Categoria: Rubriche

  • SPORTELLATE | Derby noiosi, tagliagole e regali di troppo

    SPORTELLATE | Derby noiosi, tagliagole e regali di troppo

    L’analisi del derby Cosenza-Reggina (0 a 1) a due giorni di distanza dal triplice fischio finale, più che aggiungere elementi nuovi alla narrazione, rischia di trasformarsi in un esercizio di stile retorico fine a sé stesso. Proverò a non cadere nella trappola dicendo subito ciò che probabilmente venerdì sera avrà pensato un calabrese su due: la partita è stata brutta, bruttissima, come quasi tutte quelle di una categoria, la B, che da circa un ventennio a questa parte, viene definita una A2 da esperti del settore, o pseudo tali, privi di fantasia. Come se la serie A, poi, fosse un campionato di fenomeni, con De Sciglio e Bernardeschi titolari della Juve e una marea di 40enni che dettano legge sotto porta.

    coreografia_cosenza_derby
    La splendida coreografia dei tifosi del Cosenza nel derby

    Al “San Vito-Marulla” l’altra sera il clima era ideale per una sfida d’altri tempi. Piovigginava senza fastidio, i gradi erano una quindicina e sugli spalti lo show offerto dai paganti era – quello sì – di categoria superiore. Tutto questo avrebbe meritato giocate d’alta scuola e divertimento. Invece no. La squadra più forte ha vinto senza dannarsi l’anima, mentre chi ha perso non lo ha fatto a testa alta. Anzi.

    Un vincitore, due delusioni

    D’altronde, che la direzione dell’evento fosse questa si era capito già alla vigilia della partita guardando in faccia i due allenatori. Da una parte Aglietti, sicuro dei fatti suoi a tal punto da strapazzare pubblicamente uno come Jeremy Menez («È fuori dai radar»). Dall’altra Zaffaroni, pensieroso e teso come una corda di violino ancora prima di aprire bocca.
    Insomma, due conferenze stampa le loro più rivelatrici di quelle messe in scena nel dopo gara. Eppure, nonostante sia emerso un vincitore, entrambe hanno deluso.

    Certo, criticare una squadra come la Reggina (22 punti e vetta della classifica assaporata per qualche ora) sarebbe da folli. Ma da una rosa come quella amaranto, che può permettersi di snobbare uno come Menez, sarebbe stata gradita una recita migliore. Anche perché di fronte aveva un Cosenza piccolo piccolo. Senza la difesa titolare, con una mediana incapace di fare più di due passaggi di fila e un attacco abbandonato al suo destino.

    Rossoblù e amaranto

    Approfondendo un po’ il discorso sui rossoblù, lascia perpless il cambio di mentalità delle ultime settimane, da propositivo a totalmente rinunciatario. A fine agosto il ds Goretti e Zaffaroni sostenevano che il vero Cosenza sarebbe venuto fuori tra la metà di ottobre e i primi di novembre. Fino a quel momento, dunque, bisognava arrabattarsi alla meno peggio. Invece, a novembre i Lupi ci sono arrivati rimpiangendo il mese e mezzo precedente quando lo stile della manovra era nettamente più ragionato. Non si tirava a campare di palle lunghe e pedalare e la saggezza tattica di Palmiero (voto 5), in coppia con Carraro, permetteva di immaginare un futuro migliore. Ovviamente non è ancora il caso di spaventarsi.

    Per chi avesse la memoria corta, c’è da rammentare come un mantra l’inizio di stagione ad handicap e le assenze pesanti dei vari Vaisanen, Tiritiello, Boultam, Bittante, Eyango e Anderson. A volte, però, pur riconoscendo l’ottimo lavoro svolto da Zaffaroni (voto 5,5), viene il dubbio sul perché si debba insistere su certe scelte. Vedi Corsi a sinistra, Gerbo centrocampista e non esterno destro (suo ruolo, ben interpretato, negli ultimi tre anni) e Millico in campo una manciata di minuti.

    reggini_derby
    I tifosi della Reggina al San Vito-Marulla

    Tornando alla Reggina, l’ha spuntata con esperienza, solidità difensiva e compattezza tra reparti. Un po’ meno con la fantasia, lasciata a farsi esami di coscienza in panchina (e non mi riferisco al solo Menez). La squadra ha mantenuto con facilità il possesso palla rendendosi pericolosa quasi mai. Questo a conferma che lì davanti, nonostante i grandi nomi, non tutto fila come dovrebbe. I tredici gol in campionato sono poca roba se si vuole puntare in alto. Ecco perché fa bene Aglietti (voto 6,5) a non esaltarsi troppo. La strada che avvicina la città al ritorno in serie A non è ancora così delineata come qualcuno, tra i soliti esperti del settore o pseudo tali, vorrebbe far credere.

    Il tagliagole

    Due dei tredici gol reggini stagionali li ha messi a segno Adriano Montalto, match winner del derby e titolare poco fisso di Aglietti. Che, però, quando vede il Cosenza si rianima. Due anni fa, con la maglia del Venezia, fu protagonista di un siparietto nervoso con il portiere dei silani Pietro Perina. Rigore realizzato ed esultanza non apprezzata dall’avversario, con tanto di rissa sfiorata. In quell’occasione l’attaccante di Erice, provincia di Trapani, disse che il gesto di mimare uno sgozzamento dopo un gol gli appartiene da sempre. Non è un caso che il suo soprannome sia proprio il “tagliagole” (contento lui). Al “San Vito-Marulla” lo ha riproposto sotto il settore dei suoi sostenitori.

    Voto 7,5 alla coerenza del killer.

    I presidenti

    Nel post derby si sono rivolti ai rispettivi popoli. Luca Gallo con un tweet, Eugenio Guarascio con una nota stampa. Il patron amaranto ha sottolineato il successo storico della Reggina a Cosenza a vent’anni dopo l’ultima volta: rete di Bogdani al San Vito e promozione in serie A a fine stagione. «Un’altra pagina di storia – ha cinguettato – da regalare alla tifoseria» che lo ama.
    L’imprenditore lametino ha ringraziato la città, che non lo sopporta, per aver «regalato un grande spettacolo alla Calabria intera» e alle sue tasche (8.506 spettatori).
    Ruffiani entrambi, con le dovute differenze di linguaggio e di ambizioni.

    guarascio_derby
    Il neo sindaco di Cosenza Franz Caruso con Eugenio Guarascio e il suo collega reggino Giuseppe Falcomatà al San Vito
    Voto 6 ai regali che ognuno può permettersi di fare.
    Crotone triste ma ancora vivo

    Se si parla di regali, non si può evitare di pensare anche al Crotone. Prima della sfida dello “Scida” contro il Monza bello senz’anima di Berlusconi e Galliani, parlando con i cronisti Pasquale Marino (voto 6,5) aveva deciso di partire dalle basi: «Le vittorie bisogna cercarle, non arrivano da sole». Un’ovvietà gigantesca che, però, sarà stata trasferita ai suoi calciatori con un tono di voce da attore consumato. Le conseguenze si sono viste in campo. Soprattutto nel secondo tempo: gioco arrembante, azioni da gol e, soprattutto, tanto cuore. Peccato soltanto (e qui ritorna il tema dei regali) per l’immancabile incertezza difensiva che ha permesso ai brianzoli di passare in vantaggio con Colpani.

    donsah
    Donsah del Crotone esulta dopo il gol del pareggio

    Il gol del definitivo 1 a 1 di Donsah (voto 7) a pochi passi dal 90’ è stato accolto come una liberazione, ma resta l’amarezza per una partita giocata alla grande e non vinta. La classifica resta deficitaria e piccoli passi e complimenti nel calcio non servono a niente. In casi come questo, per non buttare tutto a mare e lasciarsi mangiare dalla depressione, l’unica cosa da fare è affidarsi ai progressi che, almeno questa volta, non sono stati pochi. Uno su tutti, il cambio di modulo. Il 4-3-3 con cui i pitagorici si sono opposti alla squadra dell’ex Stroppa ha fatto capire che la difesa a tre proposta testardamente da Modesto era un’idea sbagliata. Per strada si sono persi punti e sicurezze che il tecnico di Marsala dovrà ora recuperare alla velocità della luce. Ha l’esperienza e il carisma per farlo. Ma ancora non è chiaro se il giovane materiale umano a sua disposizione saprà seguirlo fino in fondo.

    Il Catanzaro stavolta esulta

    Chiudo con la serie C. La prima notizia che mi va di dare è la seguente: la maledizione della mancata esultanza dopo un gol del Catanzaro si è interrotta. Dopo il no ai festeggiamenti di Cianci contro il suo Bari e di Curiale in Coppa contro il Palermo, oggi i calciatori giallorossi hanno riassaporato il gusto della gioia alla Tardelli. Contro il Messina (2 a 0 il risultato finale di una gara iniziata in ritardo per la presunta positività al Covid di un peloritano) a sbloccare l’incantesimo ci ha pensato Carlini (voto 7), seguito a ruota da Vandeputte (6,5). Palla in rete e urla, abbracci e testa alta.

    La seconda notizia è il ritorno al successo in campionato delle Aquile. Meritato, anche se la prestazione, specie in fase di impostazione, non è stata indimenticabile. Contava solo vincere per riagguantare il secondo posto perso in terra pugliese una settimana fa. Obiettivo raggiunto anche grazie alla Vibonese che sabato in casa ha bloccato sul pareggio (1 a 1) il Monopoli, avanti tre punti sui giallorossi. Nelle ultime sei partite, i ragazzi di D’Agostino (voto 6 per non essersi fatto condizionare dai malumori dell’ambiente) hanno raccolto una vittoria, una sconfitta col Palermo e quattro pareggi. Pensando a com’erano partiti, c’è da tirare un sospiro di sollievo. Non lunghissimo però. Se i segnali positivi emersi di recente non sono ancora bastati a lasciare i bassifondi del girone, vuol dire che alla base c’è un progetto fallimentare (voto 4 a chi prometteva una annata esaltante). Da salvare con ogni mezzo a disposizione.

  • BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    BOTTEGHE OSCURE | Chiuso un “Tanninu” si apre una Legnochimica

    Sono due i ricordi che la maggior parte dei cosentini di una certa età collega alla parola tanninu”. Il primo è la grande vasca d’acqua nella quale venivano raccolti gli scarti di lavorazione, ma che i ragazzi dei quartieri di Casali, Massa, Garruba, Spirito Santo utilizzavano per fare il bagno e fronteggiare la calura estiva. C’è persino chi in quella vasca imparò a nuotare.

    Cosenza, 1949. In basso a destra gli scivoli tra la stazione e la fabbrica (foto Stenio Vuono)

    Il secondo ricordo riguarda il suono deciso della sirena che scandiva i turni di lavoro dello stabilimento. Inevitabilmente, finiva per segnare i ritmi della vita quotidiana nei quartieri al di qua e al di là del fiume Crati. La sirena prima di andare a scuola, la sirena di mezzogiorno per “calare la pasta” e così via.

    La parola “tannino” si ricollega invece con una certa difficoltà al disastro ambientale connesso alla ex Legnochimica di Rende. Lì dove “u tanninu” si era spostato negli anni ’70 seguendo l’espansione a nord della città.

    “U tanninu”, ieri fiore all’occhiello oggi solo degrado

    Ma cos’era “u tanninu”? Oggi esempio eccezionale di archeologia industriale – da decenni nel degrado più totale – con i suoi capannoni che ricordano una cattedrale in rovina e la sua alta ciminiera in mattoni che reca ancora la data 1906. Rappresentò fino al 1970 circa una delle punte di diamante dell’industria locale, sia per quanto concerne i livelli di produzione sia per il numero di operai impiegati.

    L’interno del tannino trasformato in segheria (foto Mario Magnelli)

     

    Il liquido utilizzato per conciare le pelli

    Il nome richiama l’acido tannico che vi veniva prodotto attraverso un procedimento di estrazione dal legno di castagno, che ne contiene in natura una quantità significativa. Il legno veniva essiccato e, dopo diversi passaggi, era possibile estrarne il tannino. Poi veniva commercializzato inizialmente allo stato liquido all’interno di botti in legno e, successivamente, in polvere dentro appositi sacchi. Il tannino estratto veniva usato soprattutto nell’attività di concia delle pelli per la realizzazione di oggetti in cuoio e restò un elemento essenziale per il settore artigianale finché non si riuscì a sintetizzarlo chimicamente. 

    La vecchia fornace (foto Dalena Mmasciata 2016)
    Le cataste dei tronchi e la ferrovia

    A dispetto della marginalità odierna la posizione della fabbrica di Casali era fortemente strategica. Proprio a monte dello stabilimento era posta la stazione delle ferrovie Calabro-Lucane di Cosenza-Casali e questo garantiva l’approvvigionamento quasi sul posto della materia prima. I tronchi di castagno venivano trasportati tramite treni-merci e scaricati alla stazione di Casali. Da qui, attraverso un apposito sistema di scivoli, era possibile indirizzarli direttamente nel piazzale della vicina fabbrica.

    Per chi arrivava in zona, insomma, le alte cataste di tronchi di castagno disposte nei pressi della struttura erano, al pari della ciminiera, parte integrante del paesaggio. Ma non solo. Attorno alla fabbrica del tannino ruotava un significativo indotto. Col tempo sorsero nelle vicinanze anche delle case per gli operai e, tramite la ferrovia, la manodopera affluiva da numerose località del circondario. Tutto ciò era affidato alle cure della famiglia Merola, di origini francesi, giunta a Cosenza appositamente per gestire il tanninificio. 

