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  • STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    STRADE PERDUTE | Fitzcalabria: un sogno fantastico di fine estate

    Fine estate in Calabria. Nei giorni a cavallo tra agosto e settembre molte persone vengono risucchiate in un buco nero. Le città non si sono ancora riempite del tutto e, contemporaneamente, i luoghi di villeggiatura si avviano alla desertificazione.
    Non tornano i conti: la gente dove finisce?

    Fine estate Calabria: fuga dal mare

    Dove sono finiti i tamarrissimi colletti delle polo tirati su?
    Dove sono finite le francesi che annusano scettiche le brocche di vino al ristorante? Dove le tedesche imbarazzate, quasi offese, dalle dimensioni degli antipasti locali? Chi resta su quegli scogli, teatri notturni di cartine volate, di accendini che non appicciano (accendono), di palummi (conati di vomito) per neofiti, e di altro?
    Le mareggiate di fine agosto lavano i peccati e portano via una stagione (del resto, non sono le seasons figlie del mare?) E allora cosa resta da fare? La solita cosa: fuggire da questi luoghi e cercare qualche vago sprazzo di autenticità in mezzo ai monti. Proviamoci, almeno.

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    Il centro storico di Scalea ripreso dall’alto

    Cipolle e porci? Proprio no

    Superiamo l’enorme giungla cementizia di Scalea, costruita direttamente su chissà quanti reperti archeologici sottratti alla ricerca, alla fruizione e, più semplicemente, alla storia e dirigiamoci verso Santa Maria del Cedro, già Cipollina fino al ’55.
    Attenzione: il nome non ha a che fare con le cipolle ma deriva da cis-pollinea, cioè al di qua del Pollino.
    Giusto per restare in tema: un altro apparente maquillage onomastico è quello che ha investito, dall’altra parte dei monti, Eianina (frazione di Frascineto), già nota come Porcile non per via dei porci ma dei più antichi Porticilli, poi Purçilli in arbëreshë.

    I profumati cedri di Sion

    Né cipolle né porci, dunque: quaggiù si commerciava maggiormente in mezzo ai frutti profumati, per esempio ai cedri.
    Il Carcere dell’Impresa è oggi il museo di quell’attività in gran parte scomparsa. Solo in parte: i rabbini di mezzo mondo vengono ancora qui, a settembre a scegliere i frutti esteticamente migliori, affinché possano essere utilizzati durante alcune precise liturgie. E non è raro incrociarne alcuni, con famiglia al seguito, a passeggio sotto al sole cocente, vestiti di tutto punto: rekel, payot, cappello nero a tese larghe e camicia bianca abbottonata fino al pomo d’Adamo.
    Ma è tutt’oro quel che profuma?

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    Il Carcere dell’Impresa, sede del Museo del Cedro

    Fitzcalabria

    Un edificio abbandonato, piuttosto grande, a forma di nave, arenato in mezzo alla pianura tra Marcellina e l’aeroporto (!) di Scalea mi ricorda Fitzcarraldo. Infatti, l’ho soprannominato Fitzcalabria.
    Era una fabbrica di conserve alimentari, attiva dagli anni ’50, costruita (appunto…) con l’immaginaria prua orientata verso Sud, come buon auspicio per lo sviluppo del Meridione (e aridaje con gli auspici degli imprenditori à la Rivetti…) mentre esportavano le latte in Belgio per i minatori.
    Tutto finito, anche qui, in totale abbandono da chissà quanto. A due passi da lì, il ponte Mussolini, sul Lao.

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    Fitzcalabria: la fabbrica abbandonata nei pressi di Marcellina (foto di Luca Irwin Fragale)

    Fine estate Calabria: sudare vino

    A quattro passi, invece, e non voglio dir dove e anzi vi confonderò volontariamente le idee, una minuscola casetta tirata su veramente con lo sputo. Mattoni, sputo e sudore di due mani. Quelle di N.N., il cui vero nome e cognome – anzi, rigorosamente cognome e nome – campeggia a caratteri cubitali di fianco alla porta d’ingresso, su una piccola lapide che ha più del mortuario che di un citofono. È un fabbricato di fortuna, o di sfortuna, una specie di palafitta in mattoni forati, in compiutissimo stile incompiuto. Un’unità abitativa di base. Sotto potrebbe starci l’auto ma N.N. non ha un’auto. Dietro c’è un piccolo orticello. E sono sicuro che ad N.N. basti e avanzi.
    Da queste parti c’è ancora spazio, per fortuna, per certi contadini che odorano di vino, che sudano letteralmente vino.
    Ne conoscevo uno, magnifico, che produceva per sé e pochi conoscenti un vino dalla gradazione che dire impegnativa è eufemistico. Soffriva di pressione alta e ogni tanto, per farsela abbassare, prendeva il suo coltellino multiuso, sporco come non so cosa, e si faceva un taglietto sui polsi. Così, senza tanti complimenti.

    Fine estate Calabria: sentieri per Sybaris

    Tanto qui ci pensano in due: un po’ Santa Maria di Mèrcuri con la sua chiesetta sulla roccia, che veglia da secoli sulla provvidenziale confluenza del Lao con l’Argentino (un tramonto, da quella rupe, lo consiglio), e un po’ San Michele dell’omonimo castello a monte dell’Abatemarco.
    Lao, Argentino, Abatemarco: tutto comincia a evocare i monti d’Orsomarso, l’ingresso nelle vie istmiche che univano Laos a Sybaris.
    Tornando più a nord, può esser definita istmica pure la strada che congiunge Scalea a Mormanno lambendo – non a caso – la zona archeologica di Papasidero.

    La chiesa di Santa Maria di Mèrcuri

    Le vie francigene della Calabria fantastica

    Ma, appunto, è da considerare più che altro come strada a servizio di chi arrivava da nord, più che dalla piana di Sibari, poiché la famigerata “Dirupata” di Morano non ha mai smesso di incutere timore, neppure nel Novecento, e dunque non c’era ragione per i sibariti di raggiungere Scalea risalendo tanto a nord. Invece oggi un motivo l’abbiamo: bearci della meraviglia dei Piani di Novacco, procedendo da Orsomarso verso Campotenese, e passando da Ròsole e da Cascina Scòrpano.
    Doveva essere semmai più battuto un altro sentiero: quello che si addentra da Orsomarso – e quindi da Scalea – verso il Santuario di Santa Maria del Monte presso Acquaformosa e da qui procede verso Lungro.
    Altra variante dello stesso è quella che da Orsomarso lambisce la Pietra Campanara e costeggiando il fiume Garga raggiunge Saracena, al riparo da e in ammirazione di un luogo di cui basta il nome per capire in che diamine di dimensione siamo: i Crivi di Mangiacaniglia. Bisognerebbe “vivere fuori stagione”.

  • MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Polsi NON è il santuario della ‘ndrangheta

    A Polsi le carovane, cioè i gruppi di pellegrini, entrano nel santuario a suon di tarantella. La tarantella è una danza anarchica eppure precisa. Precisa nella ripetitività delle note e nel cerchio che si forma tra i danzatori; anarchica nei suoi passi, nel come si “sente” l’energia della musica. L’energia della tarantella e della sua danza è parte dell’arrivo a Polsi, è tutta Polsi.
    Il Santuario della Madonna della Montagna è a oltre 800 metri sopra la superficie del mare, ma non si “erge”; piuttosto, si inabissa nelle gole dell’Aspromonte, tra i 2.000 metri di Montalto e le colline da cui partono i pellegrini dai paesi tutti attorno. È nel territorio di San Luca, ma dista dal paese oltre due ore di macchina oggi, perché le strade sono quelle che sono.

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    San Luca: in basso a destra, il santuario di Polsi seminascosto tra le gole dell’Aspromonte (foto Anna Sergi)

    Un santuario “difficile”

    È un santuario “difficile” Polsi. Le strade sono mulattiere che nessuno davvero si premura di rendere adatte alla percorrenza. Buche, voragini, cemento ormai distrutto da anni, asfalto inestistente da decenni. Doppio senso di marcia che blocca in una direzione come nell’altra e senso di sconforto che dà l’assenza di segnale telefonico per chilometri. E, dunque, la consapevolezza del disagio e del pericolo se succedesse qualcosa.
    Per il più importante culto religioso della Calabria ci si aspetterebbe un interesse maggiore delle autorità locali e regionali, politiche quanto religiose.

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    Cartelli sulla strada per il santuario di Polsi (foto Anna Sergi)

    Ma nonostante questo Polsi è un luogo dove si può emozionare fino alle lacrime anche chi non crede. Il silenzio ovattato della montagna; l’equilibrio precario tra natura e umanità; l’integrazione tra fede, cultura e storia; la tarantella che sgorga da dentro; la danza che livella e connette tutti.
    Polsi è un luogo che non ha eguali, non solo per chi è devoto, ma anche, forse soprattutto, per chi lo vive nella sua essenza spirituale e culturale.
    A Polsi la Calabria è solo e soltanto terra di energia positiva e forte di una primitiva autenticità.

    Polsi e la ‘ndrangheta

    Forse è proprio per le sue difficoltà orografiche e infrastrutturali – e per le sue atmosfere ritmate tra musica e silenzio – che Polsi si presta a essere strumentalizzato.
    Da un lato come luogo di interessi occulti, criminali, da parte di clan di ‘ndrangheta di paesi limitrofi. Ma dall’altro come centro di attenzione morbosa da parte di giornalisti a caccia di scatti che contengano la graffiante bellezza del luogo, mista al suo lato percepito come sinistro, e la solita immagine della Calabria da malaffare, meglio ancora se condita con l’imbrattamento della fede cattolica.

    https://www.youtube.com/watch?v=A79oXiOt5WI

    Il filmato dei carabinieri a Polsi, finito tra i documenti della famosa operazione Crimine, è ancora su YouTube. Dopo quasi 15 anni possiamo ancora vedere come attuali quelle conversazioni di uomini riunitisi in cerchio, venuti da Rosarno, da Platì, da San Luca stessa, da Sinopoli. Si parlava di Crimine, Capocrimine, Contabile e doti varie. E si “sistemavano” faccende di ‘ndrangheta che a Polsi non avrebbero dovuto mettere piede.

    Profanato da interessi mafiosi: parola della Cei

    Nel giorno della festa della Madonna di Polsi, il 2 settembre scorso, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha inviato un messaggio letto da monsignor Francesco Oliva, vescovo di Locri e abate del Santuario.
    «Il Santuario della Madonna di Polsi – scrive Zuppi – è stato profanato nel recente passato. La casa della Madre di Dio è diventata luogo per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. Papa Francesco a Cassano all’Ionio il 21 giugno 2014 ha avuto parole inequivocabili di condanna verso i mafiosi e la ‘ndrangheta in particolare, dichiarandone la scomunica. Chi fa della casa di Dio luogo di interessi di alcuni offende Maria, la Chiesa tutta, la comunità umana e, in realtà, anche la loro stessa dignità umana».

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    Il cardinale Zuppi e Papa Francesco

    Il luogo di culto per eccellenza

    Non è la prima volta, dunque, che la Chiesa disconosce la strumentalizzazione di Polsi per interessi mafiosi. Ciononostante, si parla ancora spesso di summit di ‘ndrangheta a Polsi, amplificando, come spesso accade, ciò che di male può accadere in quei luoghi.
    Summit, però, implica un’organizzazione specifica. Implica dei fini precisi. Implica anche un’appropriazione consapevole del territorio. E così non è.
    Non è la strategia mafiosa che porta la ‘ndrangheta a Polsi. E non è nemmeno solo la volontà di avere un luogo appartato dove potersi riunire.
    Ciò che può portare esponenti della ‘ndrangheta a Polsi – e li spinge poi a discutere più o meno apertamente di strutture e attività criminali – non è la lucida consapevolezza o volontà di manipolare la religione o profanare il Santuario. È proprio il fatto che la Madonna della Montagna è il luogo di culto per eccellenza di quei territori.

    Polsi nel DNA della ‘ndrangheta

    Gli ‘ndranghetisti sono calabresi e, che ci piaccia o no, sono uomini (a volte anche supportati da donne). Come tali hanno identità plurali.
    Il lato religioso si mischia qui a quello culturale. La pratica secolare dei pellegrinaggi e della novena si mescola alle consuetudini della mangiata della domenica di agosto al Santuario, della presenza alla festa del 2 settembre o alla festa della Croce del 14 settembre. L’abitudine della birra ad un euro mentre si balla la tarantella nella piazza antistante la chiesa fino a tarda ora è inestricabile dalla recita del rosario e dall’intonazione delle canzoni in dialetto dei devoti.

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    Il santuario (foto Anna Sergi)

    L’identificazione culturale con Polsi non è appannaggio solo della maggioranza sana di chi frequenta il Santuario, con le sue paure, le sue fatiche e le richieste perché la Madonna faccia una grazia. È parte anche del DNA dello ‘ndranghetista, che come sempre accade, soprattutto per la ‘ndrangheta, prende il comportamento, i valori e le tradizioni del suo popolo e le rende, consapevolmente o inconsapevolmente, parte di un disegno criminale.

    Ribaltare la domanda

    Bisogna ribaltare, quindi, la potenziale domanda: non è “com’è stato possibile che la ‘ndrangheta si sia appropriata anche di Polsi?”, ma “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi?”.
    Perché c’è di più. Lo ‘ndranghetista che a Polsi porta sé, la sua famiglia e parte della sua attività criminale, oltre a profanare il territorio sacro, fa del male – come sempre – a una parte dei suoi compaesani e corregionali, ma non tutti se ne preoccupano allo stesso modo.
    Lo fa anche avallando la mancanza di rispetto che quel luogo sacro imporrebbe.

