Categoria: Rubriche

  • MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    MAFIOSFERA | Bonavota e non solo: cambia la caccia alle “primule”

    È proprio cambiato il linguaggio, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro e in seguito alla sua trentennale latitanza.
    Dal 16 gennaio 2023 – giorno della cattura del boss di Castelvetrano – è cambiato il linguaggio di giornalisti e autorità, e non solo italiani, in riferimento alla cattura di altri latitanti di mafia. Quest’attività è diventata uno sport nazionale in cui le nostre autorità chiaramente primeggiano.
    Proprio a partire da gennaio c’è stata quasi un’inflazione delle catture. Le quali sono proseguite a febbraio con Edgardo Greco (che boss non era ma come tale è passato al momento dell’arresto in Francia). E poi con Antonio Strangio, beccato all’aeroporto di Bali. entrambi a febbraio 2023.
    L’ultimo (per ora) è Pasquale Bonavota, arrestato il 27 aprile mentre pregava in una chiesa di Genova, dove pare risiedesse da tempo con sua moglie.

    pasquale-bonavota-altri-cambio-passo-caccia-boss
    Pasquale Bonavota, il boss di Sant’Onofrio arrestato a Genova

    Pasquale Bonavota: la primula di Sant’Onofrio

    Bonavota, a capo dell’omonimo clan di Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia, è ricercato dal 2018. È stato assolto in un processo ma è ricercato per Rinascita-Scott. Il suo gruppo criminale compare in molte attività antimafia di questi ultimi anni, da Roma alla Svizzera al Canada, dal Nord Italia a Vibo Valentia.
    Soprattutto, Bonavota era tra i latitanti considerati tra i più pericolosi dalla Direzione centrale della Polizia Criminale nella lista del Ministero dell’Interno. Ora ne restano tre: Attilio Cubeddu, Giovanni Motisi e Renato Cinquegranella.
    E diciamolo pure: prima che venisse arrestato Messina Denaro, pochi sapevano che questi individui fossero in una lista tutta per loro. Ma non c’è dubbio che quello di Pasquale Bonavota sia un arresto molto importante, perché è il vertice di un’organizzazione ’ndranghetista transnazionale e particolarmente attiva in diversi settori.

    brasile-morabito-re-coca-salvato-salvato-estradizione-italia
    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Il cambio di passo

    A ben vedere qualcosa è cambiato dalla cattura di Rocco Morabito, nel maggio 2021 a Joao Pessoa in Brasile.
    Il cambiamento si avverte sia nel modo in cui si raccontano i latitanti e le loro fughe più o meno rocambolesche o bizzarre. E si avverte nel modo in cui il resto del mondo si interessa a loro.
    Dietro la cattura di Matteo Messina Denaro e Rocco Morabito, c’è un eccellente Reparto operativo speciale dei carabinieri.
    La cattura di Messina Denaro, dunque, ha consolidato l’operato delle forze dell’ordine a caccia di latitanti pericolosi e certe tendenze di narrazione che già il caso di Morabito aveva sdoganato.
    Facile dire cosa siano queste tendenze: subito le varie testate giornalistiche, locali e nazionali, raccontano la storia del boss sotto il profilo criminale e umano con dovizia di particolari Poi alle autorità si chiede di raccontare i dettagli della “caccia”: le intercettazioni, sorveglianza, lavoro di squadra e, ovviamente, la cattura Da ultimo i giornali stranieri riportano la notizia con un titolo di scarsa inventiva «Fugitive Italian mafia boss captured in…while…» (Boss latitante di mafia catturato a…mentre…).

    Pasquale Bonavota: un arresto da copione

    Sulla cattura di Bonavota abbiamo ovviamente visto tutto il repertorio.
    Il perché è facile da intuire: non solo è un latitante di ’ndrangheta, ricercato per il maxi-processo Rinascita-Scott (ad oggi in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme), ma è anche un boss calabrese di particolare caratura criminale.
    Infatti, il mammasantissima di Sant’Onofrio è considerato un simbolo di quel cambiamento generazione della ’ndrangheta vibonese (e non solo) in cui i nuovi boss (Bonavota ha 49 anni e fa il boss da tempo) usano la testa e non solo le armi.
    Abbiamo letto il suo profilo e una sorta di memo sulle sue pendenze giudiziarie e le sue attività criminali sui giornali locali e nazionali.
    E abbiamo appreso i dettagli della cattura.
    Ci si è ovviamente già chiesto chi lo stesse aiutando e dove fosse il suo “covo” (altro dettaglio in voga dopo le avventure a caccia dei covi trapanesi di Messina Denaro). E da ultimo, le testate internazionali, come spesso accade in questi casi, semplificano talmente tanto per agevolare i loro lettori da stravolgere i fatti. Ed ecco che per la Bbc Bonavota «leads the notorious ’Ndrangheta mafia», cioè sarebbe nientemeno che il leader della ’ndrangheta.

    edgardo-greco-scovato-a-saint-etienne-il-killer-delle-carceri
    Edgardo Greco

    La notizia prima di tutto

    A conti fatti la vera notizia non è solo che venga catturato un latitante (chiaramente la stampa estera non sempre entra nel dettaglio di cosa ciò implichi) ma che questo latitante sia di Italian Mafia. Il che significa due cose: la mafia italiana esiste ancora e l’Italia la combatte costantemente.
    Quindi, con una forzatura dei criteri di notiziabilità, non basta che l’arrestato sia pericoloso. Deve essere sempre un leader, un boss, il top boss, dal momento che l’Italia ci investe soldi. Ma soprattutto si tratta di mafia italiana, argomento notoriamente acchiappa-lettori.
    E questo succede sia che si tratti davvero di una figura apicale di un clan, come Bonavota, sia che si tratti di un killer come Edgardo Greco o di un narcotrafficante come Morabito, tutti in vari momenti definiti boss.

    La mafia tira ancora, ma non esageriamo

    Questa lettura estremizzata, spesso spettacolarizzata, di quello che significa catturare un latitante (anche quando non è un big come Bonavota) è anche alimentata dal fatto che tali catture ora sono possibili anche all’estero. E lo ribadiscono i dati di Interpol che grazie al progetto I-Can (Interpol Coordination Against the ’Ndrangheta) ha operato 42 arresti in tutto il mondo in poco meno di tre anni dall’avvio dell’iniziativa.
    La mafia italiana – ora nella versione ’ndrangheta international – tira ancora e i suoi boss, che sempre tentano di sfuggire alla giustizia non hanno scampo.
    Però sarebbe il caso di smetterla di chiamare tutti boss: non si aiuta una narrazione della mafia calabrese (e di tutte le altre mafie) se si dimostra di non capire o non saper raccontare, che queste organizzazioni criminali sono fatte da uomini e non da supereroi in fuga.

    matteo-messina-denaro-arresto
    Matteo Messina Denaro, l’ex superprimula del crimine italiano

    La retorica della cattura

    È una delle più classiche costruzioni narrative: la caccia al malandrino scaltro, al supereroe appunto. Un lavoro d’astuzia, strategia, e con uso mirato delle risorse laddove funzionano di più. Quindi non nella mera “rincorsa”, ma nell’accerchiamento.
    Il risultato, quando si può comunicare l’arresto del latitante, è la gratificazione istantanea per tutti.
    È un risultato spesso preciso e pulito, anche se non veloce, ma soprattutto non equivoco: lo Stato vince, tu, latitante, non puoi scappare. Il messaggio ha valore di sicuro deterrente, ma probabilmente anche dimostrativo.
    E tutto ciò che ne consegue, dalla rassegna delle frasi del boss ai dettagli della cattura, può dimostrare che lo Stato, a prescindere da chi ha davanti, riesce, se vuole, a vincere. Perciò a dimostrare che la lotta alla mafia si fa sul serio.

    Le massime di Pasquale Bonavota

    Sono note alcune “perle” di Pasquale Bonavota, riportate negli atti di Rinascita-Scott e dai giornali in questi giorni. Il boss avrebbe detto per esempio: «Mio padre, ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo, ed oggi debbo dire la verità, se uno vuole fare il malandrino, oltre che devi essere, devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non siamo più che si fa con il fucile, mangiavamo, bevevamo, dopo che ci ubriacavamo … uscivamo in piazza e parlavamo, ormai si fa con il cervello, con diplomazia no?».
    Ma a quanto pare il boss di Sant’Onofrio non ha bene imparato a usare cervello e diplomazia, se oggi è in manette. Il messaggio dello Stato è chiaro e univoco, in un momento storico in cui sull’antimafia i messaggi chiari e univoci non sempre abbondano.

  • RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

    Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
    Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.

    Franco Muto da Cetraro

    Da Cetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
    Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
    Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.

    franco-muto
    Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente

    La leggenda del re del pesce

    Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.

    Un regno nato a colpi di pistola

    Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.

    franco-pino-perna-muto
    Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni

    Alla fine degli anni ’70 la famiglia si schiera con i Pino-Sena in faida con i Perna-Pranno-Vitelli. Più o meno gli stessi anni in cui anche la provincia di Reggio Calabria è scossa dalla prima guerra di ’ndrangheta. E sono gli anni in cui le cosche si modernizzano e sostituiscono le proprie fonti di guadagno.
    Ovviamente, il cambio di gerarchie e di equilibri non può essere silenzioso e indolore. La faida tra i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli termina solo alla fine degli anni ‘80 con un totale di ventisette morti ammazzati.

    Chi denuncia muore: il delitto Ferrami

    Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
    Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.

    Lucio-Ferrami-franco-muto
    Lucio Ferrami

    Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
    Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.

    Franco Muto e il caso Losardo

    Giannino-Losardo
    Giannino Losardo

    Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
    Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
    Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
    Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
    Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.

    Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980.
    Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
    Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti.
    Il delitto Losardo è tuttora impunito.

    Franco Muto e la Cunski

    È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
    Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
    Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
    Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.

    cunsky-muto
    Il relitto della Cunski

    Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
    Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.

    Molto rumore per nulla?

    L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.

    Franco Muto torna libero

    Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
    Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
    Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.

    porto-cetraro-statue
    Il porto di Cetraro

    E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

    incendi-aspromonte-2021
    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

    Luca-Lombardi-guida-apromonte
    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

    Kalon-Brion-Incendi
    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

    Ex-Ostello-zomaro
    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

    zomaro-aspromonte

    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

    Fly-Therapy-1
    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

    campo-volo-zomaro-aspromonte
    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

    ph-Pietro-Di-Febo_Pietra-Cappa-vista-dallalto
    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

    bombino-giuseppe
    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?

