Non solo chitarre, sebbene il cognome De Bonis sia legato al mondo delle sei corde, in particolare alle chitarre battenti.
Semmai, liuteria nel senso più ampio e, se si guarda alla qualità, più elevato. A questa grande tradizione artistica calabrese è dedicato il De Bonis music festival, in programmazione a Villa Rendano (Cs) dal 24 al 27 ottobre.
Una tre giorni di musica, esposizioni, lezioni e conferenze.
Villa Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani ETS
De Bonis Music Festival: la partenza
Parlare dei fratelli Nicola e Vincenzo De Bonis significa evocare almeno tre concetti: artigianato, arte e musica. Si inizia il 24 ottobre alle 17,30, con l’Inaugurazione mostra espositiva strumenti Nicola e Vincenzo De Bonis, che si tiene a Villa Rendano.
Vi partecipano Francesco Perri, direttore del Conservatorio di Cosenza, Francesco Fucile, sindaco di Bisignano, Angelo Arciglione, presidente dell’associazione Amici della Musica di Acri, Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, Antonio Scaglione, curatore della mostra, e i coordinatori del festival, Yuri Crusco e Pietro Morelli.
Giusto per ribadire che De Bonis non significa solo chitarre, alle 19 è previsto il concerto del Duo Giacomantonio, composto dai violinisti Alessandro Acri e Annastella Gibboni che si esibiranno su violini prodotti dall’azienda di Bisignano.
A lezione di chitarra
Il 25 si entra nel vivo con un doppio evento a Villa Rendano.
Il primo è visivo: la Mostra espositiva strumenti Nicola e Vincenzo De Bonis, aperta al pubblico dalle 10 alle 19.
Il secondo è una chicca per artisti: la Masterclass di chitarra tenuta da Stefano Grondona, l’allievo italiano del grande Andreas Segovia. La prima giornata di lezione di Grondona è una full immersion in due tranche: dalle 10,30 alle 12,30 e dalle 14,30 alle 17,30. Si chiude alle 17,45 con La chitarra di liuteria italiana, una conferenza di Lorenzo Frignani, maestro liutaio e presidente di Ali (Associazione liutai italiani).
Stefano Grondona
De Bonis Music Festival: secondo round
Il 26 ottobre è diviso tra Villa Rendano e il Museo dei Brettii e degli Enotri.
A Villa Rendano sono previste la seconda giornata della Mostra espositiva strumenti Nicola e Vincenzo De Bonis (ore 10-12) e della Masterclass di Stefano Grondona (ore 10-13). Il Museo dei Brettii e degli Enotri ospita, alle 18,30, il concerto del chitarrista Davide Piluso.
Una full immersion per concludere
Masterclass di Grondona (ore 10,30-12,30 e 14,30-17,30) e Mostra espositiva (ore 10-19) riempiono la giornata conclusiva del De Bonis Music Festival.
Subito dopo (ore 17,45) è prevista La liuteria De Bonis, una conferenza di Antonio Scaglione, maestro liutaio e allievo di Vincenzo De Bonis, con annessa tavola rotonda.
A chiusura della manifestazione, il concerto Una chitarra per la memoria, eseguito dal De Bonis Guitar Duo.
Quante furono le donne di Dante? La domanda è – va da sé – solo poetica.
Non è questa la sede per approfondire i significati estetici e morali (e secondo non pochi anche esoterici) delle figure femminili nella produzione del Sommo Poeta, a partire dalla Vita Nova. Un’incursione in questo settore particolare e delicato di tutta la cultura italiana lo tenterà Sara Serafini Calomino il 18 ottobre, a partire dalle 17, a Villa Rendano (Cs), sede della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, nel reading intitolato Beatrice e le altre donne di Dante.
Per l’occasione, le declamazioni di Calomino saranno arricchite dai tappeti sonori eseguiti in diretta dall’arpista Camilla Colonna.
L’introduzione dell’evento spetta a Walter Pellegrini, editore e presidente della Fondazione Giuliani, la presentazione, invece, a Maria Cristina Parise Martirano, presidente della Società Dante Alighieri-Cosenza.
Villa Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani ETS
«È come perdere un pezzo di futuro e di quel vuoto che rimane è necessario prendersene cura». Così, in una nota stampa, l’associazione Mammachemamme si riferisce al lutto perinatale, a cui è dedicato il Babyloss Awereness Day, ovvero la Giornata mondiale della consapevolezza sulla perdita in gravidanza e sulla morte infantile, prevista il 15 ottobre. L’edizione cosentina è organizzata da Mammechemamme e dal gruppo di mutuo aiuto Parole in ConTatto, con la collaborazione della Fondazione Attilio e Elena Giuliani e il patrocinio dell’Unicef, del Comune e della Provincia di Cosenza.
Il risultato di questa unione di forze è la manifestazione “Diamo voce al silenzio”, che si svolgerà a Villa Rendano per tutto il 15 ottobre.
Lutto infantile in cifre
Perdere un bambino, anche prima che nasca, è un trauma pesantissimo e, purtroppo, più diffuso di quel che si pensa.
«Basti pensare che ogni anno 5 milioni bambini muoiono durante il terzo mese di gravidanza e nei primi mesi di vita e sono almeno cinque volte tanto le perdite del secondo trimestre e dieci volte tanto quelle del primo», spiega la nota di Mammachemamme.
Perciò la manifestazione del 15 ottobre è «un’occasione per far luce sul tabù della morte in gravidanza e dopo la nascita, sull’attenzione e la cura da destinare alle famiglie, rompendo il silenzio e l’indifferenza della società su questo tema».
VIlla Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani
Lutto infantile: come aiutare le famiglie
Consapevolezza è anche la parola chiave di un percorso fatto di corretta informazione, sostegno, assistenza, rispetto e cura.
Questi concetti, chiarisce Mammachemamme, «devono essere alla base del linguaggio degli operatori sanitari, che si trovano a dover affrontare la prima fase della perdita, e dei parenti e amici dei genitori colpiti da questo difficile evento».
Lo scopo di questo supporto, affettivo, concettuale e persino linguistico è facilitare l’elaborazione del lutto.
Lutto infantile: la formazione
“Diamo voce al silenzio” è strutturata in tre momenti: due formativi e uno simbolico e si svolgerà a Villa Rendano. Si inizia la mattina del 15 ottobre 2023 dalle 9 alle 11,30 con la formazione gratuita per tutti gli operatori sanitari sul tema del lutto perinatale. Seguirà, dalle 12 alle 13, il “Cerchio di parola” aperto ad operatori sanitari e familiari.
L’intera mattinata di formazione e spazio di ascolto tra gli operatori e i genitori sarà condotta da Cecilia Gioia, psicologa e psicoterapeuta esperta in perinatalità e presidente di Mammachemamme.
Cecilia Gioia
Il canto come terapia
Seguirà, nel pomeriggio, il laboratorio “Soul Singing” a cura di Elisa Palermo, in arte Brown, operatrice olistica specializzata nella voce e nel suono.
Soul Singing è un metodo con approccio olistico, che attraverso il canto in cerchio o individuale abbinato a tecniche di rilassamento e di crescita personale, permette di stimolare un benessere psicofisico e spirituale. La voce è l’elemento principale dell’esplorazione verso se stessi. Il primo strumento di espressione delle proprie emozioni. Proprio da qui nasce “Diamo voce al silenzio”, evento voluto da quei genitori che hanno il bisogno di esprimere tutte le emozioni contrastanti che si vivono nelle varie fasi della perdita dei loro bambini.
Un’onda di luce per i piccoli angeli
Un affetto pieno di luce
La giornata terminerà alle 19 con l’Onda di Luce, un momento collettivo. Chiunque potrà parteciparvi: basterà accendere una candela e mantenerla accesa per un’ora. Si creerà così attraverso tutto il globo, per effetto del fuso orario, una simbolica onda luminosa che commemorerà i piccoli angeli e scalderà il cuore dei loro cari.
Allo stesso orario, in ogni parte del mondo, i Comuni illumineranno simbolicamente i loro più importanti monumenti di rosa e azzurro.
Un modo per dimostrare affetto e vicinanza ai genitori che hanno perso i loro bambini, per farli sentire meno soli. Tra i Comuni che in Calabria aderiranno all’iniziativa e che si ringraziano fin da adesso, oltre Cosenza, ci saranno Corigliano Rossano (Cs), Castrolibero (Cs), Lamezia Terme (Cz) , Filadelfia (Vv), Francavilla Angitola (Vv), Vibo Valentia, Ionadi (Vv), , Marano Principato (Cs), Bisignano (Cs), Acri (Cs), Cotronei (Kr), Paola (Cs).