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    Polsi: zona sacra, ma non troppo (foto Anna Sergi)

    Manifestazioni di dispregio che non sono solo di matrice ‘ndranghetista e che portano alcuni – sempre una sparuta minoranza, si badi bene – a partecipare alle svariate celebrazioni religiose e sociali perché così fan tutti, o perché ci si vuol far vedere arrivando con la moto rombante fino al piazzale del Santuario. Diverse, certo, dal banale disinteresse di altri che magari vedono il tutto come una bella gita da fare con gli amici. Nulla di illecito in tutto questo, ovvio. Ma non lasciarsi avvolgere da questi luoghi cosicché venga naturale rispettarli nella loro intramontabile, primordiale, bellezza, è già una ferita.

    Cosa può attrarre la ‘ndrangheta a Polsi

    Di questo la ‘ndrangheta si appropria, come tutto ciò che è borderline qui da noi tra inciviltà e criminalità. Ed è anche per questo che alla domanda “cosa non abbiamo capito del perché la ‘ndrangheta può continuare ad andare a Polsi” si potrebbe rispondere che non solo gli ‘ndranghetisti sono individui a identità plurale e anche loro calabresi, ma anche che la mafia in generale – e la ‘ndrangheta nello specifico – si nutre di quei comportamenti arroganti e irrispettosi che stanno anche fuori di essa.
    Un po’ come i comportamenti di alcuni giornalisti stranieri che mi chiesero come fare per andare a filmare a Polsi e, addirittura, suggerimenti su come riconoscere gli ‘ndranghetisti tra la gente.

    Tutte le mancanze di rispetto per la cultura, la storia e la passione umana, religiosa e non, che diventano arroganza e presunzione possono contribuire ad attrarre la ‘ndrangheta anche a Polsi.
    E come nel canto per eccellenza che si intona a Polsi, la Bonasira, «E la Madonna si vota e ndi dici: vaiiti, bona sira, e santa paci!».

  • STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    STRADE PERDUTE | Vacche, fischi e contadini a Montegiordano

    Esiste un libro, costosetto, sui “linguaggi fischiati”. Un saggio scientifico, roba serissima, con tutti i crismi accademici, scritto da due linguisti: Meyer & Busnel. Busnel ne aveva già scritto uno più ridotto, assieme al collega Classe, quarant’anni prima. Esistono infatti ancora parecchie popolazioni, al mondo, che sanno fare uso di una vera e propria lingua alternativa e, appunto, fatta di soli fischi.

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    Illustrazione sulle diverse modalità di fischiare utilizzando le dita

    C’è un grido per le vacche, uno per i tacchini

    Ho recuperato entrambi i libri, per un motivo che c’entra solo a metà con queste Strade Perdute: anni fa restai affascinato dalla varietà di grida utilizzate da una certa famiglia di contadini nel dare varie indicazioni ad animali di diversa tipologia. Potenza della vita civilizzata (sono ironico): riescono a sorprenderci cose che fino a 150 anni fa avremmo ascoltato forse quotidianamente, senza troppe difficoltà… Per fortuna c’è chi ancora queste cose le sa, ne fa uso, le tramanda per necessità: c’è il grido per le vacche, quello per le pecore, per i tacchini, le oche, i cavalli, i muli. Il grido per avvicinarli, per allontanarli, eccetera. Leggevo da qualche altra parte che addirittura i bufalari in Terra di Lavoro affibbiano specifici nomi ad ogni capo. E i capi comprendono, registrano, rispondono solo se chiamati con quel nome. Guai a sbagliarsi, i bufali sono orgogliosissimi.

    Il tempo si è fermato a Montegiordano

    A due passi – si fa per dire – dal centro storico di Montegiordano vive una famiglia di contadini e allevatori esemplare. La cultura rurale alla massima potenza: figli e figlie hanno imparato a due anni ad andare a cavallo senza sella, tutto si produce in casa, dal pane alla carne passando ovviamente per i prodotti dell’orto. Sei raffreddato? Devi fare un giro all’alba nelle stalle, a respirare l’odore del letame fresco.

    Sei febbricitante? Raccogli la liquirizia, la metti a bollire in tre litri d’acqua, con tre foglie d’alloro, tre fichi secchi e tre fascette di camomilla. Quando i tre litri sono evaporati fino a diventare un litro solo, allora bevi. Tutto ciò accade in una masseria ubicata in mezzo a un paradiso terrestre: un’ex grangia cistercense di impianto addirittura duecentesco, che gli appassionati di studi federiciani dovrebbero considerare un po’ di più, senza limitarsi alla solita solfa dei castelli e dello scenografico sistema difensivo. E se lo dico c’è un motivo…

    Ruderi della grancia cistercense in agro di Montegiordano (foto L.I. Fragale)

    Perfino l’archeologo Lorenzo Quilici visitò la masseria nel 1961. Perfino lo scrittore Tiziano Fratus l’ha recentemente perlustrata e ne ha annotato gli alberi più monumentali tutt’intorno. Mentre qualche anziano contadino di quello stesso circondario ancora utilizza – e perciò ancora ‘possiede’ – un vocabolo dialettale apparentemente avulso dalla semplicità del contesto rurale, e invece profondamente connesso: lo spartagguale, ovvero l’equinozio, segno di un’antica conoscenza contadina dei rudimenti astronomici (mettiamocelo in testa: il vocabolario di un analfabeta di duecento anni fa era molto probabilmente più vasto di quello di un comune ignorante odierno).

    Io mi diverto invece a porre al capofamiglia domande imbarazzanti, del tipo se lui abbia mai visto in zona un roi de rats  (risposta: no) oppure «come mai non si produce il formaggio di donna?». Solo che la risposta è ancora più imbarazzante: «Perché il sapore non è buono». Colpito e affondato nei nuovi dubbi. Mi racconta che in una cucciolata di maialini ogni piccolo sceglie un determinato capezzolo materno da cui attingere. Da lì in avanti non avviene nessuno scambio: a ciascuno il suo. E se un cucciolo muore anzitempo, il “suo” capezzolo rinsecchisce. C’è poco da scherzare: quanto alle mie provocazioni in merito al latte di altri mammiferi (scrofe, cagne, cavalle, coniglie, gatte), pare che il problema sia molteplice.

    Latte di porco 

    Vi è innanzitutto una questione quantitativa: questi animali fanno troppo poco latte e per periodi troppo brevi (ergo l’investimento potrebbe non risultare vantaggioso); e una questione qualitativa: il latte di questi animali non è effettivamente gradevole al palato umano (chiediamoci: se fosse stato minimamente commestibile… davvero milioni di poveri contadini nella storia dell’umanità non ne avrebbero mai approfittato?). E però entrambi questi fattori oggi possono essere superati in un mercato di nicchia, dato che non è affatto difficile trovare accaniti consumatori di cibi tanto ‘esotici’ quanto apparentemente rivoltanti alla vista e al gusto (tempo fa andava di moda il costosissimo caffè fatto con chicchi precedentemente mangiati, digeriti e defecati da un simpatico zibetto).

    Chicchi di caffè di zibetto

    Il problema del gusto quindi non si pone per quanto riguarda il latte umano, visto che tutti l’abbiamo bevuto. E ci piaceva pure. Quanto alla quantità: quanti bambini sono stati allattati da balie che lo facevano di mestiere? Il problema sta semmai nella pastorizzazione. Sulla legalità della cosa, in linea di massima non sussisterebbe alcun problema, rientrando comunque negli atti di disposizione che non ledono in modo permanente l’integrità fisica della persona (si posso vendere i propri capelli, le proprie unghie (ammesso che vi sia domanda). Perché poi il latte d’asina sì, e il latte di cavalla no?

    Contadini con la C maiuscola a Montegiordano

    Ma torniamo alle cose commestibili: invitato a pranzo da questi Contadini (la maiuscola, qui, è d’obbligo), davanti al ben di Dio c’è poco di che applicare la regola della “creanza del cardalana” che consisterebbe nel lasciare educatamente sempre qualcosa nel piatto: la usavano gli esperti cardatori, lavorando a domicilio e perciò necessariamente invitati a pranzo, per evitare di apparire troppo famelici.

    E dopo il primo, l’agnello al forno, le cotenne e le orecchie di maiale, le polpette, la soppressata, le cicorie selvatiche, cipolle&uova, i piselli, le olive e litri di vino, tra i fumi dell’alcool e della digestione, un indovinello dialettale e un altro, mi rendo conto che più passano i minuti meno ho la lucidità di afferrare il loro discutere di mandrie e greggi da recuperare qua e là, fuggitive per la pioggia; e così arrivo all’ebbra conclusione che questi, c’è poco da scherzare, parlano greco. Un greco travestito da italiano. Altro che Area Lausberg, nel cui mezzo ci troviamo optime, ovvero quella zona linguisticamente nota con il nome di Mittelzone, quella ‘zona arcaica calabro-lucana’ che si contraddistingue per il particolare sistema vocalico equivalente a quello sardo.

    Il vecchio cementificio lungo la Statale 106

    Montegiordano e il Nordest di Calabria

    Siamo nei boschi un tempo appartenenti a Oriolo Calabro (Ursulus, Orgilus, Ordiolus), prima ancora che il paese di Montegiordano venisse fondato dove – carte del 1015 alla mano – sorgeva il castello di Petra Coeci e il monastero di Sant’Anania, che non stavano affatto in territorio di Nocara, come da qualche archeologo locale erroneamente affermato. Se andiamo avanti così, archeologi di questo tipo faranno fatica tra cent’anni persino a individuare il vecchio cementificio montegiordanese lungo la vecchia statale 106, interessante esempio di rudere industriale in mezzo al profumo dei pini d’Aleppo.

    E proprio lungo questa statale si può ancora accedere ad una delle spiagge più appartate e scenografiche: una contorta pineta naturale, scogli affioranti – gli scogli della Grilla e della Galera – e acqua trasparente, il tutto preferibile a giugno o a settembre, quando vi si incontrano solo sparuti gruppi di pescatori all’alba, cioè prima o dopo della ressa luglio-agostana – tendenzialmente apulo-materana, va detto – che purtroppo fa di questa spiaggia una mezza discarica.

    Ma siamo già al confine con il Comune di Roseto Capo Spulico come già annotava comicamente un atto del 1742, per niente avaro di sostantivi reiterati con funzione di moto per luogo: «Comincia detto confine dalla volta della Grilla, canale canale esce alla terra della Caprara, confinante col territorio di Roseto, e serra serra per lo lago del Vintrioso, che confina col territorio di detta Terra d’Oriolo, serra serra và al Monte grande confine colla Rocca Imperiale, scende nuovamente serra serra per la Timpa di Vitale, scende al Canale, che confina con detta Terra di Rocca Imperiale e canale canale esce al batto del mare e marina marina và al piano della volta della Grilla medesimo fine». Musica.

    La pineta naturale presso lo Scoglio La Grilla (foto L.I. Fragale)
  • MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    MAFIOSFERA | «This is Mafia Land»: ecco la Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
    Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
    Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.

    La Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews

    La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
    Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
    Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri.

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    Una capatina alla caserma dei carabinieri di San Luca

    A onor del vero bisogna menzionare un raro momento di illuminazione nel dare spazio a un commento del comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca, Michele Fiorentino. Il militare ricorda come non solo ci siano persone oneste a San Luca ma anche come il ruolo dello stato sia di proteggere loro, gli onesti, e non solo arrestare gli ‘ndranghetisti.
    Altro momento interessante è la risposta finale di Gratteri alla domanda sulla possibilità di sconfiggere la ‘ndrangheta. Il procuratore dichiara che l’unica cosa che si può fare è tentare di indebolirla, sapendo che probabilmente, in questa vita non la sconfiggerà.

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    Un momento dell’intervista a Nicola Gratteri

    Romanzo criminale

    Nicola Gratteri, da uomo intelligente e magistrato competente, conosce il potere della comunicazione e per questo investe in un’attività di divulgazione continua sul fenomeno che il suo ufficio contrasta. La sua figura, proprio perché capace di comunicare facilmente contenuti complessi, viene però spesso strumentalizzata da prodotti televisivi, mediatici, radiofonici che vogliono spettacolarizzare la mafia, amplificarne l’abnormalità, esacerbarne la difformità da una presunta normalità di altri. Questi altri sono però mutevoli: poco di frequente gli altri calabresi, a volte gli italiani, molto più spesso l’audience di riferimento dell’emittente estera, che siano gli inglesi, i tedeschi, i canadesi.

    Ed ecco poi che invece di intavolare un discorso serio, che so, sullo stato della giustizia in Italia, sugli effetti nefasti che alcuni provvedimenti antimafia, anche quelli approvati coi migliori intenti, producono sul territorio, si finisce per raccontare di come il procuratore di Catanzaro non possa più nemmeno coltivare il suo giardino e accudire i suoi polli senza le telecamere (poveri polli senza privacy, verrebbe da dire).
    Una spettacolarizzazione ad personam della lotta alla mafia operata soprattutto dai media esteri – ma, a dire il vero, qualche volta anche da quelli italiani – che sminuisce il lavoro delle (altre) procure, appiattisce l’impegno serio e di lungo corso del procuratore Gratteri a una narrazione da thriller. E ha onestamente stancato chi di noi vorrebbe contenuti con un minimo di spessore analitico.

