «Mazzaferro – spiegherà Femia in un’udienza pubblica – si incontrava con uomini dello Stato o mandava il suo autista, Isidoro Macrì». Un rapporto, quello tra il boss e gli 007, che sarebbe servito per acquisire informazioni reciprocamente, ma anche per permettere allo stesso Mazzaferro di mantenere l’impunità.
    Una lunga stagione, che verrà interrotta perché quelle azioni attiravano troppo l’attenzione dei media e dello Stato che in quel periodo portò in Aspromonte anche l’esercito.

    Dove finiscono i soldi?

    Femia ricorda gli incontri a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: «Sono andato dentro le mura praticamente. Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui». Quelli non sono solo gli anni dei sequestri, ma anche dello sviluppo delle rotte del narcotraffico con il Sud America. E così, in Colombia, i miliardi delle cosche si sarebbero trasformati in tonnellate di droga.

    paolo-de-stefano-il-boss-che-cambio-la-ndrangheta
    Paolo De Stefano

    Il sostituto procuratore antimafia di allora, Vincenzo Macrì, ipotizzò che il motivo dietro la brevità dei sequestri, a parte casi eclatanti, fosse probabilmente una presunta connessione diretta fra Stato, “organi occulti” e criminalità che si accordavano sul pagamento. Una circostanza che ha confermato, molti anni dopo, lo stesso Femia: «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. All’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo».

    ‘Ndrangheta, servizi e sequestri

    Femia parla anche di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: «Dopo il sequestro Casella, i capi si riunirono per far cessare la stagione dei sequestri, per via della troppa attenzione da parte dello Stato. Ma Vittorio Jerinò fece ugualmente il sequestro Ghidini per fare un dispetto al fratello Giuseppe, di cui era sempre stato invidioso».

    Una liberazione non facile, quella della Ghidini, avvenuta dopo un periodo molto intenso di trattative tra la ‘ndrangheta e pezzi dello Stato: «Vincenzo Mazzaferro fu scarcerato velocemente dal carcere di Roma dove era detenuto per risolvere la situazione». Tra gli uomini dello Stato coinvolti nelle trattative, Femia ricorda poliziotti, carabinieri organici ai servizi, avvocati, ma anche giornalisti.  

    roberta-ghidini-ndrangheta-servizi-sequestri
    Roberta Ghidini e sua madre si abbracciano in lacrime poco dopo la liberazione della ragazza

    La liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire. Soldi che, a dire di Femia, avrebbero diviso tra loro Mazzaferro, Jerinò e i Servizi Segreti: «Il coinvolgimento dei Servizi Segreti nei sequestri è una cosa che nel nostro ambiente sanno anche i bambini» afferma Femia. Una trattativa Stato-‘ndrangheta inquietante, anche per quello che sarebbe avvenuto in seguito. Vincenzo Mazzaferro verrà ucciso pochi anni dopo: «Nessuno della ‘ndrangheta voleva la sua morte», afferma Femia. E allora, il sospetto: «I protagonisti di quelle vicende sono tutti morti, ma senza una spiegazione di ‘ndrangheta».

  • MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

    MAFIOSFERA | Latitanti senza frontiere: un affare di famiglia

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Si dice spesso che la ‘ndrangheta non abbia confini. Ma di fondo, qualche confine chiaramente ce l’ha, o meglio ancora, le viene imposto. Si tratta molto spesso di confini anche abbastanza prevedibili, in realtà, se i diretti interessati – gli affiliati in questo caso – fossero tutti persone dotate di senso pratico, arguzia, acume e soprattutto mancassero di deliri di onnipotenza. Un viaggio, una vacanza dall’Australia all’Indonesia quando si è nell’elenco dei latitanti ricercati in mezzo mondo, infatti, non rientra tra le attività che uno ‘ndranghetista dovrebbe intraprendere.

    ‘Ndrangheta e I-Can: 3 anni, 42 latitanti in arresto

    Le autorità locali – con il supporto dell’Unità I-Can – Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta e dell’esperto per la sicurezza italiana a Canberra hanno arrestato Antonio Strangio, 32 anni, all’aeroporto di Bali, in Indonesia, mentre sbarcava da un volo proveniente dall’Australia. è stato arrestato. La notizia è dell’8 febbraio.  «Con Strangio», rende noto la direzione centrale della Polizia Criminale, «sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio del progetto I-Can, che sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta».

    Antonio-Strangio-latitanti-ndrangheta
    Antonio Strangio dopo l’arresto a Bali

    Antonio Strangio è affiliato del clan omonimo – alias Janchi (i bianchi) – di San Luca, feudo aspromontano in provincia di Reggio Calabria che non ha tristemente bisogno di introduzioni quando si parla di mafia. La famiglia mafiosa in questione è balzata agli onori della cronaca, tra le altre cose, per una faida durata decenni e culminata con la strage di Duisburg, in Germania, nel 2007. Strangio era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso in seguito all’operazione Eclissi 2 nel 2015, tra San Luca e San Ferdinando, contro esponenti del clan Bellocco della Piana.