Una settimana della cultura carica di eventi in tutt’Italia, promossa da Abi (Associazione bancaria italiana) e da Acri (Associazione delle fondazioni e casse di Risparmio). All’iniziativa partecipa anche la Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che mette a disposizione di cittadini e appassionati di tutte le età i propri assets consolidati, soprattutto Consentia Itinera, il museo multimediale. La settimana è partita il sette ottobre, con una giornata completamente gratuita, e prosegue per due giorni: il 9 e il 14. La location, manco a dirlo, è la storica Villa Rendano, la bella sede della Fondazione e del Museo.
Con una piccola sorpresa: un ospite sbarazzino e prestigioso. Soprattutto giovane come i classici che si rispettino: Topolino.
Un momento della mostra dedicata a Topolino a Villa Rendano
Settimana della cultura: Topolino a Villa Rendano
La storia, in questo caso, è piuttosto lunga. E la domanda, tra l’altro, non è proprio semplice semplice: che ci fa il topo più famoso di tutti i tempi nella storica casa di uno dei musicisti calabresi più celebri (e illustri) di tutti i tempi?
Infatti, Topolino e i suoi amici disneyani (quindi Pippo, Arabella, Paperino, Paperina, Qui, Quo, Qua e Paperoga) fanno bella mostra di sé in varie illustrazioni esposte a Villa Rendano a tema musicale: non a caso, la mostra si chiama Topolino e la musica…
Quest’iniziativa. spiega Anna Cipparrone, la direttrice di Consentia Itinera, risale a luglio grazie a un’idea del Museo del fumetto, che ha ospitato alcuni illustratori Disney, perché si ispirassero a Cosenza. Ovviamente Villa Rendano non poteva restare fuori, col suo carico di storia. Ed ecco che Topolino & co. si improvvisano musicofili e musicisti.
Un primo piano delle illustrazioni a tema disneyano
Musei in rete, Villa Rendano in prima linea
Riavvolgiamo il nastro: il Museo del Fumetto si lega a Consentia Itinera che, a sua volta, entra in rete con Abi.
Un fatto quasi dovuto, spiega ancora Cipparrone: la Fondazione Giuliani partecipa da anni a iniziative prestigiose su scala nazionale.
Il legame con Abi e il suo network è coerente con quest’idea di promozione culturale del territorio e per il territorio, fatta di stimoli in uscita e in entrata in perfetta simbiosi.
E il fumetto? «Ormai non è solo letteratura di intrattenimento, ma è diventato un genere artistico a sé, molto versatile. Uno strumento potente e flessibile per il marketing territoriale».
In questo caso, un’introduzione elegante e leggera alle altre iniziative del museo multimediale di Villa Rendano. Cosenza entra in rete e fa cultura grazie a un’iniziativa privata ma rivolta a tutti e istituzionalizzata da anni.
Mica poco, di questi tempi.
Non c’è dubbio che la priorità dell’Europa e di tutti noi debba essere la salvaguardia dell’ambiente. Così come che questo possa comportare dei sacrifici da parte degli Stati e dei settori pubblici e privati oltre che degli individui.
Fatta questa premessa, l’ultima misura all’interno dell’obiettivo dell’UE di raggiungere l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050, il pacchetto Fit for 55 – che si ripropone di ridurre le emissioni europee del 55% (rispetto al 1990) entro il 2030 – ha delle ripercussioni molto importanti su economia e società proprio qui da noi, in Calabria.
A essere a rischio è il porto di Gioia Tauro, fiore all’occhiello (sebbene spesso vituperato) del commercio e dell’economia regionale. Il giornalista Michele Albanese ha definito questa faccenda uno «tsunami epocale» di cui pochi hanno capito la portata effettiva.
Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea
Si tratta di una revisione del sistema europeo di ETS – Emission Trading System – cioè del sistema di scambio delle quote di emissione. È una revisione proposta in Commissione Europea il 14 luglio 2021 per estendere il campo di applicazione del sistema ETS e includere anche le emissioni provenienti dal settore marittimo. Tale sistema era già stato applicato al traffico aereo dal 2014.
La Direttiva e il Regolamento sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 16 maggio 2023. Entrambi gli atti legislativi sono entrati in vigore il 5 giugno 2023. Tuttavia, sia la Direttiva che il Regolamento si applicheranno a partire dal 1° gennaio 2024. Ed ecco perché ne stiamo parlando ora.
La legge non è uguale per tutti
Il sistema ETS dell’UE avrà un impatto su diverse dimensioni e tipologie di navi nei prossimi anni. Ad esempio, dal 2024, su navi da carico e passeggeri di stazza lorda (GT) pari o superiore a 5.000, indipendentemente dalla loro bandiera. Dal 2027, su grandi navi di servizio offshore (oltre 5.000 GT).
La direttiva prevede che la tassazione delle emissioni sia calcolata oltre che sulla tipologia di nave anche sulla distanza percorsa: si tasserà al 50% se lo scalo di partenza o destinazione è extra-UE e al 100% se partenza e destinazione se i porti sono in UE.
Per capirci, da Singapore a Gioia Tauro la tassazione sarà al 50%, ma da Gioia Tauro a Livorno o Genova sarà al 100%. Questo perché i porti di trasbordo (transhipment) ad almeno 300 miglia nautiche da un porto europeo, non saranno considerati come scali, mentre i porti in UE lo saranno.
La denuncia di Agostinelli
Si tratta di un sistema per applicare il principio “chi inquina paga” e offrire incentivi alle parti interessate per ridurre la propria impronta inquinante. Purtroppo, però ci sono due effetti collaterali.
Innanzitutto, sembra ovvio ritenere che le compagnie di navigazione nel settore dei container che effettuano il trasbordo da nave a nave nei porti dell’UE andranno a ridurre i loro pagamenti per l’ETS semplicemente cambiando il loro hub di trasbordo da un hub UE a uno non-UE.
E secondo, come già fatto notare dal Porto di Gioia Tauro, affiancato da MSC, Filt Cgil e Uiltrasporti, la normativa è discriminante per alcuni porti europei più che per altri. Ha dichiaratoAndrea Agostinelli, presidente dell’Autorità Portuale di Gioia Tauro: «Tutti gli armatori dovranno pagare una tassa per le emissioni di gas serra nel bacino del Mediterraneo. L’Europa ha deciso di tassare gli armatori perché vuole spingerli a modificare il sistema di navigazione e di trasporto, ma ha adottato un provvedimento che discrimina i porti mediterranei rispetto a quelli extraeuropei».
L’ammiraglio Andrea Agostinelli
Gioia Tauro? Meglio l’Africa
Lo svantaggio competitivo degli scali di transhipment sud-europei è tanto superiore quanto più alta è la percentuale del porto nell’attività di trasbordo. E Gioia Tauro ha percentuali di transhipment sul totale dei container movimentati pari al 95%.
Secondo uno studio commissionato dall’Autorità Portuale dello scalo calabrese ad Alessandro Guerri, Gioia Tauro è proprio «la tipologia di porto che gli armatori saranno più incentivati a sostituire/evitare», palesando quindi una reale chiusura o abbandono del porto.
È dunque molto probabile – anzi, dice già la ricerca scientifica, economicamente molto conveniente – che gli armatori scelgano di dirottare i container da transhipment in porti non EU per portare a zero i costi da ETS, ma de facto mantenendo le emissioni nel Mediterraneo.
Tanger Med trarrebbe vantaggio dalla crisi di Gioia Tauro
Il traffico marittimo non si ferma e il mare – in questo caso il Mediterraneo – ci collega comunque tutti a prescindere dai nostri confini imposti. Ecco che, a prendere il posto di Gioia Tauro potrebbero essere i porti di Tanger Med o di Port Said, entrambi porti a vocazione di trasbordo, il primo – il più grande porto in Africa – in Marocco – di relativa nuova fattura (inaugurato nel 2007); il secondo, in Egitto, a nord del canale di Suez. Chi vuole arrivare in Europa, userà l’Africa per il transhipment pagando molto meno all’ingresso in Europa. E chi non vuole fermarsi in Europa (e che faceva transhipment a Gioia Tauro fino ad oggi), tenderà a evitare i porti europei del tutto, a favore di quelli africani.