    1897-2023: cosa è cambiato?

    Comunque, se anche lo spessore analitico non si potesse avere per ragioni stilistiche e di target/audience, che ci sia almeno una correttezza di narrazione nel prodotto di “intrattenimento”.
    L’assenza di voci di contrasto – che siano i cittadini, i sindaci e le istituzioni amministrativo-politiche e le associazioni – rende documentari come questo parziali e non molto utili nel descrivere “come combattere la mafia”. Ma qui il mio lavoro da analista finisce, si entra in altri settori – la produzione televisiva e il giornalismo – che non mi competono. Quel che però un documentario come quello di SkyNews dovrebbe suscitare è un dibattito su come la Calabria viene raccontata anche quando si parla di ‘ndrangheta.

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    Robbins a spasso per Platì

    Siamo rimasti alla questione meridionale, dove l’arretratezza del Sud, la sua mafia, il malcostume e il malaffare, sono diventate caratteristiche non solo dilaganti, ma praticamente “razziali”, identitarie di un omologato meridione “diverso” che provoca stupore e quasi un’attrazione morbosa da circo in chi lo guarda da fuori.
    Poco è cambiato da quando Lombroso, che il meridionalismo lo aveva riconosciuto ed anticipato di qualche anno, scriveva nel suo libro L’Uomo Delinquente, edizione del 1897: «Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri».
    Ineluttabile fato affligge il calabrese a ripetere i suoi errori, tanto da non chiedersi più nemmeno perché accade. Ma anche estrema verità che Lombroso aveva colto: ci si adatta anche alla mafia nelle “condizioni del paese”.

    Un problema complesso

    Quando si arriva in Calabria e si sceglie di raccontare come SkyNews la ‘ndrangheta come onnipresente, ultra-fagocitante bestia che attanaglia una regione ineluttabilmente piegata al suo volere, si racconta infatti solo una parte del problema mafia. Si appiattisce il problema e lo riduce a un unico nemico. Raccontarne invece la complessità richiederebbe parlare dei calabresi che in convivenza con la ‘ndrangheta – in quei territori “controllati” aspromontani, per esempio – fanno invece altro, molto altro.
    Come andare in pellegrinaggio di una giornata al Santuario della Madonna di Polsi, ignorandone le sue strumentalizzazioni mafiose, invocando le grazie della Madonna della Montagna. Magari suonando una tarantella che a provare a ballarla ti manca il fiato, tanto è dinamica, tanto è vitale.

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    La processione in onore della Madonna della Montagna di fronte al Santuario di Polsi

    No: non si tratta di proporre la solita narrazione della Calabria-folklore, che ignora la presenza della mafia e guarda solo al bello che qui da noi c’è. Si tratta di raccontare insieme la mafia che esiste e opprime e la gente comune che si adatta e ci convive. Conviverci non significa necessariamente piegarsi o approvare il comportamento mafioso, ma accettare che tutti i luoghi sono plurali e che esistono insieme tante dinamiche personali e sociali che esulano dalla nostra sfera di controllo personale.

    Come bestie al circo

    Si potrebbe dunque raccontare la tensione, in alcune parti della Calabria, nel vivere la presenza mafiosa al pari dell’immobilità sociale: ineluttabilmente. Scriveva ancor Lombroso nel suo saggio scritto dopo tre mesi in Calabria, nel 1863, «ogni lamento sarebbe lieve a deplorare lo stato in cui giace in Calabria l’educazione della mente e del cuore del popolo». Interverrebbero a mutare questi assetti sicuramente la fiducia verso lo Stato e la sua azione propulsiva, lo sviluppo economico, la coesione sociale promossa come strumento di questo sviluppo economico. Le colpe, in Calabria, si sa, non sono solo della ‘ndrangheta, che di questa terra è madre e figlia al tempo stesso.

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    Due uomini osservano la troupe di Sky dal loro balcone

    Tornando al documentario di SkyNews sulla ‘ndrangheta a Mafia Land (e alle sue approssimazioni), si constata invece come il processo di “alterizzazione” – e cioè di additamento dell’altro come diverso, strano, pericoloso (in inglese si chiama othering) – sia ancora la normalità per molti media esteri. Ci guardano, a noi in Calabria, come “animali in gabbia” da strumentalizzare per il proprio intrattenimento.
    Non si comprendono le radici profondamente sociali di certi fenomeni, inclusa la mafia, e soprattutto gli effetti dannosi di una narrazione centrata sull’alterità, l’abnormalità e il martirio di chi la combatte.
    Così non si informa bene sulla mafia e non si aiuta l’antimafia. Anzi, la si confonde e la si mina dal basso, alienando proprio quella gente che a San Luca e Platì guarda fuori dalle finestre quando passano le telecamere. E si chiede, forse, quando andranno via gli spettatori del circo.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    GENTE IN ASPROMONTE | Non solo natura: un patrimonio d’arte nel cuore della montagna

    L’Aspromonte ha avuto un suo Rinascimento. Qualcuno direbbe che ha contribuito in modo sostanziale allo sviluppo di quello italiano.
    Pochi sanno infatti che i borghi della Montagna Lucente ospitano un vero e proprio patrimonio diffuso di beni storico-artistici, spesso celati, comunque poco conosciuti. O addirittura sequestrati perché all’interno di immobili inaccessibili o a rischio crollo.
    Che i beni artistici italiani non siano valorizzati a dovere è noto. Ma che l’Aspromonte nasconda opere scultoree di rilevanza nazionale e mondiale, lo sanno in pochi. Anzi pochissimi Pasquale Faenza, storico dell’arte e già direttore del Museo Rohlfs della Lingua Greca di Bova, ha aperto a me e a molti questa finestra.
    Partito con l’intento di scandagliare il cosiddetto modello Bova e di inserire il suo museo in una più ampia narrazione della capitale della Calabria greca, avevo sondato qualche conoscenza per ampliare lo spettro della mia ricerca.
    Tra i contattati c’era Pasquale. Con lui il discorso è caduto sui beni culturali che rendono l’Aspromonte di per sé opera d’arte, quasi un museo a cielo aperto.

     

    L’arte d’Aspromonte: dal Rinascimento al Barocco

    È una torrida mattina di luglio. Il sole è già implacabile e l’aria comincia a rarefarsi. Seduto davanti a una tazza di caffè troppo calda, tra il vociare degli astanti, ascolto Pasquale.
    «Proprio dall’Aspromonte sorge il Rinascimento. Boccaccio e Petrarca imparano il greco attraverso Barlaham di Seminara, padre dell’Umanesimo, e Leonzio Pilato, tra i primi promotori dello studio della lingua greca nell’Europa occidentale e traduttore di Omero.
    È il tempo in cui la Calabria con il suo monachesimo è très d’union tra Costantinopoli e l’Europa cristiana.
    In questo contesto l’Aspromonte ottiene un ruolo di primo piano. Grande contenitore di legname e pece e sito di produzione della seta, è una terra florida per commerci e interscambi, sede di cenacoli culturali pari a quelli del Centro Italia.
    Fioriscono botteghe, vengono prodotte e fatte circolare opere d’arte di pregio per arricchire i moltissimi luoghi di culto che insistono su quei territori. Tutto questo ci porta a comprendere il ruolo che ha avuto questa montagna non solo per la Penisola, ma per l’intera area mediterranea».

    Un passato eterno tra riti e simbologie 

    Pasquale si riferisce al periodo tra ’400 e ’600. In questa epoca la Calabria ha un ruolo centrale nella crescita demografica ed economica del Paese.
    È un momento in cui «esisteva un’economia che oggi non c’è più, ma che è stata fondamentale per la nascita di questi movimenti culturali».
    Le tracce di questo passato, oggetto di una devozione popolare estremamente radicata, si riflettono nei culti mariani e nella rappresentazione dei santi guerrieri e degli elementi che li corredano.
    Ad esempio, San Leo con la palla di pece in mano, o le varie Madonne che ostendono le mele, ’i pumiceddhi, tipiche di queste latitudini. O San Teodoro e San Michele, miliziani, emblema di difesa dalle invasioni saracene.
    Questa simbologia svela le ricchezze e le criticità di un intero territorio, fino ad arrivare al culto pagano della Grande Madre e della fertilità, cristallizzato nell’effige della Madonna di Polsi. O nelle Pupazze di Bova. Oppure nella raffigurazione di Sant’Anna e sua figlia.

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    La Madonna con Bambino di Giuseppe Bottone

    Arte d’Aspromonte: capolavori nascosti

    Insieme alla Fondazione Scopelliti, Pasquale promuove Capolavori d’Aspromonte. questo progetto, a sua volta, deriva da Rinascimento di Aspromonte, ideato e gestito qualche anno fa insieme a Giuseppe Bombino, allora presidente del Parco.
    «Tutto è iniziato col restauro dell’Annunciazione di Gagini nella chiesa di Bagaladi condotto assieme all’antropologa Patrizia Giancotti e promossa poi con la realizzazione di contenuti digitali collegati a un QR code. È stato un grande successo».
    Capolavori d’Aspromonte, continua Pasquale, «parte da quell’esperienza e nasce per valorizzare il patrimonio storico-artistico poco noto e diffuso in tutto l’Aspromonte.
    Ogni centro storico possiede un’opera d’arte databile tra ’400, ’500 e ’600.
    Da Gagini, a Montorsoli a Pietro Bernini, i nostri borghi traboccano di opere importantissime che ci consentono di creare percorsi di conoscenza e riscoperta per rileggere il Rinascimento italiano sotto una nuova luce. Attraverso una lente che esce dal seminato del toscano-centrismo.
    La storia dell’arte è stata letta partendo dalle grandi capitali degli Stati italiani, ma quello che conosciamo è solo una parte».

    Arte d’Aspromonte: un percorso tra i borghi

    La lista dei siti dove sono presenti sculture marmoree databili tra XV e XVII secolo è lunga e articolata.
    Passa dalle ultime colline che diradano verso il mare fino al cuore della montagna.
    Sono cinquantadue borghi che vanno da Bova a Pentedattilo, da Scilla a Seminara, da Bagaladi a Roccaforte del Greco, da Gallicianò ad Africo Vecchio, da Caulonia a Stilo, da Oppido Mamertina a Terranova, da Sant’Eufemia a Palizzi.
    In alcuni di questi siti sono state già organizzate escursioni e molte altre sono già programmate.
    In un luogo in cui germinano le proto-filiere del turismo lento, Pasquale ha un obiettivo: unire i percorsi e arricchire le escursioni naturalistiche con un’offerta più sfaccettata.
    «La meta finale è potenziare la fruizione turistica coinvolgendo le guide turistiche. In particolare, le guide del Parco, che conoscono l’Aspromonte e lo battono quotidianamente.
    La Fondazione finanzierà la redazione della guida che sto compilando in due versioni, cartacea e digitale. Una volta tracciati i siti e individuati i percorsi, le guide diverranno veri e propri moltiplicatori di nuovi viaggi di senso. La creazione di sentieri della cultura attorno a percorsi naturalistici già battuti, apre scenari nuovi. Questi sono collegati a un Rinascimento aspromontano sconosciuto. Ciò rappresenta di per sé una notizia e, in seguito a studi dedicati, potrebbe riservare grandi sorprese», prosegue Pasquale.

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    La Madonna della Candelora di Giuseppe Bottone

    Tutti gli ostacoli da eliminare

    Proprio lo studio e la ricerca sono il primo ostacolo.
    «Sul territorio mancano gli enti che se ne occupino. Non mi pare che le Università calabresi abbiano mai aperto un filone di studio e ricerca sul tema né che l’Accademia di Belle Arti di Reggio abbia prodotto pubblicazioni dedicate.
    Guarda invece l’escursionismo naturalistico: molte tra le guide hanno solidi studi di agraria alle spalle e l’Università Mediterranea ha sempre fatto la sua parte.
    La carenza di approfondimento scientifico sui beni culturali in Aspromonte intacca l’avvio di un percorso che punta alla valorizzazione e all’apertura di nuovi comparti del mercato turistico».
    A ciò si aggiungono altre criticità non proprio secondarie: i siti che ospitano tale patrimonio artistico sono spesso inaccessibili.
    Sono chiese secondarie, a volte fatiscenti, che soffrono la mancanza di parroci e personale.
    «Nelle chiese dei territori più isolati, tutto va gestito con cautela. Ma l’indotto economico potrebbe diventare uno sprone per far riaprire quei luoghi. Basta vedere quello che è successo a Pietrapennata di Palizzi».
    Nella chiesa dello Spirito Santo è conservata la Madonna dell’Alica, un gruppo marmoreo cinquecentesco attribuito ad Antonello Gagini nel periodo della maturità.
    «La chiesa era inaccessibile e pericolante. Con il coinvolgimento del Fai, della comunità e del parroco di Palizzi, abbiamo puntellato il tetto pericolante e abbiamo organizzato delle escursioni.
    E poi, grazie al tramite di una guida, alcune donne del luogo hanno preparato e venduto le colazioni. Tutto molto alla buona, ma questo inizio ha fatto comprendere il ruolo di traino che un bene turistico può esercitare. Il web, poi, può fare il resto».
    Lo stesso meccanismo è stato avviato anche ad Ardore con la Madonna della Grotta di Bombile, o ad Oppido con le opere custodite nella diocesi, dove due parroci hanno incentivato la valorizzazione di questi patrimoni.