    “U tanninu” diventa Legnochimica

    La società “TANCAL, Tannini di Calabria”, derivata dalla società francese “Rej et Fils” e che diede avvio alla produzione nel 1906, restò attiva fino agli anni ’50 con una significativa capacità produttiva raggiungendo le 2000 tonnellate annue di estratto. Nel 1954 venne ceduta alla società “LEDOGA” e così continuò a lavorare fino alla fine degli anni ’60, quando intervenne la chiusura dello stabilimento.

    La vecchia ciminiera con la data di costruzione della fabbrica

    La società ambiva ormai a realizzare una moderna struttura a Rende, che impiegasse moderni metodi di produzione e radunasse in essa più strutture in un nuovo assetto societario. Nasceva così la Legnochimica. Dopo il trasferimento dello stabilimento nella zona industriale di Rende, l’enorme struttura posta tra Casali e il fiume Crati venne utilizzata in parte come sede di una azienda di comunicazioni, e in parte come segheria e deposito di materiali di vario genere ancora per alcuni decenni. Oggi versa in uno stato di più completo abbandono.

    Le segherie in Sila

    All’alba del Novecento l’industria forestale era tra le più floride nella provincia di Cosenza, potendo contare su una serie di segherie in Sila che sorgevano in baracconi posti lungo le rotabili e che dalla primavera all’autunno lavoravano a pieno regime. I boscaioli o “mannesi” – forse per via della “mannaia” adoperata – erano addetti all’abbattimento e alla squadratura del legname che veniva accatastato e – prima dell’avvento della ferrovia – trasportato a Cosenza con traini tirati da muli. All’epoca circa il 25% dell’intero territorio provinciale (oltre 660mila ettari) era coperto da boschi. Il castagno faceva da padrone con oltre 14mila ettari che assicuravano una resa di circa 15quintali per ettaro e facevano balzare la provincia di Cosenza al secondo posto in Italia dopo quella di Genova. Ma dal 1906 buona parte del legno di castagno proveniente dal versante cosentino della Sila cominciò a essere assorbita dalla nascente industria estrattiva.

    Tannins di Cosenza

    Tannino si chiamava l’acida molecola che strappava il legname alle foreste silane dando il nome a una fabbrica, lavoro alle genti e pane alli Casali. Il 23 novembre 1906 Agostino Imard le directeur della pregiata Société Nouvelle de Tannins della “Rej et Fils” con sede a Marsiglia presentò alla Prefettura di Cosenza l’incartamento per la registrazione del marchio. Il fondo “Marchi e Modelli” dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma ci permette di conoscere la descrizione del logo originale. Un logo che campeggiava sulle prime etichette appiccicate sulle confezioni di estratti di materie tannanti e coloranti: «Impronta costituita da due triangoli equilateri incrociati in modo da formare una stella a sei punte, nel cui mezzo spiccano le iniziali S. N. T. Completa il marchio l’iscrizione intorno Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza».

    Registrazione marchio Société Nouvelle de Tannins Estraits de Cosenza_1906 (Foto @Archivio Centrale dello Stato)

     

    Il secondo opificio a San Vincenzo La Costa

    Nei primi anni di attività l’opificio francese di Casali si dimostrò capace di lavorare oltre 15mila metri cubi di legname all’anno. Le grandi potenzialità del legno di castagno a fini estrattivi furono sfruttate dalla Società Italiana per l’Acido Tannico. Nel 1907 decise d’impiantare a Gesuiti di San Vincenzo La Costa un secondo grande opificio, capace di trasformare 5mila metri cubi di legname all’anno.

    Brucia la fabbrica

    «Violentissimo incendio a Cosenza» titolava L’Avanti il 9 settembre 1914. Nel grande opificio francese il rischio d’incendi era all’ordine del giorno. A causa della disattenzione di qualche operaio il giorno prima era andata a fuoco l’intera officina per la fabbricazione delle botti nelle quali veniva conservato l’acido tannico destinato all’esportazione. Le fiamme divamparono inghiottendo buona parte della struttura e i vigili del fuoco e la truppa impiegarono diverse ore prima di estinguerle. L’episodio provocò la chiusura dello stabilimento per alcune settimane, la mobilitazione e il ritorno in patria di tutti gli operai di nazionalità francese.

    Gli stessi che per mezzo di una propria rappresentanza si dissero preoccupati per le condizioni di lavoro nell’opificio cosentino. A stretto contatto con estratti e coloranti nocivi per la salute, e quasi sempre senza alcuna forma di cautela e tutela, presto la maggior parte degli operai francesi chiese il trasferimento a Marsiglia anche se una rappresentanza transalpina continuò a esistere fra gli estrattori almeno fino a tutti gli anni ’30. 

    Le zanzare killer del Crati

    Ma i veri nemici degli operai del tannino, come di quelli che sulla sponda opposta del Crati erano addetti alla colorazione chimica delle “cementine” sfornate nella Mancuso&Ferro, erano le zanzare. Il rione Casali, con l’opificio francese che sorgeva a pochi passi dalla ferrovia, si trovava in piena “zona malarica”. Spinti dal vento e dalla necessità di trovare nutrimento, gli anofeli portatori della “dea febbre” infestavano le numerose pozze d’acqua stagnante e lurida, prodotto delle lavorazioni industriali.

    I lavoratori contraevano il “mal d’aere” e spesso ne morivano. Per effetto della legge del 19 maggio 1904 ogni titolare di opificio era stato obbligato alla somministrazione del chinino di Stato all’interno della propria fabbrica. A fine epidemia ciascun imprenditore sarebbe stato indennizzato dal Comune – e quest’ultimo dallo Stato – della cifra investita nell’acquisto di dosi del prezioso farmaco. A gestire per molto tempo la chinizzazione per bocca degli operai a scopo preventivo fu il dottor Antonio Rodi, direttore del dispensario di Caricchio. 

    L’operaio francese che giocava bene a calcio

    Tra gli operai impiegati nella catena estrattiva dell’acido tannico dal legno di castagno nell’opificio di Casali c’era un francesino che giocava bene al calcio e che di lì a poco avrebbe fatto parlare di sé. Si chiamava Ettore Chenet e proveniva da Prato. Incerte le sue origini, introvabile la fotografia. Francesco Magnini in Bandiera biancazzurra scrive: «Determinante alle spalle delle punte la tecnica di Ettore Chenet, un nome da opera pucciniana. Di questo centrocampista non è rimasta certa la provenienza e nemmeno il destino. Pare fosse di passaporto francese ma di lui raccontano fosse rimasto in città come meccanico dopo aver svolto il servizio militare a Prato (alquanto strano per un francese)». Chenet giunse a Cosenza nella seconda metà degli anni ’20 e, forse con un contatto già in tasca, trovò subito impiego nell’opificio francese.

    Di mattina al Tanninu, nel pomeriggio in campo

    Di mattina in fabbrica e di pomeriggio a sciorinare dribbling su uno di quegli sterrati ai margini della città di allora, quando l’“Emilio Morrone” era ancora un sogno. Crepas, Recanatini, Fresia, Solbaro, Chenet… erano i “pilastri” della formazione del Cosenza Football Club che il 27 novembre 1927 pareggiò con il risultato di 1-1 con il Dopolavoro di Taranto. Pur non entrando nell’azione del momentaneo vantaggio bruzio siglato da «Recanatini su passaggio di Fresia che fece riposare la palla nell’angolo sinistro» il ragazzo, che partita dopo partita si era guadagnato i gradi di capitano, si distinse per «piedi buoni e intelletto da vendere».

    La fabbrica dove si produceva il tannino come si presenta oggi
    Il crollo delle commesse e la fine del Tanninu

    Proprio al tempo in cui l’operaio Chenet custodiva le chiavi del centrocampo bruzio il tanninificio di Casali realizzò il proprio record di produzione: 5 mila metri cubi al mese! Ma nel 1932 a causa del crollo delle commesse e delle mancate esportazioni negli Stati Uniti d’America dovute alla sostituzione del tannino con altri preparati chimici, la produzione si era già drasticamente ridotta segnando praticamente l’inizio della fine del glorioso opificio bruzio. 

  • SPORTELLATE | Poker di sconfitte in campo, vincono solo i tifosi

    SPORTELLATE | Poker di sconfitte in campo, vincono solo i tifosi

    Novembre non poteva iniziare nel modo peggiore per le squadre calabresi:poker di sconfitte e ritorno sulla terra soprattutto per Reggina e Cosenza, reduci in settimana da due vittorie niente male con Perugia e Ternana. Il Crotone, invece, pur cambiando guida tecnica, ha mantenuto il suo passo lento, tanto da collocarsi al terzultimo posto in classifica con appena sette punti in undici partite. Infine il Catanzaro: a Bari si giocava il primo posto e l’idea di un torneo diverso dal solito. È andata male e Cianci ha pure chiesto scusa per aver segnato un gol.

    Amaranto stanchi psicologicamente

    L’entusiasmo a volte fa male. Non so se sia stato questo il limite odierno della Reggina, sconfitta a sorpresa al “Granillo” dal Cittadella 1 a 0. Di certo, lo spettacolo messo in mostra dagli amaranto non è stato all’altezza delle uscite più recenti. Nulla di grave, sia chiaro, ma resta l’idea che nella rosa a disposizione di Aglietti manchi ancora qualcosa – non troppo – per competere per la promozione diretta in serie A con le big del torneo. Vincere oggi avrebbe significato raggiungere, seppure solo per qualche ora, la vetta solitaria della classifica. Non averlo fatto probabilmente aiuterà ambiente e calciatori meno saggi a mantenere i piedi ben saldi a terra.

    reggina_frosinone_poker
    Una azione di gioco di Reggina-Frosinone

    A parziale giustificazione per il primo ko casalingo stagionale, c’è comunque da ricordare che in mezzo al campo (in un campo ancora una volta al limite della sopportazione) è mancata come il pane la regia di Crisetig. Ciononostante, la squadra ha creato diverse occasioni da gol sventate da un Kastrati in giornata di grazia. Aglietti ha parlato di sconfitta immeritata e di squadra stanca soprattutto psicologicamente. Non ha nascosto più di tanto le prove opache di Menez e Cortinovis (5,5 per entrambi) e ha evidenziato la bravura degli avversari. Insomma, pensando al derby di Cosenza di venerdì prossimo, da buon padre di famiglia ha cercato di non drammatizzare troppo. Sarà interessante adesso capire come risponderanno i suoi ragazzi alla prova di maturità del “San Vito-Marulla”

    Voto 4 all’occasione buttata al vento.

    Florenzi non si brucia

    Niente da fare, il Cosenza formato trasferta non funziona: cinque sconfitte su sei. Una cosa antipatica ma al tempo stesso prevedibile, molto più dei 13 punti su 14 conquistati fin qui al “San Vito-Marulla”. Al “Via del Mare” contro la corazzata Lecce dell’ex ds Trinchera (3 a 1 il risultato finale) si era partiti convinti di poter fare una gara migliore di Benevento. Invece, dopo pochi minuti di gioco era già chiaro come sarebbe andata a finire. A complicare il cammino, ci si è messo anche l’infortunio di Tiritiello (sostituito da Minelli, voto 4) che aggiunto a quello di Vaisanen, in appena un mese ha trasformato l’ottima difesa rossoblù in un ospedale calabrese, privo di risorse umane e strumenti adatti ad arginare le emergenze più elementari.

    Gori del Cosenza in azione a Lecce
    Gori del Cosenza in azione a Lecce

    Per il gusto della critica si potrebbe parlare di tante cose: dell’immancabile buco centrale sul primo gol subito (con la Ternana Mazzocchi, oggi Strefezza), di Palmiero che da un po’ non è Palmiero o dell’esclusione di Florenzi dall’undici di partenza per dare spazio allo svogliato Djavan Anderson (voto 5). Ma non credo sia corretto mettere sotto processo una squadra che finora ha fatto miracoli. Almeno non adesso.

    Giusto un appunto sul ragazzino ex Primavera però mi va di farlo: era reduce da una prestazione super con la Ternana e oggi, appena è entrato in campo, ha procurato il gol della bandiera di Caso, con tanto di tunnel da applausi a un avversario e sgroppata di quaranta metri palla al piede. All’ottimo Zaffaroni lo chiedo a bassa voce: non sarebbe il caso di farlo giocare sempre e comunque? Non credo proprio che si corra il rischio di bruciarlo.

    Voto 8 al tecnico milanese se mi accontenterà.

    Crotone beffato e malandato

    Non si poteva certo pensare che Pasquale Marino, chiamato in panchina al posto di Modesto, in appena due giorni cambiasse i connotati del Crotone (oggi modulo e uomini in campo sono stati più o meno gli stessi dell’era appena conclusa, anche perché le alternative o non ci sono o non sembrano all’altezza della situazione). Quindi perdere a Frosinone 2 a 1 in questo momento non era e non è assolutamente il problema principale. Certo, crollare al 94’ dopo essere anche passati in vantaggio con Maric (voto 6), fa rabbia. Soprattutto se si pensa al secondo tempo, giocato nettamente meglio del primo. La sensazione, però, è sempre la stessa: quella pitagorica è una squadra fragile mentalmente, con ottime individualità ma non abbastanza per affrontare al meglio un campionato complesso come quello di serie B.

