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  • MAFIOSFERA| La Mano Nera:  nel Queensland paura fa rima con Calabria

    MAFIOSFERA| La Mano Nera: nel Queensland paura fa rima con Calabria

    In Australia andare ai tropici significa andare in mezzo a distese enormi di piantagioni di canna da zucchero. Quando tira vento, tra le piantagioni si sentono suoni antichi e primitivi, che riportano alla mente il complicato passato di queste terre. Siamo nel Nord del Queensland, a due passi dalla Barriera Corallina, accanto al Territorio del Nord e a due passi (si fa per dire) da dove è stato girato la serie di film Crocodile Dundee, per capirci. Proprio quelle zone al Nord-Est del Queensland – Ingham, Innisfail, Ayr, Cairns, Townsville – oggi attraggono turisti da tutto il mondo, mentre i residenti ancora faticano a conciliare le varie eredità indigene con quelle anglosassoni. Qui hanno girato un documentario in tre episodi chiamato The Black Hand, la Mano Nera, in onda in queste settimane in Australia e che, nei prossimi mesi, arriverà anche in Europa.

    Si tratta di una produzione che ci ha messo circa 20 anni dall’ideazione alla finalizzazione. È il frutto della volontà del produttore Adam Grossetti di ripercorrere certi luoghi nello Stato del Sole – il Sunshine State del Queensland – e raccontare certe storie – ormai lontane, degli anni Trenta – che spesso finiscono per essere fraintese. Come posso attestare personalmente per il mio breve coinvolgimento nel progetto, l’entusiasmo, la curiosità e l’ingegno di Grossetti si è travasato direttamente nella morbidità della narrazione e nell’accuratezza delle fonti utilizzate.

    La Mano nera, (quasi) cent’anni dopo

    Per la realizzazione ci si è avvalsi di un italo-australiano, di origini calabresi, d’eccellenza per l’Australia. Si tratta dell’attore Anthony LaPaglia, conosciuto a Hollywood per i ruoli in film come Nemesi, Autumn in New York, Rogue Agent, o serie TV come Senza Traccia. LaPaglia è molto orgoglioso delle sue origini e mostra molta curiosità per i fenomeni mafiosi e para-mafiosi che – già da bambino – ad Adelaide, nell’Australia meridionale, poteva vedere, anche senza capirli, nella comunità d’immigrati calabresi, attorno alla sua famiglia. LaPaglia, nel documentario, viaggia tra Palmi e Bovalino, il luogo di origine di suo padre. A volte commosso, a volte sorridente, spesso con toni drammaticamente inquisitori, aiuta a raccontare una storia di quasi 100 anni fa, ma non per questo poco attuale.

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    Armi sequestrate dalla polizia americana in un’operazione contro la Mano Nera

    Il documentario racconta degli eventi degli anni Trenta, circa 1928-1939, che sono ricordati come Black Hand Terror, il terrore della Mano Nera. Si trattava di un’organizzazione, di un gruppo di uomini, italiani, quasi tutti calabresi, che per un decennio ha commesso omicidi, rapimenti, intimidito la popolazione di migranti e non solo, estorto denaro ai commerciati. Tutto in nome dell’avidità che contraddistingue la criminalità organizzata, ma con mezzi, quelli del controllo del territorio e del potere che deriva dalla paura, tipici della mafia. Ma quel termine, Mano Nera, Black Hand, assume un significato importante in Australia, perché sancisce l’inizio del fenomeno dell’Onorata Società – della ‘ndrangheta – australiana.

    La Mano Nera negli USA

    Ma andiamo con ordine. La Mano Nera è uno di quei fenomeni che rasenta la mitologia, ma che ovviamente ha un fondo di verità storica e anche particolarmente documentata.
    Alla Mano Nera molti associano diversi racket delle estorsioni gestiti da gangster italiani, spesso siciliani o comunque del sud, immigrati a New York, Chicago, New Orleans, Kansas City e altre città degli Stati Uniti dal 1890 al 1920 circa.
    La Black Hand inviava biglietti minacciosi ai commercianti locali e ad altre persone benestanti – quasi sempre solo altri italiani. A firma della richiesta estorsiva c’erano una stampa di mani nere, pugnali o altri simboli, e la minaccia che il mancato pagamento avrebbe avuto conseguenze nefaste, come la distruzione della casa, o la morte di qualche caro.

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    Joe Petrosino

    Con l’avvento del proibizionismo in America e la proliferazione di altri giri di criminalità organizzata votati al contrabbando e alla gestione di altre attività locali in forme para-mafiose, il fenomeno venne neutralizzato. Ci furono risposte severe, negli Stati Uniti, contro la Mano Nera. Il più noto oppositore fu il tenente Joseph Petrosino (1860-1909) del Dipartimento di Polizia di New York, che fu responsabile per le indagini contro molti membri del gruppo, prima di essere ucciso a Palermo, in Sicilia, durante una visita nel 1909.

    Black Hand, Calabria e Queensland

    Ma il fenomeno della Black Hand è un fenomeno affascinante proprio perché, nello stesso periodo o quasi, si presenta con forme simili anche in Canada e anche in Australia, rendendolo una prima formula di mobilità del fenomeno mafioso a matrice italiana, a scopo protettivo-estorsivo. Attenzione però, perché la Mano Nera non era affatto un fenomeno “primitivo” o acerbo, anzi. Si trattava, come ci ricorda lo storico Salvatore Lupo, di una «fenomenologia criminale impersonale» e come tale a vocazione imprenditoriale. In questo, dunque, molto avanzata e sicuramente antesignana della mafia, se non essa stessa già mafia.

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    Femio, ultimo a destra, con la mano sulla spalla del suo capo D’Agostino in una rara foto d’epoca

    Ma torniamo all’Australia, nel Queensland, dove la Mano Nera ha assunto dei volti e dei nomi molto precisi. Si tratta sicuramente di due boss come Nicola Mam(m)one e Vincenzo D’Agostino, avidi e spietati. Al loro fianco, Francesco Femio (Femia), Giovanni Iacona e Mario Strano ma anche molti altri. Tutti calabresi. D’Agostino era arrivato da Genova nel 1924 a Brisbane, la capitale del Queensland. Si era poi spostato a Nord, come in tanti facevano a quei tempi, per lavorare nei campi e poi aprire un forno.

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    Giovanni Iacona

    Vittime e carnefici calabresi

    Le richieste estorsive a firma della Mano Nera arrivavano via lettera che richiedeva “supporto per la Società” con somme variabili, tra i 50 e i 1.000 dollari. La lettera minacciava anche conseguenze molto gravi qualora non si ottemperasse alla richiesta. Non era inusuale bruciare le piantagioni di canna da zucchero, della vittima oppure sparare colpi di fucile verso la sua abitazione, per invogliarlo a pagare. Anche le vittime sono italiane e calabresi, come Alfio Patane (Patané) e Venerando Di Salvo. I familiari di Di Salvo ancora vivi raccontano nel documentario di come si è provato a resistere alla richiesta estorsiva, e di quanto difficile fosse “fare la cosa giusta” in quel periodo.
    La morte di Vincenzo D’Agostino, provocata dalle ferite in seguito a un’esplosione proprio nel suo forno nel 1938, chiuderà la faccenda della Black Hand. L’omicidio di D’Agostino rimarrà però insoluto.

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    Il forno di D’Agostino prima dell’esplosione fatale

    Dalla Mano Nera all’Onorata Società

    La Black Hand del Queensland già aveva tante somiglianze con quella che poi sarà l’Onorata Società o ‘ndrangheta australiana. Ma come ogni fenomeno criminale migratorio che si rispetti, c’erano anche delle differenze: il coinvolgimento nello sfruttamento della prostituzione ad esempio.
    In Queensland come altrove la Black Hand rappresenta quel momento paradigmatico in cui gruppi di mafiosi in erba utilizzano il loro controllo sul territorio – grazie a intimidazione e paura – per lucrare e guadagnare indebitamente. Ma c’è di più. A livello analitico, gli anni della Black Hand rappresentano la nascita del mito mafioso: una società segreta, chiaramente riconoscibile (grazie al simbolo dell’evocativa mano nera) eppure elusiva. E soprattutto una società criminale italiana, o meglio ancora, calabrese.

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    Mario Strano

    Quando Italia si traduce mafia

    Nasce con la Black Hand in Australia – ma anche negli Stati Uniti, con debite differenze – quel corto circuito mentale che porterà ad equiparare il fenomeno criminale con l’etnia dei suoi attori: la mafia italiana. Non si sarebbe più tornati indietro su questo punto.
    Sebbene la Mano Nera in Queensland sia effettivamente sparita dalla fine degli anni Trenta, il fenomeno viaggiò nel resto dell’Australia e diventò sinonimo prima di criminalità organizzata etnica italiana, poi di mafia, genericamente intesa, e infine di ‘ndrangheta o Onorata Società. C’era, certamente, anche un sentimento anti-italiano, anti-migrante, nel modo di raccontare e tracciare la Mano Nera, ma il fenomeno dell’epoca ha aiutato a costruire “l’etichetta” della mafia di oggi.

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    Nicola Mam(m)one

    Negli anni Cinquanta, sono vari i rapporti di polizia tra l’Australia meridionale, il Queensland, il Nuovo Galles del Sud. L’Australia Occidentale e lo stato di Victoria tracciano attività della Black Hand o mafia. Si tratta quasi sempre di notizie date da informatori spaventati che raccontano di racket dell’immigrazione, cioè di immigrazioni pilotate dall’Italia all’Australia gestite da questa organizzazione criminale, ma anche di intimidazioni, violenze, omicidi e, in breve, paura.

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    Un documento sulla Mano Nera in Australia del 1953

    “Solidarietà” tra emigrati

    Nel 1958, nello Stato di Victoria, a Melbourne, un report molto importante delle forze dell’ordine locali cercherà per la prima volta di tracciare la continuità dell’organizzazione criminale dal Queensland oltre venti anni prima a Victoria in quegli ultimi mesi. Il report dirà che l’organizzazione della Mano Nera sul territorio era diretta discendenza della Mafia siciliana, che avrebbe poi esteso il suo potere in Calabria, e in seguito sarebbe diventata The Black Hand all’estero.
    Nello stato di Victoria gli affiliati sono tutti calabresi. Si scrive in questo report che «le informazioni aggiuntive che possiamo offrire allarmerebbero il cittadino ordinario di questa comunità [italiana]». Fondamentale notare che fino a quegli anni, anche a Melbourne, la caratteristica primaria della Mano Nera era chiedere somme di denaro, richieste estorsive, per servizi di protezione in nome di una inappellabile solidarietà etnica.

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    In questo report del 1958 si attesta l’elevato numero di calabresi tra i membri della Mano Nera australiana

    Una festa senza il festeggiato

    C’è un riferimento interessante, in questo rapporto, a un meeting del 21 Settembre 1957 nel quartiere di Brunswick, oggi quartiere molto hipster di Melbourne, a nord della Little Italy nel quartiere di Carlton, e storicamente quartiere di residenza di molti migranti italiani. Il meeting era a casa di un tal Domenico Versace e vi avevano partecipato almeno 30 uomini. Tutti calabresi. Ventotto di loro vennero arrestati per possesso di armi da taglio, e negarono di conoscere o far parte della Mano Nera.
    Versace dichiarò che si trattava soltanto di una riunione tra amici per brindare al battesimo di suo figlio, avvenuto quel giorno, contestualmente al primo compleanno del bambino. Né il bambino né sua madre, però, si trovavano in casa. Un informatore della polizia, però, dirà che si trattava di un “processo” contro un certo Rocco Tripodi che aveva violato le regole della Società, e dunque bisognava concordare la sua punizione e la risoluzione di un problema che Tripodi aveva creato.

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    Melbourne, una via di Brunswick ai giorni nostri

    Questo documento e questa riunione rappresenterà uno degli ultimi momenti storici disponibili in cui il termine Black Hand veniva usato per definire fenomeni criminali legati alla comunità calabrese. Dagli anni Sessanta in poi, per varie ragioni, emergerà il nome dell’Onorata Società, anche perché le attività legate a questi uomini iniziarono ad andare oltre al racket estorsivo, tipicamente identificato nella Mano Nera. È fuor di dubbio, dunque, che esista continuità tra i due fenomeni, se non spesso sovrapposizione.

    L’eredità della Mano Nera

    Quel che appare certo, a un’analisi criminologica dei dati storici, è che la Black Hand ha dato il via alle due posizioni che, anche oggi, caratterizzano l’approccio alla ‘ndrangheta in Australia: da una parte il sensazionalismo legato alla presenza della “mafia” nel paese, che porta a una sorta di panico istituzionale; dall’altra, la difficoltà di separare il fenomeno ‘ndrangheta e più generalmente il concetto di mafia dai migranti italiani e calabresi. Quell’etnicizzazione del fenomeno che si osserva già negli anni della Black Hand nel Queensland, che portò all’epoca a parlare di “mafia italiana” senza identificare le specificità locali del fenomeno – come raccontato magistralmente dal documentario dell’ABC – è costituente e costitutiva del modo di vedere, capire e spesso anche fraintendere la ‘ndrangheta australiana fino ad oggi.

  • Gente in Aspromonte | Le amazzoni greche di Samo e Natile

    Gente in Aspromonte | Le amazzoni greche di Samo e Natile

    Questa puntata tutta al femminile si svolge nella Calabria greca tra Natile di Careri e Samo e racconta la storia di due generazioni di donne, due imprenditrici dell’Aspromonte. Avevo già conosciuto Tiziana, nella due giorni di Samo. Tuttavia, la decisione di dare un “taglio” di genere è nato dopo l’incontro con Annamaria a Natile Vecchio, durante la salita a Pietra Cappa, il cuore dell’Aspromonte, la Madre.
    La prima è la Presidente della Pro Loco di Careri, la seconda la giovane Presidente della Cooperativa Aspromonte: hanno in comune senso di appartenenza e di comunità, amore per l’accoglienza e la bellezza, voglia di costruire a casa loro. E la tessitura. Su questi terreni si incrociano memoria, rapporto con le istituzioni, lavoro contro lo spopolamento, strategie di sviluppo.

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    Il monolite

    Annamaria, la promoter della montagna

    «Sono stata sempre una ribelle anticonformista e non mi sono mai arresa. Nasco nel 1964. Nella mia gioventù la montagna era off-limits.
    Le donne ci andavano solo con gli uomini per raccogliere le ghiande. Per il resto era considerata pericolosa, specie per le ragazze. Della montagna ricordo di aver sempre sentito il richiamo forse perché legato al senso del proibito, ma era l’era dei sequestri. Gli anni tra l’85 e l’86 sono stati quelli in cui con un picnic di Pasquetta organizzato in località San Giorgio, comune di San Luca, quasi per scherzo, abbiamo aperto le porte della montagna.
    E poi piano, piano si è strutturato un giro di appassionati, grazie ai primi pionieri: il professor Domenico Minuto, Alfonso Picone Chiodo, l’avvocato Francesco Bevilacqua che già frequentavano la montagna e, da studiosi, ci hanno fatto scoprire un patrimonio che nemmeno noi conoscevamo. Scoprire di esserne i custodi ci ha dato orgoglio e ha rafforzato il nostro senso di appartenenza. Da lì in poi è partito il mio impegno». Così esordisce Annamaria Sergi, sarta e promoter della sua terra.

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    Annamaria Sergi e Giuseppe Bombino

    Natile, la speranza dopo l’abbandono

    Siamo sotto Pietra Cappa, in località Natile Vecchio, nella famosa vallata delle Grandi Pietre, pregna di sacro, già battuta dagli eremiti. Ci sono Demi d’Arrigo di Aspromontewild – la nostra guida -, Nino Morabito di Legambiente, il prof Giuseppe Bombino.
    Frazione del comune di Careri e figlio della arcaica Pandore, Natile è una comunità evacuata e sradicata, segnata dai terremoti del 1783 e del 1908 e ferita dall’alluvione del 1951. Dopodiché a tutti gli effetti “delocalizzata”. É la stessa storia che ho sentito ripetere ad Africo Vecchio.
    Il monolite domina su di noi. Le lame d’argento della luce di mezzogiorno ci catapultano in una dimensione quasi lunare: intorno a noi la macchia mediterranea si inerpica ai costoni di roccia lucente.
    Il cuore dell’Aspromonte pulsa con il suo ritmo nascosto, il battito ancestrale di primavera che sale direttamente dalle viscere della terra e percuote tutta la vallata. Qualche falco pellegrino volteggia. Pietra Cappa, Pietra Lunga e Pietra Castello sembrano essere piovute dal cielo, conficcate come enormi chiodi nel terreno.

    Il picnic diventa un ristorante

    «A Natile manca tutto, non ci sono servizi, né punti di ristoro, né strutture ricettive. Abbiamo cercato di trasformare le criticità in opportunità.
    Allora ci siamo inventate il ristorante all’aperto: organizziamo picnic in montagna e rispolveriamo tutto quello che le nostre nonne facevano quando andavamo a mietere il grano: mettevano tutto nella cesta e partivano.
    Facciamo cultura a tavola, accompagnando il nostro piatto con la storia della nostra comunità e delle nostre famiglie, quella di una cultura povera, contadina e accogliente. E raccontare il passato ci consente di ricrearlo nel presente, riattualizzandolo. Non siamo le servette. Siamo le donne che dominano la tavola.
    Per me è un onore condividere il mio sapere con gli altri. Non mi sono mai fatta ingabbiare in certi stereotipi. Il mio obiettivo è dare nuove opportunità alla mia terra, aprendo opportunità di crescita e lavoro», mi dice Annamaria al nostro rientro dal monolite. Assieme alle donne della sua Pro Loco ha preparato il pranzo picnic.
    C’è il tovagliato, posate di metallo e bicchieri di vetro «perchè il plastic free è il futuro e al futuro si va educati tutti, specie chi viene a visitare il nostro territorio». Il menu è fatto di preparati a chilometro zero. Il pranzo, che è il suo modo di prendersi cura, diventa occasione di scambio, confronto e racconto.

    Escursionisti a Pietracappa

    Una Pro Loco per cambiare

    «La mia missione è accogliere. Vengo da un passato all’interno della parrocchia: sono stata catechista, corista e membro del consiglio pastorale. É stato il mio impegno fino a quando mi sono accorta che forse c’era più bisogno di me fuori dalla Chiesa.
    La storia della nostra Pro Loco inizia a ottobre del 2014, grazie alla vacanza della sede di Careri. Veniamo avvisate con pochissimo anticipo.
    In tre giorni istituiamo la nuova associazione. I tempi stretti ci hanno impedito di effettuare tutta la procedura di evidenza pubblica. Chi non è stato coinvolto si è sentito escluso. Quella di Natile è una Pro Loco fatta prevalentemente da donne, che hanno deciso di mettersi a servizio della loro comunità, nonostante gli scetticismi di tanti. Anzi proprio quel pensare “sunnu fimmini, c’hannu a fari?”, quel sottovalutarci, ci ha consentito di agire al meglio».
    Perché Annamaria è ciò che fatto: già vicepresidente regionale e coordinatrice delle Pro Loco reggine, nove anni di impegno sul territorio a contatto con le scuole, con i turisti, gli studiosi, gli artisti. Ha organizzato seminari di studio sulla tradizione greco-bizantina di Natile, laboratori didattici con le scuole, eventi culturali. Un punto di riferimento sul territorio per ricercatori e turisti.

    Cibo e tessuti: piccole economie aspromontane

    «Assistiamo gli escursionisti che vengono da fuori, divulghiamo e promuoviamo la nostra terra e i suoi prodotti a chilometro zero. Quando organizziamo un pranzo quello che presentiamo deve essere di altissima qualità.
    Questo ci consente di coinvolgere le nostre famiglie, i nostri produttori, aziende agricole e piccole realtà trasformative che realizzano i prodotti di nicchia che ordiniamo per i pasti: pane, olio, ortaggi, formaggi, salumi, carne, frutta, dolci.
    Non presentiamo nulla che non sia stato valutato. Perché tu sei noi e noi ci mettiamo la faccia. Abbiamo anche realizzato dei laboratori di tessitura in alcuni “catoi” del paese. Il telaio, come in molti altri borghi della zona, era parte fondamentale della nostra cultura». E non manca la citazione dotta: «Le vostre donne si vestivano di nero perché portavano il lutto a vita, ma sognavano a colori. Se voi aprite i vostri bauli le coperte che tessete sono zeppe di verde smeraldo, giallo ocra, blu mare, rosso scarlatto». Questa frase a effetto, riferisce Annamaria, proviene da Tito Squillace, medico, attivista, presidente dell’associazione ellenofona Jalò tu Vua di Bova.

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    Un telaio domestico

    Imprenditrici in Aspromonte contro l’abbandono

    Cura, ospitalità, istanze di rete: sono gli ingredienti di Annamaria per contrastare il senso di sfiducia e abbandono appiccicato ai natilesi come un lenzuolo bagnato: «Il medico condotto che veniva a fare ambulatorio una volta a settimana non viene più. Viviamo in un territorio isolato che porta ancora le cicatrici della stagione dei sequestri.
    Ai tempi di Cesare Casella, Natile fu invasa. Lo Stato inviò la cavalleria dei carabinieri: ragazzini impreparati e terrorizzati dall’idea di stare nel cuore della ’ndrangheta.
    Sono giunti e hanno spaccato tutto quello che dovevano spaccare, facendo di tutta l’erba un fascio e commettendo un errore: imporsi con violenza senza curarsi dei legami e dei meccanismi di una piccola comunità sempre abituata ad arrangiarsi e proteggersi con i propri mezzi.
    Si è avuta la sensazione di uno Stato mai percepito come garante o collante. Una madre presente per giudicarti, senza accompagnarti. La mancanza dello Stato nelle sue articolazioni ha minato anche la fiducia dell’essere parte di una collettività che insieme può costruire qualcosa di migliore. Perché stai dando risposta alle esigenze di tutti.
    Questo ha inciso negativamente sulla capacità di fare comunità. A un livello economico si è tradotto nella riduzione della percentuale del fenomeno cooperativo che, di per sé, si basa sulla fiducia. Noi, poi, non siamo stati capaci di reagire. L’assistenzialismo ha fatto il resto: se a Natile 48 famiglie su 50 hanno la sicurezza del posto fisso alla Forestale, è più facile accomodarsi che prendere iniziative economiche. Io questa sono e non ho intenzione di fermarmi».

    Tiziana: dal sociale alla microimpresa

    Su questa ancestrale filoxenia punta anche Tiziana Pizzati, attivista e imprenditrice, quando usa l’immagine dell’abbraccio: accogliere significa abbracciare.
    Tiziana rappresenta la generazione più giovane: poco più che trentenne, a Samo ha creato un sistema di accoglienza diffusa e una cooperativa per la trasformazione di prodotti agroalimentari.
    Collabora con le Guide del Parco e con gli operatori del turismo montano.
    «Ho avuto la fortuna di poter lavorare alle Poste nella mia terra, ma volevo fare di più. Ho preso una laurea in Scienze turistiche con una tesi sul brand Aspromonte e sulla sua drammatica bellezza: un’istantanea su come è oggi la nostra terra, sulle sue prospettive di sviluppo e su ciò su cui dobbiamo investire. Paradossalmente il nostro essere rimasti indietro, oggi ci porta a essere un passo avanti. Voglio rendere vivo quello che ho studiato realizzando un nuovo storytelling».

    Samo: un altro pezzo di antica Grecia

    Ci troviamo a Samo, 300 metri sul livello del mare a 13 km da Bianco. All’ingresso del paese campeggia una stele di metallo con il toponimo grecanico. Anche Samo è un borgo delocalizzato che si allunga come la punta di una lancia nel Parco dell’Aspromonte.
    Fondato intorno al 432 a. C. in località Rudina a ridosso della fiumara La Verde, allora navigabile, da coloni dell’isola di Samos, il paese onora questo passato ed è gemellato con il suo omonimo greco.
    Invaso e distrutto dai Saraceni, teatro di terremoti, è stato più volte spostato fino all’abbandono dell’insediamento di Precacore per assumere i connotati attuali.
    «Sentiamo forte la nostra grecità. Lavoriamo per valorizzare il nostro passato: cerchiamo di renderlo seducente e contemporaneo. Ciò significa creare nuovi posti di lavoro contro lo spopolamento. Sogniamo non un Aspromonte fisico, ma culturale. Un orizzonte condiviso».

    Imprenditrici in Aspromonte: restanza al femminile

    Tiziana, e Annamaria sono le “restate” che combattono: rappresentano la forza, l’orgoglio e la resilienza delle donne d’Aspromonte, quelle che la letteratura ha descritto sempre come un passo indietro.
    Sono il volto umano del femminino sacro che da Persefone è transitato nel mondo cristiano. Bova, con le sue Pupazze, è l’emblema. Sono restanti e persistenti. Incarnano il doppio e l’unità: due donne, due leader, la Madre e la Figlia. Rappresentano i due passaggi di crescita: una ancora immersa nell’associazionismo, l’altra transitata nel sociale e poi saltata verso la piccola imprenditoria.

    Tessuti di Samo

    Creare per non partire

    «Quando ti ritrovi a vivere con un gruppo di coetanei in un paese di settecento anime hai due possibilità: spostarti o creare qualcosa. Noi abbiamo scelto la seconda strada: ci siamo riuniti, abbiamo formato la Pro Loco e per sei anni abbiamo promosso il territorio. Poi ci siamo accorti che col sociale puoi fare tante cose, ma solo fino a un certo punto».
    Così nel 2016 «abbiamo fondato la Cooperativa Aspromonte. Il lavoro fatto dal prof Bombino durante la sua presidenza all’Ente Parco portò a un fiorire di cooperative giovanili. Oggi sento che manca quel meccanismo capace di lavorare a più livelli e per chi, come me, collabora sia col Parco che con i Comuni per la manutenzione di sentieri e segnaletica, è triste». Si riferisce al lavoro fatto per la candidatura dell’Ente Parco Aspromonte a Global Geopark Unesco.

    L’ospitalità (green) prima di tutto

    «Siamo partiti con l’idea di creare ospitalità diffusa per camminatori ed escursionisti: per noi era naturale prenderci cura dello straniero. Poi con i risparmi di questa attività abbiamo creato un laboratorio di trasformazione dei prodotti alimentari. A parte le conserve, realizziamo il Kypris, liquore al mirto locale raccolto e lavorato in giornata. Abbiamo molte idee, pochi soldi e la burocrazia non ci aiuta».
    Nel 2018 la cooperativa ha chiesto un contributo per l’acquisto dei macchinari per il laboratorio di trasformazione agroalimentare a valere sui fondi per i giovani inseriti nelle azioni per le aree svantaggiate del Piano di Sviluppo Rurale.
    Il progetto, approvato nel 2022 non è stato finanziato in attesa dei ricorsi per l’aggiornamento delle graduatorie: «nel frattempo abbiamo acquistato tutto di tasca nostra».

    Una tessitrice grecanica

    Quelle belle stoffe bizantine

    E poi c’è la tessitura, perché Samo è la capitale del ricamo bizantino a motivi floreali: «Nell’area della Calabria greca fino alla prima metà del Novecento il telaio era fonte di reddito. Fimmina di telaru, gioa e onuri di lu focularu. Si può dire che in ogni casa ci fosse un telaio. A Samo però venivano realizzati ricami più complessi: le geometrie si alternavano ai tipici motivi floreali intrecciati con con ginestra, lino o seta. Oltre che per le coperte, Samo è conosciuto per le sue pezzare e le sue strisce: filati fino a undici metri dati in dote e preparati per essere stesi all’ingresso della sposa in chiesa».
    Si tratta di un’arte che sta scomparendo e su cui lei punta: «con il progetto Telaio in Aspromonte abbiamo mostrato alle scuole il processo completo di lavorazione della ginestra per la tessitura, dalla pulitura all’orditura, come avveniva fino alla metà degli anni Cinquanta. Mi piacerebbe realizzare una scuola di tessitura per tramandare una competenza che sta per estinguersi, ma da cui provengono manufatti tessili di altissima qualità».

    La cantastorie e la tessitrice

    Tiziana ha mostrato l’arcano e il contemporaneo.
    Prima mi ha introdotto a casa di Agata, superstite cantora di età indefinibile, una stufa a legno, la tv a tutto volume e la memoria di Pico della Mirandola, capace di recitare storie e leggende dell’antica Samo in un poema epico dialettale direttamente ispirato alla Chanson D’Asperomont.
    Poi mi ha introdotto a casa di Maria, la mastra tessitrice di cui vedete i lavori in foto. Quindi ha filmato è ha realizzato una story acchiappaclic per arricchire di contenuti il profilo Instagram della cooperativa, 1.835 follower. Una risorsa che prima non c’era.
    Una recente ricerca dell’Unical sulle condizioni delle quattro aree pilota calabresi della Snai rimarca un difficile accesso ai servizi, una desertificazione sanitaria e un invecchiamento misto al calo della popolazione.

    La vallata delle Grandi Pietre

    Salvare la Calabria greca? Si può

    La riqualificazione della vita di queste aree non può passare solo attraverso il turismo: ci vogliono i servizi e una nuova strategia gestionale. E poi ogni altra forma di politica territoriale possibile, turismo e animazione culturale compresi. Serve una visione.
    Il 28 luglio 2021 la Regione ha approvato il Sistema di gestione e controllo per l’utilizzo dei fondi nazionali della Strategia nazionale aree interne Snai che «punta a rafforzare la struttura demografica dei sistemi locali delle Aree Interne (intese come sistemi intercomunali) e ad assicurare un livello di benessere e inclusione sociale dei loro cittadini, attraverso l’incremento della domanda di lavoro e il miglior utilizzo del capitale territoriale».
    Vi rientra a pieno titolo l’area Grecanica. Il modello d’azione della Snai prevede «di favorire la piena attivazione degli attori locali (istituzioni, imprese, associazioni, ecc.), che sono chiamati ad assumere ruoli e responsabilità centrali nella definizione delle politiche di intervento».
    Vedremo se e quanto questo approccio multistakeholder verrà rispettato.

    Tiziana Pizzati

    Imprenditrici che resistono in Aspromonte

    Nel frattempo Annamaria e Tiziana lavorano sui territori per cambiare il senso di rabbia e di abbandono in gratitudine, aumentare il livello di consapevolezza dei loro concittadini, accrescere fiducia e opportunità, creare prospettiva di sviluppo.
    Entrambe reclamano attenzione alle aree interne da parte delle istituzioni: chiedono strade, servizi, fondi, affiancamento. Entrambe lavorano per aggregare e per ricreare. E in questa tensione tra l’appartenere, il riconoscersi, il ricreare e il fare c’è l’eterno dilemma del pendolo che oscilla tra autentico e mitopoietico: il secondo è necessariamente destinato a sostituire il primo laddove i vissuti e i saperi scompaiono. Uno storytelling che non si scrosti al primo imprevisto deve raccontare non una vetrina ovattata, ma tradizioni, vite, quotidianità autenticamente presenti.

  • MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    MAFIOSFERA| Sibaritide e clan: il dito e la luna

    Il 16 settembre 2020, tra imminenti nuovi lockdown per contenimento del Covid e la fine della prima estate pandemica, un tale Claudio Franco Cardamone, di Corigliano-Rossano, è a bordo di un’Audi A4 e sta per valicare i confini tedeschi. È in compagnia di un altro soggetto e insieme sono apparentemente diretti in Belgio. Le autorità del Polizeipraesidium di Francoforte sul Meno stanno seguendo l’autovettura e l’uomo della Sibaritide. Lo vedono entrare in un’abitazione di Hanau, in Germania. A quel civico sono ufficialmente residenti Carmelo Bellocco e Federica Viola, lui di Rosarno, lei di Palmi.

    Dalla Sibaritide alla Germania per il clan

    Claudio Franco Cardamone – conosciuto come Il Bello o anche Marine o Taccagno – è un astro emergente del narcotraffico sul territorio dell’alto Jonio cosentino. Lo arresteranno in seguito a ordinanza di custodia cautelare a firma della Direzione distrettuale Antimafia di Catanzaro i primi di giugno 2023, in un’indagine, Gentleman 2, contro il clan Abbruzzese-Forastefano di Cassano Jonio e i loro gruppi satelliti di Corigliano-Rossano, sempre nella Sibaritide. Secondo gli inquirenti, tra 26 persone coinvolte nell’ordinanza, ci sono individui che gestiscono la distribuzione di stupefacenti nell’alto Jonio cosentino; arriva dal Sudamerica ma passa per l’Europa per poi finire sul mercato a Cosenza, Vibo Valentia e anche Reggio Calabria.

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    Claudio Cardamone

    Cardamone è considerato il punto di riferimento del gruppo Abbruzzese-Forastefano in quanto riesce, si legge nell’ordinanza, a «intavolare trattative per l’importazione di partite di cocaina dal Sudamerica da destinare al mercato europeo e in particolare al territorio calabrese». Cardamone è dunque un broker locale. Lavora insieme a un altro soggetto Rosario Fuoco – detto Schmitt – anch’egli dell’entroterra cosentino, di Campana, che a Francoforte sul Meno gestisce la pizzeria Da Dino, appoggio logistico dei coriglianesi in visita d’affari in Germania. Entrambi sono «pienamente inseriti nel panorama del narcotraffico internazionale».

    Il narcotraffico al contrario

    In Operazione Gentleman 2, che segue appunto l’indagine Gentleman del 2015, sempre contro le cosche del territorio, ci sono una serie di spunti interessanti. Soprattutto, per capire il narcotraffico, per così dire, al contrario. Infatti, per soddisfare gli appetiti dei gruppi criminali della Sibaritide, lo stupefacente arriva non in Calabria – come spesso pure accade per mano di clan di ‘ndrangheta – ma in Germania, Belgio o Spagna. Dunque si muove al contrario, verso la Calabria e non dalla Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Sembra infatti peculiare notare come questo sia in parziale controtendenza alle stime della DCSA (Direzione Centrale per i Servizi Antidroga) nell’ultima relazione del giugno 2023, per cui «a Gioia Tauro si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale», nel 2022.
    Si tratta dunque di reti del narcotraffico che necessitano organizzazione diversa. La distribuzione e lo spaccio sono sì in Calabria, ma l’importazione avviene invece altrove.

    Germania d’appoggio e Sibaritide piazza per i clan

    Dunque, le quantità dello smercio e delle forniture sono diverse (10-20-50 kg si distribuiscono, ma molti di più se ne importano), le alleanze pure. Serve infatti collaborare con altri attori che importano, siano essi albanesi, italiani o spagnoli.
    Sono sicuramente chiari anche gli obiettivi del gruppo – il profitto, ovviamente – e la capacità di movimento. La Germania è luogo prediletto come “appoggio”, ma la Sibaritide è la piazza.

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    Angelo Caravetta

    Ci sono soggetti coinvolti in questa operazione che fanno emergere un po’ di domande in più a chi la analizza. Un esempio? Angelo Caravetta, che hanno arrestato in questa operazione e vanta esperienza decennale nel traffico di stupefacenti grazie anche a viaggi e collegamenti in Spagna. Tra il 2013 e il 2018 Carevetta è stato politico locale a Corigliano, eletto in consiglio comunale. Ci sono molte domande relative allo stato della democrazia in Calabria che arrivano sempre molto puntuali quando succedono queste cose.

    L’unione fa la forza

    Ma torniamo al viaggio del settembre 2020 perché ci aiuta a ragionare su un altro elemento di questa indagine e cioè l’esistenza di una squadra investigativa comune tra Italia, Germania, Spagna, Belgio, proprio per operare in modo più svelto e condividere le indagini in Europa, grazie al supporto di Eurojust ed Europol. Le squadre investigative comuni (Joint Investigative Teams, JITs) sono di gran lunga lo strumento che gli operatori del settore – analisti, poliziotti, magistrati – prediligono perché aiutano ad evitare i ritardi della burocrazia che naturalmente esiste quando bisogna condividere dati e materiali di indagine da paese a paese.

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    La sede di Eurojust

    Se indaga la polizia tedesca e condividerà poi gli elementi di indagine con la DDA di Catanzaro, è sicuramente molto meglio per tutti da un punto di vista di capacità di indagine e di gestione delle autorità del territorio. Lo si dice sempre, ma sta diventato sempre più ovvio anche nella pratica: l’unico modo per contrastare il narcotraffico europeo è la collaborazione. Non solo negli arresti, ma già dalle indagini. Perché qui di narcotraffico si tratta, anche se al contrario, verso la Calabria.

    Una ‘ndrangheta “non mafiosa”

    Quel viaggio di Cardamone in Germania nel settembre 2020 e la presenza di Carmelo Bellocco ci permettono di riflettere su un’altra cosa ancora. Bellocco ha vari precedenti penali ed è membro di uno dei casati principali della piana di Gioia Tauro. Eppure non ha rapporti costanti o diretti con i vari membri dell’organizzazione criminale sotto indagine in Gentleman 2. Anzi, si legge nell’ordinanza che «sebbene non si nutrano dubbi in ordine all’inserimento dell’indagato nel traffico internazionale di stupefacenti, non si reputano sussistenti sufficienti elementi per affermare che in detto contesto egli operi legato da vincoli con i ritenuti sodali».

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    Nicola Gratteri durante la conferenza stampa sull’operazione Gentleman 2

    Insomma, Bellocco, che è uno ‘ndranghetista in un circuito del narcotraffico di primo piano, non è coinvolto a tutto tondo nell’operazione. E che ci sia la ‘ndrangheta ma non le condotte tipiche di mafia, ex articolo 416-bis del Codice penale, risulta chiaro nel resto dell’ordinanza. Essa esclude la mafiosità dell’associazione e che i proventi illeciti siano confluiti in tutto o in parte nelle casse dell’associazione mafiosa.
    Si opera dunque – e non è affatto raro nelle operazioni del narcotraffico, soprattutto della distribuzione di stupefacenti – una differenziazione tra gli obiettivi di profitto, che sono comuni nel crimine organizzato, e quelli di potere, che sono comuni al crimine organizzato di natura mafiosa.

    Sibaritide: clan sì, ‘ndrina pure?

    Si pone qui sempre lo stesso problema interpretativo-analitico quando si parla di ‘ndrangheta fuori dai territori canonici (Reggio Calabria e dintorni, fino al confine con le province di Vibo e di Crotone per capirci). Che il clan Abbruzzese-Forastefano sia un’organizzazione di stampo mafioso della Sibaritide, ai sensi del codice penale, sembra abbastanza pacifico quanto meno nella giurisprudenza. Ma che venga chiamato ‘ndrina e dunque clan di ‘ndrangheta non è necessariamente accurato. A maggior ragione quando – come nel caso di Gentleman 2 – il clan non opera secondo modalità mafiose ma solo per logiche di profitto criminale.

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    Un panorama di Cassano

    La giustapposizione che si fa, sempre troppo facilmente e superficialmente, è tra organizzazione mafiosa in Calabria e ‘ndrangheta. Come se tutte le organizzazioni mafiose in Calabria fossero “attratte” dal marchio e dall’organizzazione della ‘ndrangheta di default solo perché stanno in Calabria.
    È certamente vero che esistono delle somiglianze tra gruppi del nord e del sud della regione,. Ma esistono anche importanti differenze – tra cui proprio le reti del narcotraffico, come evidenziato in questa sede – di cui sappiamo comunque troppo poco perché continuiamo ad applicare le “lenti” della ‘ndrangheta (e dunque certe aspettative che ne derivano). E così ci perdiamo i dettagli e le specificità dei gruppi nel contesto di riferimento.

    La legge del mercato

    Volendo togliere l’etichetta e le lenti di ‘ndrangheta agli Abbruzzese-Forastefano per un momento (senza per questo togliere loro quella di mafia, se e quando utile a comprenderne l’operato) e guardando poi ai loro traffici di stupefacenti, ci accorgiamo che il loro comportamento non è in linea con i comportamenti di ‘ndrangheta quanto più lo è con i comportamenti di altre organizzazioni criminali operanti nel mercato degli stupefacenti e che incidono sul territorio di riferimento in modo molto dannoso. I clan di ‘ndrangheta sono spesso importatori di cocaina, ma anche fornitori per altri gruppi (cioè la comprano e la rivendono all’ingrosso).

    Ma non tutti i clan (mafiosi e non) calabresi si comportano così o addirittura utilizzano la fornitura della ‘ndrangheta. Le scelte, nel mondo del narcotraffico sono dettate da logiche di mercato quanto da opportunismo. Le tendenze europee, confermate anche nella relazione 2023 della DCSA, mostrano infatti come per l’importazione e la distribuzione di stupefacenti, soprattutto cocaina ma anche altri narcotici, ci siano moltissimi attori criminali attivi a specializzazione crescente, di origine mista e soprattutto dalla natura nucleare operante tramite rete.

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    Nikolaos Liarakos, latitante greco in contatto con i Forastefano

    Non è un caso che tra i principali fornitori del gruppo Abbruzzese-Forastefano, e di Cardamone come suo broker, siano albanesi e greci, dominanti sia per le importazioni sia per la logistica. Grazie a questi fornitori e a individui in Messico e in Colombia che possono garantire i contatti con i cartelli della produzione e del narcotraffico dall’America Latina, il gruppo riesce a partecipare all’importazione (si badi bene, non a gestirla né a pilotarla) ad Anversa, in Belgio, o a Rotterdam, in Olanda, per poi spostare lo stupefacente a Francoforte, tramite ‘amici’ calabresi, alcuni anche di “ndrangheta classica” (Bellocco ad esempio), e infine in Calabria per la vendita.

    Sibaritide e clan: si guarda il dito e non la luna

    Operazioni come quella qui in esame ci ricordano che spesso, nel guardare alle notizie, si rischia la proverbiale confusione tra il dito e la luna. Sappiamo tutti della internazionalizzazione della ‘ndrangheta e della capacità dei clan di ‘ndrangheta di operare a diverse latitudini spostando stupefacente per mezzo mondo, spesso (non sempre) passando dal porto di Gioia Tauro, porta del Mediterraneo e dell’Europa. Sappiamo molto meno della situazione in cui versano parti della Calabria dove i gruppi criminali coinvolti nel narcotraffico possono rispondere a diverse logiche e diverse reti e di conseguenza avere almeno la possibilità, se non la capacità, di operare in modo controintuitivo rispetto al resto della regione a matrice ‘ndranghetista.spacciatore-spaccio-droga-2-2

    Questo è il dito. La luna, invece, sta come sempre in quello che si vede meno, e cioè il mercato dei consumi in Calabria. Tutta questa cocaina, tutta l’eroina, destinata alla Sibaritide, chi la consuma? Ci si indigna molto quando gli ‘ndranghetisti spostano tonnellate di cocaina da Gioia Tauro al resto d’Italia e del mondo. Ma quando gruppi locali la cocaina o l’eroina la portano a casa propria, che impatto può avere questo consumo sul tessuto sociale di riferimento, quello stesso tessuto di cui le organizzazioni criminali poi si nutrono? Ma sulla luna dovremo interrogarci in un altro momento.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    «Ancora, a distanza di anni, non capisco come si potesse sparare dalle terrazze e dai balconi della città migliaia di colpi contro i falchi pecchiaioli e di come non venisse attivato un servizio di garanzia dell’ordine pubblico. Questura e Prefettura dov’erano?».
    Quegli spari stridevano con ciò che Nino Morabito, dirigente di Legambiente e ambientalista reggino di lungo corso chiama «il silenzio che regnava sovrano». Nino ha tanto contribuito ad abbattere del 99% il fenomeno della caccia illegale dei cosiddetti adorni durante la migrazione riproduttiva.

    È uno dei partecipanti all’uscita verso Pietra Cappa, che racconterò nella prossima puntata, ed è un ex consigliere dell’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte. Non ha mezzi termini sulle condizioni della media valle e della montagna: «Vedo, a dispetto degli obblighi di legge, intere aree prive dei controlli minimi, in piena zona A (tutela integrale, ndr.). Cose che, con le opportune scelte del caso, l’accesso culturale, col supporto delle guide, sarebbe sacrosanta. Ancor oggi comanda lo scempio del pascolo abbandonato, delle stalle abusive e delle attività illegali che dovrebbe essere punito e represso».

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    Cacciatori (regolari) all’opera in Aspromonte

    Rapaci migratori: dallo Stretto all’Aspromonte

    La storia di oggi riguarda lui e il movimento creato a tutela dei rapaci che ogni anno, a primavera, passano dallo Stretto di Messina sorvolando l’Aspromonte per dirigersi a nord fino in Scandinavia e a est, in Europa centro-orientale, sulla rotta del Conero e delle Prealpi orientali. Questa storia ha radici antiche ed è figlia degli anni Ottanta, quando Reggio somigliava più a Beirut che a una qualsiasi città italiana.
    Sono gli anni della guerra di mafia, della passeggiata del Lungomare Falcomatà ancora inesistente, dei soldi facili, dell’eccesso. A Reggio in primavera si spara. Anche in piena città. Dalle terrazze e dai balconi.

    Migliaia di rapaci transitano per la riproduzione da sud a nord con picchi di passaggio di migliaia di esemplari selvatici tra il 20 aprile e il 20 maggio di ogni anno. La migrazione è da sempre un momento critico nella loro vita: c’è un alto rischio di morte che per alcune specie supera anche il 50% della loro popolazione.
    Siamo negli anni Ottanta e «sul solo versante calabrese ci sono dalle 13mila alle 15mila persone che sparano».

    Lo stretto di Messina, insieme al Canale di Sicilia, al Bosforo e allo Stretto di Gibilterra, è uno dei crocevia nella migrazione dei rapaci sull’asse Nord-Sud/Sud-Nord.
    Questo perché «per oltrepassare il Mediterraneo senza disperdere troppe energie necessarie per il lungo viaggio, i rapaci – che oltretutto non sono uccelli acquatici e non possiedono il piumaggio reso impermeabile da secrezioni di apposite ghiandole – devono attraversare il mare utilizzando i corridoi più stretti per sfruttare le correnti ascensionali favorite dalla presenza non della superficie omogenea dell’acqua, ma dalla diversità della terra sottostante», racconta Nino.

    «Il fenomeno è facilmente osservabile nel «territorio che va da Pellaro a Palmi a seconda delle condizioni meteo. A meno che non subentrino venti intensi sul canale di Sicilia dai quadranti di Sud e Sud-Est particolarmente proibitivi per attraversare 150-200 km di mare per i rapaci. Questo li costringe ad attendere anche diversi giorni consecutivi nel versante tunisino e libico senza lasciare la costa, in attesa del momento giusto per partire», chiarisce Nino.

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    Nino Morabito

    Reggio città occupata

    Negli anni Ottanta Reggio è un territorio in emergenza e lo resterà per buona parte dei Novanta. Faide e attentati spingono lo Stato a mandare contingenti di bersaglieri a presidiare una città che appare fuori controllo.
    La caccia illegale all’adorno è un fenomeno più che diffuso. «Era una consuetudine delle vecchie generazioni legata alla tradizione delle cacce primaverili rese illegali dopo il 1977, dato che era biologicamente errato cacciare la fauna selvatica che si spostava per riprodursi. C’era poi una componente simbolica legata a forme di goliardia e competizione così come di iniziazione maschile, che sconfinava fino a veri e propri atti di dominio sul territorio. Non è un caso che una buona percentuale dei fermati negli anni, sparasse con un’arma con la matricola abrasa».

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    Rapaci in Aspromonte (foto di Peter Horne)

    «Tutto questo non doveva per forza significare che i soggetti in questione fossero propriamente malavitosi, ma che si aggirassero in certi coni d’ombra di confine, questo sì. Più in generale mi sono accorto che vigeva una sorta di impercettibilità di una pratica che, pur illegale, veniva considerata come qualcosa a cui proprio non si poteva rinunciare. Mentre le forze dell’ordine restavano immobili», aggiunge Nino.

    Inizia la battaglia per i rapaci

    Quella che sarebbe diventata la battaglia di Nino inizia in Sicilia nel 1984 con le denunce dell’appena quindicenne Anna Giordano, determinata figlia dell’allora direttore del Cnr di Messina. Parliamo di una giovane appartenente a una famiglia di cultura elevata che ha sostenuto le sue scelte.
    Anna, assieme a un’altra ragazzina poco più piccola, Deborah Ricciardi, denuncia lo sterminio di rapaci e comincia a lottare. Il 1984 è l’anno in cui si svolge il primo campo di attivisti per il monitoraggio e la tutela della migrazione dei rapaci, dove è presente anche la Lipu cui Anna, assieme ad altri attivisti siciliani, ha aderito. Contemporaneamente sul versante calabrese, si formano i primi gruppi con le stesse procedure: adesione alla Lipu e organizzazione dei primi presidi che sfociano nel primo campo calabrese. Siamo nel 1985.

    Attivisti in azione contro i bracconieri

    La caccia illegale di rapaci in Aspromonte

    La caccia illegale di rapaci è un fenomeno complesso fatto di dimensioni diverse e intersecate che permeano le comunità: sociale, economica, culturale. Nino mi racconta che «durante la migrazione di ritorno, tra agosto e settembre, i rapaci tengono quota e possono essere scorti solo dall’Aspromonte. Invece in primavera, all’andata, gli uccelli perdono quota nell’attraversare lo Stretto».

    «I rapaci passano a migliaia e puoi vederli vicinissimi, anche a sei o sette metri di distanza, specialmente da Archi, Gallico, Catona e Campo Calabro. Sono facili prede. In passato, tra retaggi culturali, simbologie, goliardia, il fenomeno, almeno all’inizio, generava un’economia di scala. Le migliaia di tiratori affittavano postazioni di tiro, compravano colazioni, avevano disposizione rudimentali laboratori di tassidermia abusiva, spesso nel retro delle stesse armerie che vendevano loro fucili e cartucce». «Inoltre si era sviluppata un’economia indiretta di accompagnamento perché molti dei borghi e delle frazioni in cui si svolgeva la caccia allestivano veri e propri eventi finali con tanto di teatrini e feste di paese dove si celebrava il migliore e si dileggiava il peggior cacciatore», prosegue Nino.

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    Un volontario inglese antibracconaggio

    I feroci bracconieri degli anni Ottanta

    Negli anni Ottanta «la tensione era altissima: insulti e aggressioni verbali e fisiche erano all’ordine del giorno. Battevamo a macchina i comunicati stampa e li inviavamo via fax. Il Corpo forestale dello Stato raccoglieva personale da diverse parti d’Italia e lo convogliava in Calabria. La resistenza sociale era diffusa e si respirava un clima di guerriglia. Anche noi, come altri attivisti, ci siamo ritrovati le automobili distrutte a bastonate».
    L’impegno di Nino inizia durante la sua formazione universitaria a Parma, ateneo allora noto per nomi di altissimo profilo legati all’etologia: Danilo Mainardi, più conosciuto come divulgatore di Quark, ma anche Sandro Lovari per gli ungulati, Sergio Frugis per l’ornitologia, Gandolfi per l’ittiologia.

    «Coinvolsi alcuni colleghi a venire a darci una mano e, tra chi aderì, ci fu il figlio di un senatore democristiano che avrebbe poi dovuto proseguire la propria ricerca naturalistica in Africa. Durante un’uscita del nostro gruppo sopra l’acquedotto di Gallico, un gruppo di sei o sette bracconieri, raggiunti i volontari, distrusse la loro auto a colpi di pietre e bastone. Ogni giorno gli elicotteri scortavano le pattuglie che smontavano e dovevano fare rientro al quartier generale della Forestale allestito a Gambarie. Fino al 1995 le forze dell’ordine avevano l’ordine di presentarsi in assetto antisommossa: casco, giubbotto antiproiettile, mitraglietta. Quell’episodio ha cambiato la percezione del problema e del rischio», spiega il dirigente di Legambiente.

    Stormo di uccelli migratori

    L’attentato di Gambarie contro la Forestale

    Nino si riferisce all’attentato a colpi di lupara diretto contro la camionetta dei forestali, nel quale uno degli agenti, colpito alla gola, ha perso l’uso delle corde vocali e ha rischiato la vita.
    «Prima dell’88 eravamo assediati. Facevamo osservazione e monitoraggio in zona Santa Trada con decine e decine di persone che ci insultavano, mentre annotavamo numeri e passaggi: “Scrivilu, curnutu! 10 falchi… scrivattillu, sifiliticu!”. Noi eravamo lì a preservare il territorio e i bracconieri, che ci consideravano un corpo estraneo, ci sfidavano, ci osservavano, come facevamo noi, e studiavano le nostre mosse. Dopo aver pernottato in una struttura a Catona ed esserci ritrovate le auto distrutte abbiamo cambiato strategia: le macchine le affittavamo e ci spostammo a dormire a Lazzaro. Io facevo questa vita un mese e mezzo all’anno. Senza il nostro pungolo non ci sarebbe stata la reazione del territorio e delle Istituzioni».

    Mi racconta la sua versione Stefania Davani, attivista romana che incontro un pomeriggio di metà maggio trascorso sulla media valle del Reggino per assistere al passaggio dei migratori.
    «Ricordo benissimo quel periodo. La tensione, la paura, gli assalti». Erano gli anni del monitoraggio strutturato, dei gruppi vasti divisi in diverse postazioni di osservazione da nord a sud dello Stretto. «Durante uno di questi scontri con i cacciatori un gruppo di attivisti stranieri inseguiti fino in spiaggia, fu costretto sotto una sassaiola a gettarsi in mare con i vestiti addosso e uno di loro rischiò di annegare», spiega Stefania.

    Una migrazione sullo Stretto

    Gli stranieri contro i cacciatori

    Gli stranieri sono l’altra parte di questa storia. Stefania è sposata con uno di loro, l’inglese Peter Horne, che viene da anni in Calabria per monitorare i rapaci.
    «Mi occupavo già di tutela dell’avifauna in Gran Bretagna. Con mia moglie abbiamo questa comune passione. I primi anni qui sono stati terribili, Oggi, rispetto all’inizio, gli attacchi a Reggio e in Sicilia sono molto diminuiti. Questo è frutto di un lavoro congiunto fatto da attivisti e Carabinieri forestali. I rapaci non sono dei calabresi, dei siciliani, dei tedeschi o degli inglesi. Sono un patrimonio comune, europeo e mondiale, da difendere tutti insieme. Anche loro rappresentano il nostro futuro».

    Gli attivisti stranieri sono il grimaldello che Nino ha usato per piegare il bracconaggio: «Avevamo contattato organizzazioni amiche e gruppi di attivisti stranieri sensibili al tema. Li abbiamo di quanto stavamo facendo e gli abbiamo chiesto aiuto. Loro avevano aderito e le strutture competenti dei loro Paesi di provenienza avevano comunicato alle rispettive ambasciate che cittadini inglesi, tedeschi, svedesi, ecc. si stavano recando a Reggio Calabria per fare attivismo. Le stesse ambasciate avvisavano le autorità italiane che i loro cittadini potevano trovarsi in situazioni di rischio. Lo Stato fu chiamato a intervenire. Fu questa strategia l’arma bianca che ci fece ottenere una vittoria impensabile».

    Gli anni Novanta

    Le aggressioni fisiche sono proseguite anche negli anni Novanta.
    «C’erano ancora zone impraticabili e rischiose, tipo Rosalì o Calanna. Eppure, qualcosa cambiava. Lo Stato si muoveva, c’erano maggiore sensibilizzazione e consapevolezza, i rapaci erano protetti dal 1972, l’Unione Europea era intervenuta nel 1979 con la Direttiva Uccelli e l’Italia aveva promulgato la relativa ultima legge confermativa 157/1992».
    «Il dibattito pubblico nazionale e internazionale su questi temi si era imposto, il contrasto tramite fermi di polizia e sanzioni era serrato. Il risultato fu che, dopo i primi anni ’90, la partecipazione alle cacce diminuì. Molti che sparavano senza capire bene i rischi di varia natura (ordine pubblico, minaccia alla biodiversità, illegalità, sanzioni) si erano improvvisamente svegliati dal loro torpore e avevano preso coscienza».

    A colpi di arresti e di interrogazioni parlamentari la situazione si è normalizzata: «La normativa europea ci ha molto aiutato. I maggiori controlli e pressione, il monitoraggio e il lavoro degli attivisti hanno permesso grandi risultati. E, una volta diminuiti i tiratori, abbiamo cominciato a muoverci più agevolmente. In pochi anni il 50% dei bracconieri ha smesso di sparare».

    Tra gli episodi assurdi che Nino ricorda due in particolare rendono la consistenza del fenomeno. Innanzitutto, i mandati di consigliere comunale e regionale svolti dall’avvocato Francesco Tavilla dal ’95 al 2000 «con il solo proclama “viva la caccia agli adorni”», già ampiamente vietata. Poi l’interrogazione parlamentare «a seguito del decesso per infarto di un tiratore su una terrazza di Reggio Calabria, provocato – a dire degli onorevoli – dallo spavento per il sorvolo di un elicottero della Forestale».

    Attivisti di Legambiente

    La situazione oggi

    «Oggi rimangono un centinaio di irriducibili, comprese le aree interne (Solano, Villa Mesa, Calanna). Il fenomeno è stato abbattuto del 99%».
    I risultati sono eloquenti: «Il falco pecchiaiolo è ricresciuto in maniera significativa; sono tornate le cicogne, che erano quasi scomparse e hanno ricominciato a nidificare. Lo stesso dicasi per i falchi di palude, i grillai, le albanelle minori, il cuculo, il lodolaio», mi racconta Nino.

    La guerra però non è vinta: «Il bracconaggio è abbattuto ma cova sottotraccia. Bisogna tenere alto il controllo. Dato che il fenomeno è contratto, siamo organizzati in modo diverso: operiamo in modo dinamico e con azioni veloci. Raccogliamo indizi in diverse aree per fornire il quadro più completo possibile alle forze dell’ordine».
    Gli episodi ci sono ancora: «Quello beccato l’anno scorso era uscito dalla galera da sei mesi dove era finito per associazione mafiosa». La battaglia è importante perché colpisce i simboli, «toglie finestre di espressione con cui si può pretendere e presupporre che l’illegalità vinca. Non ha più un valore economico, ma sociale. È come le vacche sacre: un simbolo potente da debellare», chiarisce Nino.

    Uccelli migratori nel tramonto

    Una battaglia di civiltà tra ambiente, legalità e turismo

    Un valore sociale che fiorisce nelle mani delle nuove generazioni. Secondo Peter «c’è un fattore culturale legato all’avvicendarsi delle nuove generazioni: loro hanno ben chiaro che il mondo ha risorse limitate e che quello che abbiamo va salvaguardato». Ancor di più oggi, davanti agli stravolgimenti climatici, alle alluvioni e alle siccità ampiamente documentate.
    Il birdwatching e il monitoraggio dell’avifauna sono un presidio di legalità ed educazione per un intero territorio. Già: dimostrare che lo Stato pone un argine ai fenomeni illegali è un segnale importantissimo per territori come il nostro. Rappresenta la speranza di una comunità che non deve arrendersi. Un comparto su cui costruire nuovi percorsi turistici dedicati a un spettacolo visibile in pochissime aree al mondo, in cui lo Stretto e l’Aspromonte dominano.

  • Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

    Anche certe strade ferrate sono “Strade Perdute”. Una di queste è la linea ferroviaria a cremagliera tra Cosenza e Paola.
    La Biblioteca Nazionale di Cosenza ha ricevuto in dono, pochi anni fa, le carte del compianto ingegner Francesco Sabato Ceraldi (Fuscaldo, 1888 – Roma, 1960) relative alla realizzazione di questi 35 km di linea, che lo tennero impegnato dal 1911 al 1915 . Dipendente delle FF.SS., Francesco Sabato (il quale aggiungerà il secondo cognome solo nel 1939) aveva preso servizio a 23 anni come ingegnere allievo ispettore. Diresse in prima persona il cantiere di Paola, ostico per quella pendenza del 75 per mille che obbligò all’uso della rotaia supplementare centrale: la cremagliera, appunto.

    I monti di Paola

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    Francesco Sabato Ceraldi

    Questo suo fondo archivistico è un piccolo tesoro. Gioia non tanto e non solo per i topi d’archivio, ma anche per i cartografi e per chi si occupi di storia della tecnica. Circa un centinaio tra mappe e progetti, dal più generico al più particolare, dalla sezione longitudinale di ogni singola galleria all’edilizia ferroviaria di servizio, dalle varianti al tracciato più ardite, alle traversine, ai rubinetti dei servizi delle stazioni. E, infine, all’orografia dei monti di Paola, cupi e impenetrabili ora come allora.
    Fatevi un regalo, consultate quelle carte, un affaccio sulla stratificazione storica di sentieri, fabbricati rurali, stradine, stradone, gallerie e, appunto, strade ferrate che lambivano – nolenti e piuttosto impotenti – burroni, fiumi. Persino quello scenografico eremo di Santa Maria di Monte Persano, in agro di San Lucido.

    L’eremo e il laghetto

    Il tracciato di quella ferrovia è oggi abbandonato. In parte lo hanno convertito in strada carrabile, altrove è un sentiero, in altre parti restano ancora i binari. L’eremo, oggi, è invece quasi sfiorato dall’orrenda SS 107 (sta pochi metri più su rispetto alla doppia galleria, per intenderci) mentre restava lontano dal vecchio tracciato della cosiddetta strada della Crocetta. Terra di curve e/o di gallerie, terra di mal di pancia o segni della croce se l’attuale treno da Paola a Castiglione Cosentino si dovesse fermare al buio in quei dieci minuti di galleria.

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    L’eremo di Monte Persano, risalendo da Paola verso Cosenza

    Strada gemella della vecchia Crocetta è invece la meno conosciuta SP 31. Sale da Fuscaldo verso Montalto, passando attraverso San Benedetto Ullano, il paese che diventò albanese senza esser nato tale. Mirabile allungatoia di fortuna, alla bisogna, che pochi hanno la curiosità di percorrere, per certe ritrosie abitudinarie che restano incomprensibili.
    C’è pure un grazioso laghetto lì dove si scollina. E nel laghetto abbiamo finanche un primato, il nostro piccolo e più innocuo “mostro” di Lochness: il Tritone alpino (Triturus Alpestris Inexpectatus, si chiama proprio così), un animaletto preistorico sopravvissuto quassù, come tante altre cose…

    Laghicello
    Il “laghicello” di San Benedetto Ullano

    Lo Stromboli da sopra Paola

    Ad esempio, quei riti – a metà tra realtà e leggenda – che altro non sono se non deformazioni degli antichi culti dionisiaci e orfici. Tra essi, la dibattuta farchinoria calabrese, nemmeno troppo differente da certi culti agrari relativi alla stregoneria popolare del nord-est italiano. Eppure è rimasta in un alone di mistero da quando lo studioso Giovanni De Giacomo provò a scriverne agli inizi del Novecento su una rivista tedesca di antropologia che rifiutò lo scritto in quanto troppo osceno e cessò poi le pubblicazioni.

    Tritone-paola
    Un tritone alpino

    Pazienza: abbiamo Tritone, Dioniso e Orfeo… possiamo accontentarci di questi tre. Se non fosse che dai monti di Paola si vede facilmente, e spesso, lo Stromboli. E allora mi vengono in mente i riti magici popolari di quelle isole e le formule del taglio delle trombe d’aria di cui ho già scritto. Quelle formule che risuonano e rimbombano sullo specchio d’acqua fra la Calabria e le Eolie, come minimo. Da millenni, sempre uguali.

    Farchinoria ed ergotismo

    E allora mi viene da chiedermi sempre la stessa cosa: quanto uso si faceva, qui dalle parti della farchinoria, della farina di segale? Vi chiederete cosa c’entri questa domanda. C’entra tantissimo: può muoversi un appunto nei confronti di Ernesto De Martino, ovvero il non aver esaminato a fondo la natura originaria di alcuni aspetti del mondo magico popolare, di quegli episodi legati all’onirismo, alle visioni e, aggiungo, alla credenza nei miracoli.
    È noto, oramai, quanto alla base delle più diffuse credenze di carattere soprannaturale si debbano collocare iniziali episodi di isteria collettiva, psicosi collettiva o, ancor più acutamente, di ergotismo, ovvero la patologia conseguente alle epidemie di segale cornuta. Ed è altrettanto noto quanto, nel mondo antico, la segale fosse utilizzata nell’alimentazione. Già Ippocrate parla del “morbo negro” e solo più tardi si parlerà di secale luxurians.

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    Pane di segale

    Tuzzunara e LSD

    Il fungo parassita detto Ergot è lo stesso da cui, verso la metà del Novecento, Albert Hoffman ricavò l’LSD. E ad Alicudi, per esempio, è ancora viva la memoria di allucinazioni collettive che produssero le più diverse forme oniriche tramandate, poi, in forma orale, alla stregua di leggende. La probabile epidemia di ergotismo che ne starebbe alla base è confermata dall’inveterato uso della segale nei processi di panificazione locale. Basti pensare che la farina prodotta con la segale alterata, quella appunto “cornuta”, aveva persino un proprio nome dialettale: la tuzzunara.

    Memorie e oblio

    Non è rimasto quasi nulla neppure di queste memorie. Siccome non si può pretendere da tutti la curiosità di uno storico né lo stesso suo attaccamento alle cose passate, succede pure che ognuno ricordi solo le cose vissute in prima persona e al limite quelle più interessanti raccontate dai propri genitori o dai propri nonni. Tutto il resto cade nell’oblio, di generazione in generazione, per incuria e per disinteresse, nel senso più stretto del termine: l’assenza di un profitto recepibile nell’immediatezza.

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    Cantonieri calabresi a fine ‘800

    Per le piccole cose materiali, la dinamica è più sottile: se si guarda quanti anni ha l’oggetto più antico che si possiede ci si può facilmente rendere conto della caducità della memoria materiale. E non mi riferisco certo all’antiquariato acquistato ex post ma agli oggetti di famiglia; nemmeno ai pochi fortunati casi di famiglie più o meno blasonate e più o meno fornite di patrimoni mobiliari aviti di qualche pregio. La giacca di quel nostro antenato del Settecento (e un rapido calcolo potrebbe mostrarvi con sorpresa come ciascuno di noi abbia necessariamente avuto all’incirca millecinquecento antenati diretti vissuti nel solo diciottesimo secolo) o lo scialle seicentesco di un’altra o il calamaio cinquecentesco o la forchetta quattrocentesca sono spariti.

    Vecchio e antico

    In parte ciò è giustificabile anche a seguito di fattori oggettivi che ne imponevano l’abbandono: si pensi alla peste del Seicento che costrinse a incendiare interi paesi con tutto quello che vi si trovava. E si pensi a quei cicli di impoverimenti che pure hanno colpito tutte le famiglie e che costrinsero alla vendita (e, d’altro canto, al furto) di quasi tutto ciò che si possedesse e almeno degli oggetti preziosi. Questa giustificazione non è applicabile però a tutto: il resto, se non degradato e non diversamente riutilizzabile, è stato deliberatamente gettato via quando era troppo vecchio e non ancora antico per essere apprezzato con altri occhi.
    Cosa è vecchio, adesso, in questo momento storico? Cosa potrebbe diventare antico? E cosa stiamo perdendo senza magari nemmeno accorgercene?

  • MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    MAFIOSFERA | Grosso affare a Chinandrangheta

    Servono all’incirca 240mila euro per finanziare dall’Italia – dalla Calabria – un acquisto di cocaina pura di poco più di 30 kg. Un chilo costa all’incirca 7.200 euro ma la cifra raccolta deve coprire anche le spese di conversione, cioè un 17-18% che un’organizzazione al servizio degli importatori si prende per trasformare quei 240mila euro in 240mila dollari, e “spostarli” in Brasile.

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    Droga sequestrata nel corso dell’operazione Aspromonte emiliano

    Chinandrangheta

    L’operazione Aspromonte-Emiliano della distrettuale antimafia di Bologna di fine maggio 2023 ha confermato e sviluppato il filone di indagini già presentato durante operazione Eureka all’inizio del mese, sulle relazioni tra criminalità organizzata come la ‘ndrangheta e organizzazioni di soggetti di nazionalità cinese in Italia specializzati proprio in questo servizio di riciclaggio e spostamento internazionale del denaro legato al traffico di stupefacenti.

    Nell’indagine bolognese le Guardia di Finanza conferma come una rete di persone di nazionalità cinese si sarebbero servite del sistema di fei ch’ien o “denaro volante” (un sistema informale di trasferimento di denaro) prelevando il denaro dall’organizzazione criminale ‘ndranghetistica per poi inviarlo attraverso una lunga catena di bonifici, ad aziende commerciali ubicate in Cina e Hong Kong. Da queste aziende poi, i soldi ripuliti verrebbero nuovamente inviati ai narcotrafficanti e anche ai broker in Sudamerica tramite una serie di “agenti” all’estero. Il sistema è molto bene oliato e – possiamo immaginare – non sia nuovo neanche per le nostre organizzazioni criminali.

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    Hong Kong è una delle città di approdo dei soldi riciclati dai cinesi

    “Lavanderie” asiatiche

    Uno dei segreti non segreti legati al narcotraffico, e soprattutto al narcotraffico di alto livello come quello della ‘ndrangheta, è sempre il riciclaggio di denaro. Se non si ripuliscono i soldi, il narcotraffico non funziona, è monco. Ma se riciclare denaro non è sempre una questione di avere sofisticati mezzi o di fare il giro del mondo, grazie al contrasto effettivo – soprattutto in alcuni paesi come l’Italia – il riciclaggio è sempre più questione per specialisti. E in questo caso, gli specialisti non possono che venire dal Sud-Est Asiatico, dal momento che sono decenni che gruppi criminali cinesi si stanno specializzando nel riciclaggio di denaro.

    Il sistema bancario clandestino

    Ci ricorda la ricerca che già nel 1983 alcuni documenti della DEA americana (Drug Enforcement Administration) ipotizzavano l’esistenza di un “sistema bancario clandestino” dominato da gruppi criminali cinesi nel Sud-Est asiatico. Negli Stati Uniti, in quegli anni – ma la situazione è cambiata poco – emerse che la maggior parte del denaro dell’eroina fosse gestito in Asia dal sistema bancario clandestino cinese. Persino le famiglie italo-americane della mafia newyorkese si affidarono in alcuni casi a gruppi di cinesi. Anche oggi, i traffici di cocaina negli USA, secondo la DEA, passano tramite gruppi di riciclatori tra Cina e Hong Kong.

    Già nel 1983 documenti della Dea ipotizzavano l’esistenza di un sistema bancario clandestino

    Tra cambiavalute, negozi di oro e società commerciali, il sistema bancario clandestino era legato da vincoli di parentela a un’intricata rete di altri interessi commerciali cinesi a cui il mercato dell’eroina si legava. All’epoca la DEA avvertiva che le procedure di registrazione di questo sistema bancario clandestino erano quasi inesistenti. Per trasferire denaro da un Paese all’altro si usavano messaggi in codice, chat e telefonate. Il sistema era in grado di trasferire fondi, spesso in valute diverse, da un Paese all’altro in poche ore, di garantire l’anonimato del cliente, di offrire una transazione praticamente in quasi totale sicurezza. Era complesso allora ed è tuttora complesso nonostante molti passi avanti siano stati fatti per capire e contrastare questo sistema.

    La Cina è vicina… alla Calabria

    Ma se è almeno dagli Ottanta che si conosce questo meccanismo e i suoi attori significa che sono oltre 40 anni che si è consolidata la reputazione, e affermato il riconoscimento, del “sistema cinese” di riciclaggio. Dunque, quasi pari ai tempi della mafia calabrese sullo scacchiere internazionale laddove, come si sa, sono 30-40 anni che alcune ‘ndrine sono diventate punto di riferimento per il traffico degli stupefacenti.
    Insomma, calabresi e cinesi – quando si tratta dell’area criminale di propria competenza – si parlano da pari perché hanno pari reputazione, storia e riconoscimento criminale nelle proprie ‘specializzazioni’.

    Il servizio di pick-up money da parte dei cinesi è dunque parte di una relazione stabile con gli ‘ndranghetisti. Non solo in Calabria, ma anche in Europa. Già in operazione Pollino-European ‘ndrangheta connection, nel 2018, si era visto come il canale cinese avesse aiutato il movimento di denaro. E come il sistema fosse rodato anche da ‘ndranghetisti in altri paesi europei, per esempio in Germania.

    Diceva Luciano Camporesi a Domenico Pelle che non c’erano problemi a muovere denaro coi cinesi: «Se mi dici Hong Kong ce l’ho… ti arriva il cinese, ti porta… ti porta i soldi. Gli dai l’appuntamento in albergo e ti porta i soldi e non è un problema…».
    Pelle allora prospettava sempre a Camporesi di effettuare il pagamento della sostanza stupefacente proprio attraverso la Cina, canale questo già sperimento da lui, in quanto, in passato aveva pagato tramite bonifico e chi lo aveva ricevuto era rimasto soddisfatto: «Ma in Cina non ti conviene di più? L’altra glielo abbiamo mandato noi con il bonifico, ci hanno fatto festa». Un terzo uomo, Giorgio, aggiungeva che in Cina era semplice mandare i bonifici in quanto vi sono molte aziende, «perché là ci sono le aziende e gli… gli conviene di più…».

    L’applicazione di messaggistica SkyEcc

    I messaggi criptati

    La stabilità del rapporto continua oggi, come si vede grazie alle indagini su SkyEcc – un’applicazione di messaggistica criptata basata su abbonamento – che è stata smantellata, i cui messaggi – un’enormità – sono stati decriptati e sono ora in uso da varie polizie europee grazie anche al supporto di Europol. I messaggi decriptati di SkyEcc sono confluiti tra le prove a sostegno sia di Eureka che di Aspromonte-Emiliano. Lo smantellamento dei sistemi criminali e delle reti di cui si compongono è oggi arrivato a livelli ancora più sofisticati, riuscendo a entrare nelle comunicazioni tra gli attori e a capirne specializzazioni e contatti. Si parla, su SkyEcc, molto liberamente, e questo favorisce anche lo scambio di informazioni e l’accrescimento delle reputazioni.

    Ad esempio, si legge in operazione Eureka, il 18 novembre del 2020 l’utente 9W8SEC di SkyEcc chiedeva a Sebastiano Mammoliti, classe 2003, se conoscesse persone in grado di far giungere il denaro in Sudamerica anche con il metodo dei change money: «Ma te micca hai change” … “for i soldi?” … “per mandare i soldi di la fra cioè Brazil Ecuador”…”e loro tengono la loro %”…”si usano i change money”… “di più fanno i cinesi questi lavori” … “che ci serviranno fra” … “per il nostro lavoro”».

    «Più di un milione alla volta non si prendono»

    Il 20 agosto del 2020 Francesco Giorgi, classe 97, in quel momento a San Luca (RC), e Paolo Pellicano, soprannominato Rambo, in quel momento dimorante a Montepaone, pianificavano su SkyEcc gli impellenti trasferimenti su ruota di proventi del narcotraffico per compensi pari a 1% dell’intera somma di volta in volta movimentata. Giorgi ricorda che i «cinesi» a Roma «più di un milione alla volta non si prendono». Insomma, molte delle regole continuano a farle loro, i riciclatori. Ma ovviamente il rapporto è transazionale, di servizi comprati e resi, e serve tutto a distribuire meglio i rischi.

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    La banconota usata come token a Roma

    A Roma il sistema è semplice. Pellicano deve recarsi ad un indirizzo concordato, dove un soggetto, asiatico, si mostrerà con una banconota contrassegnata da un numero di riconoscimento. Quel numero di riconoscimento è il token comunicato a Pellicano per la consegna. Lucio Aquino, da Maasmechelen, che in quel momento agisce da broker sia con i cinesi che con i colombiani – destinatari delle somme riciclate – dà indicazioni sulla chat di gruppo su SkyEcc a cui partecipano Giorgi, Pellicano e anche Francesco Strangio, a Genk, in Belgio.

    Aquino conferma: «Dovete consegnare dopo che vi fanno vedere il token»… «Devi dare 1 token 1 milione». Si inviano foto col numero del token, dunque della banconota, e anche quando ci sono dei problemi – Pellicano a un certo punto non riconosce il numero del token e scriverà in chat «il cinese si è avvicinato con banconota da 5 euro ma non combacia» – tramite chat si risolvono tutti. «Arrivano cinesi da tutte le parti…» scriverà Pellicano, in quanto a quell’indirizzo aspetta due gruppi di riciclatori, uno da Napoli, che fa ritardo anche per via del traffico.

    Riciclaggio ‘ndrangheta

    Che si tratti di un’operazione sofisticata e di un gruppo specializzato di riciclatori viene confermato da alcune richieste che il gruppo dei cinesi fa ai calabresi – legati alle ‘ndrine di San Luca – che stanno raccogliendo la somma necessaria. Perché si raggiunga l’accordo sono infatti necessari almeno 500mila euro altrimenti l’emissario del gruppo dei riciclatori non andrà proprio a San Luca a recuperare la somma, insomma il lavoro non verrà accettato. Inoltre, la somma comprende anche la garanzia del rimborso per intero nel caso di sequestro del denaro durante il trasporto – quindi i calabresi possono stare tranquilli.

    Se non si riesce a convincere «i cinesi» a scendere in Calabria ed effettuare il ritiro di una somma inferiore, si può ricorrere al «cugino di un albanese», che sta a Roma, che uno dei Giampaolo ha conosciuto in Brasile e che può accollarsi il rischio della transazione anche per somme più basse. Ma ovviamente il rischio per gli ‘ndranghetisti aumenterebbe, dal momento che il servizio non è completo di garanzia. Ma anche raccogliendo 2 milioni – cosa che in un momento il gruppo riesce a fare – da consegnare ai cinesi, il rischio di consegna a Roma viene comunque giudicato inferiore rispetto alla discesa in Calabria degli emissari del gruppo cinese.

    Rapporti di fiducia

    Insomma, il mondo del crimine organizzato è altamente incerto e l’incertezza si gestisce trovando metodi alternativi di fiducia. Laddove nel mondo legale la fiducia arriva da metodi sanzionatori e dalla protezione dei sistemi giuridici, nel mondo illegale la fiducia arriva dalla longevità del rapporto, dalla reputazione, dal riconoscimento reciproco – “gente nostra”, “nostri amici”. Tra clan di ‘ndrangheta e gruppi di origine cinese il rapporto è duraturo perché fiduciario e perché basato sugli stessi criteri di riconoscibilità nei “mercati” di riferimento (droga per i calabresi, denaro per i cinesi). E guardare ai rapporti tra i gruppi specializzati ci ricorda anche che nel mondo della criminalità organizzata nessun gruppo è davvero mai autonomo, e che un’efficiente attività di contrasto non può mai solo focalizzarsi su un aspetto del problema e sottovalutare gli altri.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    GENTE IN ASPROMONTE | Il maiale sulla tavola reale dei Windsor

    Questa tappa di Gente in Aspromonte riguarda medie valli, allevamenti, suini, cooperative, testardaggine e riscatto dalla marginalità. Ne sono venuto a conoscenza da un intreccio di contatti passato per la Toscana e rimbalzato a Reggio Calabria. Capito di cosa si trattasse, ho creduto che la storia che segue dovesse essere raccontata. Perché è l’emblema di come l’impegno sociale, la cultura imprenditoriale, il riscatto dalla marginalità e le convergenze possano creare occasioni di sviluppo. Anzi, di sviluppo da una rinascita. Da un ritorno.

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    La cooperativa Maiale nero d’Aspromonte al gran completo

    Lungo la Statale 106

    L’appuntamento con i suoi protagonisti è ad Ardore Marina, a due passi da Locri, una novantina di km da Reggio da attraversare sulla SS 106. Dalla città, imboccando la litoranea, ci si tuffa in un percorso sospeso tra mare e monti verso sud. Oltrepassa promontori, scavalca scogliere, si incunea snodandosi tra i bianchi calanchi fino a gettarsi tra le gallerie della nuova superstrada. In primavera si aprono vallate aggredite e inondate dalla ginestra, dove, a volte, la macchia mediterranea è stata usurpata dall’impianto di eucalipti. Superata Palizzi, la nuova pedemontana sfuma sulla vecchia litoranea tra pinete, canneti e abusivismo edilizio. Il viaggio sulla SS 106 verso la Locride ha sempre il suo effetto: il filmato di un eterno conflitto, quella strana commistione dove l’arcaico si mischia al tempo immobile di una provincia che ruota intorno a un bar, a una cattedrale, a qualche esercizio commerciale; una provincia sfregiata dal cemento, dall’isolamento e da una sorta di determinismo ineluttabile a cui pare si nasca già inchinati.

    Maiali alllevati in semilibertà

    Il maiale nero allevato in semilibertà

    Arrivo ad Ardore alle 10 di un mattino che odora di pioggia. Mi aspettano in piazza Piero Schirripa e Attilio Cordì, fondatori della Coop Maiale Nero d’Aspromonte. Piero e Attilio hanno due passati molto diversi alle spalle, per formazione, retroterra familiare, percorsi di vita. Entrambi hanno lasciato qualcosa e trovato qualcos’altro in un’odierna comunione di intenti che li ha resi compagni per sorte, impegno e passioni. Parcheggio e me li trovo davanti. Il primo vestito da caccia, lo sguardo acuto dietro gli occhiali, e il secondo con la sua cartellina in mano e gli scarponi da montagna ai piedi. Un caffè al volo e ci spostiamo a Baracalli, verso l’allevamento di Fortunato Sollazzo, uno dei 18 che sono parte della loro cooperativa.

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    Fortunato Sollazzo fa parte della cooperativa Maiale nero d’Aspromonte

    Contrada Baracalli è una frazione del Comune di Benestare. Siamo a 400 metri sul livello del mare, nella media valle del comprensorio. Dall’alto, dove ci fermiamo a scattare qualche fotografia, l’allevamento si confonde tra la vegetazione. Attilio mi affianca e punta il dito davanti a me ad indicare qualcosa: «Lo vedi quel verro che corre?». Aguzzo la vista e, in corrispondenza al suo dito, noto una macchia scura che si aggira sulle pendici dei monti. «I nostri allevamenti seguono questi standard: la sostenibilità, il benessere animale, la semilibertà. Andiamo che ti presento Fortunato».

    Benedetta da Dio

    Quasi cinquantino, Fortunato è un tecnico installatore e un allevatore restato per passione: «Benvenuto!» Parte il secondo caffè. «Viviamo in una terra benedetta e conflittuale. Siamo figli degli arabi. Baracalli è un toponimo arabo: Baraq Allah, benedetta da Dio. Per anni, finché non ci siamo insediati, questi terreni sono rimasti abbandonati. Ma qui sono nato e qui voglio restare, seminando per raccogliere i frutti del mio lavoro. La mia azienda sorge nel 2017 come allevamento della razza appulo-calabrese. Quando è nata la cooperativa ho deciso di aderirvi e di cambiare tipologia di suino. Oggi mi occupo di maiale nero d’Aspromonte».
    Fortunato, come poi Piero e Attilio, mi spiegano che si tratta di una razza unica che ha rischiato l’estinzione e che differisce dal suino nero. Questi maiali portano con loro caratteristiche organiche e nutrizionali uniche e si distinguono dagli altri per la presenza di una coppia di bargigli sotto la mandibola, ancora oggetto di studio. Probabilmente la loro funzione è di regolare la sudorazione e la temperatura corporea di animali robusti che vanno dai 100 ai 120 kg e le cui carni, particolarmente apprezzate per la produzione di prosciutti e culatelli, hanno una qualità straordinaria.

    Una lotta contro l’abbandono

    «Alleviamo il fresco, non facciamo trasformazione. La cooperativa ci aiuta a vendere sia su base locale che su base nazionale. In pochi anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. La tipologia di allevamento che ho realizzato progetta il futuro guardando al passato: i maiali in antichità – e la storia dell’Aspromonte ce lo insegna – era allevato al pascolo, non stallato. L’allevamento massivo provoca cariche batteriche altissime. I nostri maiali vivono in semilibertà, hanno a disposizione lo spazio vitale che occorre affinché crescano sani, robusti e seguendo un ritmo naturale. Sono partito da zero, senza supporti o sovvenzioni. Oggi ho 13 dipendenti e mi batto perché le istituzioni capiscano l’importanza del mio lavoro e di quello degli altri allevatori. Finché la montagna e la media valle non sono state abbandonate, parlo degli anni ‘60 e ‘70, la campagne venivano pulite, i torrenti controllati. Oggi è tutto all’abbandono».

    L’allevamento di Fortunato sorge su un terreno argilloso, ricco di potassio, accanto al letto di una fiumara che non ha più argini. «Voglio lottare perché il minimo indispensabile sia realizzato, perché avvenga un ripristino dell’area rurale. E non sono il solo. Ho con me gli altri allevatori».

    L’unione fa la forza? Fuori dalla Calabria

    In tutti i viaggi che ho fatto, la Cooperativa del Maiale Nero d’Aspromonte è la prima – e forse unica – coop di medie dimensioni che ho incontrato. Per uno che ha vissuto diversi anni tra Umbria ed Emilia Romagna è respirare una boccata di aria. Quello che mi sono sempre chiesto è perché il modello cooperativo in una terra priva di grandi realtà imprenditoriali e vocata ad agricoltura, allevamento e turismo non riesca, con tutti i suoi limiti, ad attecchire. Fortunato ne fa un problema culturale: «Noi calabresi siamo individualisti e conosciamo fin troppo bene i meandri dell’invidia. Due sentimenti ottusi e controproducenti che ci dispongono gli uni contro gli altri. Manca completamente la cultura dell’impresa e del lavoro, non il lavoro. Con la terra si può vivere. Anche in Calabria. Io ho difficoltà a trovare operai: quando sentono maiali e fatica si intimoriscono. Ma il nostro non è un allevamento intensivo, non esci puzzando di stalla, letame ed urina. Puoi vederlo da te. Decenni di assistenzialismo hanno prodotto il disastro culturale che abbiamo sotto gli occhi, che poi si trasforma in disastro economico e sociale. Non scordiamoci la storia dei finti braccianti agricoli. Oggi paghiamo le conseguenze, trovandoci una serie di terreni abbandonati».

    Un seconda possibilità per gli ex detenuti

    È quello che ci ha tenuto subito a precisare Piero. Perché la cooperativa viene da lontano ed è uno dei tanti progetti avviati grazie all’aiuto dell’allora arcivescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, in prima linea per sottrarre terreno al malaffare e promuovere una nuova fioritura della Locride: un’iniziativa partita dalla ricerca di esemplari di maiale nero in Aspromonte e poi concentrata sul miglioramento della specie. La cooperativa, infatti, è nata anche con l’obiettivo di dare una nuova possibilità di vita ad ex detenuti: «Ci sono due modi per aiutare i più deboli: o fai assistenzialismo, con i gli inevitabili danni che seguono oppure dai loro una canna da pesca insegni a pescare. Noi abbiamo deciso di dare le canne da pesca agli ex detenuti. Con loro abbiamo realizzato 40 ettari di serre e un’organizzazione con venti aziende di allevamento. Aiutare significa dare una vera chance di vita, dotando di gambe per poter camminare autonomamente. Con sacrifici, spesso attingendo alle nostre tasche, abbiamo messo su attività sociali e produttive al tempo stesso, aziende che operano sul mercato. La nostra ricetta è stata prendere soggetti deboli e farli diventare forti».

    Un cammino pieno di ostacoli

    E non è stato facile, perché «abbiamo subito tre interdittive antimafia, dato che lavoravamo con gli ex detenuti della Cooperativa Valle del Buonamico. Una cosa folle. Non avevamo nulla di che temere e infatti l’abbiamo spuntata sia al Tar che al Consiglio di Stato, ma abbiamo pagato un doppio prezzo molto caro, primo perché si tratta di procedimenti giudiziari costosissimi, secondo perché in prima battuta il progetto è naufragato».
    Piero, che da direttore sanitario dell’ospedale di Vibo Valentia, ha subito intimidazioni e attentati senza mai piegarsi – come anche riportato nei verbali delle testimonianze dell’inchiesta Rinascita-Scott -, si riferisce al progetto originario avviato con un finanziamento congiunto di Regione Calabria e MIUR di 670.000 euro. Una ricerca tesa a studiare le caratteristiche del suino nero d’Aspromonte per tipizzarlo e verificare, attraverso lo studio del suo DNA, se costituisse razza a sé.

    «In particolare dato che il maiale ha i suoi tempi, e non segue di certo quelli giudiziari, l’intera impalcatura della ricerca è venuta meno. La Regione ha proposto di recuperare la cosa in maniera cartacea, ma noi non abbiamo accettato. Però dopo dieci anni di percorso carsico, anche senza finanziamenti, con la nostra passione, abbiamo mantenuto in vita questa idea e poi siamo esplosi».

    I maiali con più omega 3 dei pesci

    Oggi la Coop Maiale Nero d’Aspromonte è una realtà che punta in alto. Mi racconta Attilio che «grazie alla preziosa collaborazione con il professor Pino Maiorana dell’ateneo di Campobasso il nostro percorso di ricerca prosegue. Prendiamo campioni di carne, li analizziamo, li categorizziamo e realizziamo la carta di identità del maiale che viene consegnata all’acquirente. Abbiamo scoperto che i nostri maiali possiedono caratteristiche uniche: un quantitativo di omega 3 superiore ai pesci con un rapporto con gli omega 6 pari a nessun altro; livelli importanti di topoferolo e di acidi grassi saturi e insaturi. E la presenza di buone proporzioni di acido leico e linoleico che richiedono sì una stagionatura più lunga delle carni, ma, in termini di qualità, l’attesa vale la pena».

    Il maiale aspromontano sulla tavola dei Windsor

    Attilio è un ritornato. Porta un cognome pesante e ritorna a nuova vita da un passato spietato che ha ripudiato affrancandosene completamente. Una rinascita, meglio che un ritorno, grazie a questo cammino fatto di impegno e di lavoro a contatto con la natura e gli animali. Attilio, per chi lo vuole e lo sa guardare, è un simbolo di riscatto. Oggi è coordinatore e direttore tecnico della cooperativa.
    Mi racconta anche che le loro carni, vendute e lavorate nelle aziende toscane e romagnole di assoluta eccellenza vengono servite sulle tavole delle Real Case di mezza Europa, Windsor e Grimaldi per primi. «Collaboriamo con nomi noti della gastronomia italiana come le sorelle Gerini in Toscana e Massimo Spigaroli, re del culatello di Zibello. Hanno colto immediatamente la qualità del nostro prodotto. E sono stati quelli che ci hanno realmente supportato. Oggi la cooperativa è un laboratorio in continua evoluzione. Come ti ha detto Fortunato, si tratta di una realtà che mette al primo posto il valore della sostenibilità e del benessere animale: un modello seguito da diciotto aziende, quattro delle quali si trovano qui ad Ardore».

    Il logo della cooperativa

    Non solo nero d’Aspromonte

    Ma dietro i maiali c’è di più: una strategia di lungo respiro che mira alla creazione di una filiera. Un obiettivo realizzabile non solo attraverso l’offerta di un prodotto di eccellenza, ma soprattutto promuovendo un cambio culturale: «Abbiamo avviato un progetto importante tra Locri e Crotone partito dalla collaborazione tra GAL Terre Locridee e Kroton per la creazione di un sistema regionale del suino nero. E abbiamo iniziato un percorso di qualità con le macellerie cui forniamo sia i certificati di tracciabilità, sia una sorta di bollino da esporre in vetrina per avvisare che in quell’esercizio si vendono i nostri prodotti. Che saranno forse un po’ più cari, ma con cui puoi stare sicuro di nutrire al meglio i tuoi figli. Parliamoci chiaro: in quattro mesi non puoi fare un maiale di 160 kg!».

    Peste suina: gli allevatori chiedono un incontro con la Regione

    Gli ostacoli che si presentano su questo cammino sono tre e tutti di differenti ordini: il primo è il nodo legato allo sviluppo di quella cultura del lavoro e della condivisione di cui parlava Fortunato Sollazzo; il secondo relativo alla necessità di una forte regia pubblica che sostenga e coordini lo sviluppo della filiera; il terzo connesso alla contingenza dell’epidemia di peste suina africana per la quale lo scorso 19 maggio la Regione ha emesso un’ordinanza che istituisce una zona infetta in ventisette comuni del comprensorio aspromontano, soggetta a diverse restrizioni e variabile a seconda dell’estendersi della malattia. Proprio in queste ore gli allevatori della zona, che è ancora salubre ma dove vige il divieto di macellare, sono in riunione per chiedere un tavolo tecnico alla Regione.

    La cittadella regionale di Germaneto

    «La Regione sia più vicina»

    Piero Schirripa non ha mezzi termini: «Sembra che le nostre istituzioni, e in particolare la Regione, siano restie. Nonostante il prezzo dei cereali sia aumentato a causa della guerra, la Calabria, a differenza di altre Regioni con i loro allevatori, non ci ha dato una mano. Abbiamo illustrato la situazione ai nostri clienti toscani e romagnoli che hanno deciso di aumentare il prezzo di acquisto del 15%. Il prodotto finale costa di più ma l’aumento del prezzo è quasi irrisorio per la loro fascia di compratori. A noi invece questa percentuale consente di proseguire la nostra attività. Tutto questo perché i nostri maiali sono insostituibili. Vorremmo che la Regione facesse di più».
    La Regione però in qualche modo ha cercato di fare il proprio lavoro. Lo scorso dicembre 2021 ha siglato un accordo di programma quadro insieme all’Agenzia per la Coesione Territoriale e diversi Ministeri per lo sviluppo dell’Area Interna – Versante Ionico Serre, in cui, nell’ambito del progetto di Biodistretto del Parco delle Serre e dei territori limitrofi, prevede «attività integrate di animazione e di accompagnamento verso il Distretto del Cibo, tra biodiversità ed agricoltura biologica».

    Menzione specifica è fatta per il maiale nero d’Aspromonte che rappresenta una delle razze (se sia razza è tutto da vedere) che sta «esprimendo anche importanti effetti economici». La Regione ha intuito il potenziale di questa filiera. L’accordo mette in relazione rafforzamento del capitale sociale, miglioramento delle condizioni economiche del territorio, tutela delle matrici ambientali non rinnovabili e conservazione del paesaggio, in un «modello produttivo e relazionale sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale», volano per quel turismo naturalistico, lento ed esperienziale di cui mi aveva parlato Nicola Pelle.

    Economia della montagna

    É quello che ha auspicato monsignor Bregantini durante il nostro breve contatto telefonico: «Noi abbiamo creato i punti, ora è compito della politica tracciare la linea e mettere in campo una strategia». Vedremo se si passerà dai documenti programmatici ai fatti. Perché il ruolo del settore pubblico in questo meccanismo è essenziale, sia per fare sistema, sia per costruire un’economia della montagna.

    L’arcivescovo Giancarlo Bregantini

    «Realizzarla è possibile. Noi stiamo facendo il nostro, ma serve più impegno. Guarda che cosa succede alle ghiande. Qui ne perdiamo tonnellate e non abbiamo a chi rivolgerci sul territorio. Se vogliamo acquistarne, dobbiamo spostarci al confine con il catanzarese. Io le comprerei a 35-40 euro a quintale per i miaiali. Perché non supportare la nascita di una cooperativa di ragazzi che si occupi della loro raccolta e vendita? Con i sistemi innovativi oggi a disposizione, basterebbero poche ore di lavoro per aggiungere un punto che rafforzerebbe la nostra filiera creando nuovi spazi di occupazione», mi racconta Fortunato.

    Verde e blu

    Restituire alla montagna la presenza dell’uomo non è un dettaglio: «Senza l’uomo la montagna crolla. Noi abbiamo inventato lo slogan “Se la montagna è verde il mare è blu”. Il pastore e il contadino devono tornare a essere i suoi custodi. Norman Douglas racconta vividamente come l’Aspromonte fosse battuto da mandrie di capre e di maiali che non erano semplicemente libere, ma condotte al pascolo come faceva il porcaro Eumeo. L’uomo irreggimenta le acque, ripara i muri a secco. Queste cose non vengono capite dalle istituzioni che arriveranno quando sarà troppo tardi. Abbiamo un’emergenza in corso legata alla presenza di insetti e parassiti come la processionaria che divorano le foglie dei lecci. Ce ne accorgeremo quando non avremo più alberi?».

    Non è l’unico problema: «Stesso dicasi – continua Piero – per al presenza poco regolamentata di lupi e cinghiali. Sono un anello del nostro ecosistema, ma non possono essere abitanti esclusivi. Il lupo aggredisce capre e pecore e senza una regolamentazione gli allevatori vendono il bestiame e chiudono le attività. Gli amministratori pubblici sono chiamati ad occuparsene perché vengono pagati per questo con i nostri soldi. Se non lo fanno, devono pagare. Serve una nuova mentalità: il futuro della forestale non è più legato alla presenza di agenti o guardaboschi che ci sono e non ci sono: bisogna fare spazio ad agronomi, tecnici dotati di moderne tecnologie, architetti ambientali. Porremmo un freno anche alla costante emorragia demografica», chiude Piero.

    Maiali della tenuta Macrì

    Un sistema complesso

    La relazione tra montagna verde e mare blu spiega in quattro parole la fragilità e la complessità del sistema-Aspromonte, del rapporto osmotico e dell’equilibrio tra l’altura e la costa. Di quell’interdipendenza che li rende una cosa sola e che dimostra quanto frammentazione e ordine sparso ostacolino visioni e strategie di sviluppo congiunto.
    Al ritorno imbocco la Limina, la cosiddetta strada dei due mari che taglia in due l’Aspromonte lambendo la Piana di Gioia Tauro. In radio passano Via del Campo. Ripenso a Piero e Attilio e alle loro storie. Ché è proprio vero che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

  • MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    MAFIOSFERA| Dove c’è Calabria c’è ‘ndrangheta? Paradossi e faide in Canada

    Basta trovare un calabrese che commette crimini vari all’estero per annunciare la presenza della ‘ndrangheta oltremare? No, non dovrebbe bastare. Eppure due eventi recenti in Canada, uno in Ontario e uno in Quebec, quando letti insieme, ci offrono uno spaccato interessante dello stato dell’arte – e della difficoltà di comprensione e accettazione – delle dinamiche criminali para-mafiose quando si ha la cosiddetta dimensione etnica all’estero.

    Il delitto Iacono: Calabria e ‘ndrangheta in Canada

    L’evento più recente riguarda un omicidio avvenuto a Montreal. A cadere è stata Claudia Iacono, il 16 maggio, uccisa in pieno giorno davanti al salone di bellezza di cui era proprietaria. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che fosse proprio lei la vittima designata. Ma non sembra nemmeno essere un colpo da professionisti.
    A rendere morbosa (più del solito) l’attenzione su questo omicidio sono l’identità della vittima e quella della sua famiglia. Claudia Iacono era una influencer locale. Ed era sposata con Antonio Gallo, il figlio di Moreno Gallo, un tempo importante membro della cosiddetta fazione calabrese della mafia di Montreal.

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    Antonio Gallo e Claudia Iacono

    Laddove Claudia Iacono non sembra essere stata coinvolta in attività criminali, lo stesso non si può dire per suo marito e suo suocero. Moreno Gallo fu assassinato in un ristorante italiano in Messico nel 2013, dopo essere stato espulso dal Canada.
    A molti dei locali il delitto Iacono pare illogico: che senso avrebbe toccare la nuora di un boss? Forse avrebbe avuto più senso che la vittima fosse stata suo marito.
    Nonostante ancora non ci sia chiarezza sulle motivazioni dell’omicidio, subito si è consolidata una teoria che lo collega ad una faida di criminalità organizzata. E siccome si tratta di Montreal, per niente estranea a questo tipo di violenza (sono già 8 gli omicidi in città nel 2023), questa teoria non è affatto campata per aria.

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    Moreno Gallo, ucciso in Messico 10 anni fa

    Calabria vs Sicilia: ‘ndrangheta e Cosa nostra in Canada

    Di faide a Montreal non ne sono mancate. L’ultimo troncone, a più riprese e con periodi di pausa (forzata o forzosa) è in corso dalla morte, nel 2013, del boss Vito Rizzuto. Rizzuto era una storica figura della mafia canadese, legato alla famiglia Bonanno di New York City e originario di Cattolica Eraclea, in provincia di Agrigento.
    Come ho già delineato in un altro articolo, l’origine del dominio della famiglia Rizzuto è collegato ad una faida con un’altra famiglia, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli in provincia di Reggio Calabria, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

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    Vito Rizzuto è stato il capo della Sesta Famiglia in Canada fino alla sua morte

    Tra le fila dei Cotroni-Violi c’erano dei vecchi affiliati di ‘ndrangheta. Poi, però, come è successo nella vicina città di Hamilton, il gruppo si è trasformato in una famiglia criminale ibrida, senza ‘bandiere’ mafiose chiare. E, soprattutto, legata alle dinamiche locali e non internazionali.
    Alla base del potere mafioso di Montreal c’è dunque un male primigenio mai davvero risolto che è passato alla storia cittadina come faida tra siciliani e calabresi. E qui torniamo a Moreno Gallo, di origine calabrese ma effettivamente mafioso nelle fila dei Rizzuto. Quindi, “ufficialmente” legato a Cosa nostra americana nella sua versione canadese.

    Montreal: ma la Calabria in Canada è tutta ‘ndrangheta?

    La sua è una parabola normalissima per quei territori. Lì la regionalizzazione del crimine organizzato italiano – calabresi e siciliani – non ha lo stesso significato che può avere da noi. Nel periodo di vuoto di potere legato alla carcerazione del boss Rizzuto, Gallo si era legato a un gruppo di dissidenti interno alla famiglia Rizzuto. Erano i cosiddetti calabresi, guidati però da un siciliano di Castellammare del Golfo, Salvatore Montagna, da Joe Di Maulo, molisano, membro apicale della famiglia (di origini calabresi) Crotoni, e suo cognato Raynald Desjardins, nemmeno italiano.

    E qui arriva il vero nocciolo della questione. Molti giornali italiani hanno infatti riportato la notizia della morte di Claudia Iacono definendola “vittima di ‘ndrangheta” o da inserire comunque all’interno di una faida di ‘ndrangheta a Montreal. Quest’accezione non potrebbe essere più errata: non solo Moreno Gallo non era ‘ndrangheta, ma praticamente quasi nessuno dei cosiddetti calabresi di Montreal ha qualcosa a che vedere con la ‘ndrangheta (salvo alcuni collegamenti storici o legati a business vari ed eventuali).

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    Una strada del quartiere Little Italy – o, meglio, Petite Italie – a Montreal

    Anzi, tale confusione finisce per alzare il profilo di alcuni di questi soggetti, rendendoli più di quel che sono, nel mondo criminale. Ma la questione si fa ancora più complicata quando si va ad allargare l’analisi oltre Montreal. Che esista una fazione calabrese nella mafia canadese/americana/italiana a Montreal che non è collegata con la ‘ndrangheta ovviamente non significa che non esista la ‘ndrangheta sul territorio. Anzi.
    Il secondo evento ci dimostra che così non è. E che la confusione che regna sovrana nel leggere gli eventi di mafia canadese in una connotazione etnica non fa altro che aiutare quelli che ‘ndranghetisti sembrano proprio esserlo.

    L’espulsione di Vincenzo Jimmy DeMaria

    Vincenzo “Jimmy” DeMaria, un uomo di 69 anni, originario di Siderno ma residente in Ontario – in particolare nella zona di Mississauga, un sobborgo di Toronto – è sotto processo (dal 7 maggio) davanti all’Immigration and Refugee Board, il Tribunale per l’Immigrazione. Il Canada vuole rispedirlo in Italia in seguito a una serie di intercettazioni e risultanze italiane, inammissibili però in sede di processo penale, secondo cui DeMaria farebbe parte del Crimine di Siderno, membro della ‘ndrangheta in Ontario. Nonostante i tanti anni in Canada (da metà anni 70) in seguito a una condanna per omicidio – un’esecuzione in piena regola – DeMaria non ha mai potuto prendere la cittadinanza canadese. E l’espulsione per questioni legate a un possibile coinvolgimento con la criminalità organizzata è sempre alle porte.calabria-canada-ndrangheta-tribunale

    Ma facciamo una digressione perché il background qui non è da poco. Il fratello di Jimmy – o Gimì come viene chiamato da alcuni sidernesi ‘in vacanza’ a Toronto – è Joe, Giuseppe. Joe DeMaria, secondo gli inquirenti di Reggio Calabria durante l’indagine Canadian ‘Ndrangheta Connection del 2019, è membro apicale della ‘ndrangheta sidernese della Greater Toronto Area, cioè proprio delle aree intorno a Toronto, da Brampton a Vaughan fino a Mississouga.
    Insieme ai DeMaria, altri membri apicali sarebbero Luigi Vescio, Angelo Figliomeni, Cosimo Figliomeni, Rocco Remo Commisso, Francesco Commisso. Ma coinvolti nel Siderno Group sono i cugini di Gimì e Joe, e in particolare Michele Carabatta sempre in Ontario e Vincenzo Muià, intorno al cui viaggio in Canada si muove quasi tutta l’indagine in questione.

    La ‘ndrangheta del Canada che pesa anche in Calabria

    Muià era, infatti, andato ‘in vacanza’ in Canada per capire come risolvere (e in caso per avere autorizzazione a farlo) l’omicidio di suo fratello Carmelo in Calabria.
    A prescindere da una serie di assoluzioni a processo, l’indagine fu importante perché raccontò di come si andasse a risolvere faccende di ‘ndrangheta sidernese in Canada. Questa ‘ndrangheta di Toronto non solo è ‘ndrangheta DOC, ma è anche ‘ndrangheta che influenza la Calabria (anche se provarlo a processo è un’altra cosa).

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    Beni sequestrati nel corso dell’operazione Canadian ‘Ndrangheta Connection

    Finita questa digressione torniamo a Jimmy DeMaria, che era stato già sotto processo davanti al tribunale per l’immigrazione altre volte. L’ultima – in appello – risale al 2019, prima di Canadian ‘Ndrangheta Connection, e lo vedeva in aula in quanto presunto affiliato alla ‘ndrangheta (riconosciuta come organizzazione mafiosa straniera in Canada) e coinvolto in una serie di attività di riciclaggio grazie a società di servizi finanziari.

    U mastru Commisso e le prove insufficienti

    Nel 2018 il tribunale aveva dichiarato «che esistono ragionevoli motivi per ritenere che il Richiedente (Vincenzo, Jimmy, DeMaria) sia un membro della ‘Ndrangheta». Di conseguenza, si era ritenuto che vi fossero ragionevoli motivi per ritenere che DeMaria e uno dei suoi business, The Cash House, operato da suo figlio Carlo, fossero coinvolti nel riciclaggio di denaro. La cosa portò nello stesso 2018 a un ordine di espulsione dal Canada per DeMaria, che si appellò nel 2019.

    La camera d’appello rifiuterà il primo grado e dirà che: «Il Board sembra partire dal presupposto che, poiché ufficiali e forze di polizia esperti ritengono che il Richiedente [DeMaria] sia un membro della ‘Ndrangheta, ciò costituisca di per sé una ragionevole motivazione. Tuttavia, come ha dimostrato il Richiedente [DeMaria], ci sono problemi significativi con queste prove che il Board avrebbe dovuto affrontare prima di accettare le conclusioni della polizia … Gran parte dell’analisi del Board si basa su “transazioni sospette” e “ipotesi” che richiedono l’appartenenza alla ‘Ndrangheta per essere considerate ragionevoli motivi a cui credere. Pertanto, la decisione deve essere annullata anche per questo motivo e rinviata per un nuovo esame».

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    Giuseppe “U mastru” Commisso

    Insomma, dice il Tribunale amministrativo nel 2019, bisogna dimostrare che DeMaria è ‘ndranghetista. E non solo tramite la testimonianza delle forze di polizia o dei giornali o dalle intercettazioni o da resoconti di sorveglianza. Non è molto chiaro cos’altro effettivamente chieda questo tribunale, dal momento che a processo, contro DeMaria, si erano portate anche delle intercettazioni di Giuseppe Commisso, u mastru, capo indiscusso della ‘ndrina omonima di Siderno e a un certo punto anche capocrimine, che raccontava della connessione tra Jimmy DeMaria e alcuni problemi della ‘ndrangheta con la polizia a Toronto.

    Jimmy DeMaria e la profilazione etnica

    Complice quindi la difficoltà – nota – di provare l’appartenenza alla ‘ndrangheta in Canada, ecco che Jimmy DeMaria in sede processuale non solo dichiara di aver appreso della ‘ndrangheta a/di Siderno soltanto dai giornali, ma anche di essere vittima di profilazione etnica. Prende un’equazione superficiale che equipara lo ‘ndranghetista al calabrese (criminale o meno) e la usa a suo vantaggio.

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    Vincenzo Jimmy DeMaria

    «A mio parere … molto di questo, se si guarda davvero a molto di questo, c’è un sacco di profiling etnico in corso qui, perché vieni da una certa area, vieni da lì, quindi perché vieni da lì, questo e quello, deve essere il caso». E ancora: «Se vai in un ristorante italiano qui e sei italiano, subito: “Ah, sì, beh, sai, dobbiamo tenere d’occhio questo tizio”, capite? È uno stereotipo che purtroppo quando sei italiano ci vivi dentro». Gli verrà risposto da chi presiede l’udienza con molta attenzione e correttezza politica – e di base per evitare appunto un’accusa di pregiudizio etnico – che così non è, assolutamente, e che tutti conoscono italiani che nulla hanno a che fare con la mafia. Ci mancherebbe, aggiungerei.

    Se la Calabria in Canada equivale alla ‘ndrangheta

    Ma eccoci al cerchio che si chiude. Claudia Iacono – le cui sorti non sono chiare, ma la cui vita (e morte) sono state già legate alla criminalità organizzata – viene tirata dentro all’equazione superficiale criminale calabrese = ‘ndranghetista, a torto. Ma tale equazione è ormai prassi da giornalismo disattento e analisi superficiale. E altro non fa che rafforzare quella trappola etnica da cui dovremmo soltanto voler uscire in nome della chiarezza dei fenomeni.

    Jimmy DeMaria utilizza quella stessa trappola etnica e quella prassi a suo favore, sapendo che potrebbe proprio attecchire. E che è vero, c’è una sorprendente maggioranza di gente che non opera distinzione tra italiano/calabrese e mafioso/‘ndranghetista. Questo alla fine dei giochi confonde la narrativa. Rende rumorose le indagini sul perché abbiano ucciso una donna a Montreal. E rischia di aiutare un presunto ‘ndranghetista a rimanere in Canada.

    Insomma, se le cose hanno un nome vuol dire che quel nome implica dei confini: se c’è ‘ndrangheta, c’è anche una non-‘ndrangheta. E sarebbe il caso di ricordarsi – come ci ricorda il processo a DeMaria – che ad annacquare i nomi e a espandere i confini di un fenomeno sociale si rischia soltanto che ci si ritorca contro. E che il fenomeno perda di chiarezza al punto da non essere proprio più riconosciuto e riconoscibile.

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  • MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA | Operazione Eureka: una guerra europea alla ‘ndrangheta

    Una delle cose più interessanti nel seguire i movimenti globali della ’ndrangheta è l’entrare in un mondo di specchi. Lì le cose si riflettono l’un l’altra, e alcuni pattern di movimento emergono con più chiarezza di altri.
    L’Operazione Eureka ha portato all’arresto di 108 persone in Italia, legate in vario modo a clan di ’ndrangheta, 30 in Germania, 13 in Belgio, più una serie di perquisizioni e confische anche in Spagna, Portogallo, Francia, Romania e Slovenia, e poi Brasile e Panama.

    Eureka vista dagli inquirenti

    Oltre ai numeri, rileva la novità del meccanismo di coordinamento europeo.
    Infatti, anche se gli arresti sono in maggioranza italiani, Eureka è l’esito di uno sforzo europeo, perché europei sono i fatti contestati agli imputati.
    Lo descrivono bene Europol, la polizia di coordinamento europeo, ed Eurojust, l’autorità di coordinamento giudiziario europeo. Ecco cosa racconta al riguardo Eurojust:
    «Eurojust ha sostenuto le autorità coinvolte istituendo e finanziando due squadre investigative congiunte. L’agenzia ha inoltre ospitato dieci riunioni di coordinamento e ha istituito un centro di coordinamento per consentire una rapida cooperazione tra le autorità giudiziarie coinvolte nell’action day. Tre casi collegati sono stati aperti presso Eurojust su richiesta delle autorità italiane, tedesche e belghe. Eurojust ha inoltre facilitato la trasmissione e l’esecuzione degli ordini di indagine europei».
    Il Progetto di analisi sulla criminalità organizzata italiana di Europol ha fornito pacchetti di intelligence alle unità investigative nazionali coinvolte.
    In totale, riporta Europol, sono stati scambiati più di 200 messaggi tra i Paesi coinvolti.

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    Un momento della conferenza stampa di Eureka a Reggio

    Prima di Eureka

    Questa cooperazione ovviamente non nasce dal nulla. Europol ed Eurojust sono in partnership con la Direzione nazionale antimafia nel progetto Empact, azione operativa 2.3, che si occupa principalmente di ’ndrangheta e mafia siciliana, ritenute gruppi criminali ad alto rischio.
    Inoltre, l’indagine e la giornata d’azione comune sono state sostenute dalla Rete @ON finanziata dall’Ue (Progetto ISF4@ON) e guidata dalla Direzione Investigativa antimafia italiana (Dia).
    Eureka, soprattutto, si basa su di una serie di messaggi decriptati – nei citati pacchetti di intelligence– all’interno delle maxi operazioni Encrochat e SkyEcc, le quali negli ultimi anni hanno fatto emergere, e smantellato, canali di comunicazioni nel sottobosco criminale di mezzo mondo.

    Una battaglia europea

    Oltre che per le informazioni sulla ’ndrangheta all’estero, Eureka fa scuola perché è il risultato di anni di compromessi e difficoltà nella cooperazione, pratiche e concettuali, sia da parte delle istituzioni europee sia da parte di quelle italiane. Chi scrive ha condotto una ricerca nel 2021 proprio con Eurojust, Europol e le procure italiane.
    Da essa emerge che, al netto delle frustrazioni espresse da qualche pubblico ministero o da qualche analista poco attento, non è affatto vero che all’Europa o agli Stati europei importi poco della mafia, e dell’antimafia, italiana.
    Anzi, l’attenzione è molto alta, la capacità di adattare le leggi e le procedure nazionali per raggiungere risultati comuni è una priorità.

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    Gendarmi tedeschi impegnati negli arresti di Eureka

    Antimafia made in Ue

    Soprattutto, si sono fatti molti passi avanti, in quei Paesi – pensiamo a Germania e Svizzera – che hanno un problema di infiltrazione mafiosa di origine italiana e matrice ’ndranghetista notevolmente più alto di altri.
    Stesso discorso per i Paesi Bassi e il Belgio – di storica presenza mafiosa, siciliana, campana e calabrese – che negli ultimi anni hanno sviluppato squadre di indagine specializzata, squadre investigative europee. Di più: hanno sviluppato processi autonomi alle cellule criminali, all’interno dei propri ordinamenti.
    Tutta quest’attenzione europea alle mafie italiane è, va da sé, anche il risultato dell’incessante lavoro delle procure (in particolare, Reggio Calabria prima di tutte, ma anche Milano, Genova, Torino, Catanzaro per dirne alcune) interessate a informare le autorità estere e a collaborare senza pregiudizi.

    Tutti i problemi dell’antimafia internazionale

    Non ogni cosa funziona, si badi bene, e non sempre la frustrazione passa.
    C’è ancora tanto da mettere a punto nei rapporti tra l’Antimafia italiana e quelle europee. Ad esempio, nelle modalità di confisca e in quelle di ricerca congiunta della prova nelle indagini transfrontaliere. E restano problemi nelle normative sulle indagini bancarie in materia di riciclaggio. Per tacere delle difficoltà di allargare le indagini oltre il crimine organizzato e verso la criminalità dei potenti.
    La lista è lunga, complice anche un po’ di schizofrenia italiana nel definire i campi di azione di alcune indagini antimafia (con una tendenza ad allargare il concetto di mafia oltre quello compreso e comprensibile all’estero).
    Ma ci si lavora costantemente per migliorare almeno i risultati. Ed Eureka, lo ripetiamo, è chiaramente il prodotto di questi sforzi.eureka-segreti-primo-vero-blitz-europeo-anti-ndrangheta

    Eureka: i dettagli che contano

    Eureka offre tantissimi spunti di interesse anche al ricercatore-analista. I giornali locali, moldo più di quelli nazionali, hanno riportato vari dettagli. Le vicende raccontate nell’inchiesta (che riguardano principalmente affiliati e associati ai clan Nirta-Strangio di San Luca e i Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo) toccano il traffico internazionale di cocaina e il riciclaggio di denaro tra pizzerie, gelaterie e altre attività commerciali.
    Ma in quest’operazione ci sono anche spunti notevoli sulla struttura della ’ndrangheta. Quest’ultima è sì aperta alle collaborazioni, tra clan e con tanti altri gruppi criminali europei e non, soprattutto per la cocaina, ma rimane legata al territorio e alla sua reputazione sul territorio.

    Bevilacqua: un cervello in fuga

    Altro elemento di interesse è il ritorno di certi “cervelli in fuga”.
    Pasquale Bevilacqua, imprenditore ritenuto dagli inquirenti vicino ai clan di Bianco, in provincia di Reggio Calabria, è una figura centrale dell’inchiesta. Cittadino australiano, Bevilacqua è rientrato dall’Australia e da li avrebbe portato, oltre ai soldi, anche “metodi” di arricchimento alle spalle dei calabresi che lui stesso considera potenziali “soldati”. Essi vanno tenuti «molto poveri» per avere sempre manovalanza «da mandare a fare il traffico o per andare in carcere per loro [gli ‘ndranghetisti]». Un vero e proprio manifesto della ‘ndrangheta, il suo.

    Carabinieri del Ros

    Dall’Australia alla Calabria

    Bevilacqua ha ottenuto il massimo nel Nuovo Galles del Sud, in Australia. Lì, insieme a moglie e figli, avrebbe attività commerciati di carne, servizi legati all’acqua, ospitalità e una serie di immobili di ingente valore. Inoltre, giocherebbe al casinò, anche per muovere capitali.
    Inoltre (e ovviamente) avrebbe legami con presunti ’ndranghetisti australiani e spiega come in Australia si sia abituati a fare affari con chiunque, a prescindere da affiliazioni e alleanze. Dice al riguardo: «Noi in Australia siamo abituati così… ti dico subito … io conoscevo a tizio … la mangiata mia era là … nessuno me l’ha tolta! mai! gli amici miei … sempre!». Tradotto in parole povere: a prescindere dai necessari legami di business, la struttura di mafia (dove, appunto, si ha la “mangiata”) non cambia e gli amici (gruppo di riferimento mafioso) non cambino.
    Un’interessante conferma sia dell’importanza dei “ritorni” di personaggi che portano in Calabria ciò che hanno imparato all’estero sia della scissione tra struttura organizzativa e attività criminale che ha sempre caratterizzato la ’ndrangheta.

    Quattro chiacchiere su San Luca

    Oltre ai commenti di Bevilacqua, altre conversazioni degne di nota vengono da Giuseppe Scriva e Stefano Soriano che commentano il gruppo di Erfurt in Germania (collegato ai clan di San Luca). In particolare, i due parlano di Domenico Giorgi detto Berlusconi per la ricchezza accumulata col narcotraffico. «Pensa da quanto sta questo qua in Germania … infatti non gli hanno fatto proprio niente … quante indagine pipipipi pipipipi … che vuoi hanno fatto un casino, hanno ucciso sei persone». Il riferimento va alla strage di Duisburg – considerata un errore di calcolo che ha dato troppa visibilità ai Sanlucoti – e, al contempo, alla capacità del soggetto, e del gruppo, di non farsi toccare più di tanto dalle azioni di contrasto. Tutto questo accresce la reputazione dei Sanlucoti visti non solo come uomini d’onore di successo ma anche come persone scaltre che eludono i controlli diversificando gli investimenti in Europa.
    «Loro sono sempre i vincenti, loro sono tosti come i selvaggi…ma tu ti rendi conto?… poi ne hanno un altro confiscato … qua … in Germania ne hanno quattro ed a Lisbona in Portogallo, uno … hanno nove locali … che cazzo gli devono prendere, questi spendono centomila euro al giorno, minimo … solo dove stiamo andando noi pagano …incassano quindicimila euro al giorno … loro fanno attività … ma questi ormai con le attività pulite guadagnano».

    Carabinieri del Ros eseguono alcuni arresti di Eureka

    Eureka: un nuovo racconto della ’ndrangheta

    Il modo in cui la ‘ndrangheta e le sue strutture si “raccontano” in Calabria è diverso dalla percezione che se ne ha nel resto d’Europa. Infatti, in Calabria si parla di strategia, reputazione, riconoscimento criminale e sociale. In Europa si parla di capacità manageriali, stupefacenti, movimenti di denaro, porti in cui “entrare”, e corruzione.
    Alcuni colleghi criminologi-accademici, non amano il termine “glocale” per definire questa peculiarità organizzativa e narrativa. Ma siamo tutti d’accordo che solo guardando al fenomeno sia nelle dimensioni locali che in quelle globali si possono fare passi avanti.
    Già: raccontare (e aspettarsi) solo una ’ndrangheta globalizzata sui mercati del narcotraffico è un errore. Ma lo è anche raccontare (e aspettarsi) la ’ndrangheta come organizzazione altamente ritualizzata e definita da criteri di riconoscimento e reputazione all’estero come al paesello. Queste due anime stanno insieme da tempo. Ed è per questo che di Eureka, probabilmente, parleremo ancora.

  • STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    STRADE PERDUTE| Crati, Esaro e Tirreno: tra monti e mari

    C’eravamo fermati a Torano Scalo e al cortometraggio di Wes Anderson “Castello Cavalcanti”, ora riprendiamo la vecchia strada regia per andare un po’ più a nord. L’inevitabile sosta al passaggio a livello di Mongrassano Scalo mi fa guardare le colline a destra e pensare a due cose: proprio lì, a Santa Sofia d’Epiro e dintorni – giusto sulla sponda opposta di quel Crati che d’inverno inondava le baracche dei deportati di Ferramonti – le SS appartenenti alla divisione Ahnenerbe (la “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” fondata da Heinrich Himmler) si sarebbero cimentate in imperscrutabili scavi archeologici presso le sepolture dei nobili italo-albanesi Masci e Baffa-Trasci, proprietari dei vicini fondi Cavallo d’Oro, Grifone, Cozzo Rotondo e Suverano, legati alla leggenda della sepoltura del re Alarico, e dunque appetibili, agli occhi di certi retaggi, in termini di speculazione storico-antropologica.

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    Una lapide ebraica nel cimitero di Tarsia

    Meno dedizione, al contrario, è stata applicata negli ultimi decenni al cimitero di Tarsia. Restano pochissime lapidi – e in pessima condizione – di qualche deportato deceduto durante la prigionia a Ferramonti. Pare che qualcuna sia stata addirittura rimossa per far spazio a nuove cappelle private.
    Fa molta più scena, paradossalmente, quel cimelio automobilistico piazzato a pochi metri dall’ingresso del cimitero, allo svincolo che da una parte porta al paese e dall’altra alla diga: un’auto storica un po’ particolare, in quanto si tratta di un carro funebre. Esattamente: un vecchio carro funebre Fiat 2300 dei primissimi anni ’60 che fa mostra di sé in mezzo a un campo, stesso modello di quello ritrovato tempo fa nelle campagne laziali, altrettanto abbandonato e con tanto di bara (vuota) al suo interno.

    Roggiano, Malvito, notai e ricette

    La seconda cosa che mi sovviene sempre al passaggio a livello, lì a metà strada in linea d’aria fra Bisignano e Malvito, sono quelle due scivolate dello storico manuale di paleografia dei gesuiti De Lasala e Rabikauskas, dove bisunianensis diventava bisumanensis e Malveti diventava Malveci. Bazzecole? Mica tanto.
    Ho già parlato della strada che attraverso Contrada Cimino si spinge da Tarsia verso Roggiano e quindi non mi ripeterò. Qui però mi viene in mente un’altra stranezza: una curiosa ricetta contro la sterilità, ritrovata tra le carte di un certo notaio roggianese del Cinquecento, che recitava così: «Rimedio per fare che una donna sterile faccia figli. Piglia polipi picciolini, o siano polpi, sorte di pesce di mare, e falli arrostire senz’olio, e mangiali, che gioveranno; usando poi coll’uomo…».

    Malvito
    Malvito. La vecchia chiesa di S. Michele Arcangelo agli inizi del Novecento (archivio L.I. Fragale)

    Chissà se a questo notaio si ricorreva pure per fatture. Chissà se la donna sterile era sua moglie. Oppure – vista la posizione della minuta a imperitura memoria – chissà che l’impotentia generandi non fosse proprio sua, e che il notaio tenesse a non farla passare per tale. Del resto, a proposito di impotenza, cento anni dopo un suo collega campano annotava tra i propri atti chella pecché lo meglio havea perduto / corze a scapezzacuollo a far lo vuto.
    Non sembri strano: i notai antichi si divertivano un sacco a imbrattare i registri (si possono trovare caricature cetraresi, disegni silani di uomini eleganti che brandiscono spade, scarabocchi, poesiole, proverbi).

    Un mondo scomparso

    E per strada la sensazione è sempre la stessa: che di tutto ciò non sia rimasto nulla. Perso, appunto, per strada. E forse era giusto così. Non è rimasto nulla di quella cultura contadina, che non era minimamente una cultura inferiore o un mero sapere “basso”. Né è rimasto alcunché – o è rimasto pochissimo – di certa aristocrazia, di certi cognomi, di certa economia, di tutta una società. Forse qualcosa è rimasto (il peggio) in certa mentalità.

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    La Riserva Naturale del Lago di Tarsia

    Nulla è rimasto persino dell’aspetto delle campagne, dei paesi e delle marine, mentre ci si bea che tutto sia stato sempre più o meno così e magari soltanto un po’ più poeticamente ricoperto da una patina di passato. No, anche il mero panorama era assai diverso: anche una campagna di due secoli fa era irriconoscibile rispetto a come la si vede oggi. Un mondo, fatto sta, è stato spazzato via. O s’è spazzato via da solo, a poco a poco, in virtù del fatale maggiorasco e di camaleontismi non sempre vantaggiosi.

    Boschi a perdita d’occhio

    Ma torniamo con le ruote per terra. Roggiano guarda le montagne: di qua la strada per Fagnano e Guardia, di là per Sant’Agata d’Esaro, dall’altra parte per San Sosti. Boschi, boschi, boschi. Una quantità di rami, di foglie, di tronchi a perdita d’occhio. Almeno fin quando non ci si mettono gli incendi: e penso alla leggenda urbana immortalata nel romanzo (e nel film) La versione di Barney, in cui un giovane scompare dopo aver fatto il bagno in un lago e il suo corpo viene riscoperto anni dopo, in costume, in mezzo a un bosco. Mentre faceva il bagno, infatti, un incendio cominciò a lambire la zona e i Canadair andarono a rifornirsi d’acqua proprio nel lago. D’acqua, e non solo…

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    Fagnano, primi del Novecento: lavorazione delle castagne (archivio U. Zanotti Bianco)

    E allora mi chiedo se i Canadair siano forniti di un sistema per non rovesciare sulle montagne incendiate i pesci – almeno quelli – imbarcati a mare e destinati alla grigliata dolosa. Tra migliaia di anni li scambieranno per fossili autentici? E i rifiuti galleggianti? Un po’ come scriveva André Leroi-Gourhan parlando delle religioni della preistoria, se tra diecimila anni resterà qualcosa (dubito) di una Barbie… penseranno al culto della bionda. E i dvd… piccoli mandala forati, recanti iscrizioni, spesso decorati… con un foro per essere appesi come ex-voto…

    San Sosti al British Museum

    Per fortuna, da queste parti, di ex voto ne abbiamo di ben più notevoli: l’ascia di San Sosti, ad esempio. Risale al 550 a.C., l’hanno ritrovata nel 1846 dalle parti di ciò che resta dell’antico abitato di Artemisia. Ora fa bella mostra di sé nientemeno al British Museum di Londra. Così, a memoria, mi pare che l’iscrizione sull’ascia recitasse «il vittimario Cinisco mi dedicò, come decima dei prodotti, al santuario di Hera che sta nel piano»: Hera, quindi: molto prima di rifarsi il maquillage come santuario della Madonna del Pettoruto. Votate alla fertilità, guardacaso, tutte e due le figure sacre.

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    L’ascia votiva di San Sosti

    Ma dicevamo dei boschi e degli incendi. Spettacolarizzati ormai anche quelli, specie se estivi, con bagnanti intenti a fotografarli, come i turisti che fotografavano l’attacco alle torri gemelle o gli abitanti di Chernobyl nelle prime scene della serie omonima.
    Poche ma meravigliose le strade attraverso queste selve: quella che lambisce il mini sistema lacustre dei Due Uomini (comune di Fagnano) e che è praticamente una strada gemella della più vecchia strada Fagnano-Cetraro. Solo che, camminando su un crinale ripidissimo, non finisce a Cetraro ma addirittura a Cavinia, passando per Torrevecchia di Bonifati, oppure a Cittadella del Capo attraversando le frazioni di San Candido, Pero, o la mulattiera di Cirimarco.

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    Guardia Piemontese: pomodori in siesta sotto l’antica torre di guardia (foto L.I. Fragale)

    Sant’Agata d’Esaro, premio alla serenità

    La stessa strada da Fagnano a Guardia, in cima ai monti, offre un bivio non meno splendido e inquietante al tempo stesso: quello che passando attraverso il Lago La Penna conduce a Sant’Agata d’Esaro, paese al quale offrirei un ipotetico premio alla serenità. In qualsiasi periodo dell’anno, a qualsiasi ora, la piazzetta in mezzo alla statale che lo taglia è piena di persone, di tutte le età, dalle carrozzine alle carrozzelle, tutte intente a chiacchierare placidamente o a passeggiare, d’estate, in fuga dai lidi torridi. Bravi.

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    Sant’Agata d’Esaro, il casino delle miniere

    Sant’Agata d’Esaro, con l’accento sulla e, anche se sulla cartografia storica sette-ottocentesca una delle montagne alle sue spalle, ricche di antiche grotte e miniere, è proprio indicata come Monte Isàuro. Toponimo che non ho mai più ritrovato. Monte Isauro… Qui siamo già però in terra di Pollino, siamo già in terra di pini loricati, i tormentati padroni di queste vette, con i loro tronchi contorti e straziati che farebbero la gioia di un Masahiko Kimura o di qualche altro maestro bonsaista dei più virtuosi. E non a caso, infatti, su una loro rivista specializzata trovai anni fa proprio un articolo sui loricati del Pollino: e il cerchio si chiudeva perfettamente. Estetiche di nicchia, fuori rotta.