    La Madonna della Grotta di Antonello Gagini

    Etnografia e arte in Aspromonte: oltre il turismo lento

    Alla base serve un lavoro amplio che va dallo studio alla catalogazione, dall’aggiornamento alla divulgazione.
    Con incursioni che si spostano dalla storia dell’arte all’etnografia. Perché il patrimonio diffuso in Aspromonte non ha solo un valore artistico, ma soprattutto etnografico.
    «Più che altrove, in Aspromonte sono rimasti una forte devozione popolare, un senso di comunità mai sopito e una ritualità che ancora si tramanda vividamente.
    Al valore storico-artistico del territorio si associa la devozione popolare che lo rende vivo e lo trasforma in vero e proprio bene immateriale.
    Sul settore etnografico la Calabria è scoperta. A parte il lavoro svolto all’Unical da Vito Teti, oggi in pensione, c’è stato poco. In questo momento ci saranno uno o due etnografi presso le Soprintendenze. Da direttore del Museo Rohlfs ho dovuto realizzare in autonomia le schede di catalogo. È un vero peccato: l’aspetto che potrebbe avere maggiormente successo è anche quello poco studiato».
    Il passaggio verso la valorizzazione etnografica – che oggi è il grande richiamo all’arcaico o all’esotico – è un percorso lungo e non facile.
    «Significa lavorare sulle e con le comunità, solitamente gelose e diffidenti se si sentono esautorate del ruolo di protagoniste assolute. È un lungo lavoro di preparazione, ascolto, confronto e persuasione.
    Ma quando inizi a comprendere il valore dell’effige di devozione che caratterizza il tuo paese, il ruolo che ha avuto, ad esempio, il tuo antenato, quello della tua comunità, fino ad arrivare a quello della Regione in un contesto mediterraneo allargato, riscopri un tesoro.
    Il fatto che una nuova generazione possa conoscere il proprio Rinascimento o il processo di sviluppo della Calabria, arricchisce i centri storici e i borghi che rischiano di diventare contenitori vuoti, pieni magari di neonate botteghe, ma privi di contenuti. È questo percorso che crea il valore aggiunto di un brand autentico».

    Arte: quale brand per l’Aspromonte

    In una recente intervista, Francesco Aiello, docente di Politica economica dell’Unical, è stato netto: non è possibile mettere a punto un sistema turistico basato solo sul turismo lento.
    In una breve conversazione telefonica con chi scrive, il prof di Arcavacata ha affermato: «Chi sostiene che il turismo lento possa arrivare a costituire il 13% del Pil regionale non dice la verità.
    Oggi registriamo una forchetta che va dal 4 al 5% con margini di miglioramento. Ma il bacino di utenza del turismo lento non può spingere la quota parte del nostro prodotto interno lordo a una doppia cifra.
    Serve piuttosto lavorare su strategie in grado di caratterizzare il sistema montagna, differenziandolo dall’offerta presente in altri territori. Perché scegliere Camigliatello o Gambarie invece di Roccaraso?»
    Questo induce una riflessione sul fatidico brand Aspromonte di cui avevo parlato con Tiziana Pizzati a Samo.
    Anche Pasquale insiste molto su questo tema: «La nostra cultura (e la conseguente narrazione) si è sempre fermata all’archeologia, ad una Magna Grecia più raccontata che “resuscitata”.
    Così quando arrivi in Calabria, in particolare nel Reggino, ti aspetteresti di vederla, ma non la trovi. Non puoi basare l’identità su un elemento commerciale, come sono vissuti i Bronzi di Riace a Reggio. Se a questo aggiungi che la popolazione calabrese, in media, ignora la propria storia, il cerchio si chiude».
    Quest’esperienza, quindi, rischia di sconfinare nella mitopoietica. Certo, un percorso di promozione turistica è iniziato. Tuttavia, questa lenta operazione ha una grande lacuna. Spiega ancora Pasquale «Non puoi pensare di creare una crescita turistica di lungo periodo se non hai portatori autentici di quel vissuto, testimoni viventi, presenti, narranti e agenti di una storia cristallizzata in opere, rituali e costumi di cui ignori origini e sviluppi.
    Non puoi permetterti di basare una strategia di sviluppo sull’idea del selvaggio e sul dramma dell’abbandono.
    Se invece lavori per potenziare questi luoghi, esaltandone la cifra culturale ed etnografica, puoi creare un modello autenticamente sostenibile con ampli margini di crescita. Puoi intercettare nuovi target e utenze: penso ad appassionati di arte, operatori del settore, e così via. Ecco perché è necessario insistere sulla formazione delle comunità e dei suoi membri. Solo questa riscoperta può scardinare un senso di inferiorità interiorizzato».

    Domenico Guarna

    La voce delle guide

    Su tale aspetto concorda Domenico Guarna, giornalista e guida escursionistica Agae: «Il turismo è una scienza sociale ed economica e da tale va trattata. Ciò implica studiare operazioni scientifiche basate su dati, proiezioni, valutazioni di mercato.
    Inoltre, occorre coinvolgere le comunità, altrimenti si rischiano danni. Resta il fatto che non conosciamo quello che abbiamo e quindi non siamo in grado di presentarlo».
    Domenico si riferisce a un fatto accaduto a Montebello Jonico. Lì era in programma il restauro della statua marmorea della chiesa madre. La comunità era stata informata e coinvolta in modo troppo blando.
    Ne scaturì una polemica, dovuta alla paura che l’opera fosse sottratta e mai restituita. Le posizioni si irrigidirono e, nonostante i tardivi incontri di mediazione, quel restauro non andò in porto.

    Raccontare la montagna: la forza del sapere

    «In territori come i nostri le guide hanno un valore specifico. Luoghi abbandonati, privi di elementi che ne facilitino la decodifica, hanno bisogno di un racconto competente. Serve un ripensamento del paradigma economico: oltrepassare il turismo lento o l’organizzazione di un evento culturale spot per costruire delle vere e proprie economie», continua Domenico.
    La parola chiave è mettere a sistema perché, ad esempio, ad oggi manca un circuito unitario dei beni storico-culturali: «L’inaccessibilità di certi posti non può più essere tollerata. Guarda cosa succede con l’area archeologica Griso Laboccetta di Reggio.
    Perché per quest’area, come per innumerevoli altre in città o in Aspromonte, non è stato studiato un sistema di ingresso a ciclo unico?
    E perché dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il bando guide emanato dalla Città Metropolitana, competente in materia turistica, nessuno è intervenuto per colmare il vuoto legislativo evidenziato? E dire che il numero delle guide turistiche in Calabria è talmente esiguo da necessitare un rimpolpamento», chiosa Domenico.

    L’Epifania di Giovambattista Mazzolo

    Aspromonte: il programma che non c’è 

    Che a tutto questo si sommi un deficit di pianificazione da parte degli enti pubblici non è una novità.
    Così, al riguardo, Pasquale: «Le istituzioni non sono mai riuscite a creare itinerari fruibili. Pensa che sui parchi archeologici avevo iniziato un lavoro per fare riemergere la biodiversità archeologica.
    Funzionava così: mentre si effettuava uno scavo, con il supporto di botanici e genetisti, venivano utilizzati i pollini rinvenuti per recuperare certe piante che poi dovevano essere coltivate.
    Questo ti permetteva di ricreare l’ambiente originario e di mettere a punto diverse produzioni (fichi antichi, nocciole, ecc) da vendere all’interno del parco stesso o presso i circuiti museali. Il parco stesso diventava un’azienda. Avevo proposto l’idea al Parco Archeologico di Locri. In diversi mi avevano risposto che non era una strada percorribile. Oggi lo sta facendo Pompei…», chiude Pasquale.

    Chiese Aperte

    Per parte sua, la Diocesi di Reggio, attraverso l’Ufficio per i Beni Culturali guidato da Don Mimmo Rodà, ha promosso il progetto Chiese Aperte.
    Dal 2012 al 2017 l’iniziativa ha formato circa 300 volontari nel quadro della valorizzazione degli edifici di culto di rilievo storico per farne operatori turistici delle loro stesse chiese di appartenenza.
    Il tutto con un obiettivo finale: spingere i beneficiari di quella formazione a realizzare cooperative e associazioni in grado di dare impulso al settore del turismo culturale e religioso.
    Secondo Lucia Lojacono, direttrice del Museo diocesano di Reggio Calabria, «non si è riusciti ad avviare queste forme organizzate.
    È necessario ripartire con forme di intervento diverse. Ad oggi restiamo una componente fondamentale nel sistema beni culturali: costituiamo la Consulta regionale in costante dialogo con Regione e Soprintendenza e siamo sollecitati a produrre elenchi dei beni su cui intervenire prioritariamente». Anche perché, spiega Don Rodà, «abbiamo una flessione importante dei proventi dell’8×1000, utilizzati per finanziare Chiese Aperte.
    Il deficit di fondi ci impedisce di intervenire come vorremmo e non siamo in grado di coprire da soli le spese per il restauro delle chiese secondarie. A maggior ragione abbiamo bisogno di un cofinanziamento da parte delle comunità residenti.
    Ma c’è una notizia: abbiamo sottoscritto un protocollo con la Regione che ci permette di partecipare ai bandi europei di finanziamento, impossibile fino a ieri perché, come enti ecclesiastici, non eravamo assimilati agli altri enti privati. Abbiamo aderito con convinzione al progetto Capolavori d’Aspromonte a cui partecipiamo attraverso le diocesi di Oppido-Palmi e Locri-Gerace».

    Don Mimmo Rodà, il direttore dell’Ufficio Beni culturali della diocesi di Reggio Calabria

    Le amministrazioni facciano la loro parte

    Carenza di personale, poco coordinamento pubblico, esiguità di fondi, deficit di pianificazione, incapacità di promuovere sistemi di cooperative legate al privato sociale sono le principali criticità. Mescolare un approccio misto bottom-up e up-bottom potrebbe costituire una soluzione per rafforzare quanto già in atto e per cui è essenziale la regia delle amministrazioni pubbliche – Regione, Province, Comuni, Parco Aspromonte – soprattutto in termini di strategie e di processi a lungo termine di project financing.

  • MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    MAFIOSFERA | Dopo Duisburg: cos’è diventata la ‘ndrangheta di San Luca

    Come per tutti i fenomeni sociali di lunga durata, nella storia della ‘ndrangheta troviamo degli eventi spartiacque che più di tutti hanno segnato un prima e un dopo. C’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta. E, soprattutto, c’è un prima Duisburg e un dopo Duisburg nella ‘ndrangheta aspromontana originaria del paese di San Luca.
    Non è più una notizia per nessuno che a Duisburg, in Germania, a Ferragosto del 2007, 6 uomini caddero vittime dell’ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta che consumava due clan di San Luca, Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, dal 1991. Ci sono stati processi, condanne dalla Corte d’Assise di Locri, indagini in Italia e in Germania.
    Chi doveva pagare, più o meno, ha pagato o sta pagando.

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    La strage di Duisburg, ultimo atto di una faida di ‘ndrangheta partita da San Luca

    Prima di Duisburg non c’era ancora stata operazione Crimine, che solo un paio di anni dopo avrebbe scoperchiato e finalmente portato a processo le strutture, anche quelle apicali, della ‘ndrangheta reggina e ne avrebbe evidenziato dinamiche interne e proiezioni estere. Prima di Duisburg molte delle faide in Calabria erano terminate per lasciare spazio a un nuovo assetto delle ‘ndrine che – grazie a una pur precaria pace sui propri territori – potevano concentrarsi su affari e denaro. E, sempre prima di Duisburg, San Luca, il paese di nascita di Corrado Alvaro, già ovviamente conosceva la crudeltà della ‘ndrangheta, tra i sequestri di persona e altre vicende di sangue legate anche alla faida.

    San Luca: un “modello” di ‘ndrangheta già prima di Duisburg

    Il 14 settembre 2000 era arrivato lo scioglimento del comune per infiltrazione mafiosa in quanto «la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, amicizie e frequentazioni, che vincola tanto la maggior parte degli amministratori, quanto numerosi dipendenti comunali a soggetti organicamente inseriti nelle locali famiglie della ‘ndrangheta, costituisce il principale strumento attraverso cui la criminalità organizzata si è ingerita nell’ente condizionando l’attività dell’apparato gestionale e compromettendo la libera determinazione degli organi elettivi».

    Quella stretta e intricata rete che ovviamente non scompare negli anni ha fatto girare la testa a investigatori italiani ed europei. Quel modello di ‘ndrangheta è diventata la ‘ndrangheta conosciuta altrove, nonostante le enormi differenze tra i vari clan qui da noi. Negli anni persone con lo stesso nome e cognome di quelli coinvolti in Duisburg e con parentele intrecciate allo stesso modo sono diventate soggetti di indagine anche in Germania, e altrove in Europa, esponendo la capacità di alcuni clan della ‘ndrangheta di adattarsi plasticamente al narcotraffico transfrontaliero.

    Guerra e pace

    Dopo Duisburg, però, arriva la pace tra le due famiglie. Un vero e proprio accordo di pacificazione maturò in seguito all’esecuzione dei fermi dell’operazione Fehida, che coinvolse esponenti di entrambe le famiglie, il 31 agosto 2007.
    Si legge nella sentenza di Fehida che nella tarda serata del 4 settembre 2007 (due giorni dopo la festa della Madonna della Montagna al Santuario di Polsi), un soggetto di San Luca coinvolto con i Nirta-Strangio avrebbe inviato in rapida successione due SMS di contenuto analogo con i quali comunicava che «le cose si sono aggiustate». Lo spedirà qualche giorno dopo anche in Germania ad Antonio Rechichi a Oberhausen: «Ora qua le cose le hanno aggiustate».