Gioia Tauro e il narcotraffico
Ma c’è un altro aspetto di tutto ciò che è stato per ora ignorato – forse giustamente, vista l’urgenza e i timori diffusi – ma che pure rappresenta un fattore di rischio – controintuitivo – in questa débâcle sul depotenziamento di Gioia Tauro o addirittura sul suo progressivo abbandono. Tra tutti i primati che ha il porto di Gioia Tauro c’è infatti anche quello del traffico di stupefacenti; secondo le ultime stime, lo scalo calabrese riceve circa l’80% della cocaina che arriva in Italia.
I sequestri di droga regione per regione nell’ultimo report del Viminale
La cocaina – ma anche la cannabis che ancora arriva in porto – viaggia su container da porti dell’America latina – Santos in Brasile o Guayaquil in Ecuador – diretta allo scalo calabrese o ad altri scali europei come Anversa o Rotterdam. Non si tratta di scelte arbitrarie dei trafficanti – tra cui vari gruppi ‘ndranghetisti – quanto di scelte economiche, obbligate quasi, perché legate al mercato marittimo. Se si chiude una rotta legale, si chiuderà anche quella illegale e viceversa. Per ogni rotta che si apre, si apre la possibilità di un suo sfruttamento a fini illeciti. Quando il porto di Gioia Tauro attraversava gli anni della bancarotta meno di un decennio fa, le rotte preferirono altri porti Italiani e non. La mano invisibile del mercato a economia capitalista muove le pedine anche, soprattutto, sul mare.
Coca e ‘ndrangheta
La previsione criminologica – sicuramente per ora ipotetica – è molto semplice. Se il porto di Gioia Tauro perde clientela e traffico fino all’abbandono a favore di porti nordafricani, anche la cocaina dovrà spostarsi. I porti nord-europei, per quanto intaccati dalla direttiva europea anch’essi, non hanno molti sostituti ergo il traffico (lecito e illecito) verso i porti olandesi e belgi rimarrà costante. Il traffico che dai porti sudeuropei si dirotterà sul Nordafrica invece porterà con sé anche il narcotraffico che da Gioia Tauro o dal Pireo (altro porto ad alto tasso di confische di narcotici) si sposterà in Africa. E qui la geopolitica del crimine organizzato ha sicuramente un peso.
Più problemi per la polizia che per i narcos
Come confermato in una recente ricerca di Global Initiative Against Transnational Organized Crime, esistono legami molto solidi tra trafficanti di cocaina, finanziatori e distributori tra America latina – principalmente dal Brasile – e Africa, soprattutto occidentale. Non solo arriva la cocaina in Africa occidentale, ma in parte arriva già anche grazie alla ‘ndrangheta. Se la presenza di gruppi di trafficanti appartenenti a diverse organizzazioni criminali in alcuni paesi dell’Africa è cosa nota, lo è anche l’utilizzo di corridoi tra Mauritania, Mali, Algeria e Marocco per il trasporto della cocaina via terra. Da lì, l’Europa è vicina con navi che non devono essere sempre transatlantici muovi-container.
La cocaina continuerebbe ad arrivare, ma il mercato sarebbe ancora più frammentato, rendendo molta complessa l’azione di contrasto. Uno spostamento delle rotte sull’Africa – e, dunque, delle rotte illegali sull’Africa del Nord – non turberebbe molto i gruppi criminali, ammesso che riescano a organizzarsi con emissari e broker locali e in Sudamerica (e molti ‘ndranghetisti riuscirebbero). Ma tale spostamento turberebbe moltissimo le forze dell’ordine, italiane ed europee che perderebbero quel poco vantaggio acquisito negli anni nel conoscere e contrastare il modus operandi dei gruppi criminali che si muovono nei nostri porti.
Gioia Tauro: il porto della cocaina (e dei sequestri)
Il porto di Gioia Tauro non è solo il porto della cocaina; è anche il porto in cui si confisca più cocaina che altrove. Le ultime stime danno quasi il 40% della cocaina “ipotizzata” in rotta per Gioia Tauro, confiscata dalla Guardia di Finanza. Il rischio di trafficare cocaina a Gioia Tauro ora è condiviso, dai trafficanti e dalle autorità. Se Gioia Tauro non fosse più la destinazione, la cocaina vivrebbe un periodo di rotte imprevedibili e largamente intoccabili da un punto di vista della confisca e della sicurezza portuale.
Cocaina nascosta tra le banane rinvenuta a Gioia Tauro: il carico era di circa 3 tonnellate
C’è di più: i passi avanti, notevoli, in termini di lotta al narcotraffico, in Europa, subirebbero un’enorme frenata se aumentassero i traffici portuali extra-europei, richiedendo alle autorità europee di rafforzare i rapporti con i porti e i paesi africani, già complessi in materia di narcotraffico. Ad aumentare, come detto, potrebbero essere anche i traffici nordeuropei, andando a insistere su situazioni già molto complesse in porti come Rotterdam, dove la violenza del narcotraffico è già cosa nota.
Grande è la confusione sotto il cielo…
Il mercato del narcotraffico è di certo tendenzialmente molto disordinato. Ma ad aggiungere disordine – ad esempio con shock geopolitici di questa portata (da ultimo uno shock simile in Europa lo ha portato Brexit) – si rischia solo di aumentare la violenza che a tale mercato si lega (si pensi agli ultimi anni di Rotterdam) e ad aumentare il peso specifico di alcuni gruppi criminali rispetto ad altri (si pensi ai gruppi irlandesi post Brexit).
Chiunque porterà un po’ di “ordine” nel caos, chiunque saprà gestire al meglio l’emergenza, ne uscirà più ricco e meglio posizionato sul mercato. E quanto a posizione stabile sul mercato la ‘ndrangheta, nonostante i suoi alti e bassi, rimane reputazionalmente ancora molto forte.
Il porto di Rotterdam
Ma forti sono anche altri gruppi, più attenti ai traffici nel Nord Europa o, appunto, in Africa. Paradossalmente, dunque, si abbandona il porto della cocaina, ma la ‘ndrangheta – che quel porto oggi certo lo usa assai – non abbandonerebbe il mercato della cocaina, che però sarebbe più confuso e frammentato da capire per le autorità. A perderci, insomma, non sarebbero le organizzazioni criminali.
Gioia Tauro, politica e guerra ai narcotici
Ma mentre si ipotizzano tali scenari, si assiste a flashmob dei lavoratori e al solito balletto della politica, tra colpevoli e più colpevoli. Perché ovviamente questa storia lascerebbe ancora più disoccupazione in una terra già difficile per i lavoratori. Laura Ferrara, eurodeputata col M5S, calabrese, ha risposto agli attacchi che le si sono avanzati su questa vicenda anche con un’interrogazione al Parlamento Europeo che si spera abbia preso risposta. Sicuramente la vicenda non può finire qui.
Mentre si aspettano risposte dalla Regione e dal governo oltre che dall’Europa, dal porto di Gioia Tauro la proposta arriva chiarissima: il regime applicato a Port Said e Tanger Med si estenda anche a Gioia Tauro e ad altri porti europei simili (Malta, Sines, Pireo), altrimenti lo scalo calabrese andrà perso.
E se si perde Gioia Tauro, si perde anche quel poco di controllo che si ha sulla cocaina a Gioia Tauro, in Italia e dunque in Europa, a vantaggio solo di chi la traffica.
Se davvero si arrivasse a quel punto sarebbe auspicabile come minimo un serio discorso sulla decriminalizzazione di alcune sostanze stupefacenti, dal momento che la war on drugs, la guerra contro i narcotici, subirebbe ancora un’ennesima, mortale batosta.
Proviamo a fare sullo Ionio la stessa deviazione fatta recentemente sul Tirreno. Se ci addentriamo tra le colline, verso Castroregio, abbiamo due possibilità.
Piano a: Castroregio via Albidona
La prima scelta passa per Albidona. Allora vale la pena fare due passi fino alla cima del paese, almeno per dare un’occhiata a quello che fu, appunto, Palazzo Chidichimo, punto di partenza di tutti i vari rami della nobilitata famiglia originaria di Alessandria Del Carretto. Inclusi i rami che dal Novecento hanno fruttificato – eccome! – pure nel capoluogo.