    La ‘ndrangheta più radicata nel mondo dopo l’Italia, lo abbiamo già detto, è probabilmente in Australia. Ma questo porta ovviamente a chiedersi cosa ne sia dell’antimafia – o meglio dell’anti-ndrangheta – down under. Sicuramente rispetto a un fenomeno radicato da praticamente un secolo, e integrato nella società australiana, è arrivata una risposta non sempre adeguata. Andiamo con ordine, perché i problemi dell’antimafia australiana sono tutti strutturali e vengono da molto lontano.

    antimafia-australia-indagini-ndrangheta-troppo-spesso-tilt
    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    L’Australia è quel bellissimo paese che nell’innocenza dei suoi primi anni di vita (nel 1901 nasce la federazione australiana come la conosciamo oggi) riesce a riconoscere la ‘ndrangheta – l’onorata società – come organizzazione criminale diversa da cosa nostra siciliana, e con un numero di affiliati superiore a 200 nella sola città di Melbourne.

    Gli omicidi al mercato e la banda di Carlton

    Era il 1965 e nella capitale dello stato di Victoria, una serie di omicidi nel mercato di frutta e verdura della città, il Queen Victoria Market, avevano fatto presagire una guerra di mafia, Italian-style.  In quelli che vengono ricordati come gli anni della “Gangland Melbourne”, varie organizzazioni criminali si contendevano il “territorio” del mercato – sostanzialmente per gestirne cartelli di prezzi ed estorsioni – e tra questi una acerba onorata società, di origine calabrese, reggina, e la cosiddetta Carlton Crew (la banda di Carlton – storico quartiere italiano di Melbourne), composta da italiani in senso generale, non affiliati di ‘ndrangheta. Sin da allora, dal cosiddetto Rapporto Brown sulla criminalità italiana nello stato di Victoria del 1965, si operava una distinzione tra onorata società calabrese e crimine organizzato italiano. Questa distinzione non solo perdura ma crea non pochi problemi ancora oggi.

    antimafia-australia-indagini-ndrangheta-troppo-spesso-tilt
    L’ingresso del Queen Victoria Market

    Antimafia Australia cercasi

    A Spencer Street a Melbourne, nella nuova sede della Victoria Police – VicPol – polizia di stato, partecipo a un meeting con la nuova squadra anti-crimine organizzato e la squadra omicidi, con i rispettivi analisti, cioè quelli che lavorano l’intelligence – i mezzi di ricerca della prova.

    Non è la prima volta che li incontro ma – ed è questo un altro problema – le squadre cambiano spesso, la rotazione interna è brutale, pochi stanno sullo stesso progetto oltre 2 o 3 anni. Creare conoscenza storica del fenomeno – soprattutto quello mafioso – richiede ovviamente molto di più. In molti dentro VicPol hanno conoscenza del fenomeno dell’onorata società, anche da un punto di vista “storico” di criminalità urbana, ma non sono sempre questi a guidare le indagini. Ad ogni modo, anche oggi, un sottogruppo della squadra contro il crimine organizzato, prevede indagini su Italian Organised Crime (IOC) dentro cui ci sono vari detective, ispettori, sergenti e analisti che si occupano di seguire uno specifico target o più target, spesso – ma non sempre – legati al traffico di stupefacenti.

    Un fotogramma del video dell’operazione Ironside condotta dalla AFP

    Dopo l’operazione Ironside del 2021 e 2022 infatti – che ha portato all’arresto di oltre 700 persone coinvolte nel traffico di droga in tutta Australia – si è chiarito che “gli italiani” sono fondamentali per le importazioni e stanno una spanna sopra gli altri nella catena logistica del narcotraffico. Le indagini di droga sono sicuramente più semplici e dirette, e ovviamente frequenti.

    La struttura dell’onorata società

    Ma il focus del nostro meeting non sono i traffici cocaina o metanfetamine – entrambe droghe prescelte dai clan locali in quanto sorprendentemente ancora più redditizie che altrove in Australia – bensì la struttura dell’onorata società oggi in Australia e come questa struttura si lega alla criminalità locale a Melbourne e dintorni. Sì, perché struttura di ‘ndrangheta e criminalità organizzata locale non sono necessariamente legate. Che vuol dire? Essenzialmente due cose: primo, esiste una fetta di onorata società, nello stato di Victoria, tra le città di Melbourne e Mildura, che non “fa crimine” o almeno non direttamente, non nel senso di contravvenzione di norma penale per le leggi australiane (ricordiamo che l’appartenenza alla mafia non è qui reato). Secondo, e in perfetta continuità con gli anni ‘60, non tutta la criminalità “italiana” è riconosciuta o riconoscibile come onorata società, quindi, bisogna chiedersi in che rapporto siano i clan di ‘ndrangheta con gli altri “italiani” generici.

    Antimafia Australia? Reati associativi anticostituzionali

    Infatti, quanto è diverso quello che accade nella onorata società rispetto a quello che accade in altri gruppi cosiddetti etnici, inclusi altri italiani, o anche libanesi, cinesi, albanesi, per esempio? La ‘ndrangheta è organizzazione criminale transnazionale, dunque poter “attivare” i contatti da fuori rimane un vantaggio anche in Australia. Ci sono poi profili comportamentali degli ‘ndranghetisti che vanno a influenzare le loro scelte, più che i loro affari criminali: chi succede a chi, come ci si incontra, chi conta di più e perché e via discorrendo. Appunto, esiste una fetta di ‘ndrangheta australiana che non è direttamente coinvolta nella criminalità organizzata per gli inquirenti, ma che è ragione costituente e costitutiva dell’attività criminale di altri, anche a causa di una reputazione appunto creata sul territorio da decenni. Il reato associativo però è anticostituzionale in Australia: si può rispondere di concorso -intenzionale, sostanziale – ma non di reato per associazione. E questo non cambierà facilmente in quanto contrario ai principi del diritto – sacrosanti – locali.

    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    Migranti di “successo”?

    Come si fa, dunque, a indentificare il rapporto che intercorre tra un businessman di successo, a capo di una squadra di calcio locale o di un impero del mercato ortofrutticolo, e il traffico di stupefacenti portato avanti ora o qualche anno fa da membri della sua famiglia? Abbondano le mappe familiari, si conoscono le dinastie storiche, i cognomi sono sulla bocca di tutti i presenti. Il legame tra reputazione e criminalità è spesso solo superficialmente esplorato e compreso. Mi viene chiesto se conosco un certo Pasquale C. o Diego L., oppure come penso sia organizzata la famiglia di Tony M. Tutti cognomi calabresi, migranti di una, due o tre generazioni fa, tutti italo-australiani e spesso persone che appaiano tra i “migranti di successo”, le storie che si raccontano qui da noi su chi ce l’ha fatta all’estero, esempio e invidia per molti. I loro soldi? Le loro fortune? Spesso avvolte in un mistero non tanto misterioso quando si allarga l’orizzonte di veduta e si nota da una parte la capacità di certi soggetti di impegnarsi sul serio nel mondo del lavoro, e dall’altro i cosiddetti “aiuti da casa”, somme di denaro che circolano in donazioni o trasferimenti interni alle famiglie di dubbia provenienza.

    ‘Ndranghetisti alle cene di beneficienza

    E ancora, se ad una cena di beneficienza del valore di oltre 2 milioni di dollari australiani (1 milione e duecento euro circa) partecipano magnati dell’industria, costruttori, ma anche ‘ndranghetisti o presunti tali, o le loro famiglie non direttamente coinvolte in criminalità organizzata, come “leggere” questo mischiarsi di ruoli intenti e amicizie strumentali che porteranno quasi certamente a più affari in comune? Per esempio, quando crollò parzialmente un palazzo a Melbourne l’anno scorso, tra gli investitori vennero notate varie persone del sottobosco criminale, al fianco dei costruttori. Galeotta fu la cena di beneficienza, appunto. Provare i rapporti tra crimine, denaro e potere non è cosa da poco e richiede prima di tutto una comprensione delle strutture criminali.

    Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

    Uno dei mezzi che notoriamente aiuta gli inquirenti in tutto il mondo – eredità sicuramente anche dell’ingegno del giudice Giovanni Falcone – è il cosiddetto “follow the money” – il metodo per cui se si seguono i flussi finanziari si arriva a capire la struttura criminale. Il “follow the money” è un’aspirazione frustrata in Australia. AUSTRAC, l’unità di indagini finanziarie che si dovrebbe occupare di seguire appunto i flussi di denaro e delineare che struttura ci raccontano, non ha sempre la capacità effettiva per farlo a causa di normative che funzionano sulla carta, ma non in pratica eseguite, e a causa di una struttura procedurale per cui le indagini si fermano spesso allo stato e alla giurisdizione di riferimento.

    Indagini spesso in tilt

    In parole semplici, è difficile seguire i soldi nell’attuale legislazione australiana perché gli ordini preventivi sulla ricchezza non giustificata (Unexplained Wealth Order) in teoria mezzo potentissimo di contrasto, non vengono effettivamente seguiti una volta emanati: sono complessi e costosi da gestire. E ancora, se Tony, residente a Melbourne, è considerato da VicPol responsabile di un’importazione di metanfetamine a Sydney, l’indagine va spesso in tilt a causa del confine giuridico tra gli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud (NSW). Interverrà l’Australian Federal Police (AFP), e le indagini subiranno un corso diverso, federale appunto, di difficile coordinamento con le indagini statali che per esempio cercano di capire se Tony è coinvolto o meno nell’omicidio di un avvocato qualche anno fa. Rimarranno due indagini pressoché separate – ergo rendendo impossibile comprendere la reale natura della criminalità in corso. Condividere dati, e indagini, è spesso solo fattibile con l’istituzione di squadre comuni di indagine, che – attualmente in fase di costruzione tra AFP e VicPol e AFP e polizia del NSW – magari porteranno a risultati più importanti sulla criminalità organizzata calabrese.

    I problemi dell’antimafia Australia

    Dunque, i problemi dell’antimafia in Australia hanno a che fare con una concettualizzazione etnica complessa del fenomeno mafioso di matrice calabrese, con la difficoltà di tracciare la ricchezza legata al crimine organizzato quando migra nel “mondo legale” o meglio nel mondo dei poteri – finanziari e politici, e soprattutto con la difficoltà di comprendere come la triade reputazione-criminalità-potere – presente in molti gruppi di criminalità organizzata – si manifesta all’interno di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta in Australia, che può inoltre contare su rapporti e contatti in mezzo mondo.

    Tu chiamale se vuoi… frustrazioni

    Insomma, la strada è lunga, e l’interesse è chiaramente sempre presente. Dopo il meeting in VicPol si va per una birra con qualcuno dei presenti: frustrazione, curiosità, sorpresa, sono comuni. «Tu chiamale se vuoi emozioni»– scherza con me un poliziotto italo-australiano che conosce Battisti. Frustrazione per non riuscire spesso a risolvere le difficoltà amministrative procedurali; curiosità per il mondo della ‘ndrangheta e le sue evoluzioni; sorpresa nello scoprire che la loro ‘ndrangheta è spesso tutta australiana e fa anche attività semi-legali o del tutto legali, e non solo calabrese-transnazionale e dedita al traffico di stupefacenti. Provo le stesse emozioni anche io, nel fare ricerca in Australia su questi temi, come sempre grande palestra di umiltà e di conoscenza.

  • RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    RITRATTI DI SANGUE | Mancuso: affari, massoneria, bombe e sangue

    Una cosca che appartiene, a tutti gli effetti, al gotha della ‘ndrangheta. Hanno agganci ovunque i Mancuso, capaci di sfruttare quel volto “dolce” della ‘ndrangheta per blandire e colludere utilizzando la massoneria deviata come camera di compensazione. Ma, all’occorrenza, in grado di mostrare il volto più cruento. Sul loro territorio di appartenenza, la provincia di Vibo Valentia, non è inusuale anche l’utilizzo di esplosivi per gesti eclatanti. La prova è data, tra gli altri eventi, l’autobomba che uccide Matteo Vinci.

    Come tutte le importanti cosche della ‘ndrangheta, anche i Mancuso hanno costruito molta della propria forza economica grazie al business del traffico di droga. Dialogano da pari a pari con i narcos colombiani e, in generale, con tutto il mondo criminale del Sud America. Già quindici anni fa, nel 2008, una relazione della DIA afferma: «I Mancuso operano nel florido settore del traffico di cocaina, dove sono riusciti ad acquisire un notevole peso, assicurandosi un canale privilegiato con i cartelli colombiani, con i narcotrafficanti spagnoli, spingendosi sino in territorio australiano».

    I Mancuso e le altre cosche

    Un’inchiesta della Procura di Catanzaro, denominata Black Money, mostra la forza della cosca Mancuso di Limbadi, nel Vibonese, , a pieno titolo tra le più potenti famiglie della ‘ndrangheta di tutte le province calabresi. Nel Vibonese, non si muoverebbe foglia senza il placet dei Mancuso. Esplicativa, in tal senso, la sentenza che sancisce l’esistenza della cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona: «Tutte le cosche insediate sul territorio della provincia vibonese fanno capo all’associazione per così dire maggiore dei Mancuso la quale, nel riconoscere alle varie ‘ndrine minori la dignità di organizzazioni autonome e indipendenti, conferisce loro la legittimazione ad operare».

    procura-catanzaro
    La Procura di Catanzaro

    La potenza economica e militare della cosca Mancuso emerge, inoltre, in alcuni procedimenti penali degli anni ’70 e ’80 che attestano i forti e diretti collegamenti con molte tra le altre cosche di ‘ndrangheta di maggior tradizione mafiosa dell’intera regione. In primo luogo, quelle storiche del reggino, specie della Piana di Gioia Tauro. Ma anche le cosche di più antico potere storicamente radicate nelle altre province. Fortissimi e stabili gli intrecci con le cosche della provincia di Reggio Calabria. In particolare, quelli con i Piromalli, i Mammoliti, i Pesce, i Mazzaferro e i Rugolo.
    La cosca Mancuso, in una regione all’ultimo posto in Italia nella graduatoria di reddito ed al primo in quella per tasso di disoccupazione, controlla i cantieri, muove gli autocarri, costruisce alberghi, apre negozi ed assume manodopera.

    Ciccio Mancuso vince le elezioni

    La storia criminale dei Mancuso ha inizio proprio con il loro coinvolgimento nella faida di San Gregorio d’Ippona, con il supporto ai Fiarè contro i Pardea. Siamo nel 1977.
    Ma sono gli anni ’80 a consacrare la forza del casato di Limbadi all’interno dello scacchiere ‘ndranghetista. È, infatti, il 1983 quando viene sciolto il comune di Limbadi, primo centro a subire questo provvedimento, sebbene ancora non vi sia una legge specifica per contrastare le infiltrazioni delle consorterie criminali nelle istituzioni locali.
    Lì, a Limbadi, l’allora capobastone Ciccio Mancuso risultò (da latitante) il primo degli eletti, spingendo il presidente della Repubblica dell’epoca, Sandro Pertini, a intervenire.

    ciccio-mancuso-cosca
    Ciccio “Tabacco” Mancuso

    Nel nuovo millennio, numerose le inchieste giudiziarie che mettono sotto la lente d’ingrandimento la cosca di Limbadi. Dall’indagine Dinasty, che tratteggiò le divisioni all’interno del clan, all’inchiesta Decollo, che invece ricostruì l’asse con i Pesce di Rosarno per il traffico internazionale di droga.
    Da ultima, ovviamente, l’inchiesta “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro sta ricostruendo i legami della cosca con il mondo istituzionale e con quello della massoneria deviata. Da qui, tra gli altri, il coinvolgimento dell’avvocato ed ex parlamentare, Giancarlo Pittelli.

    Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia

    A tratteggiare il ruolo rivestito all’interno della ‘ndrangheta unitaria dalla cosca Mancuso sono numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti parlano del ruolo rivestito dalla famiglia originaria di Limbadi fin dagli anni ’70 e ’80. Gli anni, cioè, della prima e della seconda guerra di ‘ndrangheta, che cambiano il volto della associazione criminale calabrese.

    Tra gli altri, Francesco Onorato: «Dopo la morte di Paolo De Stefano, furono i Piromalli, in particolare Peppe Piromalli e anche Luigi Mancuso, i referenti di Cosa Nostra in Calabria. Quando dico referenti intendo dire che facevano parte di Cosa Nostra, come Nuvoletta, Zaza e Bardellino in Campania. Ciò mi fu spiegato da Salvatore Biondino. “Fare parte” significava che ci si consultava, ci si scambiava favori, anche omicidi. Per quanto riguarda gli omicidi Cosa Nostra, quando chiedeva un favore ai referenti calabresi o campani, partecipava in prima persona con propri uomini all’esecuzione dei delitti».

    andrea-mantella
    Andrea Mantella

    Il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, uno dei più importanti di quelli di ultima generazione nel Vibonese, afferma che diversi membri della famiglia Mancuso avrebbero il grado di “Medaglione”, uno dei più alti all’interno della struttura ‘ndranghetista. E diversi pentiti parlano del ruolo apicale che avrebbe rivestito Luigi Mancuso nel mandamento tirrenico, fungendo da anello di congiunzione tra le cosche del Reggino e quelle della provincia di Catanzaro.

    La riunione di Nicotera

    Non è un caso e, anzi, è indicativo del ruolo fondamentale rivestito dai Mancuso, il fatto che, nel progettare la strategia della tensione di metà anni ’90, la ‘ndrangheta, nel muoversi come si stava già muovendo Cosa Nostra, abbia scelto, per una delle riunioni più importanti (come sancito dal processo ‘Ndrangheta stragista) proprio il territorio dei Mancuso. È la riunione tra cosche di Nicotera Marina, svolta all’interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, legatissima a quella dei Piromalli, come provano diverse sentenze definitive quali Piano verde, Porto e Tirreno. Sulla riconducibilità del villaggio turistico ai clan vibonesi riferiscono diversi collaboratori di giustizia. Notoria l’infiltrazione delle cosche vibonesi nelle strutture ricettive di quell’area. Allora, come oggi.

    nicotera-marina-calabria-italy-4_orig
    La spiaggia di Nicotera

    Ragionevole, quindi, che si sia scelto il loro regno per  avere garanzie sul ruolo dell’importante riunione. L’assise criminale in questione ha avuto un altissimo valore strategico essendo, il suo oggetto, proprio la questione stragista. E non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria. Il che, peraltro, rappresenta una ulteriore prova storica della unitarietà della ‘Ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l’esterno si presentava unita e compatta.

    I Mancuso e la massoneria

    Le intercettazioni svolte hanno evidenziato l’interesse della famiglia Mancuso ad “avvicinare” politici, giudici, esponenti delle Forze dell’Ordine, al fine di ottenere vantaggi, soprattutto di carattere giudiziario o economico. Protagonista è Pantaleone Mancuso, uno degli esponenti più rilevanti della cosca, per la sua peculiare capacità di infiltrarsi, tramite terze persone, in qualificati ambiti sociali, professionali ed istituzionali. Grazie a tali capacità, la cosca ha accresciuto il proprio potere di controllo del territorio e la propria forza di intimidazione nei confronti della popolazione, conscia di essere soggiogata da un’organizzazione mafiosa non solo temibile militarmente, ma anche sorretta da trasversali appoggi esterni.

    cosca.mancuso-pantaleone-zio-luni
    Pantaleone “Vetrinetta” Mancuso

    “Vetrinetta”, così viene appellato il boss, mostra di conoscere bene le dinamiche della ‘ndrangheta e, soprattutto, cosa sia diventata. Forse anche in virtù della sua stessa appartenenza alla massoneria: «La ‘ndrangheta non esiste più! Una volta a Limbadi, a Nicotera, a Rosarno, c’era la ‘ndrangheta! La ‘ndrangheta fa parte della massoneria! […] diciamo… è sotto della massoneria, però hanno le stesse regole e le stesse cose […] ora cosa c’è di più? Ora è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta! Una volta era dei benestanti la ‘ndrangheta, dopo gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori… e hanno fatto la massoneria! Le regole quelle sono… come ce l’ha la massoneria, ce l’ha quella! Perché la vera ‘ndrangheta non è quella che dicono loro… perché lo ‘ndranghetista non è che va a fare quello che dicono loro […] adesso sono tutti giovanotti che vanno a ruota libera, sono drogati!».

    massondrangheta-ce-ne-una-ma-non-chiamiamola-cosi

    Si tratta di affermazioni intercettate di grande valenza, non solo per il contenuto ma, soprattutto, per la caratura del personaggio che le pronuncia, Pantaleone Mancuso: «Ancora con la ‘ndrangheta sono rimasti! È finita! Bisogna fare come… per dire… c’era la “Democrazia”… è caduta la “Democrazia” e hanno fatto un altro partito… Forza Italia, “Forza Cose”… bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole! Il mondo cambia e e bisogna cambiare tutte le cose. Oggi la chiamiamo “massoneria”, domani la chiamiamo P4, P6, P9».

    Limbadi esplode

    Come detto, non è inusuale che, sul territorio della cosca, possano avvenire attentati eclatanti. Il 9 aprile 2018 viene ucciso in contrada Cervolaro a Limbadi Matteo Vinci con una bomba esplosa nella sua Ford Fiesta. Da sempre, sulla morte aleggia l’ombra della ‘ndrangheta e, in particolare, della cosca Mancuso che, secondo l’accusa, sarebbe stata interessata al terreno dei Vinci. Una nebbia mai diradata fino in fondo.

    Per l’attentato, infatti, sono stati fin qui condannati in primo grado, come mandanti, Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara. Dieci anni sono stati comminati nei confronti di Domenico Di Grillo, 73 anni, marito di Rosaria Mancuso, accusato di tentato omicidio per il pestaggio di Francesco Vinci avvenuto pochi mesi prima rispetto all’esplosione. Ma, in un altro procedimento, è arrivata l’assoluzione per i presunti esecutori materiali dell’omicidio.

    matteo-vinci-limbadi
    L’auto di Matteo Vinci devastata dall’esplosione

    Una cosca monolitica, o quasi

    Oggi, quindi, i Mancuso sono una delle cosche più importanti della ‘ndrangheta, con un ruolo crescente su mercati lontani dalla Calabria, come la Lombardia o, come documentato dall’inchiesta su Mafia Capitale, su Roma. Potente perché quasi indistruttibile, con il fenomeno del pentitismo che non la scalfisce. O quasi.

    ndrangheta-intervista-esclusiva-pentito-emanuele-mancuso-i-calabresi
    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)

    Come Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso, detto “Luni Scarpuni”, che aveva deciso di cambiare vita, di sganciarsi dalla cosca, da quell’uomo di cui si era invaghita, ma che adesso era diventato un cappio. Non sottoscrisse mai i verbali della sua prima e unica notte da donna libera. Tornò a casa, dal marito che, nel frattempo, aveva appreso di questa crepa nella vita di Tita. Morì un mese dopo, per ingestione di acido muriatico. Suicidio, secondo lo stesso Pantaleone Mancuso, che informò i carabinieri del fatto. Fu anche indagato per istigazione al suicidio. Punito per vari reati, si trova oggi al 41bis. Non per quello, però.
    Chi, invece, i verbali li ha sottoscritti è Emanuele Mancuso, il primo pentito con il cognome Mancuso della storia. Ha raccontato e sta raccontando le cose del clan che, come nelle tradizioni della ‘ndrangheta più alta, sono cose di soldi e di sangue.

  • MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    MAFIOSFERA | Donne e ‘ndrine: le good mothers dei Barbaro

    Dal 5 aprile, sulla piattaforma Disney+, è disponibile The Good Mothers. La serie tv racconta le storie di Lea Garofalo, di sua figlia Denise, di Giuseppina Pesce e di Maria Concetta Cacciola. Donne che hanno messo in difficoltà l’organizzazione maschile della ‘ndrangheta. E che con le loro rivelazioni – e le loro scelte – hanno contribuito alle indagini della magistratura, rischiando, e a volte pagando con la propria vita. A febbraio The Good Mothers ha vinto il premio come miglior serie nella sezione Berlinale Series al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
    Non sono storie nuove, quelle raccontate dalla serie. Ma, proprio perché non sono nuove, forse permettono una riflessione più incisiva sul rapporto tra mafia e mondo femminile, in una terra, come la Calabria, o in comunità calabresi fuori regione, dove il femminile costantemente deve negoziare i propri spazi.

    Un podcast sulle donne e la ‘ndrangheta

    In occasione dell’uscita di The Good Mothers, dunque, si è voluta fare questa ulteriore riflessione. L’occasione è stata un podcast, sponsorizzato da Disney+ e prodotto da Il Post che ha affiancato una serie di spunti analitici da parte della sottoscritta, su ‘ndrangheta, femminile e donne, alla voce del giornalista Stefano Nazzi, notoriamente conosciuto agli amanti dei podcast per Indagini, da mesi primo in classifica in Italia.

    good-mothers

    Il podcast, che si chiama Le Onorate, è una conversazione sull’onore nel mondo mafioso e sull’importanza dell’altro lato dell’onore – la sua luna come la chiamiamo – cioè il mondo femminile che di quell’onore si deve fare, volente o nolente, garante. Raccontiamo alcune delle storie di The Good Mothers anche nel podcast, ma cerchiamo anche di andare oltre, con altre storie, per superare la dicotomia donne-vittime o donne-carnefici e essenzialmente riconoscere la “normalità” di molte delle donne che stanno attorno e dentro ai sistemi mafiosi. E infine, ovviamente, parliamo anche delle donne contro, includendo una riflessione sul rapporto che si istaura tra magistrati/e e mafiosi/e e come questo possa rivelarci molto di come alcune indagini si evolvono.

    Ruoli e capacità d’azione

    Tre puntate di podcast, sei di serie tv, libri e studi accademici, certamente non completano l’universo del femminile nel sistema ‘ndrangheta. Come ricorda Ombretta Ingrascì, esperta proprio negli studi di donne e mafia, guardare a queste donne pone infatti un problema di agency – capacità di azione – di queste donne: alcune saranno conformiste, altre adempienti, altre trasformative.
    Ma c’è un elemento della mafia calabrese che conta molto per comprendere il fenomeno di oggi, e dove proprio il ruolo delle donne e l’evoluzione di un discorso di genere meriterebbe più attenzione. Si tratta della dimensione globale della ‘ndrangheta, della presenza di strutture e di attività dei clan in altri paesi del mondo che sicuramente è fatta anche di ruoli cangianti, ambigui, complessi, di madri, figlie, sorelle, nonne e in generale, delle donne.

    ndrangheta-australia-barbaro-etc
    Una mappa di qualche anno fa sulla distribuzione delle cosche italiane in Australia

    Storie di donne e ‘ndrangheta fuori dalla Calabria e dall’Italia sono difficili da rinvenire, per un motivo abbastanza ovvio: è molto difficile spesso individuare – e chiamare come tale – lo ‘ndranghetista fuori dai confini nazionali, ergo è molto difficile raccontare le storie di chi gli sta intorno. Ma guardando a casi che riguardano gli uomini vicini al mondo ‘ndranghetista, si trovano tante tipologie di comportamenti delle donne che gravitano attorno a questi uomini. E come spesso accade, è nell’Australian ‘ndranghetauna delle più evolute manifestazioni globali della mafia calabrese fuori dall’Italia – che si trovano esempi di una varietà di comportamenti più o meno ortodossi nell’universo femminile mafioso.

    Donne e ‘ndrangheta in Australia: la famiglia Barbaro

    Una delle famiglie più esposte della ‘ndrangheta in Australia è sicuramente la famiglia Barbaro. È una dinastia criminale di stampo ‘ndranghetista originaria di Platì, da decenni attiva tra il Nuovo Galles del Sud, lo stato di Victoria, il Queensland, ma anche nella capitale Canberra. Ed è pure una famiglia notoriamente legata alla criminalità organizzata locale, soprattutto nella città di Melbourne. Ergo, è spesso protagonista di atti violenti, effettuati e subiti.

    ellie-price-barbaro-australia-ndrangheta
    La bara di Ellie Price al suo funerale

    Ellie Price, di 26 anni, fu uccisa nel maggio del 2020 a Melbourne: Ricardo ‘Rick’ Barbaro è ad oggi sotto processo per il suo omicidio. Si dichiara non colpevole. Anzi, il suo avvocato fa notare come la Price fosse «una donna che aveva problemi mentali, abusava di sostanze, era una persona solitaria e aveva un comportamento erratico». Barbaro però si era dato alla fuga per oltre dieci giorni in seguito al rinvenimento del corpo di Ellie Price.

    ricardo-rik-barbaro-ndrangheta-australia
    Ricardo Rick Barbaro

    Proprio in quei giorni, Anita Barbaro, formalmente Anita Ciancio, ultima moglie del padre di Ricardo fece appello affinché Rick si facesse trovare. Una rara apparizione nella famiglia, e da parte di una donna che si appella alla cura e alla responsabilità. Una donna la cui immagine viene spesso associata all’ordine e alla maternità nella famiglia in questione. Diceva infatti Anita Barbaro: «Ricky ti prego di farti avanti e di fare la cosa giusta per il bene di questa povera giovane donna e della sua famiglia e per il dolore incomprensibile che devono provare, devi metterti in contatto con qualcuno». E ancora «Hai una figlia e delle sorelle minori, se questo fosse accaduto a loro avresti bisogno di sapere cosa è successo».

    Una lunga scia di violenza

    Il padre di Ricardo Barbaro è Giuseppe Dom “Joe” Barbaro, condannato per reati legati agli stupefacenti. Una scia di violenza è associata agli uomini di questo ceppo della famiglia una volta platiota. Questi Barbaro furono per esempio sospettati di aver giocato un ruolo nell’omicidio di Colin Winchester, vicecapo della polizia federale ucciso nel 1989. Cugino di Joe era Pasquale Barbaro, ucciso insieme al gangster Jason Moran mentre assisteva a un allenamento di calcio per bambini a Essendon nel 2003. Il padre di Joe era Pasquale Barbaro ‘il Principale’, forse il primo ‘collaboratore di giustizia’ di ‘ndrangheta in Australia, ucciso a Brisbane nel 1990. Il Principale era parte di quel gruppo mafioso che negli anni ’70 e ’80 coltivava i “castelli d’erba” a Griffith, nel nuovo Galles del Sud.

    rossario-barbaro-ndrangheta-australia
    Rossario Barbaro

    Il fratello di Rick, Pasquale Tim Barbaro, ucciso a 35 anni a Sydney, nel 2016, da un gruppo di associati del suo gruppo criminale (non italiani o italo-australiani). Circa sei mesi dopo l’uccisione di Pasquale, il fratello Rossario (sic!) si tolse la vita, caduto in una profonda depressione. La ex moglie di Pasquale Tim, Melinda Barbaro – i giornali riportano che fa l’imprenditrice, non meglio specificato in che settore – dirà che suo marito «era un tipico italiano e amava tutto ciò che aveva a che fare con la religione e il cibo», ma che il carcere lo aveva cambiato.

    pasquale-melinda-barbaro-ndrangheta-australia
    Pasquale Tim Barbaro e la sua ex moglie Melinda

    I due si erano separati nel 2013. Pasquale Tim Barbaro si era legato a Chantel Baptista, una ragazza di origine portoghese definita dagli amici “bellissima”, “glamour” e “social butterfly”, esibendo grandi abilità di socializzazione. Insomma, una famiglia alla ribalta nel mondo criminale, che con i codici di ‘ndrangheta sembra entrarci molto poco – a parte forse il tatuaggio ‘Malavita’ al collo di Pasquale Tim e di Rossario Barbaro.

    In fuga dai Barbaro

    Otto figli, nati da tre donne diverse e non tutte italiane, dal patriarca Joe. Da Joe e Anita Ciancio, ad esempio, è nata nel 2004, Montana. Montana aveva solo tre settimane quando la rapirono dal passeggino in centro commerciale di Brimbank, un sobborgo di Melbourne. La ritrovarono due giorni dopo con la testa rasata in una casa abbandonata a nord della città, un passante aveva sentito le sue urla. Era stata rapita non per motivi di criminalità organizzata, si disse.

    anita-ciancio-barbaro
    Anita Ciancio tiene in mano la piccola Montana Barbaro poco dopo il ritrovamento della bimba

    Nel 2020, ormai teenager, Montana scomparve di nuovo. La ritrovarono quasi subito in quanto – venne rivelato – stava tentando di scappare. Voleva raggiungere sua sorella maggiore Sienna, figlia di un’altra moglie di Joe Barbaro, in tipico atteggiamento adolescenziale, si disse. Anche Sienna però, nel 2018, a soli 15 anni, sparì dalla circolazione e la famiglia dichiarò di non sapere dove fosse o dove vivesse. Un’altra figlia di Joe, Letesha, a quanto pare, scoprì dell’esistenza delle sorelle soltanto in occasione del rapimento di baby Montana. La prese malissimo, in quanto cresciuta come la preferita di papà mentre viveva con sua madre, una donna di origine non italiana, a Canberra.

    Barbaro, donne e ‘ndrangheta 3.0 in Australia

    Si tratta di ragazze e donne con capacità di azione, sicuramente. Prodotto del sistema, influenzate dagli uomini intorno a loro, ed eredi del cognome, spesso non vittime né tantomento carnefici. Donne che, come ricordiamo nel podcast Le Onorate, normalizzano la famiglia mafiosa-gangsteristica, quando ovviamente questa famiglia non le distrugge apertamente (a volte nel vero senso della parola). I loro profili social rivelano un attaccamento tra di loro e in generale alla famiglia – Sienna e Montana si dichiarano calabresi – e rivelano anche un’assunzione di modi di fare gangsteristici, inclusi gli stereotipi di donna-gangster dall’aspetto appariscente – capelli biondi tinti oppure trucco pesante. Se questa dei Barbaro in Australia è ‘ndrangheta, è ‘ndrangheta 2.0 o anche 3.0.

    chantel-baptista
    Chantel Baptista

    Insomma, nella famiglia Barbaro essere donna significa tante cose. Ellie Price viene uccisa, Melinda si allontana dalla famiglia, Chantel si godeva la ribalta, Montana rapita da bimba prova poi a fuggire di casa da teenager, Sienna fuggita via poco meno che maggiorenne, e Anita cerca l’ordine. È una famiglia su cui sicuramente da un punto di vista analitico bisognerebbe fare un lavoro di ricerca più approfondito, per capire quanto l’essere nate in una dinastia mafiosa condizioni, determini, influenzi, le paure e le scelte, come le maschere e le azioni, di tutte queste donne. Chiaramente australiane eppure legate, in qualche strano modo, ancora a noi, qui in Calabria.

  • IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    IN FONDO A SUD| Vattienti a Nocera Terinese: se l’ossessione per la sicurezza cancella la storia

    Non mi dilungo su origini e significato del rito dei Vattienti di Nocera Terinese. Faccio l’antropologo di mestiere, la vicenda è nota, ed è già stata accuratamente studiata. Io stesso ho dato nel corso del mio insegnamento di antropologia culturale numerose tesi sull’argomento. C’è di mezzo la «vituperata e primitiva religione dei poveri». E i vattienti altro non sono che «una delle mille forme della religione popolare dei poveri» che caratterizzò – parole di Michel Vovelle – l’Europa di prima della rivoluzione industriale.

    I Vattienti di Nocera come la tribù Chimbu

    Dunque una significativa sopravvivenza. Che già ritroviamo trattata alla stregua di una stranezza pruriginosa, retaggio dei “primitivi di casa nostra”, nel film Mondo Cane, pellicola del 1969 del regista Gualtiero Jacopetti, che impaginava i vattienti di Nocera Terinese in un documentario di carattere senzazionalistico. Il film accoglieva i vattienti come esempio limite delle “superstizioni in Europa”, in mezzo a una sorta di catalogo di immagini forti di riti cruenti e di scene di violenza e sesso riprodotte “dal vero”, arditamente estrapolate da “culture selvagge” che andavano dalla Guinea al Borneo, dalla Malesia al Giappone, fino alle bizzarrie del matriarcato nelle Isole Bismark alle feste della tribù Chimbu, per tornare appunto in Calabria, col rito dei flagellanti di Nocera, documentando così in modo eccentrico tradizioni diffuse “tra i civili e i primitivi”, con scene salienti proposte per soddisfare il guardonismo e le curiosità morbose del pubblico dei cinema popolari.

    Il rito dei vattienti di Nocera Terienese negli ultimi decenni è andato poi soggetto di una forte esposizione mediatica, costretto anche a qualche forzatura, e soffre della tentazione di una sua facile e superficiale spettacolarizzazione, persino a scopi turistici.
    Si è anche trasformato al suo interno, vi partecipano non solo devoti. È una tradizione che si è estesa a giovani, emigrati, persone in difficoltà per ragioni di lavoro, di salute o di dipendenze. Cambiano le figure dei vattienti, ma i riflessi umani del rito fanno sempre capo a un disagio, a sofferenze intime o manifeste. Invariata ne resta la funzione: in una condizione di vita subalterna tipica di popolazioni marginali e della religione dei poveri, il corpo di chi si “batte” viene messo a disposizione di un sacrificio, il sangue offerto ad una richiesta di reintegrazione.

    chimbu-vattienti-nicera
    Papua Nuova Guinea, gli scheletri danzanti della tribù Chimbu

    Un paese risacralizzato

    È questo che consente ancora di situare nell’ordine del sacro un rito considerato oggi vieppiù un residuo di arretratezza meridionale che fa storcere il naso a molti benpensanti, anche in ambito ecclesiale. Nella realtà della sua celebrazione è tutto il corpo mistico del paese, ogni suo spazio e anfratto, che viene coinvolto e ripercorso, letteralmente ri-sacralizzato in ogni sua estensione materiale e simbolica dal percorso che la processione e il rito dei vattienti conferma e ripete ogni anno.
    I vattienti in giro per il paese nella processione del Venerdì santo sono il pennino rosso che ridà vita a stradine e vicoli deserti, case svuotate dall’emigrazione, luoghi e memorie ormai disabilitate dalla vita contemporanea. Ci si batte davanti alle chiese, alle edicole dei santi, dinanzi alle proprie abitazioni. E ci si prostra dinanzi alla statua della Madonna Addolorata in segno di devozione, ma soprattutto si versa sangue, come nel sacrificio del Cristo flagellato.

    madonna-addolorata-leonardo-perugini
    La Madonna Addolorata di Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Così il rito dei vattienti di Nocera Terinese commemora un legame con il sacro, e insieme, la comunione necessaria tra luoghi e persone, l’essere cioè iscritti come presenze entro uno stesso circolo vitale, presenti e agenti nello stesso spazio del paese, soggetto come tanti altri alla crisi di una presenza storica e simbolica.
    Come accade alla figura del Cristo, attraverso il sacrificio del sangue versato e asperso, la presentificazione della morte viene sconfitta e riemerge la vita. I vattienti imitando il sacrificio del Cristo, attraversano la morte senza morire, ridando vita così anche allo spazio del paese e alla sua intera comunità. Dunque un passaggio di rilevante importante fondativa, tramandato dal rito che si rinnova nell’orizzonte storico delle pratiche identificative della comunità locale.

    Sicurezza innanzitutto: niente più vattienti a Nocera

    Accade adesso che la Commissione Straordinaria di nomina prefettizia (il comune di Nocera Terinese da un po’ di tempo è privo di un sindaco) abbia deciso di vietare con un provvedimento “di tutela sanitaria” la tradizionale processione e riti del venerdì santo con la presenza dei vattienti, definito sbrigativamente «evento tipico di epoche lontane». Le autorità supplenti non solo hanno vietato il rito con la prevista aspersione del sangue dei vattienti a causa di presunte pericolosità “valutate, nel contesto attuale, dal punto di vista igienico sanitario”, impedendo così il marcamento di impronte su porte e muri oggetto della tradizionale sacralizzazione dello spazio e dei luoghi simbolici del paese, ma hanno persino mutilato la tradizionale celebrazione religiosa, abbreviandone il percorso liturgico.

    madonna-processione-vattienti-nocera
    La Madonna portata in processione a Nocera Terinese (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Le autorità «hanno accorciato pure il percorso della processione del Sabato Santo. La via della Madonna, in centro storico, non si può più percorrere, sempre per motivi di sicurezza», osserva dal canto suo Angela Sposato, giornalista e scrittrice originaria di Nocera Terinese. Il totem dei tempi nuovi è dunque la Sicurezza, un apriti sesamo della modernità e dell’autorità dello stato, che impone le pratiche securitarie in sostituzione di quelle tramandate dalla comunità e dalla sua secolare cultura storica e identitaria. Le “superiori ragioni” della sicurezza, sempre più invocata e imposta quando più incerto diventa l’orizzonte dei valori, la stabilità economica e sociale, più vacillante l’antidoto di una cultura locale che segna la linea del tramonto dei riferimenti etici e di costume tradizionali.

    Il passato rimosso

    Argomenti molto delicati, ma neppure la autorità ecclesiastiche ufficiali – spesso apertamente ostili a questo tipo di manifestazioni della fede popolare – erano riuscite a fermare la celebrazione di un rito secolare, che nel piccolo centro appenninico affacciato sul Tirreno si celebra almeno da quattro secoli a questa parte. «Neanche la chiesa ufficiale non può essere contraria ad una devozione che viene regolata dalla diocesi», si ricorda adesso da più parti. In casi simili sarebbe certo più rispettoso ascoltare le voci della comunità, le ragioni delle persone che eseguono il rito e che per mezzo del loro corpo, ferendosi, rendono partecipe di questo sacrificio la comunità intera che lo vive per il loro tramite.

    nocera-terinese
    Un panorama di Nocera Terinese

    Si può discutere all’infinito sul senso di questi riti “ancestrali” che sono sopravvissuti e giunti oggi sino a noi alla stregua di sopravvivenze di un passato rimosso che sempre più difficilmente trova posto in un mondo secolarizzato e dissacrato come il nostro. La realtà del nostro tempo è sempre più attratta dal primato della tecnica, la società oramai è sovradeterminata da un laicismo di facciata che asseconda le nuove superstizioni del denaro e del potere economico che governano tutte le nostre relazioni. Un’ideologia dell’economico che tutto cancella imponendo il primato dell’utile anche nelle scelte simboliche e nella qualità etica delle nostre esistenze individuali e collettive.

    Un sopruso culturale contro la religione dei poveri

    La «religione di poveri» col suo residuo di sacralità e di ritualità «irregolari», un esempio delle innumerevoli «metamorfosi della festa» di cui ci parlava lo storico dell’ideologia francese di ispirazione marxista Michel Vovelle in un suo saggio dallo stesso titolo, in questo panorama pervasivamente sovragovernato dalle istituzioni dello Stato, dalle leggi di un’economia sempre più inflessibile, dalla prepotenza della tecnica e da istanze di regolarizzazione di tipo securitario, ha e avrà sempre meno chance. A questi rituali resta una fragile ragion d’essere nella loro stessa vigenza, in una sopravvivenza che si prolunga nonostante tutto. Finché una comunità è e sarà in grado di decidere autonomamente di riassumerli e di mantenerli in vita, la loro funzione culturale e simbolica sarà giustificata e garantita.

    michelle-vovelle-vattienti-nocera
    Michel Vovelle

    Mettere fine d’autorità e per decreto a questi “atti di autoflagellazione e conseguente spargimento di sangue” tipici della fede popolare, col pretesto che il rito tradizionale, com’è ovvio, “non trova alcun riscontro nelle vigente normativa pubblica in materia sanitaria”, in questo caso, a mio avviso, rappresenta, in termini culturali prima ancora che di diritto, un atto di arbitrio e di sopruso.

    Con l’ordinanza di divieto il potere costituito produce un dispositivo legale il cui scopo – nemmeno tanto recondito – è quello di ricondurre i vattienti a una disciplina dei corpi di tipo sanitario e securitario. Impedendo loro di manifestare e ripetere col rito la libertà scandalosa di disporsi temporaneamente fuori dalle regole, ricreando uno spazio materiale e simbolico locale, alternativo e fondativo di un “altrove” ritualizzato dal sacro per mezzo di un diverso sapere del corpo, l’autorità intende sorvegliare e punire, normalizzando foucaultianamente l’eccezione e lo scandalo del suo retaggio tradizionale, per cancellarne infine il gesto e la memoria tramandata.

    Cultura, salute, autodeterminazione

    Una spia accesa, dunque, sulla temperatura inospitale dei nostri tempi privi di finalità e di autentici scopi di umanizzazione della realtà. Oltre che una prova dello spazio reale sempre più ristretto e residuale riservato alla libertà culturale e di autodeterminazione delle comunità locali, dato che «la violazione dell’ordinanza è punita ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, nonché delle ulteriori sanzioni di legge», con il compito di far rispettare la norma assegnato a Carabinieri, Polizia e Polizia Locale, come ricordato in calce dal documento prefettizio.

    Le autorità prefettizie non a caso ribadiscono a giustificazione del divieto della celebrazione del rito «le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e dell’ambiente»; quindi un’offesa all’igiene e pericoli per la salute, troppo sangue per strada, troppo sangue asperso; o non si tratta forse di impedire uno spettacolo considerato ormai troppo osceno e incomprensibile per le sensibilità correnti nei nostri tempi sanificati dalle fobie di contagio e turbate dalla lunga degenza del Covid?

    vattienti-nocera-carabinieri
    Un carabiniere nella processione degli anni scorsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Ma che cos’è cultura?

    Un’obiezione si leva ancora per voce della scrittrice Angela Sposato: «La grave censura contro i riti della Settimana Santa a Nocera Terinese da parte delle istituzioni, svela tutto il disastro culturale della nostra contemporaneità, l’ignoranza assoluta in ambiti complessi come il senso della nostra “Festa”: un convito intimo di amici (paesani) che riconnettono l’identità in una fraterna agàpe (ἀγάπη), l’amore più disinteressato; svela pure il neo-oscurantismo culturale in cui è cultura oggi solo ciò che rimanda al politicamente corretto, mondato da “cattive” prassi e affidato alla mediazione di qualunquisti e retori umanisti ciarlieri scelti dal sistema che ci vuole assoggettati alle regole della burocrazia. I magistrati del gusto e del giusto, non sono e non saranno mai cultura, né progresso. Il rito per noi noceresi è elemento vitale, è incontro col Sacro. Sacro, ancor prima che Santo».

    I Vattienti a Nocera nel passato

    Dal canto suo anche lo studioso locale Franco Ferlaino, difendendo la pratica secolare di questo rito della fede popolare, ribadisce come «a memoria d’uomo, la Settimana Santa nocerese non ha mai creato problemi di ordine pubblico (semmai li hanno creati alcuni vescovi del secolo scorso), né di ordine sanitario, né di ordine giuridico (e abbiamo testimonianze demologiche fin dalla seconda metà del secolo XIX). Ogni altra supposizione è arbitraria e infondata». Riguardo ai protagonisti del rito, i vattienti poi: «nessun “fratello” si mai è fatto male. Nessuno li ha mai obbligati; anzi lo hanno sempre fatto con trasporto e sentimento… la gente di paese non ha un solo punto di vista su queste cose… è molto più aperta, democratica e tollerante, anche se in genere la si descrive addebitandole un oscurantismo d’altri tempi. Credetemi, si tratta solo di sapersi porre nella condizione di intenderlo il nostro rito».

    vattienti-sughero
    Gli strumenti utilizzati dai Vattienti a Nocera per flagellarsi (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Priorità

    Che dire infine, da un punto di vista etico, se appena allarghiamo lo sguardo oltre il contesto? Ogni giorno respingiamo brutalmente il salvataggio in mare di vite umane di gente inerme, che fugge dalla guerra e cerca di sopravvivere a fame e conflitti. Viviamo sotto la minaccia costante di violenze, caos e pericoli di ogni sorta. Avveleniamo la natura. Produciamo armi e le vendiamo senza troppi scrupoli. Inviamo con autorizzazione parlamentare ordigni letali e armamenti pesanti che serviranno ad alimentare la distruzione sistematica di vite umane, pur sapendo di procurare – altrove – morte a domicilio in un conflitto sanguinosissimo che si svolge alle porte dell’Europa.

    E però diventa un problema di sicurezza se in un paesino della Calabria, mezzo spopolato e in crisi di identità e di futuro, un gruppetto di paesani e di emigrati di ritorno devoti al Cristo flagellato e alla Madonna Addolorata, per ripeterne simbolicamente il sacrificio e la parabola di morte e rinascita, si procura, volontariamente, per scopi religiosi e rituali e senza causare violenza alcuna, la fuoruscita di sangue da ferite superficiali che si rimargineranno dopo una settimana.

    I vattienti di Nocera e il corpo come feticcio

    Viviamo decisamente in tempi post-umani in cui il corpo di esseri umani di ogni età e genere viene ovunque esibito e dissacrato, offerto sull’altare della più volgare banalizzazione pornografica della sua integrità e dignità, e quindi venduto, scoperto, indagato, spiato, alterato a piacimento, e come oggetto smembrato, narcotizzato, proposto come quotidiano pasto nudo da consumare, imposto come prodotto da pubblicità e media che lo espongono sugli scaffali reali e immaginari dei nostri empori commerciali. Insomma il corpo umano è, sotto i nostri occhi e senza disagio alcuno per le nostre coscienze stordite, sempre più ridotto a dominio e feticcio di ogni potere, soggetto ad ogni prepotenza e commercio che lo scambia come merce tra le merci.

    vattienti-nocera-mario-leonardo-perugini
    Mario, uno dei vattienti di Nocera Terinese, in processione (foto Leonardo Perugini, dal reportage “Deliver us from evil”)

    Dissanguati sì, ma da povertà ed emigrazione

    E davvero farebbe scandalo e pericolo il sangue asperso al mattino del Venerdì Santo, offerto silenziosamente come voto e in preghiera dagli ultimi vattienti di Nocera Terinese? Sono questi testimoni sparuti di una fede umile che sopravvive sui margini violati della storia, il pericolo incontrollabile che si aggira tra i vicoli di un paesino dissanguato sì, ma da povertà ed emigrazione; loro che in un convegno religioso di poche anime che si rinnova da secoli non cercano e non chiedono altro che trovare un appiglio e un conforto grazie ad un rito collettivo e all’oltraggiosa resistenza di una pratica di fede popolare?
    Sono loro il difetto, la minaccia all’ordine, l’infezione sociale, quelli da sorvegliare e punire, la realtà da rimuovere dall’inflessibile dispositivo di potere che controlla le nostre vite e il nostro mondo?
    Siamo diventati, mi chiedo, davvero tutti così ammalati di intransigenza, così mediocremente, conformisticamente e ipocritamente “civili”?

    Quasi tutte le immagini all’interno dell’articolo fanno parte del reportage “Deliver us from evil” del fotografo Leonardo Perugini sui Vattienti di Nocera Terinese. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo sulle pagine de I Calabresi. Riproduzione vietata.

  • MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Australia, la grande isola dell’arcipelago ‘ndrangheta

    Ci sono due storie della ‘ndrangheta in Australia. Una la conoscono quasi tutti ormai. È la storia della più potente mafia d’Italia che, soprattutto dagli anni ’90 in poi, ha fatto fortuna in giro per il mondo grazie a un florido mercato degli stupefacenti e a una resilienza dovuta alla capacità di adattarsi ai cambiamenti, di allearsi con vari altri gruppi criminali. E, ovviamente, di mimetizzarsi all’interno della società civile che viene sia vittimizzata sia inesorabilmente manipolata dalla presenza di capitali e di interessi mafiosi sui vari territori.

    L’Australia e l’arcipelago ‘ndrangheta

    È una storia in cui la magistratura e la società civile hanno registrato importanti passi in avanti soprattutto dalla fine degli anni 2000, gli anni ruggenti delle operazioni Crimine a Reggio Calabria e Infinito a Milano. Sono gli anni di processi che finalmente arrivano a compiere quello che si tentava di portare a compimento da anni: dichiarare e riconoscere la ‘ndrangheta come un’organizzazione criminale unitaria e con propaggini fuori dalla Calabria, incluso il Nord Italia, ma anche l’estero, Canada, Germania, Svizzera e anche Australia.

    Sicuramente molto si sapeva già, prima di Crimine-Infinito, soprattutto perché altre indagini – principalmente, ma non soltanto quelle di droga (pensiamo alle operazioni Decollo nei primi anni 2000) – avevano già visto i clan calabresi protagonisti del narcotraffico. Eppure, con Crimine-Infinito si arriverà, nel 2016, a una conferma che servirà per il futuro: la ‘ndrangheta ha una struttura unitaria, per quanto i clan mantengano una propria indiscussa autonomia criminale. L’arcipelago ‘ndrangheta è fatto di tante isole, a nome collettivo e a interesse e brand comune.

    L’unione fa la forza

    Da allora, il ‘marchio’ ‘ndrangheta è soltanto cresciuto. Fino ad arrivare al 2023 a un consenso generale, non solo in Italia, sulla pervasività della mafia calabrese tanto nel mercato globale di cocaina e altri stupefacenti, quanto anche nell’economia legale. Il progetto I-CAN, Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta, nato nel 2020, guidato dall’Italia e composto per ora da 14 paesi, si prefigge proprio un tipo di azione globale che si confa a una minaccia considerata, appunto, globale.

    interpol

    Si legge sul sito di I-CAN: «L’insidiosa diffusione della criminalità di tipo mafioso rappresenta una minaccia unica e urgente, poiché i forti legami familiari e le pratiche politiche e commerciali corrotte le consentono di penetrare in tutti i settori della vita economica.
    Spinta dal potere e dall’influenza, la ‘Ndrangheta è coinvolta in un’ampia gamma di attività criminali, dal traffico di droga e riciclaggio di denaro, all’estorsione e alla manipolazione degli appalti pubblici. Questi enormi profitti illegali vengono poi reinvestiti in attività commerciali regolari, rafforzando ulteriormente la presa dell’organizzazione e inquinando l’economia legale».

    Il Barbaro di Melbourne

    L’Australia è partner del progetto I-CAN. Ciò conferma che non solo la ‘ndrangheta ha una presenza globale molto lontana da casa, ma anche che il fenomeno ‘viaggia’ a diverse latitudini e prende forme diverse, seppur riconoscibili.
    Mentre si portavano avanti gli arresti per Crimine-Infinito il 13 luglio 2010, a compimento di due anni di indagine, a Melbourne una corte stava occupandosi di un soggetto, Pasquale Barbaro, arrestato un paio di anni prima all’interno di Operazione Inca, guidata dalla Polizia Federale Australiana (AFP). Avrebbe deciso, nel dicembre del 2010, che Barbaro era a rischio di fuga e di recidiva, pertanto bisognava respingere la sua richiesta di uscita su cauzione.

    droga-pelati-australia-ndrangheta
    La droga nei barattoli di pelati sequestrata a Barbaro e i suoi soci

    Barbaro, cittadino australiano, doveva rispondere a una serie di accuse per attività di importazione, traffico e distribuzione di MDMA e cocaina insieme ad altri, nonché riciclaggio di denaro, il tutto tra il 2007 e il 2008. Si trattava di quella che è diventata famosa come la Tomato Tin Importation, in quanto lo stupefacente, 4.4 tonnellate di MDMA e 160 kili di cocaina, arrivarono a Melbourne dall’Italia in barattoli di pelati. Quelli della Tomato Tin Importation erano poco più di una decina di uomini, in parte di discendenza italo-calabrese (come, ad esempio, Francesco Madaffari, Saverio Zirilli e Carmelo Falanga) di cui Barbaro era il capo. In quell’occasione la polizia federale riuscì non solo a confiscare la quantità imponente di stupefacente, ma a monitorare la reazione del gruppo criminale così da poter procedere ad arresti e confische.

    barbaro-mdma
    Le pasticche di Mdma sequestrate con impresso il simbolo del canguro

    L’Onorata Società e il delitto MacKay

    A prima vista questa vicenda sembra confermare la prima storia della ‘ndrangheta, la minaccia globale, l’organizzazione unitaria leader nel mercato degli stupefacenti nel mondo. Ma questa è invece la seconda storia della ‘ndrangheta in Australia, l’Onorata Società. E riguarda un gruppo di famiglie – dinastie criminali le dobbiamo chiamare – che dall’Aspromonte è emigrata in Australia dagli anni ’50 in poi.
    Pasquale ‘Pat’ Barbaro, infatti, è uno dei golden boys dell’Onorata Società australiana; figlio di Frank ‘Little Trees’ Barbaro (a sua volta fratello di Rosario, Rosi, Barbaro, storico capobastone di Platì), Pat ha un accento australiano e un network di associati multietnico. Ma ha un cognome che pesa in Australia, risultato di una reputazione criminale costruita negli anni ’70 e ’80 per questioni che con la ‘ndrangheta di oggi, quella globale, c’entrano indirettamente (seppur ovviamente avendo tanto in comune).

    frank-barbaro-australia-ndrangheta
    La polizia australiana e Frank Barbaro davanti a casa di suo figlio Pat

    È la storia, questa, raccontata, da una commissione d’inchiesta sul narcotraffico nello stato del Nuovo Galles del Sud, la Woodward Commission, che dal 1979 al 1981 scandagliò il mercato degli stupefacenti nello stato australiano in seguito all’omicidio del politico e attivista Donald Bruce MacKay nella cittadina di Griffith.
    La Commissione Woodward, in sei volumi fitti di informazioni, audizioni, acquisizioni di prove da varie fonti, parla di un gruppo criminale, con a capo uomini delle famiglie Sergi, Barbaro e Trimboli – tutti originari di Platì – dedite alla coltivazione e distribuzione sistematica di marijuana sul territorio australiano oltre che abile di riciclare denaro tramite il lavoro delle fattorie che possedevano, prestiti interni gli uni agli altri e a compravendite di immobili tra Sydney e Melbourne.

    marijuana-ndrangheta-australia
    Lo schema di prestiti e depositi tra i soggetti coinvolti nelle piantagioni di marijuana a Griffith negli anni ’70

    La ‘Ndrangheta tra Platì e l’Australia

    C’è anche evidenza, nei calcoli precisi della commissione Woodward, di denaro ‘importato’ dall’Italia, donazioni non meglio specificate, che dalla Calabria finivano Down Under. Erano già gli anni dei sequestri e, lo sappiamo, gli ‘ndranghetisti platioti erano in prima linea. Si erano messe su società di varia natura per ‘legittimare’ questi scambi e questi prestiti, e soprattuto per finanziare la compravendita di terreni su cui poi coltivare marijuana. Lo schema era semplice ma efficace.
    Concluderà seccamente la commissione d’inchiesta nel Nuovo Galles del Sud: «Sono state ricevute prove in relazione all’esistenza in Australia e in particolare nel Nuovo Galles del Sud, di una società segreta calabrese, impegnata in alcune attività criminali. L’organizzazione si chiama L’Onorata Società oppure ‘N’Dranghita’ (dialetto calabrese per Onorata Società). (…) Nel nostro caso questo gruppo include persone delinquenti tutte originarie dalla Calabria, e da un piccolo villaggio di nome Platì».

    donald-mac-kay-australia-ndrangheta
    Donal MacKay

    Queste persone, continua il rapporto, sono responsabili per aver ‘ordinato’ la sparizione di Donald Mackay. Mackay non fu l’ultimo omicidio con sospetto coinvolgimento della ‘ndrangheta in Australia, ma sicuramente fu il più importante. Sia da un punto di identità dell’organizzazione criminale, sia di ciò che questa divenne agli occhi di tutto il paese. Ancora aperto oggi, il caso rimane un ‘omicidio impunito di mafia’ per tutti.

    La ‘Ndrangheta d’Australia: un unicum al mondo

    Ma alcuni di quegli uomini indicati dalla Commissione Woodward, soprattutto quelli in posizioni apicali, non furono mai perseguiti in una corte di giustizia. Andarono avanti utilizzando i loro appezzamenti di terreno, tanti, per varie cose: case vinicole, fattorie, residenze. I loro figli, come Pat Barbaro ad esempio, hanno spesso seguito le orme dei padri, ma con i cambiamenti dovuti a qualunque scarto intergenerazionale. Si sono adattati all’Australia che chiede loro collaborazione multietnica, flessibilità e soprattutto di essere sia calabresi sia australiani. È una ‘ndrangheta effettivamente transculturale, diversa dalla ‘ndrangheta calabrese sebbene a questa ricollegata e da questa riconoscibile.

    Si tratta di una storia tutta australiana, quella che porta dai ‘castelli d’erba’ di Griffith, the grass castles come vengono chiamati, a un omicidio eccellente, e a un esecutivo di mafia a cuore platiota ancora esistente e resistente. Questa storia tutta australiana, che si intreccia e si confonde con la storia della ‘ndrangheta globale, rappresenta un unicum al mondo. È in Australia molto più che altrove che le varie facce della ‘ndrangheta ci mostrano la realtà complessa di questo gruppo criminale, che non può esistere a livello globale – non a certi livelli – senza riuscire a diventare storia locale. E la storia di Pat Barbaro, delfino degli ‘ndranghetisti di Griffith ma trafficante di stupefacenti a livello globale, non è che l’inizio di questa storia.

  • STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    STRADE PERDUTE | Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti

    La Sila è gotica. Meglio: i boschi silani sono gotici. Sì, se il Pollino è un borgo arroccato, e i suoi alberi più barocchi, di quel barocco “appestato” caro a Enzo Moscato, allora la Sila è un po’ una grande capitale piena di cattedrali gotiche. Se ne ha questa sensazione stando fermi a testa in su in uno dei suoi boschi. La ebbi una notte, sul terrazzo di una casa immersa nel buio. Colonne, colonnette, costoloni, guglie e pinnacoli convergenti verso l’infinito. Peccato però che al sottoscritto il gotico non piaccia per niente. E che il sottoscritto preferisca appunto lo straziante, lirico barocco pollinare.

    Il turismo in Sila

    La Sila non fa che deludermi, ogni volta. È fatta per un turista per modo di dire. Il turista cosentino che si sveglia, si infila le Hogan e sogna di arrivare prima possibile per mangiarsi un panino con la salsiccia e fare struscio sul corso di Camigliatello, fumando una decina di sigarette rigorosamente buttate per terra. Gli animali stanno nei recinti per poter essere guardati da bambini e genitori che ne sbagliano i nomi fotografandoli. Alla riserva dei Giganti di Fallistro, bella ma piccolissima, tempo fa chiedevano un biglietto non esoso di per sé ma assolutamente sproporzionato rispetto all’offerta. Ma allora, ripeto, perché non andarsene su un qualsiasi sentiero del Pollino, dove si trovano alberi ben più monumentali, e gratis?

    camigliatello-silano-sagre
    Il corso principale di Camigliatello Silano

    La Sila, più che un parco nazionale sembra il suo plastico. Il massimo lo si raggiunge generalmente durante una sosta al lago Cecita. Comitive di famiglie che urlano, dai bambini agli anziani; buste di plastica e bottiglie di birra ovunque. Una cinquantenne in tenuta da estetista in vacanza non riesce a chiamare i figli al cellulare, li intravede da lontano. E come potevano chiamarsi se non – uno dei due nomi è di fantasia – Kevin e Jessica? Ma in fondo è meglio così: a ognuno le sue montagne.

    Fascisti, democristiani e comunisti

    sila-ampollino
    La piana dell’Ampollino prima del lago

    E poi i laghi artificiali della Sila: vanto del fascismo i primi due (Arvo e Ampollino), vanto dell’Italia democristiana il Cecita. Molto più divertente è studiarsi le mappe silane precedenti alla creazione dei laghi: e vattici a orientare…
    La Sila, primo dei tre polmoni della Calabria; la Sila carica di storia del latifondo e delle enormi ricchezze di pochi (ve lo ricordate il detto “gliene importa quanto di una pecora a Barracco”?); della riforma agraria d’ispirazione massonica – questo lo sanno in pochi – e dello spezzan-catanzarese Fausto Gullo, comunista e proprietario, costituente e, appunto, massone; di quell’atto notarile del 1604 in cui trovai già riferimenti ai possedimenti dell’opulenta famiglia Monaco nei territori di Muchunj, Fossiyata, Carolus Magnus, Cupone, Zagaria e Frisuni (la stessa antica famiglia di giuristi di cui oggi il visitatore ignora l’enorme villa di impianto cinquecentesco presso le Forgitelle e l’antico casino padronale presso il fondo Neto di Monaco, appunto).

    ponte-neto
    Sila, primi del Novecento: lavori per un ponte sul Neto

    Sila horror

    Ma dove comincia la Sila? A Cavallo Morto? A Rovella, per chi non si accoltella? Oppure in uno dei Casali del Manco, spesso architettonicamente disastrati per le velleità e il cattivo gusto “de’ particolari”, come si sarebbe detto nel Seicento? Fatevi un giro: non è raro trovare da queste parti la tettoia pseudo-tirolese con pareti pitturate a spatoletta, tipo sala ricevimenti tamarra, infissi in alluminio anodizzato, ringhierina che Dario Argento avrebbe fatto meglio, e vasi in plastica finto-terracotta. Muri esterni del pianterreno con fintissimo pietrame facciavista e insertini in vetrocemento e intonaco bianco alla come viene viene. Li ho visti, una volta, tutti insieme sulla stessa casa. Brividi.

    Diverso tipo di brividi offre invece un documento cinquecentesco redatto dal notaio Giovambattista Fiorita di Rovito: nel 1591 donna Medea di Napoli, residente nel casale Corno – tra Lappano e San Pietro in Guarano – fu trasportata dai figli “dinanzi all’altare maggiore della chiesa. La stessa era vessata da uno spirito maligno (…) a tal punto che si asteneva dal bere e prendere cibo, dal partecipare ai sacramenti (…) dal proferire le preghiere. Don Paolo Costantino leggeva i rituali scongiuri contro gli spiriti maligni avendo premesso in fronte della detta Medea il segno della santa Croce interrogando la stessa se lo spirito volesse uscire, quale nome avesse e quale segno desse. Rispose dinanzi a tutti che avea nome Gaspare, era sua intenzione uscire subito e nell’abbandonare Medea avrebbe dato tre segni (…). Lo spirito uscì di bocca della stessa Medea, vomitando un chiodo di ferro e di piombo, tutta raggomitolata in sé con i capelli rossastri Medea rimase alquanto attonita”. L’Esorcista, oppure Benigni e Matthau, in dialetto silano.

    Dove finisce la Sila?

    E dove finisce la Sila? Si intreccia con la zona del Savuto o gli volta la faccia? Saliano, ad esempio, sta quasi alle sorgenti del Savuto ma non definirla Sila sarebbe coraggioso. Fino a qualche tempo fa si potevano trovare online alcune fotografie scattate nel 1955 su iniziativa del Comune per registrare i danni causati da una frana verificatasi negli abitati di Cicchelli, Fuochi e Ruga Rocca. Non le trovo più online, ma ne avevo salvate alcune: senza volerlo – o forse sì – il fotografo aveva creato un album di grandissimo valore artistico.
    Se qualcuno di voi ha avuto la fortuna di poter ammirare l’ormai storico libro fotografico di Paul Strand, Un paese, potrà capire meglio di cosa parlo. Saliano, a conti fatti, è il nostro esempio artistico di Un paese, in cui volti, espressioni, momenti di vita quotidiana, mostrano un lato di grande valore, per non usare quell’altra parola abusatissima.

    saliano-rogliano-sila
    1955, Saliano di Rogliano

    Saliano ai piedi della Sila, dunque, e in cima al Savuto. E non lontano da toponimi curiosi come Pino Collito e Cappello di Paglia. Potremmo seguire quest’altro fiume ma finiremmo per sfiorare la meraviglia di Cleto – si perdoni un inevitabile pensiero volante a Cletus Awreetus Awrightus – e saremmo tremendamente fuori strada.
    Possiamo al massimo raggiungere il Ponte di Annibale, che scavalca magistralmente il fiume, e ritornare poi su verso i boschi. Ma sarebbe bello poterlo fare percorrendo davvero tutta l’antica via Popilia, e non si può più. E allora scendiamo da Saliano e andiamo a sbirciare in quella cappelletta-porcile in contrada Cortici, poi passiamo da Carpanzano e ammiriamo, chiusa dentro un recinto fuori da un tornante, un discreto relitto di Renault Dauphine.

    Cortici
    La cappelletta-porcile di Cortici

    La bambina con due anime

    Ancora documenti antichi e stranezze silane: Carpanzano, 1665, l’arcivescovo di Cosenza Gennaro Sanfelice (nel cui stemma in pietra inciampai anni fa, in un corridoio del duomo; il cui stemma medesimo non si sa poi che fine abbia fatto…) descrive un ‘mostro’ nato proprio lì: “Antonia Parise moglie di Antonio Cristiano, gentiluomini di quel luogo, ha dato in luce un parto di femina di due mesi con due teste uguali, ben fatte, due braccia, un busto e dall’ombelico in già tutto duplicato che a capo d’un hora in circa si morì doppo essere state battezzate ambedue le teste, col supposto che fossero due anime”.

    Immediata la superstiziosa reazione del clero locale, che avrà tribolato per scegliere una soluzione pacifica in merito alla modalità – singola o doppia – del battesimo. Melius abundare e l’officiante optò per il duplice rito, dimenticando che per il dettato cattolico la sede dell’anima (‘obiettivo’ del sacramento) è il cuore e giammai il più razionale cervello. Vero è che il sacerdote impone il segno della croce sulla fronte e che la neonata in questione aveva due fronti: quale, dunque, sarebbe stata da scegliere? Quella appartenente al capo nascente più a sinistra, ovvero più in prossimità del cuore? Sofisticherie liturgiche di discutibile respiro. Fatto sta che la bambina bicefala aveva una sola anima, anche per il dettato cattolico, e fu battezzata due volte.

    La Sila dei pensatori

    Siamo ormai alle porte di Scigliano, patria di un pensatore ben più libero, il filosofo Aurelio Gauderino, al secolo Gualtieri, morto nel 1523. Professore di filosofia a Bologna, letterato e scrittore, scrisse alcuni testi a stampa ormai rari. Le Duae orationes sulla filosofia e sulla virtù; la raccolta di epistole familiari – “molti nascosti nel monte Reventino”, gli scriveva il padre nel 1518 – e soprattutto, campione dei campanilisti, il De laudibus Calabriae contro i “Calabriae maledicentes”.
    Restando ai pensatori, dall’altro lato della Sila, anzi nella presila ionica di Cirò, visse invece a quel tempo Giano Lacinio – al secolo Giano Terapo – teologo francescano e soprattutto alchimista. E anche Gian Teseo Casopero, allievo di Antonio Telesio, maestro dell’astronomo Luigi Lilio e docente presso il celebre Ginnasio di Santa Severina. Mica male.

    sila-ariamacina
    Ariamacina, 1910. Alfabetizzazione rurale

    Tra gli uni e gli altri, invece, in epoca più recente, a Petilia Policastro nacque l’avvocato Giambattista “Titta” Madia, figlio del notaio locale e bisnonno della ex ministra di centrosinistra Marianna, ma soprattutto eminenza nera, più che grigia: deputato fascista per l’intero Ventennio, Consigliere Nazionale del Regno d’Italia e poi deputato missino negli anni Cinquanta, nonché autore di un’imponente biografia di Rodolfo Graziani, il Maresciallo d’Italia (o il Macellaio del Fezzan). Punti di vista. Prospettive.