    Pasquale Marino neo tecnico del Crotone
    Pasquale Marino neo tecnico del Crotone

    L’allenatore siciliano al suo arrivo in città era stato chiaro: «Non guardiamo la classifica, servono pazienza e tranquillità». Stasera, terminata la partita in terra ciociara, ha ripetuto più o meno lo stesso concetto, aggiungendo che non è mai semplice ripartire dopo una retrocessione come quella dell’anno scorso. «Bisogna ricreare entusiasmo – ha ribadito – facendo buone prestazioni». Che poi è proprio quello che manca. Il totale disinteresse mostrato negli ultimi mesi dai tifosi pitagorici verso le vicende che riguardano gli “Squali”, sembra infatti di difficile risoluzione. Senza il sostegno della gente, questa squadra piena zeppa di giovani rischia seriamente di affondare.

    Voto 6 al coraggio di Marino.

    Scuse da melodramma e bei gesti

    Sabato Bari-Catanzaro 2 a 1. Era l’attesissimo scontro al vertice, quattro punti di distacco, entrambe venivano da due brutte sconfitte. Antonio Calabro (voto 5,5) alla vigilia aveva provato a fare il Mourinho dei bei tempi: «Per noi è una gara come le altre. Quelli che devono vincere per forza sono loro”» Vabbè, non ci credeva neanche lui a questa cosa, ma doveva dirla. Ci stava. Così come ci sta il risultato finale, condizionato da un errore evitabilissimo di Fazio (voto 4) sul gol vittoria di Simeri. Un risultato che fa male al morale e allontana, chissà quanto irrimediabilmente, la promozione diretta delle “Aquile” in serie B.

    Quello che ci sta un po’ meno è l’esibizione melodrammatica di Pietro Cianci dopo aver realizzato la bella rete del pareggio giallorosso. Da barese purosangue ed ex di turno che pagherebbe per tornare in biancorosso, aveva detto «se segno al San Nicola non esulto». E ha mantenuto la promessa. Comprensibile, per carità. Però perché strafare con quelle scuse rivolte alla curva di casa? Che poi, invece di perdonarlo, lo ha fischiato sonoramente.
    Ecco, certe volte penso che quando questa storia del gol non festeggiato finirà – se finirà – forse il calcio inizierà ad essere una pratica più sana.

    Concludo con una pagellina per i tifosi del Catanzaro (voto 8) che nel viaggio che li portava verso Bari, hanno trovato il tempo e la voglia di fermarsi a Roseto Capo Spulico. Sul marmo che ricorda Denis Bergamini, simbolo dei rivali cosentini, hanno lasciato una rosa bianca avvolta dalla loro sciarpa. In un mondo conformista e ipocrita come quello pallonaro, non è un caso che siano sempre i “pericolosi” ultrà a mettere in scena rappresentazioni libere e spontanee.

    Voto 9 alle esultanze antipatiche e scomposte alla Pippo Inzaghi.

    Bar Sport Lucarelli

    Il mondo del calcio avrebbe bisogno di tanti Cristiano Lucarelli. Un toscanaccio che di costruito non ha niente, perché non ha paura di svelare la sua fede politica, perché le sue conferenze stampa sembrano cene tra amici e buon vino che non finiscono mai. E poi anche perché quando parla ti dà la possibilità di scegliere tra una ventina di titoli possibili per il tuo giornale.
    Gli allenatori di una volta erano così. Oggi, davanti ai microfoni e ai taccuini dei cronisti, quasi tutti annoiano e si annoiano.

    Il tecnico della Ternana Cristiano Lucarelli
    Il tecnico della Ternana Cristiano Lucarelli

    Dopo la sconfitta di Cosenza nel turno infrasettimanale, da ex bomber rossoblù il tecnico della Ternana aveva emozionato tutti ricordando Gigi Marulla. Due giorni fa, analizzando con più profondità la trasferta bruzia, ha detto questa cosa qui: «Ho ricevuto il messaggio di una persona su Messenger: mi diceva che mi ero venduto la partita di Cosenza. Onestamente mi dispiace. Gli ho anche risposto: vieni giovedì mattina alle 9.30 in un dato bar, che parliamo. Io al bar c’ero, lui non si è presentato».

    Voto 10 alle chiacchiere da bar, 2- a quelle da social.

  • IN FONDO A SUD | Le zucche vuote di Halloween, alla calabrese

    IN FONDO A SUD | Le zucche vuote di Halloween, alla calabrese

    «Halloween è ormai alle porte», sta scritto un po’ dappertutto. Ma si può cordialmente detestare Halloween? Sì, prima di tutto, considerando una serie di ragioni antropologiche. Le stesse che ce lo impongono oggi come un evento improrogabile alla stregua del Natale, frutto com’è della globalizzazione dei costumi, e dei consumi. Così anche in Calabria.

    Il calendario di Google

    Era il Giorno dei Morti, e non era un giorno allegro; si andava nei cimiteri a portare fiori sulle tombe dei defunti, non in discoteca né ai party in maschera. In tempi di confusione globalizzata e dissacrazione spinta, la celebrazione del giorno dei morti è diventata una non meglio identificata “festa tradizionale di tutte le cose ultraterrene”, “la festa del lato oscuro” (Google). In questi giorni si scatena di tutto, con preferenza per il cattivo gusto, l’orrifico e l’apologetica per il macabro, la violenza, la crudeltà.

    Morti per soldi

    Non è un segreto che la morte e il dolore (quantunque la lunga crisi pandemica ce li ricordi ogni giorno) siano oggetto della grande rimozione dell’Occidente. Perciò “Day of Death”: dal giorno dei morti al giorno della Morte. Ovvero feste e business, al posto della compassione, del silenzio e delle preghiere, dei fiori e delle visite ai defunti, in nome di un laicismo banale e di un economicismo ormai privo di finalità umanizzatrici.

    Le teste di morto della Marshall

    In giro per il mondo la moda correlata ad Halloween pretende in qualche caso di elevarsi ad arte. Basta “trarre ispirazione dal lato oscuro”, come la pittrice e “designer” Dionne Marshall. Autrice di una serie variegata di “teste di morto” a tema Halloween e di organi asportati e sanguinolenti (sic!). Niente di speciale fin qui. Ma la Marshall si è fatta un nome nell’arte contemporanea “creando” la sue opere d’arte -“punctured arctefact”-, con tatuaggi su pelle (di chi?) che lei offre al pubblico ben conciati e messi graziosamente in cornici e telaietti da cucito, esattamente come faceva con la pelle delle sue vittime umane il serial killer de “Il silenzio degli innocenti”. Oggettini d’affezione che certo tutti vorremmo esibire sulle pareti del nostro tinello. Pare comunque che vadano a ruba tra i collezionisti.

    La pittrice e designer Dionne Marshall
    Il business di Halloween vale 300 milioni 

    Tutto fa brodo, specie in tempi di crisi del turismo. Dopo la riapertura, il business di Halloween fa gola a molti. Dalle palestre, ai supermercati, ai teatri e ai parchi di divertimento, non si salva nessuno da questo «appuntamento con la festa che è entrata nell’immaginario collettivo degli italiani» (Panorama). Nonostante i consumi in frenata, con le famiglie italiane che ancora limitano del 20% il carrello delle spesa al supermercato per colpa della crisi pandemica, l’Halloween-mania in Italia è diventato in pochi anni un business da 300 milioni di euro (stime CIA). Ognissanti ormai è una festa demodé anche nei paesi e nelle regioni del Sud, Calabria compresa.

    Halloween di Calabria 

    Anche nella regione delle processioni sotto casa e dei santi di paese come san Francesco di Paola, san Nilo da Rossano, san Bartolomeo da Simeri, san Cipriano di Reggio, san Ciriaco di Buonvicino (ma l’elenco santo/paese sarebbe molto più lungo e rappresentativo dell’intera Calabria), oramai la notte del 31 ottobre si “festeggia” dal Pollino allo Stretto nelle forme di un ininterrotto “carnevale dark”, nel trionfo di feste a tema tra costumi da zombie e zucche intagliate. “Il ponte dei Morti” passa così dai cimiteri alle vacanze low cost per famigliole a pensione tutto compreso.

    Dolcetto o scherzetto? No, solo le produzioni dolciarie di una nota pasticceria di Cosenza
    I soliti pacchetti vacanza…in agriturismo

    La rete offre lo specchio di una sorta di sgangherato divertimentificio da prezzi di bassa-stagione che trascorre tra discoteche e notti goderecce, in cui si ricicla l’offerta con pacchetti vacanza tutto-compreso per celebrare degnamente la “notte dei morti viventi”. Fioccano i last minute nostrani, a prezzi stracciati per il “weekend dei morti”; tipo “Halloween al mare a Tropea con famiglia”, “Festa di Halloween in agriturismo a Serra san Bruno”.

    Le allegre famiglie Addams calabresi

    Tutto perfetto per le allegre famiglie Addams calabresi-medie: “Volete sorprendere i vostri bimbi che, ogni anno, vi chiedono di preparare per loro le zucche di Hallowen e le maschere più terrificanti? Allora scegliete di portare tutta la famiglia al mare per Halloween e di divertirvi insieme all’animazione dell’hotel, durante i momenti di festa, serate a tema e spettacolo che abbiamo in serbo per il weekend di Halloween 2021”. “Nella notte dei morti viventi chissà quante magie e sorprese aspettano i fortunati che si regaleranno i pacchetti in hotel a Catanzaro Lido”.

    L’immancabile piccante

    Halloween 2021 piccante a Diamante per un pacchetto da urlo, si garantisce divertimento e comfort cimiteriale per tutti: 2 Notti in camera Classic, Classic Plus o Superior, Trattamento di Mezza Pensione/Pensione Completa, Festa di Halloween in Maschera per i più piccoli, Cena con Delitto per i più grandi (leggi Menù). Tutto a partire da € 66,6”. Raffinata ironia e “Servizi family e bimbi”, così tutti accontentati.

    Morti di fame, col reddito di cittadinanza magari, ma in compagnia di assatanati fantozziani della porta accanto impegnati in tragicomici osanna alle streghe , avvinti nel vortice di danze macabre in compagnia di altri impiegati all’Asl camuffati da zombie dalla cugina estetista.

    Il cimitero della Nocturne per Halloween

    Un veloce giro su internet non manca di fornire un fitto elenco di “Feste di Halloween 2021 a Cosenza” e di “eventi per celebrare degnamente ‘la notte delle streghe’ anche nella colta città di Telesio. Con la garanzia di “Paura da brivido per la notte più lunga, ovvero la notte di Halloween. Il 31 ottobre sera la città si trasformerà, come ormai accade ogni anno, in una città piena di bare, streghe e quella zucca che proprio non fa parte della nostra tradizione (sic!)”. Non mancano i Locali che ricevono anche molti gadget offerti dalle varie birre per una festa dove la paura diventa sorriso. Basta pensare al cimitero che la cornetteria Nocturne di Rende organizza ogni anno. Proprio così i ragazzi della Nocturne si mettono di impegno e il giardino, accanto la cornetteria, diventa un vero e proprio cimitero. E si gioca con la morte di gente che è viva e vegeta.

    Il veglione del brivido all’Holiday Inn di Cosenza

    Aspettando che riapra il cimitero della Nocturne, ci sono altri due eventi che meritano la nostra attenzione. Uno è quello della “discoteca Shake. Ogni anno la discoteca di Quattromiglia, organizza serate a tema di Halloween in maschera”. Altro evento di richiamo “è quello del Loft 10. Nella notte di Halloween vi promettono una notte da brividi, con la gente di Cosenza che deve venire vestita in nero”. Persino a Lappano, alla promettente “Tenuta dei Mantelli”, viene organizzato un party horror niente male. Poi in città “La notte delle streghe propone come ogni anno a Cosenza il veglione del brivido nell’elegante sala dell’Holiday Inn. Musica dal vivo per tutta la notte”.

    Come una pagina del marchese De Sade

    Invece “Per il popolo della notte un po’ più in età matura il consiglio è quello di andare al Beattino”. Per i più esigenti c’è “Halloween al Borgo Citerium Resort”, esclusivo club di Cerisano che “Ogni anno per Halloween propone cena a tema e festa per la notte delle streghe”, in una ospitale “struttura del XVIII secolo sapientemente restaurata che offre a voi, signori ospiti, spazi accoglienti ed ospitali con comfort e servizi all’avanguardia. Il resort si propone di offrire un servizio di qualità ad un eccellente rapporto qualità prezzo, dedicando tempo e impegno perché voi abbiate la garanzia di un soggiorno rilassante e piacevole. Qualunque siano i vostri interessi e le vostre richieste, troverete la più ampia disponibilità per soddisfare prontamente ogni desiderio”. E qui più che la pubblicità per un Halloween fuori porta alla cosentina, sembra una pagina del marchese De Sade o di Histoire d’O, ritorno a Roissy di Pauline Réage.

    Americanate d’importazione

    Halloween è una “nuova festa” che di questi tempi dell’anno ci tocca patire sempre più passivamente. Una festa che, per altri riguardi antropologici, corteggia e gioca molto -troppo- disinvoltamente con la morte, l’horror e l’occulto. Negli USA, paese che ha fatto olocausto dei propri rimorsi, dove questa festa è nata ed è molto sentita, l’hanno come si dice “sdoganata” e trasformata da tempo in una sorta di carnevale dell’occulto.
    Certo, si dirà che forme simili sono antichissime, che esistono anche in altre culture, che i riti e le liturgie del mondo dei morti sono in fondo nobile cosa, che in fondo anche noi “avevamo qualcosa di simile” e bla, bla, bla, in uno sciocchezzaio antropologico di inesattezze e luoghi comuni.

    Una parata di Halloween negli Stati Uniti d’America
    Le origini calabresi (?) di Halloween su Vanity Fair

    Perché, come sempre, anche in questo caso salta fuori la mania tutta calabra di intestarsi il primato. Così la credenza che attesterebbe “la presenza di questa usanza in un paesino della Calabria da tempo immemore: Fino a qualche anno fa, nel giorno dei morti i bambini  andavano per le case, portando una zucca svuotata e lavorata a mo’ di teschio, nel cui interno era accesa una candela.