Il cuore di tutto. A proposito di cuore, aggiungo la solita curiosità araldica. Lo stemma dei Chidichimo ha sempre raffigurato un cuore rosso, caricato di due bande azzurre. Detto meno tecnicamente: un cuore fasciato. Se ne possono vedere vari esemplari sia ad Albidona che ad Alessandria. E questo stemma deve aver portato fortuna, visto che nel Novecento proprio Guido Chidichimo (figlio di quell’Ortensia da cui il nome della nota clinica cosentina) divenne luminare internazionalmente riconosciuto nel campo della cardiologia, primo ad operare un intervento a cuore aperto, nel 1964.
Lo stemma dei Chidichimo nella chiesa madre di Alessandria del Carretto (foto di L. I. Fragale)
Piano b: Castroregio via Oriolo
La seconda opzione è la strada che conduce ad Oriolo Calabro.
In questo caso, è obbligatorio guardare sulle colline a destra del torrente Ferro, che serpeggia nella pietraia sotto di noi. A un certo punto si nota ciò che resta dalla Masseria dei nobili Camodèca (suggerimento: si distingue per un gran buco circolare sul tetto sfondato).
Guardando invece a sinistra, scorgerete sul crinale la Pietra del Castello: una grande roccia che le leggende locali vorrebbero legata a curiose superstizioni. Si trova ad Amendolara, lungo la vecchia strada che conduceva ad Oriolo e che ora non porta quasi in alcun luogo: è massacrata in più parti da frane e, a tratti, chiusa sine die.
Sempre se si sceglie questa seconda variante, c’è la possibilità di una digressione. In mezz’ora si raggiunge, attraverso una strada vicinale, la splendida e abbandonatissima Masseria Maristella (sempre dei suddetti Chidichimo).
Dapprima si costeggia la rigogliosissima e tuttora attiva Masseria Acciardi, che custodisce una cappelletta in mezzo agli ulivi e un antico stazzo in pietra. Quest’ultimo è un esempio di quell’ormai rarissima tipologia di ricovero di forma semicircolare per le bestie. A proposito: ne ho scovato solo un altro, più piccolo, in un angolo più o meno irraggiungibile di campagna, tra Oriolo e Montegiordano.
I ruderi della masseria Maristella ad Albidona
I portali di Castroregio
In entrambi i casi preparatevi ad una salita estenuante: Castroregio (con una g e non due come si legge da anni e anni allo svincolo per Oriolo) è appollaiata come una specie di nido d’aquila irraggiungibile in cima ad un cocuzzolo.
Ma non tanto irraggiungibile da non permettere di ritrovare anche qui un esemplare dei portali nobiliari costruiti nell’Ottocento dai fratelli Calienno e anche in questo caso si tratta del Palazzo Camodeca.
Pensate solamente che da quassù si riesce a vedere nientemeno la lontana Timpa di Pietrasasso, ovvero ’u timbarìll’, l’ofiolite monumentale in territorio di Terranova di Pollino. Tornanti su tornanti, insomma, strettissimi e inevitabili: solo queste due strade conducono al paese e di conseguenza pure alla chiesa di Santa Maria della Neve, in mezzo alla foresta disseminata di quei megaliti cui si sono attribuite diverse funzioni, persino rituali, in epoca preistorica.
Preti e magia a Castroregio e non solo
Chiese, leggende, rituali preistorici: nulla di strano se i preti ottocenteschi di questo lembo di terra tra Calabria e Basilicata ricopiassero pazientemente formulari cinquecenteschi di magia colta.
Al riguardo, va smantellata la tanto nota separazione fra la magia colta e quella magia popolare che proprio in Lucania aveva trovato il suo luogo d’elezione, anche a causa di un immaginario collettivo viziato degli studi di Ernesto de Martino.
E va smentita la centralità di un luogo casualmente scelto dall’antropologo e poi assurto, assieme al Salento, a culla di forme superstiziose a sé stanti.
I megaliti della foresta di Castroregio (foto Alfonso Morelli, Associazione Culturale Mistery Hunters)
Due parole sull’Arbëria
Cast’rringi in oriolese, Kastërnexhi in arbëreshë: se non s’è ancora capito – e non sia stato sufficiente citare i Chidichimo e i Camodeca – siamo in area italoalbanese.
Allora è il momento di sfatare un luogo comune radicatissimo nella storia del Mezzogiorno: ovvero che le comunità albanesi fossero solo quelle stanziate nella solita arcinota sequela di paesi dichiaratamente legati a tali origini.
Un’attenta lettura dei fatti storici, della diffusione dei cognomi e dei toponimi nelle nostre regioni dovrebbe maggiormente avvertire gli studiosi della falsità di questo dato. Già: gli albanesi erano pressoché ovunque e i loro cognomi sono molti di più di quelli generalmente ritenuti tali.
Quanti sono gli arbëreshe?
È senz’altro una colpa della storiografia locale, impigritasi nel tempo, l’aver spesso confuso alcuni dati. Volendo offrire un solo esempio, sfugge solitamente – pure ad eminenti studiosi – che alcuni nostri paesi non nacquero albanesi ma lo divennero (penso a San Benedetto Ullano, nel cosentino; o ad Àndali, nel catanzarese). Al contrario, vi sono paesi che non acquistarono mai un ufficiale status arbëreshe ma che albanesi furono anche profondamente, sebbene in parte.
Penso a Roseto, Montegiordano, Amendolara, Albidona, Alessandria del Carretto, Noepoli, Senise, o soprattutto a Oriolo. In questi paesi il notabilato cinque-settecentesco è stato quasi più albanese che oriundo. Ciò grazie anche al fatto che quest’area fosse sede marchesale, legata agli albanofili Sanseverino. Basterebbe leggere le cronache seicentesche di Giorgio Toscano per rendersene conto in un attimo, o confrontarle con i toponimi rurali ancor oggi superstiti.
L’archimandrita di Castroregio Pietro Camodeca
Ritorno alla base
Torniamo alla base. Si passa sopra all’orrendo viadotto Pagliara, cioè il brutto ponte che vi aspetta alla fine di una galleria, in forte pendenza sopra i tetti della marina di Trebisacce.
L’ecomostro, opera certa di un pazzo, verrà demolito a breve. È l’unica notizia buona legata alla costruzione del terzo megalotto della nuova Ss 106 (Sibari-Roseto).
Per il resto, quest’opera sta provocando soprattutto la cancellazione di ettari ed ettari di colline e boschi che si sarebbero potuti salvaguardare un po’ di più.
Ma la velocità decide le cose. E non solo quella: ad esempio l’influenza di qualche grosso proprietario terriero, come ai bei tempi.
Bromu. Parpatulu: Pari ca veni d’a paddecaria. Zotico [Villano. Vagabondo. Sembra tu venga dalla terra dei greci. Zotico] : è la condizione in cui i grecanici hanno vissuto il progressivo sfilacciamento – e il vilipendio – della loro cultura. Bova, Vua, ne è la capitale, prima per tradizione, ora per vocazione. Raccontarla oggi non è semplice. Oltre al rispetto verso la sua storia, Bova è l’emblema del pieno e del vuoto, dei suoi conflitti. Dei suoi accatastamenti culturali. È simbolo dell’orgoglio delle minoranze, della lotta per la sopravvivenza contro il degrado, della fierezza del riconoscersi.
A Bova ho viaggiato molto e ogni volta ho incontrato attori diversi: amministratori, attivisti, professionisti, operatori della cultura, commercianti e turisti.
Ognuno mi ha fornito un punto di vista diverso per comprendere. Il mio intento era raccogliere storie di restati e ritornati per capire se esistesse davvero il “modello Bova” e se potesse essere utilizzato per ispirare strategie di sviluppo delle aree interne. Poi ho avuto il contatto di Alessandra e alle categorie dei restati e dei ritornati si è aggiunta quella degli arrivati.
Alessandra Ghibaudi: da Genova a Bova
«Vivo a Bova dal 2004, sono esperta di sviluppo locale e sono consulente del Gal (Gruppo di azione locale) Area Grecanica. Non sono un’oriunda. Sono nata a Genova e fino ad allora avevo vissuto a Como. Sono capitata qui per caso, dopo un master in sviluppo locale all’Università di Milano che offriva la possibilità di farvi uno stage. Poi ho deciso di rimanere. Adesso mi considero calabrese. Mio marito è un greco di Calabria». Nella sua casa, che è anche un b&b affacciato sui costoni dell’Aspromonte, Alessandra usa la prima persona plurale. Noi. E nelle sue parole si riflette lo sguardo di chi ha saputo guardare questo territorio isolato con gli occhi delle opportunità.