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Nel pomeriggio del giorno successivo una madre comunica al figlio, appartenente ai Pelle-Vottari che «è tornato il sereno». E ancora, la sera del 6 settembre 2007 Antonia Nirta parla con il fratello Giuseppe e gli dice che «sembra che siano migliorate le condizioni» e che è stata fatta la pace: «Qua sembra che è migliorata la condizione di … il fatto della pace… hanno fatto la pace meglio così». Da ultimo, nel corso della stessa serata, una donna informa Elisa Pelle, a Milano: «Hai visto che bel regalo che mi ha fatto la Madonna a me della montagna?». E la Pelle risponde: «Mi hai fatto la donna più felice del mondo».

    La ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg

    A pace fatta a Polsi, dunque, gli schieramenti iniziali – Nirta-Strangio e Pelle-Vottari – non scompaiono ma diventano i due schieramenti egemoni del paese. Un duopolio in precario equilibrio, ma comunque in equilibrio. Sempre più a vocazione internazionale – Duisburg in fondo è successo perché in Germania i clan si sentivano abbastanza “a casa”, abbastanza protetti – la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg ha sconquassato il paese ed è comunque riuscita ad arricchirsi.

    Il 17 maggio 2013 il comune di San Luca viene sciolto di nuovo; si scioglie una giunta che si era insediata nell’aprile del 2008. In questo caso, si legge nel decreto di scioglimento, che persistono parentele e affinità, e che la pervicacia dell’organizzazione criminale è palpabile nell’amministrazione del paese: «Elementi concreti che denotano il condizionamento della criminalità sull’attività dell’ente locale sono altresì attestati dalla circostanza che circa il 60% dei lavori sono stati affidati dall’amministrazione a soggetti o società contigue alla criminalità organizzata».

    Ma come spesso accade, soprattutto in Calabria, lo scioglimento dei comuni porta solo più abbandono. Nonostante il decreto di scioglimento prevedesse solo 18 mesi di commissariamento, per le elezioni San Luca ha atteso il maggio del 2019.
    Nel 2015 la lista che si era presentata non raggiunse il quorum, negli anni successivi non si presentò nessuno.

    Tre novità

    E la ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta di San Luca, dopo Duisburg – seppur mostrandosi al mondo – non si è invece inabissata come il paese. Alcune tendenze più generali della ‘ndrangheta del territorio, soprattutto della Jonica, si sono manifestate tra le famiglie sanluchesi. Ad esempio, l’inflazione delle cariche e l’apparizione di nuove cariche. E poi, l’abbandono o il camuffamento dei riti di affiliazione, sia per evitare occhi “curiosi” delle forze dell’ordine sia perché l’appartenenza alla ‘ndrangheta da queste parti è diventata fatto consolidato su altre basi, meno esoteriche.massondrangheta

    Da ultimo – proprio mentre tanti nuovi clan, di più giovane origine – cercano di “salire alla Montagna”, di essere riconosciuti dai clan della “mamma”, a Polsi, i clan sanluchesi hanno effettivamente sdoppiato la propria anima.
    Da una parte la “casa” rimane in Calabria, con un controllo del territorio spesso solo per presenza e reputazione, senza nemmeno bisogno di estorcere o “arraffare” proprietà come un tempo. Dall’altra, gli affari – soprattutto il narcotraffico e il grosso degli investimenti – sono stati spostati fuori dalla Calabria, anche in Europa e fuori dall’Europa, con ogni clan che tende a sviluppare un suo canale preferenziale verso uno o più luoghi prescelti. Quelli dove si può manipolare la diaspora calabrese dei compaesani e da dove investire sia legalmente che illegalmente sia più semplice e redditizio.

    Pollino ed Eureka

    Non sorprende, quindi, se dopo Duisburg (nonostante Duisburg) abbiamo due mega operazioni che esaltano le capacità di indagine comune tra Italia e Europa, come ad esempio operazione Pollino nel 2018 e operazione Eureka nel 2023. In entrambe a far da protagonisti sono le ‘ndrine di San Luca – dai Pelle, ai Vottari, dagli Strangio ai Giorgi – tutte ovviamente in cartello tra loro e con altri sodali per muovere tonnellate di cocaina.

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    Uno scorcio di San Luca

    In queste operazioni si inizia a vedere un perverso effetto di Duisburg: la notorietà della ‘ndrangheta e la sua narrazione come organizzazione criminale più potente in Italia, e – per il traffico di stupefacenti – tra le più potenti al mondo, che hanno amplificato la fortuna dei Sanluchesi all’estero.
    Sempre più slegati da San Luca per gli affari, ormai centrati nei porti del nord Europa, ma mai fuori da San Luca perché è al paese che si cristallizza il potere acquisito e mantenuto da decenni. Ecco cos’è la ‘ndrangheta di San Luca dopo Duisburg.

    Davide e Golia

    Drammaticamente, mentre in tanti, ormai anche in Europa, rincorrono i clan e i loro milioni per mezzo mondo, ci si dimentica che giù al paese le cose vanno forse un po’ meglio, ma non troppo. Tutt’oggi San Luca è il paese con la più bassa percentuale di votanti d’Italia. Nel settembre 2022, alle elezioni politiche, solo il 21,49% dei cittadini di San Luca aventi diritto al voto ha votato.

    Lo Stato c’è, ma è chiaramente traballante. San Luca è un comune di 3.500 abitanti che nel pubblicare, nel 2021, il piano triennale per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, in ottemperanza delle aspettative di legge, si trova a dover fare un copia-incolla dai documenti ufficiali di polizia sulla ‘ndrangheta più evoluta e transnazionale, per delineare il contesto esterno del comune.
    Se è una situazione da Davide contro Golia, stiamo certo facendo il tifo contro Golia. Ma siamo sicuri che stiamo aiutando Davide a vincere?

  • MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    MAFIOSFERA| Granducato di Mammola: le ‘ndrine joniche in Lussemburgo

    L’Operazione Malea, della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, il 25 luglio ha portato all’arresto di 12 persone. Si ritiene abbiano tutte legami con la ‘ndrangheta nel locale di Mammola, sulla Jonica reggina. Tra le attività spiccano classici intramontabili: traffico di stupefacenti, acquisto e detenzione abusiva di armi, estorsione nel settore boschivo e nell’edilizia. Ma ci sono anche alcune attività più creative del solito.
    Un esempio? Il reato di estorsione per aver imposto ai titolari delle giostre installate a Mammola, in occasione della festa patronale di San Nicodemo, di emettere un numero elevato di titoli (gettoni e/o biglietti) per poter usufruire gratuitamente delle attrazioni ludiche.
    Alle giostre ancora non ci eravamo arrivati. E non è segno da poco: simboleggia l’esistenza di una struttura di ‘ndrangheta arrogante, radicata e presente in paese.

    La ‘ndrangheta in Lussemburgo e i rapporti con Mammola

    Destinatario della misura cautelare in carcere è stato, tra gli altri, Nicodemo Fiorenzi. Per le autorità sarebbe stato il referente del gruppo di Mammola in Lussemburgo. Avrebbe dovuto riferire e concordare con i vertici del locale di Mammola le varie scelte e decisioni sul territorio estero. L’articolazione territoriale in Lussemburgo ha interessi e attività proprie, ma a livello di vertice, ancora ci si parla col paese.
    Queste le dichiarazioni di Antonio Ciccia ai magistrati: «Come ho già scritto vi sono molti miei paesani affiliati che si trovano o sono andati in passato in Lussemburgo. Non so la ragione di tale scelta e cioè non so dire se lì sia stato costituito e autorizzato un locale di ‘ndrangheta. Ma ciò che posso dire è che nel tempo in Lussemburgo sono andati Fiorenzi Nicodemo, Deciso Nicodemo, che fanno la spola tra il Lussemburgo e Mammola».

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    Un fotogramma dalle riprese della Polizia nell’Operazione Malea

    Non a caso, è proprio a Nicodemo Fiorenzi che un giovane della famiglia Cordì, Attilio, di Locri si sarebbe dovuto rivolgere per trasferirsi in Lussemburgo e trovare lavoro, destando sospetti a Mammola sull’opportunità (non avallata) di supportare l’ingresso dei Cordì in Lussemburgo.
    Dirà infatti un presunto capo locale di Mammola che in Lussemburgo Fiorenzi è autonomo, ma non del tutto: «Con tutto il rispetto vostro, …dopodiché, se voi mandate un ragazzo di San Luca, così, va bene… Nico [Fiorenzi], non mi deve dare spiegazioni». E su Attilio Cordì: «Questo poi si tira gli altri, e vedi che poi non avrete voce in capitolo».

    Il buco nero dell’Europa

    In Lussemburgo, infatti, risiedono anche alcuni “giovani”, trentenni o poco meno, di Mammola. E da qui inizia un déjà vu. Perché questa storia dei mammolesi, alcuni anche giovani, in Lussemburgo noi già la sapevamo.
    Facciamo un passo indietro. Qualche anno fa, nel febbraio del 2021, grazie a dei dati ricavati da OpenLux IrpiMedia ci aveva raccontato della ‘ndrangheta in Lussemburgo. OpenLux era un’inchiesta collaborativa che partiva da un database raccolto da Le Monde, reso ricercabile da Occrp sulle 124 mila società che popolano il registro delle imprese lussemburghese.conto-lussemburgo-mammola-ndrangheta

    L’inchiesta ha permesso di analizzare i nomi dei proprietari delle società registrate nel Granducato, finora schermati da prestanome e professionisti.
    In quell’occasione il Lussemburgo era apparso in tutta la sua “debolezza”: un paese con forte protezione del capitale privato, dove fare affari sporchi, o semi-puliti, non costa tanto, grazie anche a una diaspora italiana ormai ben radicata sul territorio. Complici la segretezza bancaria e fiscale e una difficile transizione alla trasparenza tra banche e organi preposti al controllo su attività commerciali e di capitali, il Lussemburgo è spesso considerato un buco nero (per le indagini finanziarie) nel cuore dell’Europa.

    Mammola, Lussemburgo e ‘ndrangheta: un déjà vu

    Ed ecco che si arriva al déjà vu. Infatti, OpenLux aveva identificato una rete di 17 famiglie di Mammola – per lo più tutti ristoratori nel Minett, ex distretto minerario del Lussemburgo che aveva attratto molti migranti proprio grazie all’industria mineraria – grazie all’analisi del registro dei beneficiari effettivi. Ristoranti vicini, residenze vicine, e amicizie intrecciate sui social. Un paese a doppia anima, Mammola, come ce ne sono tanti qui in Calabria: una locale e una migrante.
    IrpiMedia aveva chiarito come tanti di questi ristoranti avessero avuto in realtà vita breve, ma fossero stati aperti con investimenti significativi portati da “casa”. Se, come confermano le indagini, è dagli anni Novanta che soggetti legati a famiglie di Mammola registrano imprese in Lussemburgo, nella geografia di ‘ndrangheta questo significa di solito due cose: il riciclaggio dei proventi del narcotraffico nel Granducato, e la presenza di strutture mobili di coordinamento tra le frontiere che nascono spontaneamente quanto più da “casa” si utilizzano certi canali.

    Il marchio di fabbrica

    Per quanto riguarda il narcotraffico, è noto da anni che sull’alta Jonica reggina a far da padroni sono i Sidernesi (oltre ovviamente ai gruppi di San Luca e aspromontani). Infatti, tra Mammola e Siderno si è sempre mantenuto un collegamento stretto. In particolare per mano degli Scali, famiglia reggente a Mammola.
    Non a caso, tra le varie operazioni che avevano coinvolto il Granducato e a cui le indagini di OpenLux si erano intrecciate si distingue l’arresto di Santo Rumbo nel 2019, a Differdange, nel sud-ovest del Lussemburgo, dove gestiva un ristorante.

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    Riccardo Rumbo

    Rumbo, figlio di uno ‘ndranghetista sidernese, Riccardo, già condannato al 41-bis, è considerato una “promessa” della ‘ndrangheta della Jonica. In particolare, secondo l’Operazione Canadian Connection 2, del Siderno Group of Crime, quella propaggine ‘ndranghetista attiva nell’Ontario. Un asse America-Europa-Calabria che è il marchio di fabbrica dei Sidernesi, soprattutto dei Rumbo-Figliomeni (e dunque legati alla più potente super-‘ndrina Commisso).

    Da Mammola al Lussemburgo, non tutti per ‘ndrangheta

    Per quanto riguarda il secondo aspetto, cioè la nascita di strutture di coordinamento, bisogna partire anche qui dall’analisi sociale. In un paese a vocazione migratoria è normale legarsi alle catene di migranti, cioè andare dove altri dal paese sono già andati. Nel caso di Mammola, pertanto, di giovani partiti per raggiungere “i parenti” in Lussemburgo ce ne sono sicuramente stati e ancora ce ne sono. Alcuni con intenti criminali, ma molti sicuramente con intenti commerciali e la voglia di “fare fortuna” all’estero.