    Con questa maschera mortuaria giravano di casa in casa chiedendo i morti benedetti, dolcetti (e raramente soldi) per placare le anime dei defunti, come riportato in “Halloween è calabrese, credeteci” (di G. Moraca), comparso su “Vanity Fair” del 31 ott. 2014. Quindi anche il famoso “Trick or Treat” anglosassone, “in realtà sarebbe frutto di una contaminazione degli emigrati del Sud Italia, che una volta giunti in America avevano portato avanti una tradizione molto sentita nei paesi dell’entroterra vibonese. Il rito del “coccalu” da Serra San Bruno, sarebbe stato quindi esportato negli Stati Uniti, dove si sarebbe arricchito di altri elementi simbolici con il passare del tempo. Oggi Halloween può essere considerata una festa di ritorno, dal sapore però tutto calabrese” (sic!).

    Succubi dell’americanismo più deteriore

    Ma ben oltre le ricostruzioni sovraniste e fantasiose sulla rivendicata “origine calabrese della festa di Halloween”, qui ci riguarda piuttosto il suo nocciolo problematico. Quello che ha radici nell’America dei film di zombie e di fantasmi, la stessa delle stragi studentesche, del male che nutre la cultura di massa. E dato che siamo succubi dell’americanismo più deteriore, eccoci qua. Sì, la chiamano ormai tutti così: la “festa” di Halloween. E per capire che “festa” sia basta guardarsi in giro. È il trionfo del ciarpame, della volgarità e del cattivo gusto new age, il clou di un esoterismo farsesco ma per nulla innocente.

    Abbiamo smarrito cultura greca e cristianesimo

    Ora, se le cose stanno così sarebbe molto più ragionevole ridimensionarle. Perché, come scrive Umberto Galimberti: «Questo è Halloween. Il canto della disperazione. Perché la modernità recupera questo antico rito? Perché della cultura greca il nostro tempo ha perso la “giusta misura”, e del cristianesimo, ridotto a religione laica, abbiamo rimosso, cancellato, proprio la speranza di salvezza che esso ci offriva. Ciò che è rimasto è il motivo cristiano della denigrazione del mondo: Qui amat mundum non cognoscit Deum, diceva Sant’Agostino. Una denigrazione che si accompagna e tramuta nel piacere morboso e perverso dell’altrui e della propria dissoluzione. E tutti sappiamo che nel cupio dissolvi c’è anche il gusto del male, dell’orrore, della sua scontata frequenza e banalità: che è l’unico forse che davvero assapora la nostra tarda modernità. Halloween adesso è solo una festa. Una festa che però richiama il sentimento del nostro tempo che fatica sempre più a dar senso alla vita e quindi anche al suo limite invalicabile, la morte, e perciò celebra l’apoteosi del nulla».

    E adesso festeggiatela pure

    Il corteggiamento della morte e l’acquiescenza facile verso delle forze del male, ad ogni età e a qualsiasi gruppo sociale si appartenga, non è mai privo di conseguenze. Al fondo delle sacre scritture ritroviamo un monito che non passa di moda nemmeno il giorno di Halloween: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, a quelli che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Isaia 5:20-25). Adesso se vi piace la notte del 31, festeggiate pure. In una zucca vuota.

  • IN FONDO A SUD | Non chiamateli borghi, così uccidete i paesi

    IN FONDO A SUD | Non chiamateli borghi, così uccidete i paesi

    Intanto ricominciamo a chiamarli paesi. Questa, non altra, è la geografia umana della Calabria. Anche oggi che in ogni sua angusta città provinciale si litiga per il primato tra periferie e va di moda darsi arie da area vasta, da città metropolitana. Reggio Calabria non arriva a 250mila abitanti; Cosenza, che nel 1971 superò i 100mila, oggi non raggiunge neanche i 70mila. Una regione di paesi e città secondarie, in costante emorragia, non meno che i piccoli centri. Una regione di paesi, paesoni e paesini, dunque.

    Paesani anche se mandano i figli al Trinity

    Sono in tutto 405, sparpagliati sulle due rive, e spruzzati, soprattutto i più esigui, lontano dal mare, sulle montagne. I comuni in Calabria sono più di quelli della grande Sicilia (390 comuni), che una volta valeva da sola un regno a parte. La vicina Puglia, più lunga, ricca e vasta, ne ha pure solo poco più di 250. Questo sono i paesi della Calabria. E pure i calabresi, piaccia o non piaccia: paesani, anche se comprano griffato, fanno la spesa al centro commerciale, mandano i figli al Trinity e hanno internet in casa e la parabola sul balcone.

    La geografia estrema del margine

    Paesani e paesi. Tanti. Paesi di quattro case, una chiesa e un forno (una volta): posti dispersi e gracili come Oriolo, Canna, Longobucco, San Lorenzo Bellizzi, Campana Calabra, o più giù come Nardodipace, Bova Superiore, Carfizzi, Cerva, Brognaturo, Stilo, Varapodio. Nomi dissolti su un foglio, nonostante la storia, qualche volta millenaria. Posti così sono i paesi della geografia estrema del margine, dell’osso rinsecchito dell’Appennino, sopraffatti dallo stigma della scarsità, dalle mancanze.

    La cattolica di Stilo (Foto Alfonso Bombini)
    Troppo piccoli per sopravvivere

    Sotto la soglia limite dei 1500 abitanti, lo sanno bene i demografi, in simili condizioni nel mondo contemporaneo cala drasticamente la possibilità di sopravvivenza delle piccole comunità. Qui sono le case appese al chiodo di coloro che covano vite esigue, che raccolgono la briciola che cade dalla polpa dell’economia. I tinelli dei rassegnati che brancolano nella nebbia delle illusioni di seconda mano. Il mondo dei vedovi, dei senza scuola, dei pensionati con la minima, degli spostati di ogni età che collezionano sospiri e vuotano i fondi di bicchiere in cui inacidisce l’ultima goccia del vino di lusso che cola dal mondo della città, della televisione.

    E quei paesoni messi sottosopra dal cemento

    Molti altri dei paesi di Calabria oggi non sono neanche questo. Non sono più né carne né pesce. Paesoni, tutt’al più. Un po’ più gonfi e dilatati, messi sottosopra dal cemento e dagli abusi, incistati dal malaffare e oppressi dalla noia e dal peso delle mafie. E sono luoghi, questi, diversamente poveri e arresi al peggio, illusi da un’idea di progresso sovraesposta e fasulla. Piccole città provinciali e poi cittadine; paesoni, con il caos ininterrotto e senza nome delle borgate nuove, dei centri sdoppiati e delle piazze in mezzo al nulla, delle marine-dormitorio, dei centri commerciali smisurati, delle teorie dei capannoni delle imprese finte, della monotonia delle villette a schiera, delle seconde e terze case per il mare degli altri, degli avamposti traballanti di amministrazioni improduttive. Delle cittadelle spaziali-albergo di lusso per burocrati e politici incapaci, degli ospedali senza cure, delle scuole rotte e senza bambini.

    Un groviglio di strade

    E paesoni delle strade. Un groviglio di strade che si perdono nel nulla. Che passano oltre e non legano più neanche un paese all’altro. Soprattutto strade. Riportare qui l’elenco di questi posti dove la strada sembra un ottovolante e dove il paese ha preso gli ormoni e ha assorbito i veleni del nostro tempo immemore e caotico sarebbe troppo lungo, inutile. Persino penoso.

    Superano i 15mila per darsi arie

    Li conosciamo tutti questi posti: stanno sui giornali, spiccano dalle cronache. Sono i circa 20 comuni che in questa regione (capoluoghi compresi) ancora superano il punto critico dei 15.00 abitanti, soglia demografica minima per darsi arie e coltivare l’illusione di sembrare qualcosa di più di uno di quei vecchi paesi di fantasmi a cui spesso quelli più grossi voltano sdegnosamente le spalle. Questi posti sono casa nostra.

    Consolarsi con quel che rimane

    La Calabria ridotta a poco più del suo milione e mezzo di abitanti reali, vive lì più che altrove le sue giornate provinciali. In questi posti in cui ogni cosa è ibrida e opaca, dove anche la gente non più quella del paese e nemmeno quella di città, si consumano le sue lotte e le sue sconfitte. Lì si accampano le pretese di chi comanda, lì si coltiva ancora qualche sogno, lì si scontano frustrazioni e si medicano dolori. Lì chi può lavora, e qualche volta, e ancora lì che ci si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane.

    Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli e le curve di questi paesoni rigonfiati, in questi posti della nuova terra di mezzo della Calabria di adesso; che sono pure le sue cinque, piccole, rissose città capoluogo di provincia. Le stesse che poi ritroviamo puntualmente nel sottoscala delle graduatorie nazionali della qualità della vita e dei servizi resi ai cittadini.

    La retorica tossica dei borghi

    Ma in Calabria questa antica e capillare geografia insediativa e umana, microfisica e maggioritaria, col suo irrisolto e crescente corteo di emergenze e problemi critici che gravano su cittadini e istituzioni, finisce oggi per intasare un meccanismo narrativo falsificante e autocelebrativo. La realtà della crisi viene puntualmente oscurata a più livelli da un discorso che coincide sempre più con la retorica altamente tossica dei cosiddetti “Borghi”.

    Contro un’idea economicista dell’autenticità

    Nessuno chiama più un posto col suo nome proprio, e “borgo” è così diventato un artificioso sinonimo buono per tutto. Una sorta di “apriti sesamo” che enfatizza e identifica indistintamente sia le borgate più fatiscenti e decrepite che le antichità; i centri storici come le realtà cittadine e i paesini più microscopici e isolati. Il trionfo dell’ignorante e ipocrita glorificazione di una certa idea confusamente economicista dell’“autenticità”, la mitologia urbana della grande bellezza sparsa a piene mani su -tutti?- i cosiddetti “borghi”, la favola delle loro enormi “potenzialità” per investimenti e sviluppo turistico, gli eccessi verbosi e le truffe mediatiche che si accumulano come strati in una narrazione effimera e a senso unico, anche in Calabria hanno ormai valicato ogni limite di buon senso, misura e realismo.

    Chi condanna i paesi poi li vuole come risorsa

    Chi conosce questa regione e ci vive sa bene che i vecchi paesi sono corrosi dal tarlo di vecchie e nuove povertà e da una crescente anomia sociale. Sono spolpati dall’emigrazione, che li priva progressivamente di energie giovani e di abitanti veri. Sono mortificati dall’abbandono e dall’incuria, che ne distrugge la bellezza di ambienti costruiti e paesaggi, cancellando un giorno dopo l’altro la dignità di secoli di storia per farne mucchietti di case vuote e pericolanti e posti per fantasmi. Lo stesso meccanismo che condanna i paesi all’agonia e li mette ai margini della vita sociale e produttiva della regione e del paese, d’un tratto ipocritamente li riscopre come risorsa. Ed ecco che spuntano “i borghi”.

    Borghi buoni per ogni cosa, tranne per viverci

    I borghi in Calabria sono oggi quei posti piccoli e sparuti di cui l’Italia ricca e affluente si è dimenticata, e che oggi diventano buoni per ogni cosa. Tranne che per viverci davvero. Sempre più evocati che vissuti, ritornano come motivo di interesse nel discorso pubblico su ripartenza e valorizzazione post-covid. Cablati per il telelavoro che impone il precariato a vita nella società post-pandemica, qualche grosso gruppo finanziario e qualche azienda multinazionale ha già scoperto che un paese in vendita in Calabria si può comprare per intero con meno di quello che costa delocalizzare un call center in Romania. O magari si indice la gara dei paesi belli e dei “borghi autentici”, dato che quelli brutti, che sono i più, sono già fuori gioco.

    Il campionato farlocco dei borghi

    Così, per inscenare ogni anno una specie di concorso di bellezza tipo “miss Italia dei borghi”, riparte una sorta di farlocco campionato tv con eliminatorie e finali, per arrivare addirittura a eleggere il “borgo dei borghi”(sic). Teatrino di invenzioni manageriali sempre spacciate come eventi epocali, scenario per improvvisati festivalini di tutti i generi, dal più pretenziosamente culturale alla sagra più cafona, i paesi nella realtà vivono solo i fuochi fatui delle vacanze degli altri. Fiammate che durano qualche settimana o due, giorno più giorno meno. Ridotti a quartieri d’estate o quartieri d’inverno per i cittadini oppressi dall’inquinamento urbano, dalle follie consumistiche e dai ritmi di vita delle metropoli. I paesi rischiano così definitivamente di essere annichiliti e asserviti, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù.

    Gli annoiati dalla città

    Nei casi migliori qualcuno, annoiato dalla città, li scopre e li acclama, e ne fa un suo buen retiro personale. Ma si tratta di pochi misogini, ricchi eletti stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle difficoltà: solitudini, isolamento, mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro. Eccessi, eccentricità per pochi, che però alimentano incessantemente la retorica mediatica che ormai suborna soprattutto i cosiddetti borghi della Calabria e dell’Italia del Sud.

    Un argomento elettorale

    Di paesi-borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi. Ma ad oggi la gran parte dei più di 400 paesi della Calabria restano luoghi spossati e pieni di malinconie, sospesi in una sorta di limbo, abitati (quando lo sono ancora) solo da poche centinaia di persone. Come accade a Fiumefreddo Bruzio, di recente segnalato come uno dei borghi più belli d’Italia, e certo non il più povero e isolato, e che però, nonostante gli sforzi di pochi volenterosi, mantiene nel suo magnifico e monumentale centro storico a picco sul Tirreno meno di 300 residenti.