La storia di un arrivo
«La dimensione a misura d’uomo, il patrimonio naturalistico e culturale, il fermento di rinnovamento che percepivo nei ragazzi del luogo mi hanno affascinata. Mio marito era uno di questi. Guida ufficiale del Parco Aspromonte, aveva realizzato la cooperativa San Leo che si occupa di ricettività, enogastronomia e trekking in montagna. Con lo stage mi è stato chiaro che Bova aveva una strategia di sviluppo. Ho capito che sarebbe diventata la mia nuova casa. Per chi sapeva oltrepassare le narrazioni discriminatorie e stereotipate che l’hanno caratterizzata, la Calabria, e quest’area in particolare, era una terra piena di opportunità inesplorate».
Una narrazione poco mutata e ancora replicata che passa dai sequestri, alle maxi-inchieste, alle serie tv, al sottosviluppo.
«Tutti i miei – continua Alessandra – biasimavano la mia scelta. Me ne sono fregata forte delle mie competenze sulla progettazione con i fondi pubblici. Sono stata fortunata, perché, a distanza di tempo, ho potuto constatare che la Calabria non è meritocratica e forse anche questa è una concausa dei suoi ritardi. Ma i valori di prossimità, la sussidiarietà tra le persone, il senso di comunità mi hanno rapita».
La Rocca di Bova
Ospitalità internazionale made in Bova
Una porta si apre. Entra un ospite straniero. Alessandra si alza e fornisce qualche indicazione sulla ristorazione in inglese.
«Nonostante e proprio perché mi occupassi di sviluppo locale, con mio marito, abbiamo aperto un b&b. Questo ci permette di avere scambi interessanti con i tanti che scelgono Bova come meta di turismo, attratti dalla sua storia, la sua lingua, la possibilità di sperimentare itinerari di nicchia, quasi esotici, combinati con esperienze naturalistiche vissute in Aspromonte. È un elemento importantissimo per il nostro lavoro: ci aiuta a comprendere ciò che realmente un turista esperienziale cerca. Questo mi dà molti spunti per pianificare progetti a vantaggio di tutta la comunità. Mi fa mantenere lo sguardo sempre vigile e aggiornato sui bisogni e sulle opportunità».
L’impegno nel Gal
Alessandra è una progettista: traduce idee in processi, azioni, opere, servizi finanziabili.
«Il mio è un lavoro che incide. Si opera in team per e con la comunità: Comuni, associazioni, enti del terzo settore, imprese. Gal Area Grecanica è una società consortile pubblico-privata che lavora come un’agenzia di sviluppo. Conta nella sua governance i Comuni dell’area, diverse aziende, associazioni del versante agricolo e culturale. Partecipiamo ai bandi regionali con approccio Leader. Questi assi riguardano lo sviluppo locale rurale: in particolare, la misura 19 dell’ultima programmazione regionale. Sono bandi tarati su piccoli territori, simili alle linee di intervento del Programma di sviluppo rurale. È essenziale sapere come muoversi. Il che significa non disperdere le energie applicandosi a tutte le call, ma individuare quelle che collimano con la strategia di sviluppo dei territori interessati. E Bova ha questa strategia».
Una targa in lingua grecanica
Bova tra ieri e oggi
Nonostante i suoi limiti, oggi Bova rappresenta un modello di proto-sviluppo.
Ha solo 500 abitanti e i servizi essenziali a rischio chiusura. Non ha un presidio medico ma ha un endemico deficit del mercato del lavoro. Tuttavia, la piccola comunità grecanica è inserita nella rete dei borghi più belli d’Italia. Quindi è quella a cui “dovremmo guardare per capire come fare”.
Mi hanno ripetuto questo refrain in quasi tutte le realtà con cui sono venuto a contatto.
Arroccata a oltre 900 metri sul mare, la capitale dell’antica Bovesìa è il centro nevralgico della cultura della Calabria greca e un esempio cui molti operatori e amministratori dell’area grecanica guardano.
Tra Bagaladi, Bruzzano Zeffirio, Cardeto, Ferruzzano, Montebello Ionico, Palizzi, Roccaforte del Greco, Roghudi, San Lorenzo e Staiti, Bova spicca. Fucina di contaminazioni in cui si incrociano Oriente e Occidente, cattolicesimo ed ebraismo, negli anni ha dimostrato come un paese sperduto dell’Aspromonte, con tortuose vie di accesso, abbia lavorato sul proprio rilancio. Oggi a Bova si fa turismo:è nata una rete di ospitalità diffusa. Inoltre, esistono due musei – quello della lingua greca dedicato a Gherard Rohlfs e quello della Paleontologia e delle Scienze naturali dell’Aspromonte -, una biblioteca, una giudecca e progetti per la rivitalizzazione del grecanico, di cui mi occuperò a parte.
Bova e non solo: Naturaliter in prima linea
In questo processo è stata determinante Naturaliter, cooperativa con sede a Bova dedicata al turismo escursionistico, all’ospitalità e all’offerta di pacchetti cuciti su misura.
La sua formula è inedita: il coinvolgimento attivo della comunità nelle dinamiche di accoglienza.
In particolare vuole favorire e implementare la cooperazione tra le comunità locali nelle aree scarsamente popolate del Mediterraneo, sulla base di uno sviluppo eco-compatibile e di occasioni di interattività socio-culturale con i viaggiatori della natura.
Andrea Laurenzano
Il sentiero dell’Inglese
Spiega Andrea Laurenzano, uno dei fondatori: «Il lancio del Sentiero dell’Inglese ha dato una grande spinta. Per noi è essenziale puntare sul coinvolgimento di chi abita i territori. Questo coinvolgimento consente un’esperienza immersiva a 360 gradi e dà impulso alle economie locali. In secondo luogo contribuisce a promuovere i territori ospitanti per chi arriva, dall’altra fa capire agli autoctoni il valore delle terre che abitano, invogliandoli a investire e a crederci. Perché se arrivano turisti dalla Svizzera, dalla Baviera o dal Nord Europa significa che qualcosa di bello ci deve essere. Qualcosa che a volte noi stessi non siamo più capaci di – o non siamo stati abituati a – vedere. Perciò, ad esempio, per i servizi logistici, preferiamo sopportare costi superiori, ad esempio per il noleggio di transfer, piuttosto che fornirci da una singola ditta. Ad oggi siamo una delle poche agenzie di viaggi a piedi con sede all’interno del Parco Aspromonte».
Il ruolo muto dell’Aspromonte
Che il Parco rappresenti un’opportunità è noto. Secondo i dati raccolti da Naturaliter nel 2013 (gli unici oggi disponibili) il nuovo turista è un viaggiatore adulto, esigente in termini di standard di qualità, con interessi legati a percorsi culturali, religiosi gastronomici e sensibile all’ecosostenibilità. Tra il 2013 e il 2014 le presenze turistiche sono balzate dalle 4 alle 5 mila presenze, così ripartite: 60% italiani, 20% francesi, 15% svizzeri e 5% americani, inglesi e tedeschi.
Questi numeri, come conferma Andrea senza stime ufficiali, continuano a crescere. L’Aspromonte è il centro di questo movimento.
«Bova è già all’interno del Parco ed è lo snodo di antichi sentieri che collegano tutti i paesi grecanici. Nel bene e nel male l’Aspromonte – dice Alessandra – è la storia di questo luogo. Una storia che ha permesso di vivere a queste comunità e nel frattempo le ha mortificate. Quando comunicavo a mia suocera che saremmo andati a fare un giro ai campi di Bova, per prima cosa si chiedeva quale disgrazia fosse successa. Credo che la nascita del Parco abbia lanciato un nuovo messaggio: pensiamo e agiamo questa montagna in modo diverso. Ho imparato, attraversandola, che non è un luogo scontato, con tappe obbligate, ma un posto in cui, quando raggiungi una meta, hai l’impressione di essere l’unico e il solo. E questo è il segreto del suo grande fascino. Tutti elementi che le nuove generazioni hanno compreso molto bene».
Santo Casile alla Festa delle Pupazze
Quale strada per Bova: il parere di Santo Casile
Che Bova abbia saputo indicare un percorso è assodato. Filippo Paino, neo-sindaco di Condofuri e Presidente del Gal, indica un dato: «il reddito di Bova cresce».
Su Bova fa il punto Santo Casile, primo cittadino e greco-parlante: «Ho in mente una strategia legata al turismo.
Siamo già parte della rete dei Borghi più belli d’Italia e questo ci ha dato una grossa mano. Abbiamo una buona rete di ospitalità, il turismo escursionistico funziona bene e il bagaglio della cultura grecanica e della sua promozione fa il resto. Bova è inoltre beneficiaria di un finanziamento di 1.500.000 di euro sul Por 2013-2020 per il progetto Borgo della Filoxenia che stiamo finendo di implementare. Abbiamo movimentato investimenti pubblici per circa 5 milioni di euro. La metà dei lavori è stata già consegnata.
Di questi 1 milione e 250 mila sono serviti a irregimentare le risorse idriche rurali. 2 milioni e 700 mila per interventi contro il rischio idrogeologico. Ma i problemi sono tanti e riguardano diversi aspetti. Con l’inverno demografico che stiamo vivendo, Bova sparirà in dieci anni. Come sta succedendo a Staiti, dove ha chiuso anche il museo delle icone bizantine. O a Roccaforte del Greco».
Servizi a rischio e poco lavoro
Dei 500 abitanti del paese, 140 sono ultraottantenni. Manca completamente un presidio medico stabile, i servizi, (le poste, ad esempio) sono a rischio chiusura perché il numero di abitanti rischia di andare sotto soglia.
Il lavoro, organizzato in unità produttive e filiere scarseggia ed è una delle cause di una continua emorragia demografica che le statistiche hanno fotografato senza pietà: in Calabria in 10 anni la popolazione si è ridotta del 5,3% . Nel frattempo nell’ultimo decennio, secondo i dati della Snai (Strategia nazionale per le aree interne)-Area Grecanica, la Calabria ha perso il 21% di aziende agricole e i comuni grecanici sono arrivati a meno 25,12%.
Un dettaglio del borgo di Bova
Casile sottolinea che «L’unico investimento produttivo partito riguarda la filiera del suino nero di Calabria: 3 milioni e mezzo per installare un allevamento che, nelle migliori prospettive, creerà appena 20 posti di lavoro. Nel frattempo l’agricoltura resta al palo a causa della mancanza di acqua. E la persistenza di allevamenti è spesso solo dovuta al contributo statale dato agli allevatori: 1.200 euro per capo all’anno. I nostri cittadini reclamano una maggiore attenzione ai loro diritti costituzionali, come quello alla salute che è poco garantito. Con la Snai verrà realizzata una Casa della Salute in uno dei tre vecchi capannoni di un ex corpo di fabbrica del territorio. La paura maggiore riguarda gli anziani: in caso di emergenza, rischiano di morire perché non esiste un presidio medico vicino».
Non dimentico nemmeno le parole di Pasquale Faenza che mi aveva ammonito su ristrutturazioni selvagge del patrimonio architettonico o sulla promozione di un greco più pubblicizzato che vivo. Questa denuncia non è nuova: l’aveva fatta anni addietro Paolo Martino nel suo articolo “L’affaire Bovesía: un singolare irredentismo”.
Snai Area Grecanica: una goccia nel mare
Bova e l’intera area grecanica rappresentano un pezzo importante della Snai.
Sono una delle aree pilota in cui il governo investe con fondi regionali, nazionali e comunitari. A questi si aggiunge il Pnrr. Filippo Paino chiarisce: «La Snai locale, a rilento nell’attuazione, punta a rafforzare i servizi essenziali che negli anni sono scomparsi. La domanda di fondo è: riusciamo a rallentare e invertire la desertificazione? Nella nostra idea questi fondi devono creare le condizioni per cui sia di nuovo appetibile abitare queste aree. L’obiettivo a lungo termine è riportare residenti. Cerchiamo di farlo investendo nel potenziamento dei servizi sanitari e scolastici e, parallelamente, finanziando infrastrutture di collegamento tra i territori. Un esempio per tutti è il progetto di Smart School a Bagaladi: una struttura che rafforza l’offerta scolastica per l’intero comprensorio in termini di prestazione, qualità e prossimità. E con la quale coprire il fabbisogno di istruzione della zona del Tuccio. Bagaladi dovrebbe ospitare studenti di Roccaforte, Chorìo e Fossato. Perciò abbiamo previsto un finanziamento che realizzi una strada tra quel paese e Fossato con una coerenza negli investimenti.
A prescindere dal criterio di economicità. Bova oggi, con la nuova strada, è meglio collegata alla marina. Arrivarci e spostarsi è più agevole e veloce. Però bisogna anche avere l’ardire di restare e di dare il buon esempio».
Carmen Barbalace
Le condizioni per restare
Per restare, tuttavia, serve il lavoro. Che manca. Nonostante Paino mi abbia annunciato che il Gal ha promosso 2 cooperative di comunità e che altre 5 siano pronte a essere finanziate, Casile dice di non vedere al momento altra strada percorribile se non il turismo. Che comunque non può arrivare a creare massa critica per lo sviluppo strutturale di un territorio.
La vera strategia sarebbe diversificare, puntando su settori complementari. Carmen Barbalace, dirigente della Regione Calabria per il settore Borghi, è molto chiara: «Dobbiamo fare in modo che i fondi già spesi o in procinto di esserlo per gli interventi programmati rappresentino davvero un investimento senza diventare una mera spesa che poi resterebbe un vuoto a perdere. Abbiamo necessità di definire in modo chiaro cosa è un borgo, che è quello che è mancato nella vecchia programmazione. Dobbiamo perseguire la formazione e la transizione digitale». Ma per operare nell’economia digitale servono le infrastrutture: copertura capillare della rete e banda larga. In Calabria il progetto Bul punta a dotare la Regione della banda larga. Ma, i dati di Infratel sull’avanzamento al 31 agosto 2023, raccontano un forte ritardo per l’area.
Tra i comuni collaudati per l’area grecanica c’è solo Condofuri.
Veduta di Gallicianò
Ripartire dagli stranieri per riportare gli altri
Attendere la realizzazione e l’impatto degli investimenti programmati potrebbe voler dire arrivare troppo tardi. I tanti braccianti o invisibili immigrati che vivono nelle aree interne potrebbero rappresentare un tassello importante.
Senza buonismi o pauperismi. Con il pragmatismo che serve a elaborare un piano di inclusione reale: ad esempio partendo dal loro coinvolgimento, insieme ai pochi giovani rimasti, nei progetti di aging attivo già sperimentati con successo dalla Regione. O dalla promozione di cooperazione mista tra italiani e stranieri per creare posti di lavoro. Nei piccoli paesi, colmi di terre abbandonate o a rischio abbandono, nei piccoli centri dove è più facile instaurare solide relazioni sociali all’insegna dell’apprendimento e del riconoscimento reciproco, forse questa potrebbe essere una via per fermare il trend. In attesa che investimenti, opere, servizi ed effetti delle attuali strategie portino il resto dei loro frutti.
L’araldica di Calabria nasce anche dalle campagne. Volimento, Pirro-Malena, Inziti, Cicala, Fabrizio Grande, Fabrizio Piccolo, Coscia, Ricota Grande, Ministalla, Lattughelle.
Sono i nomi di alcune contrade tra Rossano, Corigliano – giù e su di lì – dove cominciano a sparpagliarsi vecchie ville rurali, casini ottocenteschi, a difesa e controllo delle rispettive piantagioni d’ogni ben di Dio.
“Terra quantu vidi, casa quantu stai”. Ovvero: “Accumula terre finché puoi ma case soltanto per lo stretto indispensabile”. Così recita un vecchio adagio calabrese evidentemente da aggiornare.
L’antico casino Toscano, poi Giannuzzi, in agro di Rossano
Araldica di Calabria: i rombi di Amarelli
Certamente questa fu zona di sfruttamento intensivo della terra, in ogni accezione se finanche la poverissima liquirizia ne uscì protagonista assoluta (nel bene e nel male).
Un nome, una leggenda dell’imprenditoria internazionale, Amarelli fa parte addirittura della ristrettissima cerchia delle imprese familiari almeno bicentenarie (le radici – è il caso di dire – di questa azienda rimonterebbero addirittura al Cinquecento…) e offre al pubblico un museo che vale assolutamente la pena visitare.