    Latitante ma non troppo

    In fuga dal 2016, Strangio in realtà latitava poco. Era infatti in Australia, pare principalmente ad Adelaide, in quanto cittadino australiano naturalizzato. La Red Notice di Interpol – l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo – non lo toccava in Australia, in quanto il paese non agisce per una segnalazione di Interpol e quindi non procede all’arresto di un proprio cittadino ai fini dell’estradizione. Ma le autorità lo seguivano, lo guardavano, lo tracciavano.

    La domanda vera, dopo l’arresto, non può che essere: cosa ha fatto in questi anni Strangio ad Adelaide o, in generale, in Australia? E richiede il solito abbozzo di risposta difficilissima da contestualizzare e molto facile da manipolare per giustizialisti dallo sguardo miope: aveva famiglia in Australia, legami di sangue e legami di territorio. Ma il caso di questo Strangio non è né il primo né l’ultimo del suo genere.

    Antonio Strangio: un nome, due latitanti

    Un altro Antonio Strangio, alias U Meccanico o TT, praticamente della stessa famiglia, finì in manette nel 2017 a Moers, vicino a Duisburg, in Germania. All’epoca aveva 38 anni, lo arrestarono esattamente nel quinto anniversario dall’inizio della sua latitanza. In questo caso, a raggiungere questo Strangio fu un mandato di arresto europeo. Cosa ci faceva TT nell’area di Duisburg? Risultava chiaramente alle autorità italiane che altri esponenti della stessa famiglia fossero residenti lì e la strage di Ferragosto del 2007 ne era ovviamente prova indiretta. Quindi, aveva famiglia anche lui.

    In più, c’era l’operazione Extra Fines 2 – Cleandro del 2019, a Caltanissetta, incentrata tra le altre cose sulle attività del clan Rinzivillo di Cosa nostra. In Germania, emergeva – mi ricordano fonti tedesche – che il presunto referente del clan Rinzivillo a Colonia, Ivano Martorana, fosse dedito a reperire e trafficare stupefacente e che a tale scopo era in contatto con altri soggetti, tra i quali proprio Antonio Strangio, TT. Dunque, sembrerebbe che lo Strangio di Germania facesse ancora quello per cui era ricercato e fu arrestato: traffico e importazione di stupefacenti.

    antonio-u-meccanico-strangio
    Antonio “U meccanico” Strangio

    Infatti, U Meccanico fu coinvolto anche nell’operazione European ‘Ndrangheta Connection, altrimenti conosciuta come Operazione Pollino, nel 2018. C’era anche lui tra i 90 individui in arresto per un traffico internazionale di stupefacenti tra Belgio, Paesi Bassi, Germania, Italia, Colombia e Brasile. L’operazione coinvolse affiliati clan di San Luca e di Locri, come i Pelle-Vottari, i Romeo alias Stacchi, i Cua-Ietto, gli Ursino e appunto i Nirta-Strangio (nonché esponenti della criminalità turca). Oltre a diverse tonnellate di cocaina e alla scoperta di azioni di riciclaggio, l’operazione rivelò anche l’uso di attività di ristorazione – segno di presenza stabile sul territorio – in supporto alla logistica del narcotraffico.

    ‘Ndrangheta, latitanti e famiglia

    Oltre al nome, questi Strangio hanno in comune la latitanza all’estero e la protezione che deriva dal nascondersi “in famiglia”. Perché se c’è una cosa che è cambiata, con i processi di globalizzazione e con l’amplificazione dell’interconnettività che questi processi hanno attivato per le esistenti comunità di immigrati in giro per il mondo, è proprio la famiglia.
    Se un tempo poteva apparire dispersa, dislocata in vari luoghi di migrazione, è oggi famiglia integrata, interconnessa. Ci si telefona o video-telefona, ci si visita, ci si collega coi parenti all’estero per motivi di studio, lavoro, esperienza, vacanza. Vale per moltissimi emigrati (o immigrati) e vale anche per le dinastie criminali di ‘ndrangheta. Forse anche di più per alcune dinastie criminali di ‘ndrangheta come gli Strangio, che della famiglia hanno fatto un business, rendendola la chiave del loro successo criminale, quanto della loro reputazione. Nel bene (per loro) e nel male (per noi).

    Succede dunque che al 2023 – ma anche prima a dir la verità, ché la globalizzazione e i suoi processi non sono certo roba così recente – la famiglia amplificata e interconnessa sia la normalità. Idem per una serie di altre ‘prassi’: la doppia lingua, la doppia cittadinanza, due passaporti, ad esempio. Quindi non sorprende che in paesi di migrazione stabile dalla Calabria, come la Germania e l’Australia (ma anche ovviamente gli Stati Uniti, il Canada, la Svizzera, il Belgio…) sia proprio all’interno di alcune famiglie (dinastie criminali, appunto) che si innestano servizi e attività in supporto al crimine organizzato, laddove questo sia organizzato proprio a dimensione familiare.