    Turistizzazione forzata

    Quando spariscono dai media anche i borghi belli come i brutti, ripiombano nel grigiore e nella stanchezza del quotidiano. E a salvare i paesi non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami mozzafiato. Al più prevale un’idea di una turistizzazione forzata dei paesi e dello sviluppo delle aree interne della Calabria e del centro-sud da trasformare in un unico grande distretto turistico da vendere a un «turismo internazionale con grande capacità di spesa», come da proposta del ministro Dario Franceschini. Una specie di Disneyland per le vacanze en plein air, appaltata senza conoscere e rispettare il patrimonio dei paesi e le necessità di chi quei luoghi vive quotidianamente, legandone invece le sorti a speculazioni di grande scala e ad altissimo costo ambientale e sociale. Una sciagura.

    Non tutto è perduto

    Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei vecchi paesi calabresi autocentrati e partecipati da giovani e associazioni che si segnalano già per equilibrio, buone prassi e intelligenza. Come dimostrano da vicino le esperienze di successo dei giovani della start up Fili Meridiani a Pallagorio (Kr) e l’associazione Campus del cambiamento-Borgo Slow a Civita (Cs). I progetti di ripopolamento dei paesi possono funzionare infatti solo se sono condivisi in prima persona da giovani innovatori e da gruppi di abitanti veri, vecchi e nuovi. Rianimati dalla cura di cittadini e persone attive e consapevoli. Non dal narcisismo effimero di event manager e dagli interessi di speculatori e mestieranti in cerca d’autore. Non puntando tutto sulla monocultura turistica (men che meno su quella che insegue il lusso). Ma lavorando con competenza e ostinazione su interventi di valorizzazione e riequilibrio di risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando lo squilibrio attuale tra aree interne e coste.

    Il centro storico di Fiumefreddo Bruzio (Cs)
    C’è sempre un paese in ognuno di noi

    I paesi della Calabria hanno bisogno di sostegno, di immaginazione, di aiuto, di pianificazione, del riconoscimento della loro unicità. In fondo c’è sempre un paese in ognuno di noi. Nietzsche ci ricorda che ogni paese «è come un diario figurato della nostra gioventù, che comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare; e dice di se stesso, dello spirito della casa, della stirpe, della città. Dice che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere perché siamo ostinati». La salvezza può arrivare solo così. Arrivederci in Calabria, paisà.

  • SPORTELLATE | Ménez e Haitem: Reggio tra gioia e dolore

    SPORTELLATE | Ménez e Haitem: Reggio tra gioia e dolore

    Per la Calabria calcistica è stato un fine settimana quasi del tutto disastroso. Per il quasi c’è da ringraziare la Reggina, unica squadra a conquistare la vittoria contro il Parma di Gigi Buffon, 43enne che al “Granillo” mancava da ben 12 anni. Era il 2009 e quella fu anche l’ultima stagione degli amaranto in serie A.
    Oggi, di fronte a 8.693 spettatori (record stagionale per la B), l’highlander dei portieri ha sfoderato un paio di interventi da ventenne e, nel recupero del match, si è anche fiondato in attacco alla ricerca del pareggio. In un tempo in cui si discute animatamente di riforma delle pensioni, ho il sospetto che lui miri a superare quota 100, 102 e 104.

    Le domande del Crotone

    Questa volta parto dal Crotone, primo team calabrese a scendere in campo venerdì scorso. Dopo la convincente vittoria casalinga, la prima stagionale, contro la capolista Pisa, ero convinto che il peggio ormai fosse passato. Invece dovevo fidarmi di Francesco Modesto (voto 5). Il giovane allenatore dei pitagorici col suo inconfondibile tono di voce monocorde riesce a trasformare anche la conferenza stampa più agitata in una puntata di Sottovoce, il programma di Gigi Marzullo scandito da frasi rituali che hanno il pregio di far cambiare canale alla velocità della luce.

    Prima della trasferta di Alessandria, il tecnico parlava di problemi non risolti. Dopo Alessandria viene da dire che aveva ragione da vendere. Peccato soltanto che spetterebbe proprio a lui modificare ciò che non funziona. Il suo Crotone si è trovato di fronte un avversario… modesto, che, chissà perché, si esalta solo quando di fronte si trova squadre calabre. Su nove partite disputate finora, due soli successi: con Cosenza e Crotone.

    Ciò che preoccupa di più è che i grigi di Longo sono riusciti a spuntarla nonostante in campo avessero diversi esordienti. Bisogna dirlo, dopo il rigore parato da Contini (uno dei pochi a salvarsi, voto 6.5) a Corazza, una reazione degli “Squali” c’è stata: una traversa di Cuomo e due paratoni di Pisseri su Mogos e Mulattieri. Poca roba, però, se si pensa al valore delle due rose.

     

    A fine gara, Modesto ha ammesso che la difesa, specie sulle palle alte, non funziona e i 17 gol subiti lo confermano ampiamente. Il giovane albanese Kolaj (decisiva la sua rete e la sua prova) di fronte a Canestrelli (5) e Nedelcearu (4) avrà pensato di avere qualità più grandi di quelle che realmente possiede.

    Insomma, al “Moccagatta” il 3-4-1-2 pitagorico si è rivelato ancora una volta lento e poco fluido. Per non parlare dell’atteggiamento mentale di chi è sceso in campo, tutto meno che propenso al sacrificio. Cosa fare quindi? Molti tifosi chiedono la testa del condottiero. E tutto lascia pensare che la scarsa presenza di pubblico allo “Scida” degli ultimi due mesi si protrarrà ancora a lungo.

    L’organico, dopo la serie A e gli addii di Simy e Messias, resta forte, ma è stato rinnovato quasi del tutto, con una drastica riduzione dell’età media. Si sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stato un torneo di vertice. Eppure nessuno forse, a partire dell’orgoglioso Gianni Vrenna, si aspettava così tante difficoltà.

    Cosa deciderà il patron? Si farà condizionare dal pessimo clima che si respira in città, oppure andrà avanti per la sua strada? Il solito Marzullo di cui sopra, in una delle sue originalissime riflessioni, sosteneva che «chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto». E allora, prima di cambiare canale definitivamente, facciamoci tutti una domanda e diamoci una risposta.

    Voto 3 a chi risponde ad alta voce.

    Ménez è rimasto acceso

    Contro il Parma, nel 2014, realizzò forse il gol più bello della sua carriera. Indossava la maglia del Milan e con un folle colpo di tacco ammutolì lo stadio “Tardini”. Jérémy Ménez (voto 8) oggi si è ripetuto con addosso la casacca della Reggina. Non proprio come sette anni fa, ma ugualmente con una giocata da applausi. Un gol spettacolare, capace di buttar giù dalla torre delle big del torneo il Parma dei grandi nomi. Un piattone sotto l’incrocio, su assist di Di Chiara (6.5) che Buffon ha potuto solo ammirare.

    Ménez_Haitem
    Il gol di Ménez

    D’altronde era proprio il francese l’uomo che tutti attendevano. A iniziare da Alfredo Aglietti che in settimana aveva chiesto al suo asso di rimanere sempre acceso. Ed è ciò che è accaduto. Specie nel primo tempo, l’ex Psg e i suoi compagni hanno dettato legge a ritmo alto, mettendo gli emiliani in costante difficoltà. Nella ripesa, un rigore con Var di Galabinov (quinto centro e 7 in pagella) ha portato al raddoppio.

    La rete nel finale di Vazquez ha solo messo un po’ di pepe alla contesa, ma nulla di particolare. Una prova di forza che costringe la Reggina a non nascondersi. Il terzo posto in classifica a un solo punto dal Brescia (secondo) e a quattro dalla vetta, spinge inevitabilmente Reggio Calabria a sognare la massima serie. Dodici anni dopo l’ultima volta. Dodici anni dopo il ritorno di Buffon al “Granillo”.

    Voto 8 alle coincidenze benaguranti.

    Cosenza sull’altalena

    Giudicare il Cosenza di quest’anno è un lavoro complicato. Probabilmente sarà così fino alla fine del torneo. Colpa del fallito Chievo Verona, della Figc che lo ha fatto fallire fuori tempo massimo, e colpa di Eugenio Guarascio che, pur sapendo prima degli altri, si è mosso con ritardo. Ma questo è un discorso contraddittorio, anacronistico e quindi finisce qui. Non finirà, invece, quell’altalena di sensazioni schizofreniche che i ragazzi di Zaffaroni (voto 5,5 per ieri) procureranno ai loro tifosi partita dopo partita. Ogni tanto si parlerà di playoff a portata di mano e, magari, sette giorni dopo si invocherà un nuovo miracolo per evitare l’ennesima retrocessione.

    La disfatta di Benevento (3 a 0) racconta proprio questa storia: dopo il buon pareggio con il Frosinone si veniva da giorni di fiducia. È bastato perdere malamente in terra campana, tra l’altro davanti a 700 tifosi rossoblù, per cambiare gli umori e le prospettive future di gran parte della gente. Da ieri c’è chi attacca Zaffaroni per quell’atteggiamento eccessivamente attendista che prima andava bene, c’è chi se la prende con il reparto offensivo apparso sterile e isolato e c’è chi dice che senza Palmiero lì in mezzo non si va da nessuna parte.

    cosenza_benevento
    I tifosi del Cosenza a Benevento

    Può darsi che sia corretto tutto, può darsi che lo sia anche il contrario. Eviterei, però, di prendermela troppo con il tecnico milanese, forse l’unico vero fuoriclasse della rosa da capire e aspettare. Mi assumo il rischio di dire che senza di lui questo Cosenza avrebbe la metà dei punti che ha e un andamento ondulatorio come quello delle ultime tre gare se lo sognerebbe. Come un qualcosa di impossibile da raggiungere.

    Invece, nonostante la partenza ad handicap, l’infortunio determinante per gli equilibri difensivi di Vaisanen; nonostante le assenze, l’inesperienza di Sy e Vallocchia, la scelta discutibile di Gerbo in mediana e non sulla fascia destra e tantissime altre cose, il Cosenza ha un’identità, un attaccante, un regista, ha un paio di seconde punte di spessore. E, rispetto a un anno fa di questi tempi, ha molte più probabilità di mantenere la categoria.

    Certo, con quel tifo sugli spalti sarebbe logico attendersi di più, ma anche questo rischia di diventare un discorso anacronistico e contraddittorio. Soprattutto se si pensa che sugli spalti c’è anche un presidente che dopo dieci anni di monarchia assoluta, non ha ancora compreso qual è il valore reale del suo regno.

    Voto 1 a chi non sa o non vuole mai guardare oltre.

    Catanzaro ko nel momento sbagliato

    Antonio Calabro presentando la sfida casalinga del suo Catanzaro con il Monopoli aveva rassicurato tutti: «State tranquilli, nessuno qui è con la testa alla partita di Bari», prossimo avversario in campionato. D’altronde come si fa a giocare contro un avversario pensando a quello successivo? Il punto è che, pur creando tanto, la squadra giallorossa è sembrata meno attenta del solito in fase difensiva e sprecona sotto porta.

    Veniva da quattro vittorie consecutive e vedeva il primo posto in classifica (attualmente di proprietà del Bari) non troppo lontano, soprattutto in vista dello scontro diretto di sabato prossimo. Con il Monopoli (1 a 2 il risultato finale) è andato tutto storto, a cominciare dall’arbitraggio, contestato a fine gara. Ovviamente nulla è ancora compromesso, ma per riaccendere la speranza della promozione diretta servirà un’impresa in terra pugliese.

    Prima di ieri una buona striscia di risultati l’aveva collezionata anche la Vibonese di mister D’Agostino. Con il Palermo, però, è stato fatto un passo indietro. L’illusione per il gol del vantaggio di Golfo, è stata prontamente cancellata dalla rimonta rosanero. Un ko che riconsegna ai rossoblù il posto di cenerentola del torneo, seppure in compagnia del Latina. Insomma, serve urgentemente una vera svolta. Lo sforzo mentale fatto fin qui per recuperare il terreno perso a inizio stagione, non è ancora sufficiente.

    Voto 4 ad entrambe per l’occasione persa.

    Haitem

    Haitem Jabeur Fathallah non ha avuto la stessa fortuna di Christian Eriksen. Aveva 32 anni, laureato in Economia Aziendale e Management e giocatore di basket di serie C Gold, uno dei migliori della categoria. Domenica scorsa, sul parquet del PalaLumaka di Reggio Calabria, stava guidando la sua Fortitudo Messina al successo, quando un malore, probabilmente una crisi ipoglicemica, lo ha fatto crollare a terra.

    Soccorso tempestivamente da cinque medici (uno di campo e quattro presenti casualmente sugli spalti), sembrava essersi ripreso. Si era seduto in panchina ad attendere l’arrivo dell’ambulanza. «Sto meglio, ora torno», aveva detto ai suoi compagni prima di salirci sopra. Da quel momento in poi le sue condizioni sono peggiorate drasticamente, fino al più triste degli epiloghi, pochi attimi dopo l’arrivo in ospedale.

    Non so perché mi è venuto da paragonare questa vicenda a quella del fuoriclasse della Danimarca e dell’Inter. In fondo, la vita di ognuno di noi è fatta di attimi, di situazioni favorevoli e non, di luci dei riflettori più accese di altre. E lo accettiamo.
    Il celebre Eriksen ha rischiato la pelle in mondovisione per un attacco di cuore, nel bel mezzo di un seguitissimo Europeo di calcio. È stato assistito in un lampo, come meglio non si poteva, e ce l’ha fatta.