Forse pochi sanno che i “rombetti Amarelli” sono un omaggio allo stemma di famiglia, contenente appunto quelle che in araldica, non solo in Calabria, sono più correttamente dette losanghe.
Araldica di Calabria: triangoli british a Cassano
Ho detto araldica e mi viene in mente un’altra curiosità che scovai a una trentina di chilometri da qui: sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi.
Due sono nella parte superiore: una è la fascia dei Sanseverino e l’altra la stella dei Del Balzo. Il terzo stemma, sul piede del fonte, è nientemeno quello del vescovo Owen Lewis (1532-1594), all’epoca latinizzato in Audoenus Ludovisi o – indecisione di quei tempi –Ludovicus Audoenus: un canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, appunto, vescovo di Cassano.
Un concio coriglianese ritratto da Jean Louis Desprez (Parigi, 1781)
Lo stesso che creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. E proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un altro esemplare di questo suo stemma ‘triangolato’, inconsueto nella tradizione araldica italiana, e che solo da Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino. Ma, stavolta, niente liquirizie triangolari…
Pausa pranzo: strippata a Cerchiara
Semmai, pochi chilometri più su, nelle campagne di Cerchiara ci si può imbattere provvidenzialmente in un agriturismo gestito da una coppia di attempati contadini che mandano avanti la (gloriosa) baracca soli soletti, con una grazia e una simpatia impareggiabili.
La signora insiste per preparare, oltre che la camera, anche un pranzetto veloce ma imbandisce un pranzo che altrove potrebbe bastare per due-tre giorni.
Lungi da me la cosiddetta “retorica del fico d’India”, ma quando va detto va detto: queste sono ricchezze e, semmai, occorre rigettare quel sentimento che s’affaccia spesso anche a queste latitudini.
Siamo infatti terra fertile anche noi per quelli che l’insuperabile e pertanto sottovalutato Enrico Panunzio (L’idiota celeste, 1989) definiva «i miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli» (e ogni brillante riferimento è puramente intenzionale).
Veduta di Cerchiara di Calabria
Araldica della Calabria lugubre: il cimitero operaio
Mi avvicino, lungo questo vagabondaggio, anche a un cimitero (non dirò quale).
I cimiteri raccontano di un paese più di quanto non facciano i monumenti, le strade, le chiese o l’elenco del telefono. C’è una grande cappella sbarrata, murata, puntellata. Appartiene a una vecchia Società Operaia di inizio Novecento.
In cima alla porta si apre un finestrino. Si può sbirciare e lo spettacolo è sconsigliabile ai delicati di stomaco: qualche frana o terremoto ha combinato, chissà quanti anni fa, un disastro. Solo che tutto è stato lasciato così come si rovesciò per terra, così come si aprì, così come si scoperchiò. I particolari, alla fantasia del lettore. Necrofanie altoioniche…
I caduti della ferrovia e il mercato delle pulci
Più in là, nomi di ingegneri francesi deceduti a fine Ottocento, nel periodo in cui lavoravano alla nuova ferrovia sulla costa ionica, impiegati da quella Torino capitale non meno nepotistica delle altre capitali d’ogni tempo.
Ancora più in là, croci senza nomi, foto senza fiori, fiori senza lapidi, nomi senza date, foto di coppia anche senza commorienza (magari era l’unica foto), foto di N.N… Al riguardo, mi vengono in mente certi mercatini delle pulci dove si trovano interi album o ceste pieni di foto in bianco e nero, appartenute a chissà chi.
Roba da ispirare una nuova maledizione, più amara della vecchia «che ti cresca l’erba davanti alla porta!». Ovvero: «Che le tue foto finiscano al mercatino delle pulci!». Un’altra lapide, degli anni Sessanta, le supera tutte: «La moglie e i figli, in memoria di XY. Nel bene e nel male». Accidenti, se non è damnatio memoriae questa…
La foto più vecchia
E, a proposito di foto, mi ha sempre incuriosito chi sia stata la persona più antica mai fotografata. Non intendo, ovviamente, la persona fotografata per prima, che in qualche modo si riuscirebbe pure a pescarla.
No, dico proprio quella più anziana tra le prime fotografate. Il primato è conteso, ma pare che spetti, per ora, a tale John Adams, nato nientemeno nel 1745 (qui la lista più accurata).
Pronuncia della parola pipistrello in Calabria: una mappa di un saggio d’epoca nazista (foto L.I. Fragale)
In compagnia dei pipistrelli nazi
Siamo privilegiati. Indirettamente superstiti: discendenti di sopravvissuti a guerre, epidemie, calamità naturali. Una marea di fortunati che dovrebbe baciarsi i gomiti. Basta, s’è fatto tardi, meglio uscire dal camposanto ora che è vespro. Già: arrivano i vespertiliones dei latini, gli spurtaglioni partenopei, i vespistrelli, i vipistrelli, ora più comunemente pipistrelli.
Oppure, come li chiamano da queste parti, lattarini (direttamente dalla nikterida magnogreca). Poi surici-lattarini che per mutazione fonetica diventano animali immaginari capaci persino di riunire in sé due bestie antitetiche: i surici-gattarill’, sorta di improbabili topo-gattini.
E pensare che nella maggior parte delle lingue straniere è sempre tradotto come topo-volante… Ne faceva una perfetta mappatura fonetica tale Emil Eggenschwiler, in un libro (Die Namen der Fledermaus ecc. ecc) edito nel 1934 a Lipsia, nel pieno della Germania nazista. E Rohlfs zitto (che è meglio, date le non poche cantonate che prese nella sua pur brillante carriera).
Tira davvero aria buona a Buenos Aires: il 19 settembre scorso presso il Dipartimento Centrale della Polizia Federale argentina si è svolta una cerimonia solenne di presentazione ed inaugurazione del Departamento Investigaciones Antimafia, nato sul modello italiano della Direzione Investigativa Antimafia, la DIA.
Nonostante il nome e il chiarissimo legame con l’Italia, il focus della DIA Argentina non sarà soltanto sulle consorterie mafiose, tra cui ovviamente la ‘ndrangheta calabrese, protagonista del narcotraffico globale e dunque presente in America latina, inclusa l’Argentina.
Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia
Il nuovo dipartimento antimafia, infatti, esiste già da oltre un anno ed è stata la risposta più o meno concertata dei paesi latinoamericani a una serie di emergenze, incluso l’omicidio di Marcelo Pecci, pubblico ministero paraguayano ucciso nel maggio 2022 e che, tra le altre cose, aveva indagato anche sui rapporti di ‘ndranghetisti con trafficanti locali. Per l’omicidio di Pecci, a indagini ancora in corso, si è arrivati persino a sollevare l’immunità parlamentare di Erico Galeano, in Paraguay, per i presunti legami tra questi e il gruppo che avrebbe ucciso il pubblico ministero. Insomma, si tratta di criminalità organizzata particolarmente sofisticata e protetta dall’alto.
‘Ndrangheta in Argentina: la Santa a Buenos Aires
Ma la decisione di creare questo organo investigativo a Buenos Aires aveva anche due altre ragioni. Primo, in Argentina risiede il maggior numero di italiani all’estero, al pari o poco sopra gli Stati Uniti d’America (contando anche le seconde generazioni per esempio). Secondo, riporta il quotidiano La Nación, la decisione sarebbe arrivata dopo che uno dei capi dell’Arma dei Carabinieri italiana avrebbe rivelato che proprio in Argentina si sarebbe svolta la prima riunione della “Santa” fuori dall’Italia.
Italo-argentini sfilano per le strade di Buenos Aires
Una riunione in Argentina implicherebbe forse un ruolo di “tramite”, di “frontiera” riconosciuto agli ‘ndranghetisti in America latina che va un po’ oltre quello che si sa della presenza mafiosa italiana in queste terre. Oppure si potrebbe trattare soltanto di un ruolo di convenienza, proprio per l’assenza di densità mafiosa locale (meno concorrenza, meno disturbo) e per la mancata attenzione delle forze dell’ordine ai fenomeni criminali di questo tipo.
Non solo ‘ndrangheta: la Dia argentina
Fatto sta che la DIA argentina è la prima unità antimafia a nascere in America latina. Con oltre 60 agenti, fa capo alla Sovrintendenza alle Investigazioni della Polizia Federale e mira a perseguire non solo la ‘ndrangheta, ma anche altre organizzazioni para-mafiose (si menzionano le triadi della mafia cinese) che operano nel paese.