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    Un panorama di Mammola, il cui locale di ‘ndrangheta per gli inquirenti avrebbe ramificazioni fino in Lussemburgo

    Ecco che tra chi crea un business di import-export dall’Italia al Lussemburgo (portando generi alimentari e a volte riportando armi verso sud…), chi si apre un negozio di servizi per la stampa, e chi invece investe “denaro di famiglia”, qualche migliaio di euro, per licenze di ristorazione e rilevamento di attività, passa molto poco.
    Dichiara per esempio Damiano Abbate a Rodolfo Scali (entrambi raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare e considerati elementi di vertice del locale di Mammola): «E se facciamo qualche cosa [in Lussemburgo]? Io e mio cognato vogliamo investire 50mila euro, 100mila euro, là che stai tu, che stanno i figli tuoi, a gestirseli loro, devo vedere che ce li devono prendere che, che quelli vengono là».

    Piccoli don e percezioni da ribaltare

    Nel momento in cui ventenni o trentenni dalla Locride e dalla Jonica, “figli di”, si stabiliscono poi all’estero, in Lussemburgo, diventa poi molto facile, e necessario, coordinare attività, legali ma soprattutto illegali. E, dunque, creare “posizioni” di coordinamento in capo a individui capaci di fare la spola, di parlare le lingue. Insomma, di cavarsela nella doppia anima del paese.
    Bisogna ribaltare la percezione della mobilità europea della ‘ndrangheta. La questione in un paese come il Lussemburgo, e non solo il Lussemburgo, non è “com’è possibile che la ‘ndrangheta arrivi fin là?”. È, piuttosto, il contrario: «Com’è possibile che non ci arrivi?» e «perché mai non dovrebbe arrivarci?». La banalità della mobilità mafiosa, soprattutto europea, si palesa qui chiaramente.

    Vittoria fuori, punti in casa

    Ma c’è un lato spesso dimenticato in questa banalità del male: è la ragione per cui in un paese come Mammola l’esistenza di un locale di ‘ndrangheta, sebbene spesso percepito o “tentato”, apparirebbe soltanto in questa inchiesta Malea e non prima.
    È sempre più ovvio, infatti, che l’estero “amplifica” la Calabria. Abbiamo infatti tanti esempi di come far fortuna all’estero, vantarla, o comunque coltivarla – al di là dell’occasionale traffico di stupefacenti – con attività stazionarie o presenza costante in un luogo, aumenti il prestigio mafioso “a casa”. E, dunque, anche le opportunità di investimento mafioso “da casa”.
    Essere “attivi” come ‘ndranghetisti all’estero, insomma, ti rende più organizzato e amplifica il successo, a casa. Questo aspetto è un altro effetto della banalità della migrazione mafiosa: nel mondo globalizzato, anche quello della mafia, tutto ciò che si muove lontano da noi torna indietro in altra forma.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    U rigugghiu. L’argento vivo nelle vene, frutto di una rabbia da trasformare in opportunità. Mi accolgono quasi a quest’urlo i ragazzi di We are South: Giulia Montepaone, Aldo Pipicelli, Adele Murace, Guerino Nisticò, Sofia de Matteis, Raffaele Dolce, Annalisa Fiorenza, Valentina Murace, Giorgio Pascolo e Luca Napoli.
    Formano una rete che unisce gli ultimi paesi della Locride con i primi del catanzarese. Qualcosa che va oltre le cooperative o le iniziative dei singoli borghi e che cerca di fare modello e sistema.

    Che cos’è We are South

    We Are South non è solo una rete, ma un metodo di collaborazione, uno standard di qualità affiancato dall’adesione a una certa etica, l’essere partecipi e solidali.
    Resistenza. Resilienza. Coraggio. Sotto questo marchio si lavora nel rispetto delle stesse mission e vision: l’esigenza di fare comunità lavorando sui luoghi e sulle persone, il rispetto e la tutela dell’ambiente, la salvaguardia e la diffusione dei patrimoni, la cultura biologica.
    É una storia che va raccontata per due motivi: rappresenta una best practice e costituisce una cinghia di trasmissione tra le anime della Calabria.

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    La vallata dello Stilaro

    Siamo in una terra di confine, periferia della periferia, a cavallo tra Aspromonte e Serre: la valle dello Stilaro. Ma anche qui qualcosa si muove. Bivongi, Stilo, Monasterace, assieme a Guardavalle, Santa Caterina dello Ionio e Badolato sono il cuore di questo nuovo ecosistema. Lavorano insieme sotto un unico marchio per promuovere quei territori, ricucendo ferite e connettendo persone. Il loro brand nasce per facilitare le persone a riconoscere lo standard e i valori comuni, attraverso un marchio e un logo che dall’identità visiva, la forma, si proietta in sostanza.

    Lo Stilaro fa rete

    La tappa a Samo e Natile, mi aveva messo di fronte a molti interrogativi e altrettanti dubbi: il rapporto tra autentico e mitopoietico, il marketing territoriale, i legami di comunità, la resilienza e la questione femminile.
    Quando ho scoperto che nello Stilaro c’era qualcosa che rappresentava un altro passo in avanti nello sviluppo di processi di rete per la rigenerazione territoriale, sono partito per Bivongi.
    Remoto borgo di centenari che, assieme a Stilo e Pazzano, domina la vallata dello Stilaro. Bivongi è un abitato nascosto in mezzo alle ultime pendici dell’Aspromonte. Un luogo di acque termali, di cascate e di vecchie miniere. Un toponimo incerto che Rohlfs fa risalire al greco Boβὸγγες presente nel Brebion, documento greco del 1050 circa, ritrovato nella biblioteca privata dei conti Capialbi a Vibo Valentia.

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    Uno scorcio della piccola Bivongi, paese dei centenari

    Avevo preso appuntamento con Adele Murace, artigiana orafa, ambientalista, attivista, femminista e animatrice di We are South. Arrivando dalla marina e risalendo la vallata, una curva dopo l’altra, questa terra remota sembrava schiudersi con verecondia agli occhi del viaggiatore, tra il bianco abbagliante delle rocce e l’ampio greto di un fiume, un tempo navigabile, che oggi mostra le sue nudità. Era molto caldo e il verde intenso delle foreste che si arrampicavano sulla montagna circondava un borgo che sembrava appeso e sospeso tra le pendici della vallata.

    La (nuova) vita di Adele

    Al mio arrivo Adele mi ha accolto con un gran sorriso, dandomi il benvenuto. Durante i primi contatti al telefono mi aveva accennato del suo impegno a 360 gradi. E, soprattutto, di questa necessità di raccontare queste terre con uno spirito diverso, nuovo, lontano dal senso di vergogna e di inferiorità che i suoi stessi abitanti avevano fatto proprio.
    «Avevo capito che la narrazione, un nuovo storytelling poteva contribuire a cambiare la percezione negativa, il senso di arrendevolezza e la prostrazione che molti di noi hanno interiorizzato. Sul mio canale Instagram avevo realizzato la rubrica SudProud: interviste per raccontare storie di riscatto e di vittoria dei calabresi e diventare esempio per tutti noi. Avevo ragione. Dopo i primi video i miei follower locali avevano iniziato a scrivermi. Tutti dicevano la stessa cosa: grazie per gli esempi che ci hai mostrato. Se ce l’hanno fatta loro, posso farcela anche io».

    Adele è una ritornata: «Ho vissuto qualche anno al nord dove ho lavorato in fabbrica e aziende. Il senso di malessere che provavo mi ha riportato a casa dove ho costruito la vita che desidero. Oggi sono un’artigiana orafa, ho la mia azienda, mi auto-gestisco e questo mi permette di potermi anche muovere sul territorio».
    Adele, come gli altri membri di We are South, non è solo una partiva IVA che ha deciso di investire nella sua terra.

    Tartarughe, consultori e bimbi a scuola

    È una donna che combatte per salvaguardarla e promuoverla: «Sono impegnata sul territorio perché credo che sia imprescindibile. Durante la pandemia abbiamo costituito il gruppo WWF Stilaro Vibo Valentia, sollecitati da chi ci diceva che, con ogni probabilità, le Caretta Caretta venivano a nidificare anche alla nostra marina. Mancava però un monitoraggio strutturato che confermasse la teoria, poi risultata vera. Quell’anno trovammo venti nidi. Oggi, dal gruppetto sparuto che eravamo, siamo in cinquanta: tuteliamo gli ecosistemi marini, quelli montani e quelli dunari. Parte delle mie battaglie è dedicata alle donne e alla condizione femminile nella Locride. Ho promosso la riapertura del consultorio di Bivongi e continuo a lottare per la piena applicazione della legge 405. E si sa che istruzione, sanità e infrastrutture forniscono le condizioni minime per vivere nelle aree periferiche».

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    Alla ricerca delle Caretta Caretta

    Nel documento appena approvato dalla Regione per la riprogrammazione della rete sanitaria territoriale il consultorio di Bivongi entrerebbe nel cosiddetto “modello spoke” assieme a tutti gli altri 6 consultori della Locride: 36 ore settimanali lavorative garantite coperte da ostetrica, assistente sociale e oss. Non sono previsti però psicologi né ginecologi: «Avanzeremo queste proposte di modifica, cui anche Occhiuto ieri ha aperto, e chiederemo la disposizione di strumentazione di prevenzione».
    Ma la sanità non è tutto. «L’ultimo autobus che parte da Bivongi esce alle 16.30 mentre l’ultimo che entra arriva alle 21. Il prossimo anno la scuola elementare non aprirà perché ci sono solo 4 bambini. Come cittadini, non comprendiamo i limiti a una collaborazione tra paesi attigui per salvare la presenza di un servizio così importante in tutti e tre».

    We are South: tutti insieme appassionatamente

    U rigugghiu di Adele è lo stesso sentimento di cui a turno mi parlano Guerino, Annalisa, Giulia e Aldo ed è quello che ha impresso un’accelerazione definitiva ai loro progetti di vita. Perché, mi dice, «ho imparato negli anni che, se ognuno fa la sua parte, l’entusiasmo può essere contagioso. Si chiama legge dell’attrazione e il territorio sta rispondendo bene».
    Uniti sotto un unico brand che raffigura i Bronzi di Riace, stanno ricostruendo sulle macerie dell’abbandono e della sfiducia, ognuno con le proprie competenze.

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    Giulia Montepaone

    Guerino, badolatese, restato, cresciuto a pane e politica, rappresenta la memoria storica della vallata e ha una lunga militanza nei movimenti dal basso.
    Valentina, ritornata nel 2020 per affiancare il padre nella gestione dei vitigni eroici di famiglia, un passato come top manager del Marriot di Venezia, ha deciso di mettere a frutto l’esperienza maturata trasmettendo un metodo organizzativo per rafforzare percorsi di turismo etico.
    Aldo, restato, è un disegnatore e un grafico, ha creato il logo della rete e gestisce una nota pagina social con cui divulga proverbi calabresi. Giulia, botanica, è impegnata nella difesa dei sistemi dunari e botanici.
    Annalisa, albergatrice e ristoratrice, ha resistito alle minacce del racket. «Il pilastro di legalità che non ha mai mollato e che continua a rimettersi in gioco», sottolinea Adele. «Andiamo da Guerino», mi esorta.

    Piccolo è bello, ma serve una strategia

    Dalla montagna, scendiamo al mare dove lui ci aspetta. «Oggi questo isolamento, questa marginalità, può diventare punto di forza. Ma, attenzione, pensare di ripopolare un paese interno per come era è una mera masturbazione intellettuale. Invece con diverse attività, strategie, progetti i borghi possono essere resi vivibili sia per chi ancora ci risiede, sia per chi potrebbe venirci. Servono però piani strategici nazionali e internazionali. Quelli tanto sbandierati durante il periodo pandemico. Tutto fumo e niente arrosto.

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    Guerino Nisticò

    Guerino è un fiume in piena: «L’Italia è tutta una questione meridionale. Anzi è la questione meridionale di una nuova questione europea. Noi siamo il sud del sud dell’Europa. Sotto la presidenza Oliverio fu presentato il progetto Crossing per la ripopolazione dei borghi: 136 milioni di euro per un fallimento totale. Ora ci si riempie la bocca di PNRR. Sulla misura A (420 milioni da ripartire tra Regioni e Province Autonome, ndr) il comune di Gerace ha ottenuto un finanziamento di 20 milioni di euro. Per la misura B (580 milioni su base nazionale da dividere tra 229 borghi, ndr) sono stati stanziati 11 milioni di euro da suddividere per 133 progetti. Ma di che cosa stiamo parlando?!?».

    Aree interne e finanziamenti

    Secondo le linee guida del Governo, Gerace sarebbe stato scelto come borgo “pilota” a rischio abbandono. Una sorta di laboratorio in cui sperimentare per ricalibrare o riapplicare. La questione delle aree interne rappresenta in effetti un vero vaso di Pandora. Fabrizio Barca, da ministro, aveva intuito l’importanza del tema e aveva elaborato la Strategia Nazionale per le Aree Interne, poi resa strutturale dal collega Provenzano. La nuova programmazione 2021-2027 inserisce nella strategia 56 nuove aree che si vanno ad aggiungere alle 67 del settennato precedente: 1904 Comuni e una popolazione di più di 4 milioni e mezzo di persone. A questo si aggiunguno i 15 milioni per il 2023 previsti dalla cosiddetta “legge salva borghi.