    Dicono – e non fatico a crederlo – che la sua storia verrà ricordata per sempre. Quella di Haitem invece no e soltanto le indagini della Procura di Reggio Calabria (che ha aperto un fascicolo) per un po’ manterranno accesa l’attenzione sulla sua e esistenza e sulla sua morte inattesa.
    Servirà a poco, oppure a molto. Di certo, banale dirlo, non a rendere meno trasparenti certi drammi di serie C.

    Voto 10 a quel campionato che da oggi in poi porterà il suo nome: “Memorial Haitem Fathallah”.

  • SPORTELLATE | Dazn elettorale e Modesto fa Oronzo Canà

    SPORTELLATE | Dazn elettorale e Modesto fa Oronzo Canà

    Dopo due settimane di pausa, torno a dare i voti alle partite, ma, ahimè, non solo di pallone. A Cosenza, infatti, in vista del ballottaggio per la carica di sindaco, il Francesco Caruso del centrodestra ha rispolverato un vecchio cavallo di battaglia del suo predecessore Mario Occhiuto: la costruzione del nuovo futuristico stadio cittadino. Un tormentone che va avanti da anni e che ritorna, puntualmente.

    Dazn fa infuriare Franz

    Insomma, tutto nella norma, se non fosse che durante la sfida tra il Cosenza e il Frosinone di ieri pomeriggio, il telecronista di Dazn, Giorgio Basile, ha pensato fosse opportuno rammentare il progetto di Caruso con un ingenuo «se ne sono sentite tante di promesse di questo tipo in tutta Italia, speriamo che questa volta sia vero» .
    Apriti cielo.
    Il candidato sindaco del centrosinistra Franz Caruso, venuto a conoscenza della riflessione del giornalista in pieno silenzio elettorale, si è immediatamente rivolto alle autorità competenti, pubblicando poi a seguire un post di denuncia sul suo profilo Facebook: «Ennesimo maldestro tentativo di inquinare la competizione elettorale».

    Un Dazn senza interruzioni prende le distanze

    Per la cronaca politica e aziendale (perché di quella sportiva parlerò più avanti), va detto che Dazn ha preso le distanze dal suo dipendente, stavolta però – ed è qui a mio avviso la notizia vera – in tempo reale e senza alcun ritardo di connessione. Come andrà a finire, invece, la vicenda tra i due “carusi” non è dato sapere. Anche se, pensando a ciò che accade da tempo a livello nazionale, si può ipotizzare che il tutto verrà dimenticato. Probabilmente insieme alla costruzione del nuovo stadio.

    Voto 3 a chi sostiene ancora che il calcio è solo un gioco.

    Galabinov: l’uomo del monte ha fatto gol

    Andrej Asenov Galabinov è un gigante bulgaro di quasi due metri. Carattere tosto e una passione per la montagna. Eppure – parole sue – in carriera si è quasi sempre ritrovato a giocare in città di mare. Sorrento, Livorno, Genova, La Spezia e Reggio Calabria sono solo alcune delle sue tappe da bomber. Arrivato in Italia nel 2005 grazie all’ingaggio del papà come allenatore della Pallavolo Modena, anno dopo anno ha collezionato tanta gavetta in C e B e alcune esperienze non troppo fortunate in A, specie nello Spezia (suo il primo storico gol degli “Aquilotti” nella massima serie).

    Il gigante bulgaro Andrej Asenov Galabinov

    In Liguria, appena un anno fa, stava andando tutto secondo i piani, poi un brutto infortunio e il pessimo rapporto con il tecnico Italiano, hanno frenato la sua convinzione di poter finire la stagione in doppia cifra. Ma è proprio grazie a quell’imprevisto che oggi la Reggina di Aglietti può goderselo da vicino. D’altronde, il direttore sportivo Massimo Taibi poche settimane fa era stato chiaro: «Se non avesse avuto guai fisici, oggi Andrej non sarebbe qui», con il mare sotto casa e l’Aspromonte a un tiro di schioppo.

    Il presidente amaranto non si sbilancia

    Ieri, con la sua quarta prodezza stagionale da bomber d’altra categoria, gli amaranto hanno affondato fuori casa (0 a 1) il Vicenza di Brocchi, mettendo a tacere i malumori della piazza per la deludente sconfitta di Pisa. Una vittoria che ha messo in evidenza ancora una volta la solidità difensiva del gruppo (7 reti subite) e – “Galagol” a parte – qualche problemuccio di troppo in attacco (tra i reparti peggiori del torneo). Il ritorno in campo di Menez, insieme alla crescita di Cortinovis e Rivas (tutti da 6 in pagella), da qui in avanti potrebbe portare dei benefici, anche se la sensazione è che per mantenersi nelle zone di vertice della classifica fino alla fine servirà qualcosa di più.

    E quel qualcosa, ovviamente, può portarlo in dote Luca Gallo con i suoi investimenti nel mercato di gennaio. In settimana il patron, un po’ da filosofo consumato e un po’ da politico paraculo, ha entusiasmato il suo popolo così: «Di vita ne abbiamo una sola e, solo una volta, ho potuto comprare la Reggina. Se avessi cento vite, però, cento volte comprerei la Reggina». Reggina che, dopo le spese esagerate dei primi tempi, lo ha fatto anche diventare più saggio: «Lo scorso anno – ha ricordato – parlavo di serie A e ad un certo punto stavamo per retrocedere. Meglio quindi fare un passo alla volta».

    Voto 8 al bomber mare&monti, 7+ al potere della saggezza.

     

    Qualcuno dia un passaggio a Caso

    Da bambino sognavo come tanti di diventare un calciatore famoso, un fuoriclasse. Facevo il fantasista e non passavo il pallone nemmeno per errore. Quando finalmente ho capito perché non funzionava, avevo qualche capello in meno sulla testa e un po’ più giù una pancetta niente male. Ora, io non voglio dire che Giuseppe Caso (voto 7 sulla fiducia) avrà una sorte simile alla mia, ci mancherebbe altro. Già il fatto che a 22 anni giochi in serie B con il 10 sulle spalle mentre io alla sua età ero perennemente in debito d’ossigeno in Prima Categoria, è roba di cui andare fieri fino alla pensione, se non oltre. Resta, però, nella mente quel maledetto vizio che mi perseguitava e che – ormai è chiaro anche ai suoi parenti più stretti –perseguita il funambolo silano. Ed è un vero peccato perché della partita tra Cosenza e Frosinone (1 a 1), lui è stato ancora una volta un protagonista indiscusso con un rigore procurato (e trasformato da Gori, da 7- insieme a Carraro e Tiritiello) e tante altre buone giocate individuali. Almeno fino a inizio secondo tempo, quando gli applausi del pubblico bruzio, si sono trasformati in mugugni, qualche fischio e frasi non adatte ai minori di 14 anni.

    Il numero 10 dei Lupi, Giuseppe Caso, durante la partita Cosenza-Frosinone
    Lo scugnizzo di Torre Annunziata ha un limite

    Poco prima che lo squadrone di Fabio Grosso ricevesse un bel pacco regalo confezionato da Vigorito (voto 5 nonostante una bella parata su Canotto), lo scugnizzo di Torre Annunziata era stato capace di mandare all’aria in modo fastidioso almeno due ripartenze in superiorità numerica, sempre per via di quell’ossessione da supereroe di sfidare il mondo tutto da solo con le maniche della maglia arrotolate.

    Ma la colpa del pari ciociaro non è sua

    Ovviamente, la colpa del pari ciociaro non è soltanto sua (le immancabili distrazioni difensive, le assenze per infortunio e il solito calo fisico a centrocampo sono concause), ma c’è sullo sfondo l’amarezza per un limite che non si riesce proprio a superare di uno dei migliori della rosa rossoblù e forse del campionato intero. Toccherà per forza di cose a mister Zaffaroni, a Goretti e magari a qualche bravo analista, il compito di trovare le parole giuste per far comprendere al ragazzo che la differenza tra un fuoriclasse e un buon calciatore, sta proprio nella capacità di controllo del proprio talento. In sintesi: Caso, se vuole, ha tutte le qualità che servono per portare in alto i “Lupi” e sé stesso. Molto prima che stempiatura e pancetta decidano di palesarsi in modo irrimediabile. Basta solo volerlo veramente.

    Voto 2 alle mie ambizioni giovanili, 6- all’ennesima occasione mancata dal Cosenza.

    Modesto e quella gioia alla Oronzo Canà

    Per gli amanti de “L’allenatore nel pallone” e del 5-5-5 di Oronzo Canà (alias Lino Banfi), consiglio di vedere e rivedere l’esultanza scomposta di Francesco Modesto al termine di Crotone-Pisa (2 a 1). Un’esibizione piuttosto sgraziata che però dice tanto, più di quanto già si sapeva, sullo stato emotivo del giovane condottiero rossoblù, osannato a inizio stagione dai suoi superiori e giunto probabilmente fino a ieri pomeriggio a pochi passi da una pericolosa crisi di nervi.

    Un balletto alla Oronzo Canà per l’allenatore del Crotone, Francesco Modesto

    È vero, gli sono servite otto partite per vincerne almeno una (la prima da allenatore cadetto), ma la sensazione è che lo scontro con la capolista possa essere la svolta tanto desiderata, lo sblocco psicologo che allontana un esonero che era dato da molti ormai per certo. Stavolta, a differenza del recente passato, l’ex terzino sinistro di Genoa, Parma e tante altre è riuscito ad associare il bel gioco alla concretezza sotto porta.

    Ovviamente deve dire grazie ai suoi ragazzi per l’impegno, in special modo a Zanellato (che dovrebbe giocare sempre dal primo minuto) e Mulattieri, quest’ultimo bravo a vincere il duello a distanza con Lucca, cannoniere come lui del campionato che nelle ultime settimane è diventato inaspettatamente il principale oggetto del desiderio dei migliori top club del Paese, quasi come un Calenda al ballottaggio romano per le amministrative.

    Il Crotone da’ il primo dispiacere stagionale alla capolista

    Insomma, il Crotone che ha dato il primo dispiacere stagionale alla capolista toscana, sembra aver trovato la ricetta giusta per non sprofondare. Non so se alla lunga riuscirà a mettersi alla pari delle altre grandi del torneo, ma è evidente che qualcosa di nuovo si sta finalmente muovendo. A tratti, lo ammetto, ho temuto che Modesto potesse fare la stessa fine del fin troppo aziendalista Roberto Occhiuzzi, fatto passare un anno fa dalla dirigenza del Cosenza calcio come un nuovo Guardiola per poi finire rottamato come un Pirlo qualunque. Per ora il pericolo dalle parti dello “Scida” è scongiurato, ma guai ad abbassare la guardia.

    Voto 4 agli allenatori che si fidano troppo dei loro datori di lavoro.

    Questo Catanzaro fa paura

    Una domenica così in serie C non si vedeva da mesi: Catanzaro e Vibonese vittoriose e convincenti. Impossibile criticarle. Ma, com’è giusto che sia, parto dalle “Aquile” di Calabro, capaci di rifilare tre gol al temibile Taranto (con Cianci, Vandeputte e Vázquez). Dopo un avvio di campionato problematico in zona offensiva, i giallorossi con tre successi di fila (8 reti all’attivo e una sola al passivo) stanno dando ragione a chi sosteneva che sarebbero stati loro i rivali principali del Bari per la corsa alla promozione diretta in B. Bravi anche i ragazzi di D’Agostino che superando in casa 2 a 0 il Latina (Golfo e Spina), hanno raggiunto due obiettivi di non poco conto: il primo successo stagionale e la fuga dall’ultima posizione in classifica. Ovviamente, visti i disastri recenti, nulla è ancora risolto, ma col buonumore, forse, si può iniziare a pensare a un futuro migliore.

    Voto 10 a tutte e due.

    Il contratto di Rivière

    La breve parentesi crotonese di Emmanuel Rivière, sarà giudicata nei secoli come una specie di mistero buffo non adatto ai duri e puri del pallone.
    Attaccante franco-martinicano che in piena pandemia salvò coi suoi gol il Cosenza dall’inferno della C, nella città pitagorica si è rivelato una vera e propria scheggia impazzita. Un gol all’esordio in serie A e poi il nulla assoluto, condito da tanti infortuni e altrettante panchine. A fine torneo, dopo la retrocessione degli “Squali” in serie B e con ancora un anno di contratto da smaltire, l’ex Monaco e Newcastle se n’era tornato nella sua casa natale a godersi – beato lui – le ricchezze naturali del posto e quelle materiali del suo portafoglio, a quanto pare sconfinate. Il Crotone lo aveva aspettato invano per l’intera estate, fino a decidere poi di intavolare trattative a destra e a manca per la sua cessione. Tutto questo senza consultarsi col diretto interessato, il cui smartphone dicono squillasse sempre a vuoto, anche e soprattutto nelle ore cruciali del calciomercato.

    Guarascio lo avrebbe ripreso, ma a costo zero

    Si diceva addirittura che il proprietario del Crotone Gianni Vrenna per la sua cessione avesse chiesto un milione di euro, una cifra scoraggiante per chi come il presidente del Cosenza Eugenio Guarascio, voleva riportarlo gratuitamente in riva al Crati. Vabbè, insomma, tutto questo pippone per dire che tre giorni fa il Collegio arbitrale della Figc ha accolto la richiesta del Crotone di chiudere il contratto con Rivière “per grave inadempimento dello stesso, così dichiarando l’interruzione del rapporto per fatto e colpa del tesserato a decorrere dal 13 agosto 2021”.
    In conclusione, da adesso in avanti, per il mondo del calcio, Rivière sarà ricordato come un goleador piuttosto bravo che, a un certo punto della sua carriera, a un oneroso stipendio nella ridente Calabria ha preferito le spiagge caraibiche di casa sua. Verrebbe da esclamare “chiamalo fesso”. Ma non lo faccio.