    ‘Ndrangheta e latitanti: i casi Vottari, Crisafi e Greco

    Simili a quello di Antonio Strangio, l’ultimo della dinastia sanlucota arrestato a Bali qualche giorno fa, furono altri arresti di suoi ‘vicini di casa’. Anzi, di case al plurale: Calabria e Australia). Le manette scattarono a Fiumicino per Antonio Vottari nel 2016, anch’egli di San Luca, latitante e nascosto in Australia dalla “famiglia” ad Adelaide. Stessa sorte e stesso aeroporto per Bruno Crisafi, anche lui sanlucota, in arrivo dall’Australia nel 2017. Clan Pelle-Nirta-Giorgi, alias Cicero, risiedeva da anni – e faceva il pizzaiolo – a Perth. Entrambi, Vottari e Crisafi, legati al narcotraffico con altri pezzi di famiglia tra Germania (e Olanda, Belgio e Nord Europa) e Calabria, tra l’altro.

    edgardo-greco-scovato-a-saint-etienne-il-killer-delle-carceri
    Edgardo Greco

    Può sembrare, quello di Crisafi, un primo «ciak, si gira!» del film appena andato in scena con l’arresto di Edgardo Greco in Francia. Altro latitante calabrese del Cosentino (la sua appartenenza alla ‘ndrangheta andrebbe problematizzata, proprio per il suo ruolo – killer – e i gruppi a cui si legava, più gangsteristici che ‘ndranghetisti, tra l’altro), Greco faceva lo chef. C’è differenza, però, tra chi scappa e si nasconde all’estero per mimetizzarsi e nascondersi – «Il modo migliore per nascondere qualcosa è di metterlo in piena vista», in fondo già scriveva Edgar Allan Poe – e chi scappa all’estero come estensione della propria protezione familiare, facendo in fondo ciò che farebbe anche a casa propria.

    Dinastie criminali stabili

    L’arresto di Antonio Strangio a Bali – e la sua permanenza in Australia – come quelle di Vottari e di Crisafi prima di lui o dell’omonimo TT in Germania – ci confermano anche stavolta una cosa: la forza della ‘ndrangheta – quella “doc” – è legata anche alla presenza stabile di dinastie criminali internazionalizzate che possono offrire servizi in giro per il mondo. Ad altri ‘ndranghetisti o anche ad amici o ai colleghi degli ‘ndranghetisti, si veda Edgardo Greco.

    'ndrangheta-al-nord-i-calabresi
    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    I clan di San Luca (e non sono i soli), nello specifico, “hanno famiglia” sia ad Adelaide che a Perth, in Australia, tanto quanto ne hanno a Duisburg o a Erfurt, in Germania. Questo permette loro non solo di avere protezione – nel senso di ‘nascondiglio’ durante la latitanza – ma anche e soprattutto di stabilirsi in Australia qualora decidano di farlo, come fossero a casa. Alcuni lavorando, come Crisafi il pizzaiolo. Altri studiando, come Vottari, che aveva un visto da studente per iniziare un corso a un’università di Melbourne. Spesso, ancora, dedicandosi al narcotraffico comunque, come lo Strangio di Germania.

    Cognomi che pesano

    Sempre attività di famiglia. Questo non significa assolutamente che tutte le famiglie con tali cognomi o con legami a tali cognomi all’estero siano ‘omertose’ o famiglie di ‘ndrangheta. Esattamente come questo non sarebbe il caso nemmeno a San Luca. Le stesse variabili, di intento quanto di contesto, operano anche all’estero nelle famiglie migranti. Ma all’estero sono molto più difficili da districare e comprendere.San-Luca-latitanti-ndrangheta

    Al di là del panico mediatico che si scatena ogni qual volta la ‘ndrangheta si scopre all’estero, in realtà c’è davvero poco da sorprendersi. Quando della ‘ndrangheta si comprendono i tratti caratterizzanti, tra cui il funzionamento delle dinastie internazionali all’interno di processi più complessi e spesso ‘banali’ nel senso di ‘ricorrenti’ della migrazione che la ‘ndrangheta sfrutta e macchia (come fa in Calabria con interi paesi e dinastie), appare chiaro che questa risorsa diventi preziosa.
    Se come diceva George Bernard Shaw «una famiglia felice non è che un anticipo del paradiso», probabilmente una famiglia di ‘ndrangheta “felice”, o quanto meno assestata, non è che un anticipo dell’inferno o del purgatorio. Soprattutto per chi, ricordiamolo, con certi soggetti condivide legami di famiglia e magari non vorrebbe.