    Per le aree interne, la Calabria vanta un ampliamento: a quelle già presenti, tra cui la Jonio–Serre riconfermata nella nuova programmazione, se ne sono aggiunte altre. Tra queste quella del Versante Tirrenico Aspromonte. La Regione, tramite il Dipartimento Programmazione, stabilisce criteri e linee guida degli interventi assegnando la competenza sui bandi ai diversi settori di pertinenza: turismo, mobilità, ecc. Un tema che va inserito in una più generale analisi della capacità di spesa dei fondi europei, per cui la Calabria non ha mai brillato.

    L’Ue non basta

    Il documento presentato dall’ISTAT Vent’anni di mancata convergenza sulle politiche di coesione per il Sud fotografa un peggioramento generalizzato del sistema-Italia con picchi negativi al Sud e in Calabria. Un dato che, affiancato alle recenti tendenze demografiche, «fa presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa». Secondo la Commissaria UE alle Politiche Regionali Ferreira «da sola la politica di coesione non può guidare lo sviluppo di un’intera regione o di un paese». Traduzione: servono investimenti pubblici nazionali.
    Bisogna migliorare «la capacità dei beneficiari e degli enti intermedi di pianificare gli investimenti, costruire linee progettuali e svolgere procedure di gara» In proposito, «nel quadro finanziario 2021-2027 vengono stanziati 1,2 miliardi di euro per lo sviluppo delle capacità amministrative e l’assistenza tecnica che si concentra interamente sui beneficiari e sugli organismi di attuazione nel Sud».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dopo un’analisi di contesto la Regione Calabria ha deciso di investire per lo più sui progetti per l’invecchiamento attivo. Alcune fonti mi hanno confermato che i progetti di aging e telemedicina, su cui investe SNAI Calabria, sono risultati vincenti. La logica rispecchia la conformazione della popolazione delle aree interne, per lo più anziana, su cui si è deciso di investire (1.200 milioni su fondi PNRR) attivando progetti di assistenza capaci di incentivare un’economia basata sull’alleanza tra giovani e anziani.

    Il sistema Badolato

    Si tratta di uno dei modelli possibili. Guerino mi dice che a Badolato da anni esiste un sistema rodato: case a 1 euro e accoglienza degli stranieri. Il borgo è rinato grazie al turismo residenziale a alla comparsa di nuovi nuclei familiari. È stata scongiurata la chiusura della scuola. «We are South lavora in questa direzione. Questo gruppo che abbiamo creato, si innesta su percorsi attivi da tempo. Il nostro innato senso di accoglienza e ospitalità facilita e aiuta certi percorsi di incoming. Siamo esperti in turismo relazionale e puntiamo all’internazionalizzazione di questi territori. Il confronto con l’altro può aiutare questi luoghi a evolvere il proprio modo di pensare e di pensarsi. Ci sono storie simili alla nostra in tutta la Calabria: un processo che si è velocizzato negli ultimi 5 anni».

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    Badolato, uno dei paesi nella rete We are South

    Salutato Guerino ci spostiamo da Annalisa, la prima a immaginare un filo che unisse tutti i paesi di questo progetto assieme ad Adele: «Siamo partite con i mercatini di Natale e poi tutto è venuto da sé». Annalisa è albergatrice e ristoratrice e membro del consorzio GOEL. 67 ettari all’interno del parco archeologico dell’antica Kaulon affacciati sul promontorio di Punta Stilo a un passo da dove, nel 2012, Francesco Scuteri, “l’archeologo scalzo”, Direttore del Museo di Arte contemporanea di Bivongi, ha ritrovato il mosaico del drago, delfino e ippocampo, uno dei più grandi e importanti dell’età greca.

    «Collaboravamo già per la vendita degli agrumi, ma ho aderito al consorzio nel 2013 dopo il secondo attentato incendiario del 2012 che ha distrutto il tetto e il primo piano del nostro agriturismo». Sospesi a picco sul mare in questo luogo ucciso e rinato sette volte, mi pare di avere davanti lo spirito di un’araba fenice magnogreca. Annalisa non si è mai arresa.

    Bio, attentati e solidarietà

    «Produciamo tutto quello che vendiamo, anche il pane e la pasta realizzati con farine calabresi. Faccio il bio dal 2013. Dei sette attentati subiti, due sono stati devastanti: nel 2015 è stato dato a fuoco il capannone con tutta l’attrezzatura, trattore compreso. GOEL ci ha aiutato facendo letteralmente da scudo. Stare all’interno di una cooperativa ti scherma. Non sei più solo. Sono stati loro a spingerci a raccontare la nostra storia. Abbiamo poi creato fondo, anche con piccole donazioni, che consentisse alle vittime del racket di ripartire, perché la difficoltà maggiore delle vittime è ricominciare. Finché non terminano le indagini l’assicurazione non risarcisce. Siamo arrivati a 70.000 euro».

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    Annalisa Fiorenza

    Il rogo risaliva al 31 ottobre di quell’anno e abbiamo deciso che a dicembre avremmo inaugurato il nuovo trattore acquistato con la Festa della Ripartenza. Ci sono stati anche due ministri. Questa reazione cosi forte ha evidentemente spiazzato. Non c’è stato più alcun attentato. Quello che mi ha lasciato l’amaro in bocca è che a sostenerci sono venuti da fuori, perché sul territorio si ha paura. Abbiamo comunicato che è possibile trasformare il dolore in una storia vincente. Ed è l’esempio che cerchiamo di veicolare anche con We are South».

    We are South: l’unione fa la forza

    Ospitalità, tutela, valorizzazione e promozione dei territori, riconversione della rabbia in opportunità rappresentano ormai i topoi che, tappa dopo tappa, ricorrono. Ma, in questo caso, We are South sviluppa quanto fatto sia a Natile, sia a Samo. I ragazzi hanno capito che l’unione fa la forza, che occorre mettere in rete i borghi e che, per ottenere risultati, è imprescindibile coinvolgere le comunità. Solo attraverso questo passaggio le reti si rafforzano, le economie nascono e si trasformano in ecosistemi di crescita. Ed è solo così che una qualsiasi forma di brand diventa autentica e incarna quello che Guerino chiama lo spirito del luogo.

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    Un altro scorcio di Bivongi

    «Qualche tempo fa, a Bivongi, fu avviato il progetto albergo della longevità: furono realizzati 40 posti letto, un ristorante e un’enoteca con standard da 4 stelle. La comunità non era pronta, le infrastrutture e l’apparato politico nemmeno. Ad oggi rimane davvero poco di quel sogno. Noi possiamo fare il nostro, come stiamo dimostrando. Ma c’è bisogno di coraggio politico».
    È lo stesso messaggio che mi ha indirizzato Monsignor Bregantini: le persone, le reti, le imprese, le comunità, il terzo settore possono fare molto. Ma serve una regia politica chiara, coraggiosa, visionaria. Quella che ad oggi in Calabria e in Italia continua a latitare.

  • Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Pasquale Rossi: un medico dei poveri al servizio del socialismo

    Medico per professione, studioso per vocazione, rivoluzionario per tradizione (familiare) e missione. Pasquale Rossi è una figura forte del panorama socialista, non solo calabrese, di fine ’800, grazie a una vita intensa, anche se non proprio avventurosa, divisa tra attività politica e produzione intellettuale.
    Cultore curioso e profondo di sociologia, può essere considerato una versione italiana di Gustave Le Bon, l’iniziatore degli studi sulla psicologia di massa.
    Peccato solo che Le Bon sia stato praticamente rimosso dalle riflessioni culturali (e politiche) contemporanee. Altrimenti Pasquale Rossi avrebbe avuto di più delle consuete dediche toponomastiche.

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    Pasquale Rossi

    Pasquale Rossi, la rivoluzione in famiglia

    La dedica per eccellenza è la strada che porta all’ingresso dell’autostrada di Cosenza: la mitica via Pasquale Rossi, che i più conoscono per essere obbligati ad attraversarla quando entrano in città o ne escono.
    Il Nostro nasce a Cosenza il 12 febbraio 1867. Il cognome è piuttosto comune, molto meno le tradizioni familiari.
    È il terzo dei quattro figli di Francesco, classe 1807 e avvocato di grido, e di Cornelia Via, possidente più giovane di 25 anni del marito, tra l’altro sposato in seconde nozze.
    I Rossi sono la classica famiglia altoborghese cosentina dell’epoca, per estrazione economica e culturale e per attitudini politiche.

    Pasquale Rossi sr: il nonno carbonaro di Tessano

    Anzi, la politica fa parte della storia di famiglia: Pasquale Rossi, il nonno e omonimo di Pasquale, è stato un cospiratore antiborbonico. Maestro venerabile della vendita carbonara (l’equivalente di una loggia massonica) di Dipignano, Pasquale senior aderisce alla Repubblica Napoletana del 1799. A questo punto, la sua vicenda si intreccia con quella di Vincenzo Federici, detto il Capobianco, rivoluzionario e carbonaro di Altilia, dapprima filofrancese e poi oppositore di Gioacchino Murat.
    Federici, che finisce al patibolo nel 1813, è un raro caso di un rivoluzionario giustiziato per eccesso di zelo liberale.
    Finita anche l’esperienza napoleonica, nonno Pasquale continua a cospirare, anche in maniera piuttosto seria: la sua ultima esperienza forte avviene nei moti costituzionali del biennio 1820-21. Questi cenni dovrebbero far capire il background socio-culturale di Pasquale: sinistra altoborghese ma non fighetta, caratterizzata da un certo amore per la cultura, merce sempre più rara nelle classi politiche calabresi.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Piementel, l’eroina della Repubblica Napoletana

    L’esordio telesiano di Pasquale Rossi

    Tappa obbligata della Cosenza bene (non solo) dell’epoca: il Liceo Telesio. Secondo una certa retorica cosentina dura non solo a morire, ma persino a star male, ci sarebbe una differenza tra i “telesiani” e tutti gli altri: i primi sarebbero dei predestinati, pronti a diventare classe dirigente, gli altri, anche se più bravi no.
    Oggi non è vero: per accorgersene basta un’occhiata, anche distratta, ai curricula della Cosenza-che-conta, non pochi dei quali risultano addirittura carenti di titoli. A fine ’800, invece, è più che vero: Pasquale Rossi si diploma nel 1885, assieme a due compagni di classe destinati a carriere importanti. Cioè Nicola Serra e Luigi Fera. E scusate se è poco.
    Sembra l’identikit di un leader della sinistra contemporanea: figlio di papà con storia familiare alle spalle, studi importanti e amicizie altolocate.
    Ma nel caso di Pasquale Rossi, la differenza vera la fanno altri fattori: l’impegno e la capacità.

    Laurea e primi guai a Napoli

    Anche l’iscrizione all’Università di Napoli e la scelta della Facoltà, Medicina e Chirurgia, confermano lo stile molto cosentino di Pasquale Rossi.
    Forse è cosentina anche la passione politica. Ma, soprattutto, la propensione ai guai.
    Il Nostro studia con profitto. Ma, nel tempo libero, segue anche delle lezioni extra facoltà. Ad esempio, quelle di Silvio Spaventa, filosofo, deputato ed ex ministro dei Lavori pubblici e zio di Benedetto Croce. Oppure quelle di Giovanni Bovio, filosofo, storico del diritto e deputato repubblicano.
    Giusto una curiosità per gli amanti della musica: Bovio è anche il papà di Libero Bovio, poeta e paroliere della grande canzone napoletana. Suoi i testi di superclassici come Guapparia, Reginella, Lacreme Napuletane, ’O paese d’o sole, ’O marenaro, Zappatore e Signorinella.

    Il filosofo e politico Silvio Spaventa

    Torniamo a Pasquale Rossi, che in quegli anni si occupa poco di musica e molto di politica. Proprio a Napoli, l’aspirante medico incontra il socialismo. Infatti, fonda due circoli politici, il primo di studenti repubblicani e socialisti, il secondo di socialisti e anarchici. Con un pizzico di Calabria in più: ci si riferisce al ferroviere di Fiumefreddo Bruzio Francesco Cacozza e al cosentino Antonio Rubinacci, tipografo e poi segretario della Camera del lavoro della sua città.
    Tanta passione porta i primi guai: nel 1891 finisce in manette e subisce una condanna per aver partecipato ai disordini del Primo Maggio. Ma questo disguido non gli impedisce di laurearsi l’anno successivo col massimo dei voti. E, da buon notabile, di tornare a Cosenza.

    Medico e socialista in prima fila

    C’è una differenza tra i figli di papà di allora e quelli odierni: per molti dei primi, il socialismo o l’ultra-sinistra erano cose serie, capaci di marchiare a fuoco tutta la vita.
    Così è stato per Pasquale Rossi, che, una volta rincasato, apre un ambulatorio medico per i poveri e fonda un circolo socialista a Cosenza.
    Per la precisione, è il secondo della provincia, perché il primato cosentino spetta a Celico, dove sorge un circolo nel 1892, praticamente a ridosso della nascita del Psi.
    Ma ciò non toglie nulla al ruolo di Rossi, che nel 1893 è delegato dei due circoli al congresso di Reggio Emilia e finisce sotto l’ala di Filippo Turati. A questo punto, il Nostro si lancia alla grande, sia come intellettuale sia come politico.

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    Il leader socialista Filippo Turati

    Giornali ed elezioni

    Appena tornato dall’Emilia, Pasquale Rossi lancia due testate giornalistiche: Il Domani, un settimanale pensato per spingere i socialisti nelle elezioni suppletive di luglio 1893, e Rassegna Socialista, un mensile di alto profilo cultural-ideologico.
    Più borderline l’attività politica vera e propria. Nel 1895 Rossi gestisce un’operazione delicatissima: l’appoggio alla candidatura alla Camera del repubblicano amanteano Roberto Mirabelli contro il longobardese Luigi Miceli, ex garibaldino e supernotabile della sinistra.
    L’operazione riesce, ma ha un prezzo: l’alleanza, per le Amministrative di Cosenza, con il blocco liberaldemocratico. Quest’altra operazione è, addirittura, mediata dalla massoneria cosentina, in guerra con Miceli.
    Ma l’alleanza è innaturale e Rossi si ritrova isolato. Diventa assessore comunale ma è costretto a scegliere: o il municipio o il partito. Infatti, si dimette.
    Ma ha ruoli di primo piano nei successivi congressi regionali socialisti: quello di Paola (1896) e quello di Catanzaro (1897), a cui partecipa addirittura il mitico Andrea Costa.

    Andrea Costa, il pioniere del socialismo italiano

    La psicologia delle folle

    Il Pasquale Rossi studioso lascia almeno un’opera importante: L’animo della folla (Cosenza, 1898), che riprende e aggiorna La psicologia delle folle (1895), il superclassico di Le Bon.
    Al riguardo, è doverosa una riflessione: il socialismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha poco idealismo e non (ancora) molto marxismo. In compenso, è zeppo di positivismo, che è la corrente culturale egemone, almeno fino all’avvento di Gentile e Croce. Questo mix di socialismo e positivismo è tipico della sinistra dell’epoca e, per fare un esempio, condiziona anche i big successivi, a partire da Gramsci (che, non a caso, si forma a Torino, la capitale del positivismo italiano).
    Tuttavia, questo socialismo ha due caratteri particolari. È più umanitario che militante, più dialogante che rigido. Soprattutto, è aperto allo studio dell’irrazionalità.
    Che è poi il nodo centrale della psicologia delle masse, che riguarda Le Bon e il suo allievo italiano, cioè Pasquale Rossi.
    Il problema di Le Bon nella successiva storia della cultura socialista, è essenzialmente uno: le sue riflessioni non hanno alcuno sbocco “progressista”, ma si prestano davvero a tutti gli usi. E non è un caso che proprio Le Bon abbia influenzato la metamorfosi intellettuale e politica di un altro socialista, destinato a ben altra carriera: Mussolini.
    Forse anche questi motivi stanno dietro alla “rimozione” dell’intellettuale parigino dal panorama culturale Novecentesco. Una guerra tra egemonie, insomma, che ovviamente travolge i pesci più piccoli, anche se di grande spessore. Come Rossi, appunto.

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    Gustave Lo Bon

    La morte prematura di Pasquale Rossi

    Dalla fine del XIX secolo, la parabola di Pasquale Rossi è condizionata da una domanda: dove sarebbe arrivato, se non fosse morto a soli 38 anni?
    Le premesse per fare ancora molto, per lui c’erano tutte. Nel 1898 subisce un doppio processo, a Portici e a Reggio Calabria, con un’accusa particolare: aver incitato all’odio sociale nella rivista Calabria Nuova, in cui commenta i moti di Milano e la pesantissima repressione. Il rischio è grande, ma il tipo di reato (d’opinione), è un gol per un socialista.
    Che in effetti ritenta il colpaccio: una candidatura alla Camera nel 1904, che va male per un soffio. Tra una cosa e l’altra, il medico cosentino, si sposa (1898) e diventa padre cinque volte.
    Poi la morte improvvisa, a Tessano, la frazione di Dipignano da cui proveniva la sua famiglia, il 23 febbraio 1905.
    Una brusca interruzione per una vita intensa e non sempre in linea con i canoni del notabilato.

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    MAFIOSFERA| ‘Ndrine, Africa nera, oro bianco e Capo Verde

    Il 13 luglio, in Paraguay, hanno arrestato due uomini, entrambi Giuseppe Giorgi, di 26 e 22 anni. Gli inquirenti li ritengono affiliati di ‘ndrangheta in trasferta per faccende di droga. Il sette luglio scorso la medesima sorte è toccata a Bartolo Bruzzaniti in Libano. Era latitante dall’ottobre 2022, lo inseguivano ben quattro procure a causa del suo ruolo di spicco nel traffico di stupefacenti transfrontaliero.
    Cos’hanno in comune questi arresti ravvicinati ma in due poli opposti del mondo?

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    Foto da ABC TV

    Bruzzaniti è protagonista di varie indagini degli ultimi anni, grazie anche alla capacità delle forze dell’ordine europee di decriptare la messaggistica su una app di comunicazione chiamata SkyECC in uso a molti trafficanti e frequentatori del sottobosco criminale di mezzo mondo. Bruzzaniti, su SkyECC, parlava con broker della droga del carico di Raffaele Imperiale. Il suo cognome e la sua affiliazione mafiosa, però, lo legavano a doppio laccio con i Palamara-Bruzzaniti-Morabito di Africo. In particolare al re della cocaina Rocco Morabito, almeno fino al suo (secondo) arresto in Brasile nel 2021.

    Un trafficante, due matrici

    Bruzzaniti investiva sull’importazione di cocaina, dunque. Sia a matrice ‘ndranghetista, tramite Morabito e i suoi legami con i brasiliani del Primero Comando da Capital (PCC), sia a matrice “europea”, tramite il cartello di Imperiale con base a Dubai, in collaborazione con i gruppi del nord, nei Paesi Bassi, in Irlanda.
    Ma oltre agli investimenti in denaro, cosa offriva Bruzzaniti? Ce lo dice lui stesso nei documenti confluiti in Operazione Eureka, nel maggio del 2023, tra Milano e Reggio Calabria.

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    Bartolo Bruzzaniti

    In una chat del 2020 Bruzzaniti dichiara: «Io sono forte in Africa e li posso dirvi che se fate come vi dico e senza via vai non vi prendono…ma io in Africa so quali tasti toccare». E ripeterà nel 2021, come rivela l’Operazione Zio nel 2022 della DDA di Napoli con protagonista il neo-collaboratore Raffaele Imperiale: «Compà, io sti giorni vado a Africa pure così vediamo di aprire fronte serio pure lì. Compà lì le mie attività valgono soldi e le ho fatte io pezzo per pezzo. Abbiamo catena ristoranti compà, e pizzerie».

    Bartolo Bruzzaniti, infatti, offre la rotta africana per il narcotraffico anche perché risulta essere residente in Costa d’Avorio, iscritto all’AIRE ad Abidjan, la capitale, dall’agosto 2017. Ma non era certo l’unico a offrire o bazzicare questa rotta. Ad esempio, già dall’Operazione Apegreen Drug nel 2015 erano emersi interessi dei Commisso in Costa d’Avorio, in quel caso legati al traffico di stupefacenti, grazie alla presenza in loco di membri della famiglia.

    Le ‘ndrine e il ponte tra Sud America ed Africa

    Ed ecco quindi che torniamo ai due Giorgi. Dal 2018 sono noti gli interessi delle ‘ndrine di San Luca per l’Africa e Abidjan, attraverso il gruppo Romeo-Staccu e in particolare Giuseppe Romeo, alias Maluferru. Nell’Operazione Spaghetti Connection, secondo le indagini di Irpimedia si rivelava la rotta della cocaina di Maluferru. Partiva da San Paolo in Brasile, poi passava da Abidjan come tappa intermedia prima di arrivare ad Anversa, in Belgio.
    Maluferru si adopererà moltissimo per creare alle ‘ndrine un ponte tra l’America Latina e l’Africa. Utilizzerà i servizi di un imprenditore che in Costa D’Avorio ha affari e anche una compagna ivoriana, Angelo Ardolino. Romeo, in Africa, si porta l’ultimo dei Nirta rimasto libero, Antonio, e anche due cugini omonimi, i due Giuseppe Giorgi. Insieme a loro e con l’aiuto di alcuni napoletani parte l’affare cocaina dal Brasile.

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    Abidjan, capitale della Costa d’Avorio

    L’Africa occidentale per le ‘ndrine, dunque, è da anni una delle rotte emergenti, alternative e sicure, sia per il traffico che per riciclarne i proventi. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia nel suo ultimo rapporto per il 2022 che «si va consolidando la preminenza della ‘Rotta Africana’ in cui lo stupefacente è trasportato via mare verso i Paesi dell’Africa occidentale e del Golfo di Guinea (ad esempio il Senegal, il Mali e la Costa d’Avorio) attraverso il “corridoio del Sahel” caratterizzato da grande instabilità, per essere poi immesso in Europa transitando dal Nord Africa e ovviamente dalla Spagna».

    Da Limbadi a Capo Verde

    La presenza di affiliati, denaro e attività della ‘ndrine in Africa non è pertanto una novità. Quando sono le famiglie apicali che investono nella rotta e nel continente africano, tendono a spostarsi a lungo termine e a ‘restare’, non solo per fare traffici. Di solito inviano qualcuno vicino al clan per stabilire contatti in loco utilizzando aziende e legittimi imprenditori italiani già presenti. I giornali hanno riportato sempre in questi giorni degli affari tra il clan Mancuso, del territorio di Limbadi e Nicotera, e un imprenditore ritenuto vicino al clan, Assunto Megna, in quella che la DDA di Catanzaro ha chiamato Operazione Imperium.

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    Roberto Pannunzi

    Il figlio di Assunto Megna, Pasquale Alessandro, ha parlato alle autorità delle attività di suo padre nella Repubblica di Capo Verde, in particolare un capannone legato alla lavorazione del tonno e imbarcazioni per la pesca. I riscontri delle autorità hanno permesso di localizzare le attività in questione ed identificare un soggetto al cui business, sempre relativo alla pesca, i Megna intestavano bonifici a Capo Verde. Vito Cappello, siciliano, era già stato coinvolto tra il 2012 e il 2013 in tentativi di importazione di cocaina dall’America Latina grazie a una partnership con altri soggetti, tra cui Roberto Pannunzi, noto broker di ‘ndrangheta in Colombia.

    I diamanti per riciclare

    Ma non tutte le famiglie di ‘ndrangheta sono uguali in termini di portata e di interessi. Ad esempio, tra le carte dell’Operazione Gentlemen 2 che a giugno scorso ha coinvolti alcuni clan della Sibaritide si legge del gruppo Forastefano-Abbruzzese e della potenziale relazione tra Claudio Cardamone (broker in Germania/Calabria per il clan) e Malam Bacai Sahna Jr, figlio dell’ex presidente della Guinea-Bissau.

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    Malam Bacai Sanha, ex presidente della Guinea Bissau

    Bacai Sahna sembrerebbe essere già stato coinvolto in traffici di stupefacenti in passato ma gli viene chiesto se può “aprire” anche una via per il traffico di diamanti. Dice Cardamone al telefono con Bacai Sahna: «Sai Bac cosa mi piacerebbe fare? Adesso che sei qui… se inizieremo [a lavorare] mi dovrai dare una mano con… vorrei comprare diamanti».
    Bacai gli chiede se per investimento personale o per affari. Ricevendo risposta affermativa sull’investimento personale («tu sai che sono migliori dei soldi»), Bacai replica «nel mio paese no… per delle pietre buone bisogna vedere in Ghana o Sierra Leone… Botswana, Tanzania… in Tanzania sono i migliori». E aggiunge «Sì per lavare il denaro [riciclaggio] il diamante è buono». E Claudio Cardamone, soddisfatto, risponde: «Che buono averti conosciuto Bac!».
    La relazione tra i due è agli inizi, ma promettente. Importante notare che però in questo caso il legame in Africa è gestito da remoto, non in loco, perché si tratta probabilmente soltanto di una partnership legata agli stupefacenti che necessita di intermediari ma non di “presenza” sul territorio.

    La rotta della cocaina e il problema con i dati

    Fatto sta che quando si tratta di Africa le ‘ndrine – quelle globali e avvezze al traffico internazionale, ma anche altri clan calabresi emergenti nel mondo degli stupefacenti – riescono a trovare investimenti in persone o beni, terreni, case e attività commerciali grazie alla promettente e parzialmente ancora sicura (come investimento) rotta africana della cocaina, che dal Brasile e dalla Colombia passa per l’Africa occidentale fino ad arrivare in Europa via Spagna o Belgio.

    Il continente africano è spesso “dimenticato” quando si tratta di attività antidroga o in generale politiche contro la criminalità organizzata in Europa, complice una distanza culturale tra Nord e Sud del mondo mista ad alcune difficoltà di interazione. Non aiuta il fatto che c’è spesso un problema con la specificità dei dati nelle fonti ufficiali italiane. Spesso i vari soggetti sotto sorveglianza menzionano solo l’Africa in modo generico, senza luogo, senza specificità: «Ho affari in Africa». Questo rende abbastanza complesso trovare riscontri investigativi, che spesso rimangono vaghi come le informazioni che li hanno iniziati: «Tizio si reca in Africa nel mese XY».media_post_7t4q79r_africa-cruise-safari-ndrine

    L’Africa non è uno stato, ma un continente. L’ignoranza geografica e l’assenza di dati direttamente dal territorio sono probabilmente tra i fattori che hanno contribuito alla mancata sistematizzazione dei dati sulla presenza della ‘ndrangheta nei vari territori.
    La presenza delle ‘ndrine in Africa (non solo occidentale) per ora appare largamente aneddotica e disgiunta. Ma alcuni segnali che così non è già ci sono da anni.