    Voto 9 a chi può permettersi il lusso di non emigrare per campare.

  • BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    BOTTEGHE OSCURE | Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini

    “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

    Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

    Il trailer del documentario dell’UDI Reggio Calabria sulle gelsominaie “La Rugiada e il Sole”, realizzato dalle giornaliste Paola Suraci e Anna Foti
    Fiori ricercati

    In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

    brancaleone-cartolina-gelsomini
    La raccolta del gelsomino a Brancaleone in una cartolina d’epoca

    Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

    A capo chino

    A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

    Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

    2_Gelsominaie a lavoro_Collezione Iriti-Venanzio
    Gelsominaie al lavoro (Collezione Iriti-Venanzio)
    Dai centomila chili al collasso

    Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

    A Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

    In Parlamento

    La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

    argiroffi-web
    Emilio Argiroffi

    È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

    In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

    I primi servizi sociali

    Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

    È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

    Damnatio memoriae

    Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

    raccoglitrici_olive_calabria
    Raccoglitrici di olive in Calabria negli anni che precedettero la meccanizzazione

    Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

    Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

    La Rugiada e il Sole

    In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

  • IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    IN FONDO A SUD | Calabria: l’audace colpo dei soliti voti

    C’è quel brano di Alvaro, divenuto col tempo un comodo luogo comune, che dice che la Calabria e i calabresi hanno bisogno di essere parlati: «il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo». Poi ce ne sarebbe un altro, in cui lo stesso Alvaro immagina che: «Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la regione sarà una regione totalmente cambiata».

    A elezioni regionali 2021 chiuse si può dire che a distanza di quasi un secolo da queste osservazioni che identificavano l’idealtypus dell’escluso calabrese da romanzo verista, rovesciando lo stereotipo alvariano, oggi i calabresi per parlare parlano (e non poco). Ma di sicuro non hanno ancora imparato a cambiare, o non vogliono proprio che nulla cambi nella loro regione.

    Nulla è cambiato

    All’indomani del fatidico voto, presentato da più parti come una sorta di ultima spiaggia, un redde rationem per la politica della Calabria e dei calabresi per i prossimi cinque anni, rispetto a prima del voto, infatti nulla, ma proprio nulla, è cambiato. La Calabria ha scelto il proprio futuro. E ha scelto Occhiuto, con gli stessi consensi che andarono alla Santelli. Forza Italia, caso unico in Italia guida di nuovo la Calabria come trent’anni fa. La Bruni e il centro-sinistra a guida Pd è di nuovo l’alternativa principale, come da quando è nata la Regione.

    L’astensionismo cresce

    Il numero percentuale dei votanti in una Calabria che perde costantemente elettori interessati al voto con lo stesso ritmo con cui la gente emigra e abbandona paesi e città, è sceso persino più in basso di quello di gennaio 2020. Siamo al 43%. Molti dei calabresi residenti altrove e all’estero, ma anche in Calabria, sono rimasti a casa. Il non voto continua a crescere.

    Azzoppato Lucano dopo l’abnorme sentenza di condanna, bandiera delle opposizioni antisistema, neanche la consolazione di vederlo eletto. Lo straniero Luigi de Magistris, capo della coalizione civica, avversato dal centrosinistra ufficiale, pur respinto dal voto popolare, fa con le sue liste un 16% di voti. Che equivale a circa 127mila calabresi che hanno immaginato e creduto in uno strappo risolutivo alla continuità del sistema. Pochi, troppo pochi. Ma non una frazione insignificante.

    Segnali di resistenza

    A Cosenza, città che votava anche per il Comune, De Magistris ha superato il 30%, battendo la Bruni e limitando il distacco da Occhiuto a circa il 13%. Risultato, due consiglieri regionali eletti in Consiglio, e con l’introduzione della preferenza di genere, nello schieramento DeMa Anna Falcone tra le donne ottiene diversi consensi. A Rende, il comune dell’Università della Calabria, de Magistris sta al 33% dei voti. Segno che le aree urbane, con quel poco di opinione pubblica che la Calabria libera riesce ancora a mettere in campo, rappresentano forse le ultime sacche di resistenza alla politica del malgoverno e del malaffare, un argine residuo allo strapotere della corruzione e delle mafie. Non sono, credo, segnali da sottovalutare.

    La rivoluzione eternamente rimandata

    Ma il cambio di rotta, la discontinuità, la rinascita civica, i diritti di cittadinanza, la rottura del sistema, la “rivoluzione”? Sarà per la prossima volta. Per i calabresi il cambiamento vero non è cosa necessaria. Anzi, è un trauma, un salto nel vuoto da scongiurare. Accade nonostante il buco nero della sanità, l’occupazione azzerata, l’emorragia continua dei giovani, i paesi che si spopolano, lo strapotere dei gruppi criminali e l’inanità di una classe dirigente da terzo mondo e incapace di farne una buona. Tranquilli tutti. Per i calabresi va benissimo continuare così.

    Il sistema è salvo

    Il malcostume politico, l’impianto inveterato delle clientele, l’assistenzialismo, la dipendenza parassitaria, il consociativismo e lo scambio orizzontale “cazzi mei/cazzi tuoi”: il sistema è salvo ed è anzi più saldo che mai. Altro che opinione pubblica libera e fluida, altro che cittadini attivi e consapevoli come vorrebbe la moderna politica post-ideologica.
    Le vecchie clientele in Calabria sono ancora oggi il nucleo pesante del sistema di potere. Sono fortezze inespugnabili, formano una sorta di enclave etnica, in cui i bisogni fondamentali e la vita quotidiana dei gruppi sociali sono scanditi con metodo orwelliano, ottenendo per chi ci sa fare consensi duraturi e serene carriere da politico di lungo corso.

    Chiedere favori invece che reclamare diritti, inginocchiarsi per ottenere privilegi e grazie, è ancora oggi una cosa normale in una terra in cui la libertà è ritenuta un lusso per pochi. E la gente continua a sottomettersi a scelte, comportamenti e simboli che dilatano lo spazio del silenzio complice dell’obbedienza, con le prassi e i riti di un potere vetusto e prepolitico.

    Lontani anni luce

    Un recente sondaggio pre-elettorale aveva dimostrato che su un significativo campione di elettori, solo pochi cittadini calabresi avevano manifestato liberamente le loro intenzioni di voto. Insomma neanche davanti ai test impersonali di internet e dei social i calabresi si sbottonano, non si dichiarano, temono. Restiamo lontani anni luce dalla fluidità ideologica del mondo post-industriale e delle libertà del post moderno. Eterogenei al laicismo e alla mobilità che contraddistinguono altri campioni di popolazione italiana nei confronti delle risorse civili della politica e della partecipazione democratica.

    Ma nonostante l’abbarbicamento al passato, anche in questo perdurante panorama di conservazione, alcuni profili cambiano. Non solo nell’elettorato. Anche la politica politicante si mostra capace di stare al passo con le tendenze, e a modo suo in sintonia coi tempi. Si profila anche in Calabria una figura ibrida di politico (aspirante o in carriera, il modello è il medesimo): una sorta di populista iper-presenzialista, ruzzante e rampante. Personaggi che si pongono tra l’olocrate arruffapopolo e l’influencer della porta accanto. Sempre presenti sui social e nelle piazze virtuali, come “uno di noi”.

    Lamentele e azioni

    È l’olocrazia della governance alla plebea, la fenomenologia del politico pop che si fa vedere allo stadio con la sciarpa della squadra di casa, che addenta un panino nella calca di una sagra di paese, quello che incontri per strada e a cui si dà populisticamente del tu. È l’olocrazia dei Cicc’ dei Nanà, dei Pinuzz’, dei Maruzz’, dei Carlett’, dei Totonn’. Mestieranti, ingegni modesti, macchiette da strapaese. Che però una volta sbalzati oltre il proscenio social mettono le mani sul potere vero, quello della politica che decide, e che poi pesa per anni sul groppone di una Calabria che soffre e si lamenta. Si lamenta sì, ma non agisce.

    Un casting sui generis

    In Calabria il casting senza fine che approvvigiona il ceto della politica dice che oltre ai soliti inossidabili mestieranti che hanno fatto il giro delle sette chiese (e sono sempre lì incollati alle poltrone e agli ambiti scranni con annesse prebende garantite da un posto nel parlamentino regionale), a fare la fortuna di un carneade debuttante non può bastare un profilo da influencer politico di mediocrissimo calibro strapaesano. L’empireo degli ottimati tra i politici regionali non può essere raggiunto senza certe requisiti di qualità che fanno potere e consenso. Come aver amministrato un comune, diretto un’ASP, o avere alle spalle una professione di quelle che la politica trasforma in fonti di clientele e di varie utilità.

    La politica come risorsa

    Vale però tanto per debuttanti che per i politici di lungo corso, prima che per i loro elettori, un principio di ferro: che la politica è e resta per loro una risorsa. Un ascensore sociale. Per arricchimenti, carriere, vite comode. Un’occasione quindi da non perdere. Perciò si battano i territori con i vecchi strumenti del galoppinaggio di buona tradizione calabra: il clientelismo, le promesse di lavoro, i voti contati casa per casa, con la spesa fatta nel supermarket di riferimento. Perché in Calabria c’è chi, tra gli elettori, il voto lo esce solo all’ultimo momento. C’è chi lo mette all’asta, chi lo promette a tutti. Mentre, invece, molti altri elettori neanche ci vanno più a votare. Come dimostra la massa crescente di indecisi e di restii del voto. Sono coloro che vivono in una condizione assicurata, che nulla o quasi hanno da chiedere alla politica.

    Crisi d’identità

    Il voto fotografa quindi in Calabria un panorama di fenomeni assai complessi. Conseguenze della regnante confusione sociale (c’entra qualcosa anche l’impoverimento e l’ulteriore fragilità inflitta dal Covid), con la crescente opacità che avvolge la realtà di questa regione-laboratorio. Da un lato la democrazia rappresentativa, sempre più esposta a forze demagogiche che si consolidano e riorganizzano, sfruttando anche la potenza digitale dei nuovi mezzi di comunicazione. Dall’altro, le emergenze e il caos di una regione in profonda crisi di identità collettiva, dove vecchi gruppi di potere e nuova poliarchia politica cozzano senza sintesi, ma volentieri si associano e stressano i limiti da valicare per giungere a conquiste democratiche moderne, a soluzioni laiche, rapide e incisive.

    Dicevamo anche degli indifferenti: quel 57% che resta a casa, che da anni si disinteressa e non vota. È la maggioranza silente. Il nocciolo di un’opinione pubblica potenzialmente libera, più consapevole, mobile e laica. Che invece finora accondiscende e legittima i piani di coloro che, a turno, comandano. Questi ceti, dalla fisonomia sociale e dai confini ancora incerti e indecifrati, che fanno a meno della risorsa politica, sono forse gli unici in Calabria in grado di cambiare il gioco, di aprire ad un altro futuro. Ma per ora restano fuori e privi di rappresentanza.

    Aspettando il cambiamento

    Stando così le cose, la Calabria cambierà mai? C’è ancora qualche speranza? Esiste la possibilità reale che accada? Per chi proponeva il cambiamento, dopo l’ennesima delusione, dopo la cocente sconfitta, è d’obbligo chiedersi come andare avanti, che fare in questa regione. Di strade ne restano solo due. Andare via: molti continueranno a farlo. L’altra è continuare a resistere e a combattere, con ostinazione, civilmente e per il bene di tutti. E in parecchi continueranno a farlo ancora.

    Sarà però impossibile se non spazziamo via, una volta per tutte, la retorica e la prassi vittimistica della resa al peggio, della lamentazione rituale, della subalternità autoinflitta dal nostro cattivo agire, individuale e collettivo. Se ai nostri comportamenti e al nostro orizzonte sociale asfittico, in cui il privato vale sempre più del pubblico, non ridiamo lungimiranza e dignità di cittadini. Per davvero, o così o non avremo speranze.

    Sessant’anni dopo

    La Calabria è il cuore malato della Questione Meridionale. È una condizione cronica, che va affrontata con coraggio, assumendosi nuove responsabilità culturali, civili, umane, respingendo le solite scorciatoie dell’assoluzione collettiva per giustificare tutti i nostri mali. Si smetta di fuggire. Si resti davvero, per il bene di tutti. E «senza dramma, senza rancore», con tutte le sue forze migliori, finalmente la Calabria trovi il coraggio di reagire «ad una condizione inferiore o servile» che dura da troppo tempo. Cerchi di meritare finalmente «una condizione in cui l’uomo sia padrone di sé e del suo destino». Anche questo lo diceva Alvaro. Più di sessanta anni fa.

  • SPORTELLATE | Modesto, Millico e un coraggio da Leone

    SPORTELLATE | Modesto, Millico e un coraggio da Leone

    Oggi e domani in Calabria voteremo tutti o chi ci crede ancora. Negli articoli sportivi come questo, nei seggi elettorali, nelle chiese sperando in una grazia.
    Io, visto che ho sempre considerato il pallone una sorta di specchio della politica e viceversa, darò i voti qui dentro con le stesse incertezze di fondo con cui li darò fuori da qui.
    Osvaldo Soriano, grande narratore argentino di fútbol e rifugiato politico durante la dittatura di Jeorge Videla, sosteneva che il calcio è dubbio costante e decisione rapida. Un po’ come una x da mettere su una scheda piena di simboli, mi verrebbe da dire. Ognuna, però, con la sua anima a cui dare ascolto.