Ci sono già delle prime operazioni in cui l’unità ha riscosso successo. Nel luglio dell’anno scorso dieci persone sono state arrestate con l’accusa di aver commesso una truffa milionaria ai danni dell’aziendaTarjeta Naranja, mediante falsi acquisti. Ad agosto di quest’anno agenti della DIA hanno fatto irruzione in diversi uffici e abitazioni legati alla società Crypto CoinxWorld sia a Buenos Aires e provincia che a Santa Fe. L’azienda è stata denunciata per aver messo in atto schemi fraudolenti di tipo “piramidale”.
Una filiale dell’azienda truffata
Dunque, il focus della DIA in Argentina al momento appare molto ampio. E la ‘ndrangheta? Nel novembre del 2022, gli agenti dell’unità antimafia hanno portato a compimento l’arresto di Carmine Alfonso Maiorano in una località vicino a Buenos Aires. Originario di Cosenza, secondo I-CAN, il programma di scambio e cooperazione internazionale contro la ‘ndrangheta creato dall’Italia a mezzo di Interpol, Maiorano era associato o comunque facilitatore di clan calabresi ed era ricercato dal 2015 in seguito all’operazione Gentlemen della DDA di Catanzaro contro i clan della Sibaritide. In questo caso quindi, la DIA argentina ha agito da tramite dell’Italia via Interpol.
Cocaina e facilitatori
Bisognerà ovviamente aspettare per valutare l’operato di questa unità speciale antimafia. Nel frattempo sarebbe opportuno che si facesse chiarezza sull’effettiva presenza della ‘ndrangheta in Argentina, per evitare di partire col piede sbagliato. Sicuramente non si parte bene se una persona come Maiorano viene definito “capo-maximo” della ‘ndrangheta dai giornali a seguito del suo arresto.
Per i giornali in Argentina, Maiorano è un “capo-maximo” della ‘ndrangheta
Che esistano cellule di ‘ndrangheta in Argentina non è cosa nuova. Lo ha confermato anche di recente l’operazione Magma (2020) coordinata dalla DDA di Reggio Calabria. Sono emersi gli interessi sudamericani dei clan sia per quanto riguarda la cocaina sia per quanto riguarda la presenza di facilitatori – avvocati, imprenditori – che possono aiutare i latitanti (si pensi a Rocco Morabito, arrestato in Brasile e facilitato, tra gli altri, da un avvocato italo-argentino, Fabio Pompetti, proprio a Buenos Aires) e consigliare su investimenti locali.
A Buenos Aires per gli accordi
La cocaina è ovviamente ciò che più attrae i clan in Sudamerica e anche in Argentina. Ce lo ha raccontato, tra le altre, Operazione Santa Fe, della DDA di Reggio Calabria nel 2015. Riguardava un traffico di cocaina dalla Colombia alla Spagna organizzato e partecipato dai Bellocco, dagli Alvaro e altri clan di ‘ndrangheta.
Nella sentenza di Santa Fe del 2017 si legge che in data 06.09.2014, Vincenzo Alvaro, che commissionava la partita di cocaina, si sarebbe imbarcato da Lamezia, via Roma, alla volta di Buenos Aires per incontrarsi con un intermediario montenegrino, secondo accordi presi laggiù da Angelo Romeo. Buenos Aires era, appunto, il luogo dove si facevano gli accordi per il resto della regione.
Parte della cocaina – circa 150 kg – sequestrata in Operazione Santa Fe
Come dichiarato da Giuseppe Tirintino durante un’interrogatorio: «Poi noi parlavamo con le diverse famiglie, chi voleva investire e stabilivamo il quantitativo del lavoro che si doveva fare. … Il 90% delle volte qualcuno di noi andava là sul posto, in Argentina, Uruguay, o Brasile, da dove doveva partire il lavoro per vedere con i propri occhi che le persone erano fattibili per fare il lavoro, magari controllare la merce; una volta che la persona era andata là in Sudamerica e aveva visto che era tutto a posto, dava l’ok qua in Italia per consegnare i soldi».
Lo schema non riguarda solo l’Argentina, dunque, ma in Argentina trova terreno fertile anche per via di quelle che comunemente vengono chiamate le rotte “controintuitive” del narcotraffico, cioè rotte meno bazzicate, meno rischiose.
La ‘ndrangheta di Siderno in Argentina
Oltre alla cocaina, come già detto, in Argentina vivono alcuni facilitatori per i calabresi ‘ndranghetisti, come ci ha raccontato Operazione Magma.
Ma per quanto riguarda la “struttura” della ‘ndrangheta in Argentina, si può ipotizzare che molto sia ancora rimasto sommerso. Infatti, già nel 2012, in Operazione “Falsa Politica”, coordinata dalla DDA di Reggio Calabria, si vede come proprio l’Argentina fosse già crocevia di incontri e interessi dei clan, e non di clan qualsiasi, ma di quelli della Locride, di Siderno, e dunque delle loro propaggini internazionali.
Giuseppe “U Mastru” Commisso
Diceva Antonio Macrì durante un interrogatorio: «Premetto che vado spesso in Argentina; in occasione dell’ultimo mio viaggio Commisso Giuseppe ha insistito per venire con me perché voleva trovare i suoi avi argentini; il periodo era aprile 2010; in tutto siamo stati insieme sei giorni; con me c’erano tanti miei amici di New York, tutti oriundi calabresi, poi si è aggiunto anche un “canadese” tale Commisso Francesco che vive da tanti anni in Canada, mi pare che abbia un fratello detenuto, poi un mio amico di Vibo tale Ioppolo Nicola, imprenditore; abbiamo alloggiato tutti nell’Hotel Santa Rosa nella pampa argentina». Francesco Commisso, alias “Ciccio di Grazia”, già conosciuto alle cronache,è cugino di Giuseppe Commisso, capo della ‘ndrangheta sidernese, conosciuto come U Mastru.
Doppia anima
Ancora Calabria-Europa-America, il brand dei Sidernesi. Laddove spesso diventa noto lo ‘ndranghetista che dalla Calabria fa viaggi verso l’estero, meno noto è spesso cosa effettivamente faccia una volta all’estero. È ipotizzabile che se ‘ndranghetisti di rango elevato come Giuseppe Commisso vanno in Argentina, incontreranno persone di Siderno e dintorni che sono emigrate in Argentina e che si mostrano, consapevolmente o meno, vicine ad ambienti mafiosi. Sapere come si compongono e nutrono le reti di appoggio all’estero rimane la priorità e dovrebbe essere il primo interesse delle autorità straniere, proprio come la DIA argentina, poiché sono queste reti a supportare e attrarre la resistenza del fenomeno.
Buenos Aires
La dichiarazione di Antonio Macrì, infatti, conferma anche un’altra profondissima verità nella ‘ndrangheta odierna: l’esistenza non tanto di una ‘ndrangheta globale, ma di una ‘ndrangheta che si sposta all’interno di paesi migranti, come molti in Calabria, a doppia anima: a casa e all’estero.
Sono le reti dei paesi quelle che più facilmente nascondono – spesso involontariamente – i movimenti mafiosi (non sono le uniche). E in Argentina, queste reti sono parte integrante del tessuto sociale nazionale e dunque creano ancora più possibilità di ingresso e movimento dei capitali mafiosi. Ha tirato finora davvero aria buona a Buenos Aires, anche per la ‘ndrangheta.
Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.
Una Fiat 3½ HP
Otto macchine sulle strade calabresi
Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.
Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
Calabrie per stranieri e viaggiatori
Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.
Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.
Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.
Addio Grand Tour
Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.
Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.
La Guida Touring del 1940
Granturismo Calabrie
Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.
Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.
Bernard Berenson a “I Tatti” sulle colline fiorentine
Calabria, Berenson e il diario
Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.
Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.
Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria
Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.
Piazza Parrasio nel centro storico di Cosenza in una foto d’epoca
I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.
L’amico di Marcel Proust
Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.
Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».
Old Calabria
Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.
Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.
Le bandiere blu ante litteram
Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.
I Berenson da giovani
Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.
Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.
Il reportage di Berenson sulla Calabria
Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.
Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.
La Calabria che non c’è più
Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».
Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».
L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.
Tempi di mezzo
Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».
Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.
Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.
Prima della cementificazione
E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».
Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».
Una parte della spiaggia nel territorio di Praia a Mare
Praia a Mare: fine del viaggio
L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».
Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.
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