    Il Modesto triste

    La conferenza stampa post Crotone-Ascoli (2 a 2) di Francesco Modesto è stata cupa ma leggera, a tratti persino soporifera. Nessuna domanda scomoda e tantissimi complimenti (giusti, per carità) da parte dei giornalisti per la prestazione convincente e sfortunata della sua squadra. L’allenatore ha utilizzato, senza alcun risparmio, tutte le frasi standard del caso: «Prendere il gol del pareggio a cinque secondi dalla fine sa di beffa»; «entrare nello spogliatoio a fine partita non è stato facile»; «i ragazzi hanno messo in campo tutto quello che avevano»; «siamo stati puniti da un episodio» e così via.

    L’allenatore del Crotone, Francesco Modesto
    Gli Squali barcollano dopo 7 giornate

    Effettivamente stavolta agli Squali non si può contestare granché. La gara l’hanno fatta loro e – qui la frase standard ce la metto io – meritavano molto di più. Ma al di là delle gentili parole di circostanza, resta un problema che neanche gli eterni ottimisti possono nascondere sotto il tappeto: dopo sette giornate di campionato quella che, a detta di esperti e non, doveva essere una candidata alla promozione in serie A, barcolla nelle posizioni di bassa classifica con quattro punti, neanche una vittoria all’attivo e lo sguardo del suo condottiero che sembra volerti dire: io più di così non so che fare. Sia chiaro, le altre big del torneo o presunte tali, non è che stiano facendo sfracelli, vedi soprattutto il Parma e il Monza dei veterani Buffon e Berlusconi.

    Peccati di gioventù

    Il Crotone, però, bisogna ammetterlo, sembra avere qualche lacuna che richiede maggiore attenzione. Più che altro per l’inesperienza della sua rosa, la più giovane del campionato. Vrenna e Ursino sono stati bravi come al solito a portare nella città di Pitagora alcuni tra i migliori talenti in circolazione come i nazionali Under 21 Mulattieri (5 gol) e Canestrelli (sue le due reti di ieri a cui è seguita un’espulsione sciocca), ma c’è il sospetto che tutto ciò non basti a reggere il peso di un progetto ambizioso. Intorno a ragazzini dal futuro assicurato, al momento i vari Estévez (6.5), Molina (6) e gli alti e bassi cronici di Benali (ieri da 5 in pagella) non tengono botta. D’altronde, lo stesso Modesto ha ammesso che manca sempre quel pizzico di furbizia che potrebbe permettere a suoi ragazzi di dare un senso alle buone prestazioni che finora non sono mancate quasi mai. E allora che fare? Niente di particolare, a parte, naturalmente, lavorare e attendere umori, risultati e parole migliori.

    Voto 4 alle intramontabili beffe a tempo scaduto, 5.5 alle frasi standard.

     

    L’incubo di Vincenzo Millico

    Sette mesi fa, con un post di Instagram, si era sentito in dovere di chiedere scusa a tutti. A chi lo aveva sempre incoraggiato e a chi gli era stato vicino, « soprattutto in questa stagione così terribile che sembra un incubo ». Dal ritiro estivo fino a quel 4 marzo, era stato costretto ad alzare bandiera bianca per ben sei volte: tre con il suo Torino (affaticamento muscolare, positività al Covid e distrazione alla coscia destra) e tre con il Frosinone (sempre a causa dei suoi muscoli di cristallo). Una sorta di Giuseppe “Pepito” Rossi, oppure, per non andare troppo indietro con la memoria, un piccolo Stefano Sensi. Aveva chiesto scusa Vincenzo, come se farsi male giocando a pallone fosse una colpa. Ieri, ad Alessandria, con addosso la maglia da titolare del Cosenza, è arrivata l’ennesima batosta dopo uno scatto apparentemente innocuo: dolore al flessore e giù le lacrime. Mentre scrivo, non si conosce ancora l’entità del suo guaio, c’è chi lo sottovaluta e chi no. Si può comprendere, invece, il suo dolore.

    Le lacrime di Vincenzo Millico ad Alessandria dopo l’infortunio
    Senza guai fisici avrebbe giocato il Derby della Mole

    Ad appena 21 anni Millico ne ha già passate non poche. Senza guai fisici, uno come lui non giocherebbe a Cosenza e neanche in serie B. Senza malasorte, ieri pomeriggio, anziché quella dei Lupi, avrebbe indossato la maglia granata nel derby con la Juventus. E, magari, grazie al suo talento, quella partita sarebbe finita in un altro modo. Invece, anche per il suo infortunio, a cui si aggiungono il portiere Vigorito e il difensore Väisänen, la squadra di Zaffaroni con i Grigi (vittoriosi 1 a 0) ha dato spazio a una performance dimenticabile. Magari utile per il futuro ma, nel presente, abbastanza antipatica, in special modo nell’atteggiamento, molto simile a quello messo in mostra dal presuntuoso Crotone al “San Vito-Marulla” una settimana fa. Come se le tre vittorie consecutive su quattro avessero fatto scordare da dove si viene e dove si spera di andare.

    Frenato l’entusiasmo dei Lupi

    Insomma, è bastato un avversario con una mentalità battagliera da Lega Pro (alla sua prima vittoria in B dopo 46 anni) per riportare l’entusiasmo sulla terra ferma. Al “Moccagatta” è andato tutto storto: dagli infortuni alla superiorità tecnica sfruttata male, dalle sostituzioni ai virtuosismi inutili dei fortissimi Eyango (5) e Caso (4.5). Soprattutto quest’ultimo ha dimostrato di avere qualche difettuccio di generosità verso il prossimo: non passa la palla neanche quando a chiederglielo, in ginocchio, è la sua coscienza. Insomma, durante la pausa, Zaffaroni avrà molto da (ri)lavorare sulla testa e, qualunque sia la sua fede, da pregare affinché i “feriti” possano rimettersi in piedi al più presto.

    Lo striscione per Mimmo Lucano

    Finale con una nota di cronaca sociale, che a sinistra avrà fatto piacere, a destra molto meno, nel PD chi lo sa veramente? Ieri, dal settore ospiti occupato dai tifosi cosentini, sono spuntati fuori due striscioni, uno per ricordare Enzo Spinello, un tifoso dell’Alessandria scomparso di recente, l’altro con su scritto “L’umanità non si processa. Mimmo Lucano innocente”. In entrambi i casi, standing ovation dell’intero stadio.

    Voto 9 a Millico per tutte le volte che saprà rialzarsi, 10 all’umanità.

     

    Reggina senza punti e punte

    A differenza di Nino Spirlì (uno dei tifosi reggini più famosi del momento) che si è sempre detto sicuro del primo posto della sua squadra alle elezioni regionali, Massimo Taibi, serio e affidabile direttore sportivo amaranto, non ha mai parlato di vittoria del campionato. E lo ha precisato a chiare lettere nella settimana appena conclusa. Un voler mettere le mani avanti per evitare facili entusiasmi e cadute rovinose? Forse. Ma, in fondo, si sapeva già.
    Giusto per rimanere ingiustificatamente nel campo politico-calcistico, la Reggina, pur essendo una squadra solida, ad oggi non ha la forza e gli avversari strampalati del centrodestra calabrese. Lo ha dimostrato la sconfitta evitabilissima di ieri contro un’altra entità indefinita (più o meno come Spirlì) del momento: il Pisa (2 a 0).

     

    Fortuna toscana

    È vero, il team toscano ultimamente sembra essere unto dal Signore: gol stratosferici, regali degli avversari in abbondanza e fortuna sfacciata. Addirittura il suo attaccante principe, tale Lucca da Moncalieri (che già Taibi aveva adocchiato tempo fa senza riuscire a portarlo in Calabria), potrebbe finire presto nella nazionale campione d’Europa di Roberto Mancini. Ma nonostante tanta grazia, almeno un punto si poteva portare a casa lo stesso. Lo ammetto, guardando la partita ho pensato anch’io, come tanti, a quanto la formazione di Aglietti fosse stata scalognata negli episodi chiave della gara; autogol di Cionek (5), errori sotto porta di Galabinov (5), Rivas (6) e Cortinovis (6), rigore ed espulsione ingenua di Micai (4.5). Poi, però, mi sono detto che il calcio è questo. Lo so, non una riflessione tra le più ingegnose del secolo, ma comunque onesta. La Reggina ha perso per la prima volta quest’anno anche perché ha fallito delle occasioni da rete che, per professionisti della materia come quelli citati poco sopra, dovrebbero essere un gioco da ragazzi. Sette gol realizzati in sette partite sono poca roba. Basterà il prossimo ritorno di Menez ad invertire la rotta?

    Voto 3 alla mia domanda.

     

    I se del Catanzaro

    Fra le tante frasi pronunciate negli ultimi tempi dal tecnico giallorosso Antonio Calabro per giustificare l’andamento lento della sua corazzata (giovedì ad Avellino è arrivato il quinto pareggio di fila), ce n’è soprattutto una che ha attirato la mia attenzione. Niente di particolare, sia chiaro, ma se ne parlo è perché subito dopo averla ascoltata, ho pensato (devo ancora capire se con nostalgia o meno) a Vujadin Boškov, l’allenatore serbo dalle battute fulminanti.
    Erano le fasi successive della gara pareggiata al “Ceravolo” 1 a 1 con il Catania e, incalzato dalle domande dei giornalisti che chiedevano spiegazioni sulla scarsa brillantezza della sua squadra, il mister pugliese aveva replicato in questo modo: «Se oggi avessimo fatto un gol in più degli avversari, il vostro giudizio sulla prestazione sarebbe stato diverso. Io lo so che è così».

    Ammetto di aver riflettuto a lungo su questa cosa e, obiettivamente, a quasi una settimana di distanza dall’accaduto, non me la sento proprio di contraddire Calabro. In sintesi – e spero di non sbagliarmi – ha dichiarato che se il Catanzaro avesse vinto, tutti gli avrebbero fatto i complimenti. Che dire se non chapeau.

    Voto 8.5 alle verità lapalissiane, s.v. alla nostalgia.

     

    Delusione Vibonese

    Niente da fare. C’è poco da aggiungere su quanto già scritto nelle ultime settimane. Oggi per il team rossoblù era attesa l’ennesima svolta del campionato. Dopo la sconfitta infrasettimanale con la Paganese, si affrontava il Potenza, penultimo in classifica, in poche parole non una macchina da guerra. L’occasione per smentire le critiche e i malumori era lì, a portata di mano. Ma, come detto, non c’è stato niente da fare. Nel finale di partita, al vantaggio ipponico realizzato da Vergara, ha replicato Zampa per i lucani. Morale della storia, se ne resta una: se non si vincono neanche queste sfide, il destino della squadra di D’Agostino (che a questo punto rischia grosso) sembra segnato.

    Voto 3 come i punti in classifica.

     

    La sua curva

    Pochi giorni fa, esattamente il primo di ottobre, è ricorso il triste anniversario della morte di Massimiliano Catena, talentuoso centrocampista del Cosenza calcio a inizio degli anni ‘90. In quel tragico giorno del 1992, dalle parti di Tarsia perse il controllo della sua automobile e la vita. A soli 23 anni. Stava tornando da Roma dove era andato a trovare suo padre Monaldo, malato gravemente. Max, così come lo chiamavano tutti, gli aveva raccontato del suo bellissimo gol alla Ternana, realizzato quattro giorni prima allo stadio “San Vito”. Una botta imparabile da venticinque metri, proprio sotto la Curva Nord ancora in costruzione e che, strana beffa del destino, avrebbe poi portato il suo nome.
    L’esordio da giovanissimo in serie A con la maglia del Torino nella sfida col Cesena, e poi tante prestazioni da applausi, su tutte quella contro il Milan del trio olandese Gullit-Van Basten-Rijkaard.

    Massimiliano Catena, talentuoso centrocampista dei Lupi prematuramente scomparso nel 1992

    Era un predestinato, dopo la gavetta di Cosenza avrebbe sicuramente spiccato il volo, lo dicevano tutti. Invece non è andata così. 29 anni fa, e non sembra neanche ieri. Nelle ultime settimane, quella curva, dopo un lungo silenzio, si è ripopolata nuovamente di cori e passione rossoblù. Da quel momento, sotto quella curva, si realizzano soltanto gol straordinari. Alla Massimiliano Catena.

    Voto 10 a quel bolide eterno da venticinque metri.

     

    Un coraggio da Leone

    Dopo Catena, chiudo con un’altra vita spezzata sul più bello. Ieri 2 ottobre, Daniel Leone, ex portiere campano di Reggina e Catanzaro, ha gettato la spugna definitivamente a causa di un cancro al cervello. Nel 2014, proprio mentre militava nella squadra amaranto, aveva scoperto il suo male. L’immediato intervento chirurgico agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria e una lunga fase di cure, gli avevano donato una forza incredibile e contagiosa, a tal punto da tornare in campo. Ma nel 2017 la bestia era tornata a farsi viva, chiudendo di fatto la sua carriera di calciatore. Poi una nuova operazione e tanti alti, bassi e speranze, svanite a soli 28 anni. Reggina e Catanzaro, nel loro messaggio di condoglianze, hanno ricordato l’incredibile coraggio dimostrato dal loro numero uno. Io chiudo come ho iniziato, con una frase semplice e innocente di Osvaldo Soriano: «Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni».