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  • IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    IN FONDO A SUD | Calcio, mito e apparenza: la Grande Cosenza in crisi di identità

    […] Un altro dei simboli popolari della crisi d’identità che affligge oggi la Grande Cosenza è il calcio cittadino. Precipitato nelle polemiche della gestione Guarascio e ben al di sotto dei fasti del passato. Un adagio ben noto tra gli appassionati di pallone dice che la piazza calcistica di Cosenza ha un tifo da serie A, una storia da serie B e una dirigenza di quarta serie. Oggi la squadra che fu arena consacrata da atleti simbolo come Bergamini e Marulla, è rimasta orfana di calciatori-bandiera. Quelli che segnano un’epoca e diventano leggenda, anche lontano dai campi di calcio.

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    Un bar semideserto

    Una serata fredda di dicembre di anni molti fa, un po’ prima di Natale ero in un bar di Roges, periferia urbana di Cosenza, e mi capitò di incontrare forse l’ultimo dei grandi pedatori passati dal prato declassato del San Vito-Marulla di Cosenza. C’era un’aria ferma, i vetri appannati. Fuori quasi si gelava per la gala di ghiaccio che scende dalla Sila. Dentro solo pochi avventori. Un paio seduti a un tavolino. Poi io e una mia amica bionda che rivedevo dopo molto tempo. Un po’ di chiacchiere lontano dagli affanni.

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    L’attuale San Vito-Marulla visto dall’alto

    Solo, in piedi, affacciato sui gomiti davanti al banco, c’era un ragazzo magro e dinoccolato. Un tipo sopra la trentina, i capelli lunghi tirati indietro a coda, fermati da un elastico. Qualche filo di grigio già a inargentare le tempie. Un orecchino gli dava invece un’aria un po’ truce. La ragazza che serviva dietro al bancone con lui fa la gatta. Si mostra, si affaccia col petto sul bancone. Gli fa smorfie per invogliarlo. Lui sembra il più annoiato e taciturno dei presenti. Addosso ha una tuta sportiva e un marsupio, calza scarpe da ginnastica. Ha la faccia stanca e un’aria persa e stralunata. I suoi gesti sono lenti, come rappresi nell’aria. Poche parole scambiate con la barista gli escono di bocca come spezzate dalla noia dell’abitudine.

    «Un lattuccio»

    Potrebbe essere uno dei tiratardi, borgatari del posto. Però parla troppo basso, senza la voga strascicata di questi rioni di periferia. Un buon italiano corretto e senza accenti, che gli esce di bocca con un rintocco gentile e malinconico. A un certo punto è lui che si rivolge alla ragazza del banco, dopo che lei gli aveva chiesto con smorfie più insistenti cosa poteva preparargli. Lascia cadere l’invito in una pausa che dura quasi un minuto, l’aria assente. Poi le dice piano piano: «Per favore puoi scaldarmi un lattuccio?». Dice proprio: «un lattuccio».

    Uno così mi sembra d’averlo già visto, lontano da questo bar di periferia. Certe cose non sono mai come te le immagini. Quella sera nel freddo di quel bar di Roges mi sono chiesto cosa stava a farci a Cosenza in una squadretta da campetti parrocchiali scivolata nell’inferno della D uno bravo come lui. Prima di ricominciare dalla quarta serie del pallone, gli avevano offerto di nuovo soldi buoni e ingaggi di prestigio la Fiorentina in B e pure la Sampdoria in A. Ma quel ragazzo triste aveva preferito il Cosenza in D ed era pronto a dare una mano alla squadra che aveva lasciato in B prima del fallimento.

    Capitani impolverati

    E invece era stato messo fuori squadra da allenatori da oratorio. Si era allenato, ma è chiaro che in D non erano i suoi soliti ritmi. Non si gioca di fino sui campetti spelacchiati dei semiprofessionisti. Sono ring da zuffa, rettangoli sconnessi dove si suda e si sgomita senza complimenti. Dicevano che ormai era spompato, che gli mancava la partita vera. Ma aveva lavorato con gli altri per fare il capitano, per presentarsi bene. Non giocava, ma non se l’era sentita lo stesso di lasciare Cosenza.

    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza
    Gigi Lentini in azione sulla fascia con la maglia del Cosenza

    Chissà se c’è un vero perché in storie così. Forse era rimasto per un amore che voleva resuscitare, forse per la speranza di ricominciare in provincia una vita normale dopo le mille illusioni ruffiane del grande calcio. Forse a 35 anni Gianlugi Lentini era solo un uomo che non aveva più voglia di rientrare nel tritacarne del sistema-calcio. Uno che viene solo per tirare calci alla palla, che gioca solo per giocare e non per caricarsi di responsabilità che ti schiantano, di nuove delusioni. Pensai che forse era rimasto perché ancora, non importa su quale campo, davvero gli piaceva correre così come sapeva fare lui. Scartando e caracollando dietro a una palla persa per inventare un cross che non ti immagini, per cercare lo spazio più imprevisto, come un acrobata che rimane in bilico sul filo bianco teso a bordocampo.

    Campioni malinconici

    Forse a Cosenza ci si poteva stare senza farsi male, perché in un bar di periferia, da solo in una serata fredda di dicembre, uno come lui, un campione vero, può chiedere «un lattuccio» alla ragazza che serve al bancone senza vergognarsi, senza sentirsi addosso tutta la nostalgia e il peso del declino. Un artista malinconico del football, Lentini. La sua era una storia di passione luminosa, di grandezza vera. Di quelle rare nel calcio già ridotto a un Barnum per televisioni e affaristi magliari.

    Sarà sempre così. In questo sport contano gli incanti della fantasia, le ascese degli uomini quanto le cadute. Senza la passione il football è una cosa morta. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Sono solo la passione e la fantasia che ci mettono certi giocatori di genio a farlo diventare una cosa importante, una cosa estetica. Un istante di bellezza adolescente, un’acrobazia figurata che somiglia all’arte.

    Tre generi di giocatori

    Sono passati molti anni da quella sera, ma ricordo bene. Il Cosenza di adesso se la batte malissimo in B, una squadra raccogliticcia, senza capitani veri e uomini simbolo come fu Lentini. Raccolgo a mente i ricordi e gli ultimi istanti di quello strano incontro in una notte d’inverno al bar di Roges. Non c’erano stelle in cielo, e nemmeno la luna. Tirava il vento della Sila, quella tramontana che taglia la faccia. Io e la mia amica ci avviamo senza parlare. Poi mi torna in mente un grande racconto all’interno di Fútbol di Osvaldo Soriano.

    «Lo conosci?», chiedo alla mia amica distrattamente, prima di accompagnarla fuori nelle strade senza nome di quella periferia. Ad un certo punto, le dico che c’è una pagina in cui Soriano scrive che “ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna, e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono giocatori che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dentro un rettangolo di gioco, dove non avrebbe più dovuto esserci nessuno spazio, nessun pallone”.

    Quello lì, quello che alla barista lì dentro chiedeva di scaldargli «un lattuccio», è uno di loro. Uno di questi profeti dell’innocenza che inventa figure impossibili, uno che aveva nei nervi quel tremore che spinge gli uomini a giocare su un prato dietro a una palla di cuoio. È un poeta sconfitto, era un astro tramontato del gioco del pallone. Tu non lo conosci. Si chiama Gianluigi, Gigi Lentini, era un campione.

    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993
    Gigi Lentini contrastato da Jocelyn Angloma durante la finale di Champions League tra Milan e OM del 1993

    Prima di andare via dal bar con la mia amica, mi sono avvicinato. Ho chiesto un autografo a quel ragazzo dalla faccia triste. Sorrise, sorpreso che qualcuno lo avesse riconosciuto in quel posto, a quell’ora, in quella situazione. Qualcuno che si ricordava di lui come calciatore, quando fino a qualche anno prima calcava i palcoscenici del calcio vero. Lentini scrisse su un pezzetto di carta, con una biro che le passò la ragazza dietro al bancone, calmo e gentile. Poi quasi sottovoce mi chiese per chi era l’autografo. «È per mio figlio», rispondo io. Non è vero. L’ho tenuto per me.

    Cosenza oggi

    Oggi Cosenza per me è questo: l’aria di periferia di certi bar e negozietti fuori moda, certi angoli svisti tra i palazzoni di periferia, l’odore delle cucine che la domenica preparano il pranzo di buon’ora tra le case popolari. Rumore di stoviglie, i balconi spalancati sul mattino, i panni stesi, le stanze che si affrettano al riordino. Un vecchio in pigiama che è sceso nel cortiletto di una vecchia casa colonica assediata dal cemento ad annaffiare del basilico che cresce in una grossa lattina di conserva arrugginita. Una imprecazione che sembra un proverbio antico, qualche risata di gola che arriva da lontano, una donna che rimprovera un bambino in un dialetto che sa ancora di cantilena.

    Sullo stradone il camioncino del venditore viaggiante di patate della Sila che chiama a raccolta donne col suo verso da muezzin, la macchina con gli scarichi truccati che passa correndo via e lo stereo acceso forte sulle canzoni di un cantante neomelodico. Il buongiorno di una domenica qualsiasi in un posto senza grilli per la testa, le officine e i gommisti che armeggiano tra i marciapiedi e le strade piene di buche, il mercato degli ambulanti, i saluti e la festa del mattino nel quartiere popolare in cui sono venuto ad abitare da un paio d’anni.

    La città-chimera

    Da qui, da questo margine, si dileguano come in una nebbia opalescente le sagome tristi della teoria infinita di casermoni, strade e circonvallazioni, luci al neon, semafori intermittenti e file d’auto incolonnate nel traffico del rientro pomeridiano. La vita che ristagna tra le siepi di palazzoni multipiano degli attici in vetrocemento che riflettono il profilo scialbo della Grande Cosenza. La città-chimera, che non c’è mai stata e che non si farà. E con lei eclissa forse per sempre da queste sponde antiche anche il mito della città ribelle, socialista, colta, libertaria.

    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio
    Resti di palazzi crollati si affacciano su corso Telesio

    Restano solo le spoglie del suo centro storico svuotato di senso e popolato solo da invisibili e clandestini. La ridotta sbriciolata dei palazzi patrizi di Cosenza Vecchia, nobile e decaduta, e fuori da quella cerchia vetusta, a far perno nel vuoto del cielo invernale solo il lungo traliccio strallato del ponte di Calatrava. Poi le orbite involute del traffico e i pilastri di cemento armato di quella foresta di cubature sfuse che occupa lo spazio sfilacciato come una bandiera al vento che si prolunga per miglia e miglia oltre i ponti nella valle del Crati.

    Una periferia senza centro

    Il fiume di cemento si arresterà mai prima di sboccare la sua corsa finale verso lo Ionio? Fin lì Cosengeles per ora è solo un groviglio di centri commerciali, strade che si perdono nella campagna scassata dagli abusi, tra gli avamposti delle burocrazie e del terziario rigonfiato. Cosenza è oggi un organismo aspira-tutto che prospera risucchiando il vuoto intorno a sé e assommando intorno ad un’enorme periferia senza centro tutta la popolazione di giovani che si raccoglie nei paraggi dell’Università.

    Studenti in attesa dei bus ai piedi dell'Unical
    Studenti in attesa dei bus all’ingresso dell’Unical

    Qui si radunano nel posatoio provvisorio degli studi, delle lauree tecnologiche e delle specializzazioni da Silicon Valley in riva al Crati, i pochi giovani rimasti a vivere in tutta la Regione. Ma anche loro restano giusto il tempo di ripartire. Prima che volino via altrove, come uccelli di passo. Un flusso provvisorio che ancora per un po’ terrà viva Cosenza e tutta la sua cosiddetta area urbana.

    Mito e apparenze

    È questa in fondo l’unica forza viva che alimenta da quarant’anni il mito della Grande Cosenza. Un mito provvisorio che sembra di tanto in tanto risorgere senza mai diventare vero oltre le apparenze. Ma solo perché è la Calabria intera che si squaglia intorno a Cosenza, che ogni giorno rimpicciolisce e diventa sempre più scarsa, più scolorita e spaesata.

  • BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    BOTTEGHE OSCURE | Braccia, bestie e giovinette nella storia dell’olio calabrese

    Trappeto a sangue. Si chiamava così il frantoio per la molitura delle olive azionato da uomini e animali, e ciò basta a dare un’idea di quanta fatica costasse la produzione di olio fino all’impiego dei moderni macchinari. Poi vennero i frantoi meccanici, più rari e in genere mossi dalla forza idraulica, ma fino al XVIII secolo la lavorazione delle olive in Calabria seguiva tecniche arcaiche.

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    Trappeto a sangue all’uso genovese. Dal volume di Grimaldi del 1773
    Trappeto alla calabrese e alla genovese

    Decisamente arcaico era il cosiddetto “trappeto alla calabrese”: due grandi viti incastrate nella pietra pressavano le olive già lavorate dalla macina. Il sistema consentiva però una scarsa resa e la necessità di scaldare i frutti prima della lavorazione ne inficiava la qualità. La svolta arrivò nella seconda metà del XVIII secolo grazie all’introduzione del trappeto “alla genovese”.

    Costituito da un torchio a unica vite, tale sistema giunse in Calabria nel 1773 sponsorizzato dal marchese genovese Domenico Grimaldi proprio per la regione in grado di produrre «più di centocinquantamila macinature di ulive, ciascheduna di nove tomola». La reclame del marchese sortì gli effetti sperati giacché il frantoio “alla genovese” resse fino alla comparsa delle prime macchine novecentesche. Il trappeto era sinonimo di prosperità, oltre che di esibizione dello stato sociale.

    Macina di frantoio in rovina nelle campagne di Santa Sofia d’Epiro nel 2017
    Le braccia e le bestie

    Lo spiega bene il solito Vincenzo Padula: «Nessun nostro galantuomo si crede proprietario davvero quando non abbia un trappeto». Le figure chiave nel sistema di lavoro del trappeto erano essenzialmente tre: l’oliandolo o agliere, l’attizzatore o tizzuni, e il saccardo o vetturino. Quest’ultimo si occupava di condurre l’animale, in genere un mulo o un bue, che faceva andare le macchine e versava la pasta d’olive macinate sui fischiuli per essere pressata al torchio.

    Una paga misera

    Toccava poi all’attizzatore il compito di spingere le olive con una pala sotto la macina a ogni giro della stessa. Infine l’oliandolo faceva funzionare il torchio e, dopo la spremitura, raccoglieva l’olio dal pozzo. Nonostante le enormi fatiche, il lavoro nel frantoio permetteva ai fattoiani (quanti lavoravano in un “fattoio”) di mettere da parte una riserva d’olio per uso familiare. Per ogni macina di olive infatti, essi avevano diritto a poco più di due litri d’olio, da spartirsi però con l’oliandolo, l’attizzatore, il saccardo oltre che col proprietario del frantoio.

    Coloro i quali portavano le olive a macinare avevano il buon cuore di offrire agli operai anche «la minestra di fave, o fagiuoli, e pane, formaggio e salame per spesare i fattoiani». Insieme al pasto trangugiavano grandi quantità d’olio, tanto che «la favata, che dalla popolana viene apparecchiata per essi, deve nuotare nell’olio».

    “Più pende, più rende”

    L’olivicoltura calabrese ottocentesca dalla coltivazione alla potatura e dalla raccolta alla molitura era praticata con scarsa cura e nulla razionalità. Ciò portava a raccolti esigui e a oli di scarsa qualità. Il proverbio secondo cui l’olivo “più pende più rende” conduceva infatti alla raccolta in periodi in cui il prodotto aveva già perso di qualità. In una relazione del 1863 il professore Giuseppe Antonio Pasquale scriveva che «le olive cascano da sé a poco alla volta, s’imbrattano di terra e si feriscono, poi s’ammonticchiano ed incamminano, e fermentano, e rancidiscono, e talora saponificano».

    Olive nella tradizionale rete utilizzata per la raccolta

    Un tale spreco era inconcepibile. Secondo lo scrivente era necessario dunque «raccogliere le olive colle mani da sopra l’albero, e spremerle tosto in apparecchio tersissimo, ed ecco l’olio più puro che la natura e l’arte possa dare». Da questo punto di vista, le olive della Piana di Gioia Tauro erano da preferire perché da un uliveto di venticinque piante si poteva ricavare un totale di 200 tomoli, e di conseguenza 4 botti d’olio per un totale di 16 quintali.

    Il nettare verde amato dagli italiani

    Nonostante i metodi arcaici e gli esigui raccolti all’alba del ventesimo secolo le olive, e in misura maggiore l’olio prodotto nelle province calabresi, deliziavano i palati di tutta Italia e a volte superavano i confini nazionali. Il rapporto intitolato “Sul commercio oleario delle Calabrie nel 1902”, firmato dal direttore del regio oleificio sperimentale di Cosenza, Flaminio Braccis, ripercorre le strade imboccate da questa “pregevole derrata” il cui traffico complessivo, specie via mare, «raggiunse la rispettabile cifra di 153.373 quintali, peso netto».

    “Il vaiuolo dell’olivo”

    Si tratta di numeri che, a detta di Braccis, andavano quasi ad eguagliare «il livello normale dei tempi migliori, dopo un periodo abbastanza prolungato d’insolita depressione, causata dalla fallanza continuata dei raccolti». Il migliore di quell’anno si registrò in provincia di Catanzaro, mentre Cosenza e Reggio furono penalizzate da fattori ambientali. Per gli oliveti «dell’ampia zona Rossanese che si stende fin sulla spiaggia del mare» fu un’annata inclemente a causa del cycloconium o più semplicemente “vaiuolo dell’olivo” che causò gravi danni. Allo stesso modo nella zona tra Gioia Tauro, Rizziconi, Radicena, Cittanova e Polistena la nemica si rivelò essere la mosca tardiva specie nelle zone pedemontane. Nonostante ciò i produttori calabresi non si persero d’animo, motivati a esportare la loro eccellenza a migliaia di chilometri di distanza.

    Raccolta delle olive in Italia. Stampa francese del 1862
    L’olio esportato in Francia

    Le commesse, seppur in calo, non mancavano. Gli oli provenienti da Rossano e Gioia Tauro raggiungevano la Francia, mentre la stessa località della Piana fu penalizzata dal venir meno della commessa record di 10milia quintali di olio da ardere proveniente dalla Russia. Anche per questo motivo i coltivatori reggini si convinsero a puntare sull’impianto di qualità di olive “mangiabili o fini”, più redditizie, dirette principalmente in Liguria (Genova, Porto Maurizio, Oneglia e Sanremo), Toscana (Livorno) e nel Barese. Mentre gli oli industriali prendevano soprattutto la strada di Sicilia, Sardegna e del Napoletano. Gli “scali” dell’allora versante tirrenico catanzarese (Pizzo, Nicotera, Sant’Eufemia) brillavano sia per esportazioni di oli da tavola sia per quelli industriali, diretti anche in questo caso in Campania, Toscana ma anche a Venezia.

    L’olio al solfuro

    Ma dal punto di vista logistico i più organizzati erano gli scali ionici di Rossano e Corigliano e quello tirrenico di Amantea, da dove «si effettuarono spedizioni a vagoni completi per la Liguria, il Barese e Napoli». Lo stesso rapporto annovera tra le eccellenze calabresi in ascesa un nuovo protagonista: l’olio al solfuro. Prodotto negli stabilimenti di Rossano, Cariati, Catanzaro, Siderno e Gioia Tauro, veniva utilizzato e apprezzato dalle industrie cosmetiche di Catania, Genova e Bari per la produzione di saponi verdi che cominciavano a far la loro comparsa nelle toilette dell’epoca bella.

    La “buona scuola” tra gli uliveti

    Ai sistemi arcaici utilizzati nei secoli precedenti fece da contraltare, nel senso del progresso, l’esperienza vissuta da alcuni allievi della Scuola pratica d’agricoltura di Cosenza (oggi Istituto agrario “G. Tommasi”). Ciò che recentemente chiameremmo entusiasticamente “buona scuola”, “alternanza scuola-lavoro” o “a scuola d’azienda” si praticava tra gli oliveti della provincia di Cosenza già 120 anni fa. Nell’anno scolastico 1902-1903 il Ministero dell’agricoltura pensò di promuovere un corso teorico-pratico d’oleificio su esplicita iniziativa dell’Oleificio sperimentale di Cosenza diretto da Flaminio Braccis. Al corso, indirizzato oltre che agli studenti anche a operai e agenti di campagna, parteciparono due classi della locale Real scuola pratica d’agricoltura diretta dal cavalier Tommasi (che oggi dà il nome all’Istituto agrario).

    A lezione dai latifondisti

    Per venti giorni venti allievi di due classi frequentarono lezioni specifiche ed approfondite tra Cosenza (Campagnano e Rovello), Montalto Uffugo, Rossano, Amantea, Scalea. Qui, sui terreni di ex latifondisti incuranti ora apertisi alle diavolerie della modernità, ebbero luogo conferenze, visite e dimostrazioni pratiche in campagna: dalla constatazione dello stato del frutto e delle piante alla scelta delle parcelle di terreno da sottoporre a concimazione chimica, dallo studio delle malattie dell’ulivo ai rimedi possibili e ai sistemi di piantamento dell’olivo.

    Il fine, esplicitato nel documento finale, fu quello di convincere e formare al «vantaggio degli ordegni moderni e delle pratiche razionali di oleificazione che hanno sostituito e vanno sostituendo in quest’ultimo quinquennio ai preadamitici frantoi ed ai torchi di legno». Ma c’è di più. A una scuola che, secondo gli indirizzi ministeriali, veicolava un’agricoltura finalmente razionale e non più arcaica si aggiungeva un aspetto non secondario. Il corso era non solo gratuito, ma ciascun partecipante fu rimborsato delle spese di viaggio (andata e ritorno) mentre ai più bisognosi venne riconosciuto addirittura un compenso giornaliero. Naturalmente tutti gli studenti erano maschi.

    Raccoglitrici di olive negli anni ’50 (immagine tratta dalla pagina facebook: Calabria Fotografia Sociale)
    Le insidie sessuali del padrone

    E le donne? Le raccoglitrici di olive condividevano i medesimi patimenti e condizioni di lavoro disumane delle gelsominaie. Più o meno giovani, le donne lasciavano i propri paesi per recarsi negli uliveti dei grandi proprietari nei diversi giorni della campagna di raccolta e condividevano locali angusti e poco igienici. Inoltre erano soggette alle insidie sessuali del padrone o dei suoi fattori. Scalze e curve sul terreno per la raccolta lungo tutta la durata della giornata, dovevano poi sobbarcarsi il peso dei sacchi colmi di olive fino ai depositi. La paga era quasi sempre misera, incerta e molto spesso corrisposta in natura. Alle raccoglitrici era concesso infatti di mangiare solo le olive già cadute al suolo ma non potevano portarne a casa. La condizione delle “montanine” che si riversavano nelle zone marittime nei mesi di maggior produzione è esposta nei minimi particolari da Vincenzo Padula.

    Giovinette sotto l’ombra degli ulivi

    Il letterato di Acri non manca di annotare che «il più vago spettacolo è d’inverno nella marina del Jonio: giovinette di tutti i tipi, che vestono di tutti i colori, che cantano in tutti i tuoni, ora sole, ora a gruppi, ora ritte, ora piegate sotto l’ombra degli ulivi». Non riuscivano però a racimolare «più di 34 centesimi al giorno», mentre erano sorvegliate da un misaruolu che nella giornata guadagnava una lira. Padula denuncia una realtà fatta di angherie, maltrattamenti e violenze commesse dai padroni che amavano «godere della voce, e delle grazie di quelle poverelle, alle quali danno 34 centesimi al giorno per disonorarle».

    Al momento della partenza per i luoghi di lavoro i genitori le mettevano in guardia ma «molte ed assai molte immemori dell’avvertimento paterno vi perdono l’onore; molte sono più avventurate, e prima divengono concubine, poi mogli di alcuno dei loro padroni». Non mancavano componimenti in versi e canzoni sull’argomento, tra cui una che Padula ebbe modo di sentire da una donna e che diceva in modo ironico: «Mi susu la matina/ Mi mindu lu jippuni/ U pulici d’u Baruni/ M’è venutu a muzzicà».

  • IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

    Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.

    Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.

    L’Arca di Cosenza
    Studenti sul ponte Bucci all'Unical prima della pandemia
    Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia

    L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.

    Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.

    Vecchie e nuove diarchie

    E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.

    Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei bruzi
    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.

    Il tramonto della cultura

    Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.

    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
    La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

    Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra pop degli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.

    La città tra resistenza e retorica

    Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).

    Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza

    Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizione locale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.

    Un patto civico

    Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.

    Dario Antoniozzi
    Dario Antoniozzi

    Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.

    Ritratto di un califfo

    Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».

    La classe dirigente dei galoppini

    Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.

    A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.

    Princìpi condivisi

    Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.

    C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.

    Lo stile smarrito

    Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.

    Auto sul ponte di Calatrava
    Auto sul ponte di Calatrava

    Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.

    Il fantasma della città

    Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.

    Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.

    Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.

    L'autostazione a Cosenza
    L’autostazione a Cosenza

    I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.

    Hinterland, traffico e casermoni

    Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.

    Il Tirreno visto dal valico della Crocetta, tra Cosenza e Paola
    Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola

    Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]

  • IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    IN FONDO A SUD | Il sacco di Cosenza, dal sogno del Boom all’incubo della speculazione

    Ogni città con la sua storia, con i suoi simboli, con le sue architetture, con il suo via vai, ci parla di sé come luogo sociale, perché è la casa di molti. Ma ogni città, e in Calabria non sono parecchie, nello stesso tempo è un luogo dell’immaginazione e della costruzione dell’avvenire. Le città più dei paesi ci mostrano un tempo in movimento. Dove comincia Cosenza? Per me Cosenza, e tutto quello che rappresenta, comincia da Paola. Il posto in cui sono nato. E da cui sono sempre fuggito.

    A portarmi via era, da ragazzino, la vecchia littorina della cremagliera, poi il bus di Preite, poi l’autostop, anche due volte al giorno. Cosenza per me era come una calamita di irrequietezza pura. Era Cosenza in my mind. Eppure i mei primi ricordi di Cosenza non sono affatto simpatici, anzi.
    La prima volta che ci sbarcai, in treno, avevo al massimo otto anni, dopo la metà degli anni ’60. Era per passare una visita oculistica all’Enpas, negli ambulatori tetri di Via Miceli. Ero un bambino miope e i primi occhiali li misi proprio a Cosenza. Comprati dopo la visita con la ricetta dell’oculista dell’Enpas che si chiamava Cozza. E che mi mandò a prendere montatura e lenti da un ottico che si chiamava Cozza-Le Pera, su Corso Mazzini.

    Corso Mazzini negli anni '60
    Una cartolina degli anni ’60

    Ma il ricordo di quelle prime volte a Cosenza era anche scendere dalla littorina che sbuffava lenta e vedere ancora davanti alla stazione in centro le carrozzelle con i cavalli alla stanga e i cocchieri di piazza che davano la biada e le carrube da secchi di latta e sacchi di iuta alle bestie ferme coi paraocchi di cuoio in mezzo al traffico del primo mattino, già fumoso e strombazzante di 600 e vecchie Fiat Millecento. Si faceva sempre con mio padre una passeggiata e io mi incantavo davanti alle vetrine fornite di tutto dei negozi di Corso Mazzini. Era la cosa più vicina al cinema che avessi mai visto. Ma l’incanto più grande era quando si entrava nei “grandi magazzini”, i primi templi provinciali del consumo nati negli anni del Boom.

    Delizie di Cosenza

    Sul corso c’erano Bertucci e, soprattutto, la Standa. Quando si entrava alla Standa non era solo per comprare qualcosa che a Paola non c’era. Alla Standa c’erano le “Signorine”. Le mitiche commesse, giovani e belle, con le divise color pastello all’ultima moda e una specie di crestina o foulard in fronte. Erano tutte ben pettinate, con le unghie laccate di rosso e un bel rossetto vivace sulle labbra che sembravano attrici. Le voci e gli accenti flautati risuonavano ai microfoni per le chiamate alla cassa. Era un paradiso di delizie la Standa.

    Clienti in fila all'ingresso della Standa
    Clienti osservano le vetrine della Standa di Cosenza negli anni del Boom

    Fuori si passava davanti a un chiosco di cravatte fornitissimo e poi ad un altro dove c’era una specie di pasticcere-acrobata, Ciccillo u caramellaro, che dietro un bancone fabbricava al momento caramelle. Stendeva la pasta di zucchero bollente e colorata manovrando spatole e attrezzi con l’abilità di un funambolo, poi quel serpente coloratissimo si trasformava in bastoncini di zucchero. Il resto lo tagliava con una forbice e spezzava in tocchetti grossi le caramelle che si vendevano a dozzine. Io prendevo sempre quelle frizzanti al limone, colorate a strisce di verde e di giallo. Poi c’era la fermata all’edicola vicino al Comune, dove per consolazione dei pianti che mi facevo per gli occhiali che non volevo mettere, papà mi comprava gli albi a fumetti del grande Blek e di Capitan Miki e pure le bustine delle figurine Panini. Prima o dopo il passaggio dall’ottico, che nel frattempo era diventato Ambrosio.

    Enzo Giudice, noto a tutti i cosentini come "Cicciu 'u cravattaro"
    Enzo Giudice, “Cicciu ‘u cravattaru”, nel suo chiosco
    Due personaggi da cinema

    A quei tempi si incontravano per strada altre due strane attrazioni cosentine, personaggi eccentrici che ricordo nitidamente, come fossero usciti da un film. Il primo era un tizio dal fare dimesso con una cassetta di legno e dei santini in mano che chiedeva con molliccia e querula insistenza un’offerta per Sant’Antonio. Erano dieci lire, dieci lire: «Picciri’. mi ci metti dieci lire pe’ piaciri?». La richiesta mi metteva sempre a disagio.
    Poco più avanti si parava una donna grassa con i capelli giallissimi, vestita con stoffe colorate, collane vistose e grandi orecchini. Aveva sul marciapiede del corso una specie di banchetto per le riffe dietro cui stava seduta come una matrona, e un pappagallo sulla spalla che se compravi un numero l’uccello a un suo comando tirava via col becco da una specie di rastrelliera di carta il biglietto corrispondente.

    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu Sant’Antonio i l’uartu“
    Giacinto Tarantino, “Cintuzzu i Sant’Antonio i l’uartu“, pochi anni fa su corso Mazzini

    Poi c’era l’immancabile visita di devozione (mia madre ci teneva che lo facessimo) alla chiesa di San Francesco di Paola, appena sopra il ponte Garibaldi. E prima di tornare a piedi alla stazione a riprendere la cremagliera per Paola, papà comprava un pane caldo e fragrante insieme a una guantierina di paste da riportare a casa. Era tutto buonissimo. Così, da quei primi viaggi, presi da ragazzo l’abitudine, anzi il vizio, di Cosenza.

     Il richiamo della città

    Era un posto pieno di richiamo: aveva l’aria della città, Corso Mazzini, il Rendano, i palazzi grandi, i bar sempre pieni e i negozi con le vetrine e le commesse eleganti, le automobili nuove. Una delle scuse per salire a Cosenza erano i traffici con gli zingari accampati tra le baracche di Gergeri e via Popilia. Io e una banda di lucignoli del quartiere ferroviario nei giorni di filone salivamo sul trenino per Cosenza e passavamo da loro a vendere il rame raccattato lungo i binari della stazione e dai resti avanzati dai lavori sulla ferrovia sotto casa.

    Ne ottenevamo in cambio un po’ di soldi e meglio ancora: fibbioni di ottone molto beat (quelli erano gli anni dei Beatles e dei teddy boys). Oggetti bellissimi di artigianato che in realtà erano per loro solo finimenti per cavalli, o anche le bellissime zingarole, gli scacciapensieri, forgiate da un fabbro al momento, con la linguetta di ferro che se non la sapevi suonare bene ti tagliava la lingua come una lama di rasoio.

    Pane e rose

    Poi quando divenni ancora un po’ più grande Cosenza la frequentai per la vecchia libreria Feltrinelli di Corso Telesio. Qualche volta, complice un vecchio funzionario del Psi messo lì a fare da libraio che chiudeva un occhio, rubavo i libri di letteratura e filosofia che non potevo comprarmi.
    Dopo il pane, le rose. Le rose erano le scorribande a Piazza Kennedy e quel formicaio di ragazzine vocianti che si aggrappavano sotto le ali del monumento di Baccelli. Poi venne il tempo del Teatro dell’Acquario e il Centro RAT, gli spettacoli di prosa impegnati di Antonante, i seminari del Living di Julian Beck e Judith Malina, di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Mario Martone e Memé Perlini, la musica e le parole colte del teatro al buio, e quell’aria da off-Broadway di provincia che si respirava lì intorno.

    La vecchia piazza Kennedy
    La vecchia piazza Kennedy a Cosenza col monumento di Baccelli trasferito poi su viale Mancini

    E poi lì, accanto alla sala dell’Acquario, c’erano le ballerine della scuola di danza della Sisca. Giravo sempre lì intorno. Le ragazze della scuola erano belle, sottili, diafane, eleganti, allegre e garrule come rondini di primavera. Poi per me venne il tempo serio e pensoso dell’Università di Arcavacata, Arca, la nostra Macondo. L’Arca di Noè del nostro diluvio generazionale. Arca fu l’incubatore della mia metamorfosi da figlio di ferroviere scapestrato e sognatore a studente modello di sinistra-incazzato-impegnato e, infine, professore.

    Tempi moderni

    E intanto mi accorgevo che anche Cosenza un anno dopo l’altro dilatava i suoi confini, cambiava di fisionomia. Diventava grande, sempre più grande e piena di palazzoni di cemento, nuovi, grigi e colorati, attraversati da strade piene di auto. Tutti segni che si vedevano già dai finestrini della Littorina prima di scendere alla stazioncina-capolinea di Cosenza-Piazza Bruzi. Di mezzo c’era passata altra storia e gli effetti della politica, i grandi cambiamenti, la “modernizzazione”. La fame di terra e la crescita del cemento in alto e in basso, dopo l’ininterrotta spinta urbanistica e speculativa iniziata negli anni del Boom, giunge al suo apice a Cosenza dopo che una richiesta di “depennamento dall’elenco delle zone sismiche di secondo grado” trova accoglimento alla fine degli anni ‘60.

    Il limite di prudenza che aveva stabilito sino ad allora la sopraelevazione dei nuovi edifici in città “sino ad un massimo di cinque piani” fu innalzato con un provvedimento ad hoc approvato dai governi di centrosinistra dell’epoca. Decisivo l’accordo dei due massimi dioscuri della politica cosentina, Giacomo Mancini e Riccardo Misasi. Sono entrambi alfieri della modernizzazione calabrese al cemento e dell’espansione clientelare del terziario assistito, settori che infoltiranno le fila della pubblica amministrazione e della piccola borghesia urbana che in quel momento rappresentano il contingente più significativo della nuova popolazione inurbata che affollerà la Cosenza in espansione di quegli anni.

    Quali sono stati i ministri calabresi nella storia repubblicana
    Giacomo Mancini al tavolo delle trattative per la formazione del primo governo Andreotti
    Il sacco di Cosenza

    L’elevazione delle nuove costruzioni oltre il limite del quinto piano, svecchiando l’aspetto urbanistico della città, “avrebbe inoltre reso accessibile alle classi meno abbienti l’acquisto dell’alloggio”. Gli amministratori cosentini dell’epoca salutarono la rimozione del fastidioso vincolo sismico come “uno strumento idoneo per il ribasso dei prezzi delle aree fabbricabili”. In realtà risulterà presto chiaro che quell’abolizione, determinando “una sensibile riduzione per i costi dell’edilizia”, avrebbe favorito le crescita delle rendite immobiliari. S’intensificò l’attività di speculazione edilizia nelle aree in piano, un tempo agricole, ai piedi del centro storico. E si diede così la stura all’abbandono dei vecchi quartieri del centro storico e delle prime addizioni urbanistiche tardo ottocentesche e novecentesche.

    Fu l’inizio del sacco edilizio della città. Da quel tempo dura ancora oggi in modo inarrestabile. Cosenza fu tutto un fiorire di gru e di cantieri. Quella poderosa spinta alla speculazione partita negli anni ’60 e non ancora arrestata dalla crisi si è rivelata una manna per cementisti, costruttori e palazzinari. Già nel 1971 Cosenza raggiunge di gran carriera la quota di quasi 118.000 abitanti residenti nel circuito della città nuova che si dilaterà ben oltre il limite del Campagnano. Un record che neanche la ricorrente retorica della “Grande Cosenza” di oggi sfiora, se non raccogliendo i cocci sparsi della cosiddetta area vasta formati dai comuni limitrofi, oramai conurbati.

    Una zuppa di città

    Nel frattempo sono cresciuti quartieroni sempre più nuovi e più grandi, nuove zone residenziali, periferie e suburbi, svincoli, rotatorie, semafori e incroci, bretelle, viali attrezzati, aree commerciali e dirigenziali. Tutto tenuto insieme solo dal traffico e da strade che spesso si perdono nel vuoto. Un groviglio più o meno fitto e disunito, che forma tutt’al più una zuppa di città. Per ora c’è solo il simulacro, il fantasma scheletrico del cemento armato, a disegnare le linee interrotte della Grande Cosenza. Ma non gli abitanti, i cosentini. Anzi i cusendini. Gli abitanti degli avamposti della nuova Cosengeles, sono invece sempre di meno: oggi assommano poco più di 65mila, da 118 mila che erano cinquant’anni prima. Cosenza però, pur se gonfia di ormoni consumistici e cemento da metropoli post moderna, non è ancora diventata una vera città metropolitana, nonostante le sue ambizioni provinciali.

    I palazzi cresciuti a Cosenza intorno all'imbocco dell'ex Salerno-Reggio Calabria
    I palazzi cresciuti intorno all’imbocco dell’ex Salerno-Reggio Calabria

    Dove comincia e dove finisce Cosenza adesso? Non è mica davvero Cosengeles. Eppure non si capisce che geografia abbia, che volto voglia mostrare, che postura voglia tenere. Strade, e Cosenza in mezzo a un groviglio di strade: la 107 Silana-Crotonese, che valicando l’Appennino congiunge Paola all’autostrada del Mediterraneo (che una volta era semplicemente la Salerno-Reggio Calabria) e poi risale verso la Sila fino a toccare lo Ionio a Crotone; il lungo stradone che conduce ai Cubi Gregotti dell’università di Rende e a quella striscia slineata e disarmonica di grigi quartieri dormitorio che scende dalle colline presilane e dai suoi antichi casali e si salda come una frana che un chilometro dopo l’altro inghiotte tutto il fondovalle costeggiando le due sponde del Crati, fino alla soglie di Montalto, Taverna, Rose.

    I quartieri sul Tirreno

    È la Cosenza capitale del cemento facile che vorrebbe intitolarsi “area urbana”, dove l’urbano altro non è che il prolungamento isolato e zeppo di casermoni in cui la vita scorre ai lati della 107, della vecchia e nuova 19 delle Calabrie, prima di confluire nel traffico che si dirama ininterrotto sull’asse nord-sud, fino a scendere di nuovo verso Paola, sulla traccia tortuosa della statale 18, la prima Salerno-Reggio Calabria della storia. Per spegnersi poi a rivoli di sudore, polvere e catrame diuturni sulle spiagge del Tirreno.

    In mezzo, quel vasto e sfrangiato compound delle vacanze pendolari e low cost che è fatto di fitti di fortuna e delle seconde e terze e quarte case dei dannati dei bagni con famiglia al seguito. Vacanze al mare che sono i cubicoli all’implacabile calura d’agosto e le scatole da imballaggio delle due settimane con le famiglie al mare, in fila sotto i cavalcavia e i binari della ferrovia tra Torremezzo, San Lucido, la marina di Paola, Fuscaldo, Acquappesa, Sangineto: i quartieri d’estate dei cosentini.

    (le immagini d’epoca all’interno dell’articolo sono pubblicate sul gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando il calabrese era… la sua zampogna

    BOTTEGHE OSCURE | Quando il calabrese era… la sua zampogna

    «Personaggio importante, aspettato e desideratissimo, quasi all’improvviso sbuca fuori dal suo nascondiglio, dove pel resto dell’anno si cela alla vista altrui». Così, nel 1886, il pratese Apollo Lumini scriveva dello zampognaro in uno studio sul Natale nei canti popolari calabresi. Nel romantico Ottocento questa figura di musico-girovago ha stimolato la penna di numerosi storici delle tradizioni popolari. Il collegamento col Natale è immediato: in molte culture è proprio la zampogna ad annunciare l’arrivo della festa per eccellenza, le cui note cominciano a udirsi per le strade dei paesi già dai primi giorni di dicembre. Non si può parlare però di una “economia della zampogna calabrese”. Spesso gli zampognari erano semplicemente pastori-contadini che nel periodo natalizio sfruttavano le proprie abilità musicali per rimpinguare i propri guadagni.

    Una sequenza de “Dal tronco al suono. La zampogna di Andrea Pisilli”, documentario girato e montato da Gianfranco Donadio e Agostino Conforti e prodotto dal Centro Demoantropologico, in collaborazione col Laboratorio multimediale di Sociologia e Scienza politica dell’Unical
    Accattoni e migranti

    Con la celebre “zampogna a paro” calabrese sotto braccio questi pastori si spostavano dai paesi verso le grandi città. Tutto per guadagnare pochi spiccioli, in alcuni casi come accattoni ai bordi delle strade ad annunciare e allietare le festività imminenti. I “pifferari” calabresi partivano alla volta dell’allora capitale dello Stato Pontificio per far musica durante la novena di Natale. Le tante edicole votive incastonate nei muri di Roma erano i luoghi privilegiati verso cui si rivolgevano questi “concertini improvvisati”. Altre volte erano le famiglie più in vista a chiamare i pifferari a suonare nel proprio palazzo in ciascuno dei nove giorni che precedevano il Natale.

    Zampognari del Regno di Napoli che a Roma suonano per la Novena di Natale. Stampa di Pinelli del 1815
    Zampognari del Regno di Napoli che a Roma suonano per la Novena di Natale. Stampa di Pinelli del 1815

    Dai paesi più remoti dell’Aspromonte e del Pollino gli zampognari raggiungevano la Toscana, Napoli o la Puglia. I più ardimentosi si spingevano fino a Parigi. Con i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas.

    Intorno al 1853 il fotografo André Adolphe-Eugène Disdéri (1819-1889) immortalò a Parigi – quasi fossero esemplari di una specie rara – due “nativi di Calabria” abbigliati con mantelli e cappelli e muniti, manco a dirlo, uno di zampogna, l’altro di ciaramella. La loro immagine è oggi patrimonio del Getty Museum, vivida testimonianza dell’epoca degli imperi, delle razze e degli “altri” messi in mostra alla stregua di animali nei recinti e nelle gabbie delle grandi Esposizioni universali.

    Arrivano “i calabresi”

    Nella Toscana ottocentesca “calabresi” era l’appellativo – pronunciato in tono evidentemente dispregiativo – che accomunava tutti i suonatori di zampogna. Non importava se «questi infelici in cerca di pane» provenissero da Abruzzo, Campania, Lucania, Puglia: erano tutti “Calabresi”! Il già citato Lumini ci lascia una testimonianza importantissima su quanto fossero forti e radicati i pregiudizi sugli zampognari, migranti dal Sud in cerca di fortuna: «I ragazzi accerchiano i calabresi (così li chiamano in Toscana, mettendo tutte in un mazzo le varie nazionalità meridionali) e li salutano con urli, fischi, e spesso, nella loro crudeltà fanciullesca, aizzata dall’ignoranza e malvagità dei grandi, usano contro quelli infelici, venuti di lontani paesi, trascinandosi dietro moglie e figlioli, laceri ed affamati, argomenti più materiali e non sempre inoffensivi».

    Il motivo di tali invettive è presto detto: in Toscana troneggiava incontrastata la credenza popolare che gli zampognari portassero il maltempo. Gli si gridava dietro con tono sprezzante «e’ pioè, e’ pioè, e’ fanno pioère». Spesso, senza pietà alcuna, le guardie municipali li allontanavano dai paesi. Viene da chiedersi se, ed eventualmente quanto, la presenza degli zampognari calabresi abbia influito sul consolidarsi in molte regioni di una mentalità che porta a guardare al calabrese con sospetto, con stereotipi che resistono al comune sentire. Quel che è certo è che nelle stampe o nei resoconti di viaggio ottocenteschi il calabrese era soprattutto la sua zampogna.

    Zampogne e rampogne
    Suonatori di zampogna e di ciaramella a Samo (RC) nel 1924, fotografati da Gerhard Rohlfs
    Suonatori di zampogna e di ciaramella a Samo (RC) nel 1924, fotografati da Gerhard Rohlfs

    Portavano con sé la ceramella e la zampogna i due contadini che Gerhard Rohlfs, studioso tedesco innamorato delle tradizioni e dei dialetti della Calabria, fotografò nel 1924 a Samo, in provincia di Reggio Calabria nel 1924. Ma non c’è paternalismo né malizia. Lo studioso era consapevole che nella propria terra d’origine gli zampognari erano portatori di festa e allegria. Rappresentavano una presenza fissa nelle innumerevoli feste patronali, spesso in associazione con altri suonatori di strumenti tradizionali, su tutti tamburi e tamburelli. Un acquerello realizzato nel 1811 da Luigi Del Giudice e conservato al museo San Martino di Napoli rievoca un momento di festa a Serra San Bruno in Calabria Ultra (oggi in provincia di Vibo Valentia). E, ovviamente, non può mancare lo zampognaro ad accompagnare le danze popolari in onore di S. Bruno.

    Festa di S. Bruno a Serra, in Calabria Ultra. L. Del Giudice, 1811. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino
    Festa di S. Bruno a Serra, in Calabria Ultra. L. Del Giudice, 1811. Napoli, Museo Nazionale di S. Martino
    Zampognari all’Opera

    Anche il compositore e librettista Ruggero Leoncavallo li inserisce ne “I Pagliacci”, opera ispirata a un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo nel 1865. La stessa opera è ambientata a Montalto nei giorni della festa dell’Assunta, che si teneva e si tiene tuttora a ferragosto nella chiesa della Madonna della Serra, e Leoncavallo si mantenne fedele, per le scene e per i costumi, alle ambientazioni e al vestiario tipico del luogo: «Gli zampognari arrivano dalla sinistra in abito da festa, con nastri dai colori vivaci e fiori ai cappelli acuminati».

    Il compositore folignate Vito Fedeli incontrò un gruppo di ciarammeddrari o zampognari che dai villaggi dell’Aspromonte «eran discesi in città per fare la Novena del Bambino». Nel suo saggio datato 1912 Fedeli nota come i musici si dividevano la città di Reggio in varie zone «per non farsi tra loro una nociva concorrenza» e forse «per rispetto alle tradizioni, o per spirito di carità verso i ciaramellari, o per sentimento religioso, o per passatempo dei fanciulli» tutti spalancavano la porta della propria abitazione.

    Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi '900Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi '900
    Zampognari e suonatori ambulanti con costumi calabresi. Inizi ‘900
    Amore e odio

    Era un rito atteso che nell’euforia collettiva si protraeva dal 16 al 24 dicembre. Ma non era così per tutti. Sul suo giornale politico-letterario Il Bruzio, Vincenzo Padula scriveva nel 1846 che «le zampogne e le cornamuse sono la sua disperazione» e che «il Bruzio inseguito dalla cornamusa scappò di casa». Dalla zampogna alla rampogna: «Il ministro Sella avrebbe fatto una bella cosa ed un grosso guadagno se avesse imposto una tassa ai panettieri, ai bottegai, ai pastaiuoli di Cosenza, ed all’infinita turba dei gonzi, che posseggono il barbaro gusto di farsi suonare la cornamusa sera e mattina avanti l’uscio di casa con grave disturbo dei vicini, che hanno orecchio delicato e sonno leggero».

  • BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    BOTTEGHE OSCURE | Quando a Parigi facevamo i… fichi

    Dalle neviere ai fichi ci fa da trait d’union la scirubetta. Era una e una sola l’essenza per eccellenza che si mescolava alla neve raccolta al momento e trasformata in granita nel bicchiere: il miele di fichi. Questa leccornia tanto ricercata quanto complessa da ottenere, è solo uno dei prodotti che nella Calabria e nel Cosentino si ricavavano dalla coltivazione dei fichi. Oltre al frutto da mangiare fresco e al miele ricavato tramite la sua bollitura e spremitura, a tenere alta la bandiera calabrese negli scorsi decenni sono stati i fichi secchi, che nella seconda metà dell’Ottocento raggiungevano le tavole di mezza Europa rappresentando per la Calabria una significativa fonte di guadagno.
    Altro che “non valere un fico secco”!

    Ficu prene

    La cultura popolare e contadina ha poi elaborato il prodotto in varie altre declinazioni, in base alla forma, all’intreccio, all’essiccazione, al passaggio in forno o all’abbinamento con altra frutta secca. Le crucette, che Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese chiama anche ficu prene e definisce «due o quattro fichi spaccati, imbottiti di noci e simili ingredienti, incastonati a forma di croce e tostati al forno», sono forse i prodotti più noti, ma non sono i soli. Ficu ‘mpurnate, cioè passate al forno, jette, trecce di fichi secchi infilzati ad un’asta di canna, ficu a pallune, i fichi secchi e infornati, uniti all’interno di foglie a formare una palla dalla grandezza di un pugno, sono solo alcune delle specialità tradizionali più ricercate. Ma a volerle elencare tutte… te salutu ped’e ficu!

    Fichi al forno
    Fichi al forno (foto Rosalia Spadafora)
    Influssi astrali

    Tra Cinquecento e Seicento i fichi calabresi erano rinomati soprattutto fuori regione. Ne offre una preziosa testimonianza lo storico Giovanni Fiore da Cropani in Della Calabria Illustrata (1691): «Nientemeno più prezioso, e per la copia e per la perfezzione egli è il raccolto delli Fichi. Principia egli nel mese di Giugno, e si allunga fin all’altro di Decembre». Fiore scrive a proposito della coltivazione, della diversità delle specie e dell’esportazione verso Napoli, Sicilia, Roma e addirittura Malta.

    Ma come tutti i prodotti della terra, si credeva che anche i fichi fossero soggetti agli influssi astrali e che richiedessero particolari attenzioni nella coltivazione. L’astronomo/astrologo cosentino Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo divideva i frutti in tre gruppi di dodici. Li distingueva tra quelli che «si mangiano tutti», quelli che «si mangiano dentro» e quelli che «si mangiano quello di fuora». I fichi «che si mangiano tutti» erano dominati dall’Orsa maggiore. Nel calendario annuale, invece, era da annotare la data del 31 agosto, in cui «Andromeda appare, e fa freddetto, ed in questi tempi si domesticano li fichi, e s’incomincia dai 14 di luglio ad innestare et insertare».

    Secondo Benincasa persino il lattice, cioè la sostanza bianca che stilla dal fico non ancora maturo appena raccolto o dalle sue foglie, aveva proprietà benefiche, tanto che a chi avesse voluto far passare il gonfiore di punture di api o di vespe consigliava: «Sopra detto morso vi metterete latte di fico».

    Dalla seta ai fichi

    Dalla fine del Settecento la coltivazione prendeva sempre più piede nelle campagne calabresi, con un particolare incremento nel Cosentino. Nel 1792, nel corso di un viaggio in Calabria, attraversando il Cosentino l’economista e intellettuale napoletano Giuseppe Maria Galanti notò che i fichi stavano lentamente prendendo il posto dei gelsi, a testimoniare un’involuzione dell’economia della seta. Quella dei fichi era infatti una delle “estrazioni della provincia” e «olio, fichi ed uve passe, qualche volta grano» erano le uniche esportazioni che giungevano «fuori dal Regno».

    Certo, il commercio era ostacolato da numerose “vessazioni”. Tra queste, il “lasciapassare” che era necessario anche all’interno della Calabria «per trasportarsi i generi d’olio, di cotone, formaggio, lana, lino, canapa, fichi secchi, da un lato all’altro». Galanti non può fare a meno di notare e annotare che «la miseria sembra estrema ne’ casali di Cosenza. La principale industria era la seta; si tagliavano prima li castagni per piantare gelsi: oggi si esercita a pura perdita ed in luogo di gelsi si piantano fichi». Anche nel Vallo, cioè nei paesi della Valle del Crati, «da pochi anni si sono fatte gran piantagioni di olivi e di fichi dove i gelsi si sono invecchiati».

    Così pure nel «litorale da Amantea a Belvedere» l’industria della seta, un tempo principale, era in declino, mentre era attivo un discreto commercio di fichi secchi. La coltivazione dei fichi era praticata abbondantemente anche nelle altre aree della regione, ma non sempre riusciva a travalicare i confini territoriali. A tal proposito lo stesso Galanti fa notare che nei dintorni di Tropea «i fichi secchi si reputano i migliori del paese» ma la loro esportazione era scarsa: «si seccano i fichi e le prugne damascene, che sono ottime, ma sono per l’uso del paese».

    Trecentomila quintali

    A fine Ottocento le qualità più pregiate venivano coltivate a Cosenza, Rende, Rose, Castiglione Cosentino, Roggiano, Torano, Rovella e Zumpano. La produzione in media raggiungeva i 300 mila quintali. La gran parte di questi veniva esportata «al prezzo medio di L.34 per ogni quintale». Il prodotto di prima scelta veniva confezionato e spedito all’estero.

    La Francia ne importava ancora agli inizi del Novecento le quantità più significative, ma fichi calabresi giungevano anche in Olanda, in Austria e, ovviamente, in tutte le regioni d’Italia. Se ne trova menzione anche nel carteggio di Filippo Turati, uno dei fondatori nel 1893 del Partito dei lavoratori italiani dai quali nascerà lo storico Partito socialista. In una sua lettera del 1920, infatti, Turati accenna a un Berardelli indicandolo come «quello dei fichi di Cosenza».

    Non mancavano le note dolenti. Non sempre i prodotti calabresi riuscivano a imporsi all’estero, e a difettare non era la qualità, ma spesso la capacità di saperli presentare in modo efficace. Durante un congresso di frutticoltura nel 1927 uno dei relatori, a proposito dell’esportazione dei fichi di Cosenza, notava che spesso «difetti nella scelta delle razze, nella cernita e nella confezione del prodotto, nei sistemi di imballaggio, tengono i nostri fichi secchi in condizione di inferiorità» ma allo stesso tempo ricordava che «i migliori fichi di Cosenza, esportati in Francia e pagati a prezzi modici, vengono quivi accomodati in modo civettuolo in eleganti cestini e rimessi in commercio col nome di fichi di Smirne!».

    Siccaficu e leghe bianche

    Ogni quintale di fichi secchi richiedeva un notevole lavoro. Trattandosi di un prodotto essiccato al sole la variabile metereologica incideva molto. La parte destinata all’essiccazione veniva raccolta dagli alberi una volta giunta a maturazione, i passulùni, e riposta sulle cannizze, graticci di canne intrecciate, pronte a essere ritirate in fretta all’asciutto al primo accenno di pioggia. Ma anche dopo riposte sulle cannizze, il lavoro non era finito. Periodicamente era necessario girarle da un lato, dall’altro, e anche con la punta in alto, perché si essiccassero in maniera uniforme.

    Fichi sulla cannizza
    Fichi in essiccazione sulla “cannizza” (foto Rosalia Spadafora)

    Distese di cannizze colme di fichi al sole costellavano così le campagne attorno alla città e quelle più vicine ai paesi attorno a Cosenza. Per gli abitanti di Sant’Ippolito, ad esempio, Vincenzo Padula riporta il soprannome di siccaficu, a conferma che l’attività era tanto diffusa da caratterizzare il paese. E una simile cosa doveva avvenire a Torzano, attuale Borgo Partenope, dove ancora negli anni ’20 del secolo scorso si era soliti fare anche una “raccolta delle fichi”, oltre che di grano e mosto, per sovvenzionare le feste di Santa Maria e dell’Immacolata che si tenevano all’inizio e alla fine di settembre, il mese dei fichi per eccellenza.

    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi
    Donne al lavoro in una fabbrica di fichi – I Calabresi

    In questi centri, così come a Donnici e negli altri paesi del Cosentino, gli intermediari acquistavano la parte migliore per poi immetterla sul mercato. Le famiglie, invece, tenevano quelle di minore qualità da ‘mpurnàre o trasformare in crucette conservandole in apposite ceste o nei casciùni. A contrastare l’attività lucrosa degli intermediari provò don Carlo De Cardona che, nel primo decennio del Novecento, tramite le sue “leghe bianche” aveva incentivato la nascita di una cooperativa di produzione. La cooperativa aveva rappresentanti a Marsiglia, dove giungeva una parte significativa dei fichi calabresi.

    Un frutto, tante varietà

    «Che dir dobbiamo ai venditor di fichi?» si chiede Nicola Leoni in Della Magna Grecia e delle Tre Calabrie (1844). Nel suo pistolotto lirico lo scrivente ammonisce i contadini calabresi dediti a ogni sorta di magheggio pur di piazzare la propria mercanzia: «I buoni esporre de’ canestri in fuori […] i viziosi e i duri occultare in sotto». E di fichi eccellenti, o almeno di buona qualità, in quelle ceste non dovevano essercene in grande quantità. I pezzi migliori, cioè quelli più grassi e intonsi, erano destinati all’esportazione.

    Ficu citrulare
    “Ficu citrulare” – I Calabresi

    Gli almanacchi di cultura popolare calabrese e le istruzioni a uso del contadino citano molteplici varietà. Tra queste:

    • il dottato (volgarmente ottato), «varietà squisita che viene principalmente e specialmente adoperata per seccare»
    • i fichi melignana, che per forma e colore rassomigliavano a una melanzana
    • il calastruzzo, «piccolo e saporito»
    • i fichi biferi
    • i fichi fiore (fioroni), con buccia verde, frutto paonazzo «grossi e di sapore gradito»
    • il messinese
    • il natalino nero
    • il troiano
    Cosenza vs Smirne

    Nella seconda metà dell’Ottocento il fico dottato bruzio era rinomato e secondo soltanto a quello coltivato nella città turca di Smirne. Il motivo è presto detto: il fico cosentino «è più ricco in glucosio, ma più deficiente in sostanze proteiche dei fichi di Smirne: in confronto a quelli i prodotti calabresi sono più piccoli». Anche in termini di peso medio la differenza era macroscopica: 22 grammi contro 10.

    Ciò secondo gli “addetti ai lavori” era dovuto a una coltura praticata in maniera non razionale, senza cure alla pianta e in maniera promiscua, cioè affiancata ad altre piante. Anche per quanto riguarda le fasi successive il caro vecchio almanacco si premura di sentenziare: «Converrebbe migliorare la tecnica dell’essiccamento che si fa al sole pei primi fichi e al forno per gli ultimi, ma sempre con mezzi deficienti, in caso di variazioni dell’andamento della stagione».

    Figues de Cosenza
    Dal gruppo Facebook "Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza"
    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Bertini, Garritano, Colavolpe, Aloisio sono solo alcune delle decine di aziende del Cosentino con una solida tradizione famigliare alle spalle dedite alla lavorazione e al commercio di fichi infornati, ricoperti, imbottiti. Molti anni prima delle fortune di costoro altri imprenditori, autentici pionieri nel settore, guardavano Oltralpe per piazzare la propria migliore mercanzia.

    Una preziosa testimonianza sulle qualità e le tipologie di fichi esportati è offerta dai marchi e modelli originali custoditi nei corposi registri dell’Archivio Centrale dello Stato. La città di Cosenza e il suo produttivo hinterland (Bisignano, Torano, Vaccarizzo, Montalto Uffugo) si presentavano sul mercato transalpino con un tripudio di etichette sulle quali campeggiavano ancore, pavoni, docili mucche e felini, stemmi inquartati e divinità alate.

    Alcuni sono davvero essenziali, come quello studiato da Catiello Florio, dedito alla fichicoltura dal 1883. C’è poi la ditta Barone&C. di Bisignano, che negli anni ’30 del Novecento si presentava sulle piazze di Parigi, Lione e in tutta la Francia con addirittura quattro specialità a base di fichi e una “prima scelta” propagandata da due falchi divisi da una stella. Infine nel 1906 Guglielmo Pellegrini Lise si rivolge senza mezzi termini ai propri affezionati clienti: «Tra i fichi di Cosenza preferite “la marca sette colli”, esclusiva produzione del luogo».

    Dal gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

     

  • IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    IN FONDO A SUD | Il treno della memoria all’incontrario va

    Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.

    La vecchia cremagliera

    La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.

    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    Passeggeri in attesa della littorina a Paola
    La prima vaporiera

    “Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
    Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.

    Dai soldati agli emigrati

    A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.

    La morte corre sui binari

    Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.

    In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.

    La vecchia stazione di San Lucido
    La vecchia stazione di San Lucido

    Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.

    Testimoni di un’altra epoca

    La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».

    Il lungo addio

    Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».

    emigrati alla stazione di Milano
    Emigranti in attesa a Milano Centrale

    Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.

    Il treno per Ferramonti

    Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.

    L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».

    Internati a Ferramonti
    Internati a Ferramonti

    A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.

    L’ultima cremagliera della notte

    Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.

    La scrittrice Elsa Morante

    Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».

    Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».

    I binari della stazione di Falconara Albanese
    I binari a Falconara Albanese
    Il progresso divenuto rudere

    Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.

    Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.

    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza
    Un treno nella vecchia stazione di Cosenza

    Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese

    […] Catanzaro è città complicatissima da raccontare in poche pagine, da fotografare in poche immagini. È impossibile tenerla ferma, costretta in posa. La sua dialettica è instabile, un’altalena di sensi opposti, oscillanti tra alto e basso, salite e discese. È un luogo sfuggente, molteplice, contrastante. L’intera fisionomia della città ha qualcosa di pericolante, sgangherato e diffratto. Sembra percorsa da una corrente alternata.

    Fuggito da Catanzaro per diventare Rotella

    Come la stessa ansia esaltata di una di quelle affiche cinematografiche fatue e sognanti sovrapposte alle vecchie pubblicità annonarie e alle belve circensi graffiate e strappate via in un gesto di sfregio carico di furiosa rabbia creativa, alla maniera iconoclasta di Mimmo Rotella. Mimmo Rotella, che fu il suo più grande e geniale artista-simbolo. Che da Catanzaro, per poter diventare Rotella, però, è fuggito, anche lui, prestissimo.

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    Un’opera dell’artista catanzarese Mimmo Rotella
    Il Marc Augé che non ti aspetti

    Qualche anno fa nel corso di un viaggio di studio in Calabria, a vedere Catanzaro c’ho portato in visita Marc Augé. Eravamo in macchina, guidavo io, lui guardava fuori: dopo un’ultima curva, sbucati dalla caverna buia del tunnel Sansinato, Catanzaro si parava improvvisamente davanti, alta fino al cielo: il suo skyline scosso da una specie di onda sismica di cemento e bastioni fatti di palazzoni in technicolor aggrappati a casaccio su una rupe a precipizio tra i due mari, in cima alla vertigine arcuata del ponte Morandi. E Marc Augé, l’antropologo inventore della nozione di “non luogo”, l’esegeta delle metropoli contemporanee e delle società post-tutto, davanti a questa sorprendente visione, ha esclamato, colmo di stupore: “et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!”.

    L’antropologo francesce Marc Augé

    Non si sbagliava l’antropologo dei non luoghi, già a prima vista Catanzaro è un posto è sorprendente. La visione di quello che ti viene addosso dall’auto prima di infilare la bretella che sale fino al Ponte Morandi è senza scampo. Sbuchi fuori ed è un muro di palazzi e palazzoni, di case vecchissime e nuovissime, screpolate e compatte, alte fino al cielo, nude e malinconiche come l’azzurro allucinato dello Ionio.

    Catanzaro è un inganno del tempo

    La città nuova si rovescia ben oltre l’argine di creta grigia dalle colline di Germaneto, l’antico granaio del suo contado. I cantieri fervono, a ritmi folli, incessanti. Questo terreno incerto su cui avanzano le ultime propaggini urbane sfrangiate dalle ruspe dei cantieri e spellate da un vento proverbiale, è il lembo più stretto d’Italia. Oggi è la trincea fluttuante di una terra di confine. Eppure all’alba, da lontano, Catanzaro, la città capitale della Calabria di oggi, potrebbe ancora apparire a un viaggiatore sonnolento e svagato un antico caravanserraglio chiuso tra le dune di un deserto orientale. Un inganno del tempo.
    Catanzaro ha le sue stranezze, un’astuzia delle forme apparenti fissate nel suo carattere paradossale, è il suo contrassegno, il distintivo perdurante.

    Un capoluogo con l’anima da strapaese

    È diventata città e capoluogo nonostante la sua ristrettezza da strapaese, l’isolamento e l’incredibile discontinuità spaziale. La fame insoddisfatta di spazio contrapposta all’abitudine atavica alla separatezza e all’abbarbicamento, qui ancora contano molto. Specie oggi che ogni cosa è cresciuta a dismisura. Catanzaro non ha mezze misure, qui tutto pare da un momento all’altro frenetico o stagnante. Dopo l’agitazione folle del mattino, c’è la gora languente della controra catanzarese. La città si svuota. Certi pomeriggi d’estate il Corso rovente è divorato dai soffi riarsi dello scirocco. Circolano solo i matti e qualche furtiva ombra umana risucchiata dal caldo, fantasmi che slittano via attaccati ai muri.

    Tra i cubicoli delle sua antica cittadella murata Catanzaro ridiventa provincia meridiana e orientale: i suoi cento caffè a tutte le ore (un rito: tu pijjhasti u’ ccafhhè?), i baretti sempre affollati, il sapido cibo di strada (c’è in città un’Accademia che celebra il culto interclassista del Morzello, la sua piccante zuppa di trippe e interiora), il discutere a crocchi, lo sfottò ferocissimo, il dialetto ostentato come lingua scettica e iniziatica, il lento passeggio sul corso.

    Il Paparazzo di Fellini era un oste di Catanzaro

    Catanzaro un tempo nota per la fiorente arte della seta e dei velluti ereditata dai fondatori bizantini e dagli ebrei della diaspora mediterranea, conserva uno spazio residuale per la storia e l’aneddotica. Qui vi sopravvivono le sue espressioni più ineffabili e vistose, i suoi linguaggi mischiati, le sue figure più umane paradossali. I “cathanzarisi”, con le loro posture sguincie, gli ammicchi teatrali, le sue stradine stravolte dal traffico che sale addosso ai pedoni. Questa città sta dentro il mondo contemporaneo con un suo certo particolarissimo stile. Come quel Coriolano Paparazzo, il “grumpy hotelier”, l’oste affettato e petulante proprietario dall’Albergo Centrale (sull’attuale Corso Mazzini), di Catanzaro, di cui lo scrittore vittoriano Georg Gissing, di passaggio da questa “cima ventosa” nel 1897, lascia una gustosa e memorabile descrizione nel suo diario di viaggio. Ritratto che non sfuggì a Fellini, che in crisi creativa, tra le more della sceneggiatura de “La dolce vita”, spostò il senso di quel cognome ruzzante così tipicamente catanzarese e ne fece il famoso nomignolo del suo reporter, fissando così l’appellativo che designa ancora oggi universalmente i fotografi d’assalto.

    I paparazzi della Dolce Vita di Federico Fellini

    Un altro risarcimento culturale che curiosamente, per l’eterogenesi dei fini così frequente nella vicenda catanzarese, la città del ponte e del vento ha regalato al mondo. Come ricorda anche una targa-memoriale apposta dal Comune nel 1999 sul luogo del fatidico incontro cittadino tra lo scrittore vittoriano e quel catanzarese doc.

    Dopo un po’ sei “amicu meu” ma non troppo

    Del resto a Catanzaro è facile sentirsi ospite. Fare amicizie e, pure, inimicizie durevoli. La gente ti vuole conoscere, ti annusa e accoglie, cordiale, manierosa, e circospetta e diffidente insieme. Non importa da dove vieni, dopo un poco sei “amicu meu”. Ma dopo anni qui non ti levi mai di dosso la sensazione che resterai comunque altro, separato da loro, come uno straniero tenuto sempre sotto osservazione, un avventizio in uno stato precario. È una città che dissimula e ti tiene in sospeso Catanzaro. Ti fa sentire di passaggio, in equilibrio sulla soglia, sempre un po’ indecisa sul da farsi.

    Città dove contano le superfamiglie e i segreti indicibili

    Catanzaro è resistente, fortemente identitaria. Basta a se stessa. Con poco meno di 89mila abitanti, Catanzaro è una città conservatrice, sfiancata dagli intrighi, da vizi strapaesani e da inossidabili e nostalgiche liturgie sociali. È chiusa in cerchie impermeabili, raccolta intorno a superfamiglie, consorterie sempiterne e a segreti non sempre dicibili.

    Piazza Matteotti e via Indipendenza a Catanzaro
    Cosa scrivono Strati e Alvaro

    Un romanzo (dimenticato) dello scrittore Saverio Strati, “È il nostro turno”, pubblicato da Mondadori nel 1975, rappresentava una Catanzaro post-bellica attardata negli anni 50’ in un’atmosfera da ancien régime, esasperata da povertà e disagi materiali e dalle sue angustie provinciali da nobiltà decaduta. Il realismo di Strati metteva a nudo il carattere ipocrita, pavido e valetudinario dei piccoli burocrati e della classe media catanzarese. Prima di lui Corrado Alvaro, che a Catanzaro si formò e fu allievo del Collegio Galluppi, degli ambienti culturali e della vita cittadina a sua volta aveva scritto in modo acre e penetrante in “Mastrangelina” (uscito postumo nel 1960).

    Città di burocrati bocciata da Pasolini

    Le chiusure e l’ostinato narcisismo, “l’esasperazione rituale” di certi tratti del costume cittadino non sono sfuggiti neppure a un reportage di viaggio di Pier Paolo Pasolini, che in visita in Calabria, era di passaggio per le vie di Catanzaro nell’aprile del 1964, in compagnia di Elsa Morante, alla ricerca di volti interessanti per il suo “Vangelo secondo Matteo”. «Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Ha un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità quella che caratterizza un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività, nascono solo dalle preoccupazioni individualistiche di una grigia classe impiegatizia».

    Una Metropolis da fumetto

    Oggi Catanzaro incombe e svetta sui valloni quasi come una Metropolis da fumetto futuribile disegnata a mano libera sul canyon della Fiumarella, il profondissimo dirupo naturale che un tempo la separava dal mondo. Migliaia di veicoli che arrancano sulle corsie intasate e verso i ponti, risalendo come una corrente inversa la cima della città. Sembra la vecchia fotografia di un luogo arcaico simile a un forte medievale, un nido d’aquile o l’acropoli antica di una polis sorta a guardia dei due mari. Le vecchie mura del forte di San Giovanni e il suo centro storico fitto di piccole case costruite da arabi e bizantini resistono disperatamente aggrappate sul filo del precipizio, simili a naufraghi abbracciati agli scogli di un’isola.

    Prova a trovare un parcheggio

    Il traffico è impressionante, non c’è mai un parcheggio. Si continua a costruire negli interstizi, tra un vuoto e l’altro si elevano le gru. A Catanzaro ogni cosa si presenta in salita, stretta, cabrata verso l’alto. Puntualmente, ogni volta che ci arrivo, il colpo d’occhio mi sfrena verso certe sensazioni profonde e incontrollabili. Catanzaro scatena irrequietezze. Ha inquietudini erotiche e languori, qualcosa che mi ricorda sempre l’inizio e la fine di certe oscure e intricate storie d’amore.

    Un emblema del Sud di adesso

    Vista più da vicino ti accorgi che la Catanzaro che oggi si affaccia dal suo ponte sequestrato e malsicuro (ma dal traffico sempre ininterrotto) che spicca su questo panorama ondeggiante tra svincoli e flying bridges da far invidia a Los Angeles, è davvero, forse più di altre, una città-emblema del Sud di adesso. Caotica e annoiata, avvolta come un ottovolante dal traffico delle ore di punta e orlata da una spessa e screziata cortina di grandi edifici e palazzoni nuovi che si superano in altezza e tracimano passando come un’onda di cemento da un vallone all’altro, da un ponte all’altro. Uno spettacolo sempre impressionante. In uscita, verso il tramonto, un altro punto di vista cade sulla crosta ininterrotta di case e palazzi cresciuti ex novo a catasta, in un enorme intrico di vani, svincoli e anelli di circonvallazione, cubature e prospettive fuori scala, quasi a formare un vasto ed esteso termitaio umano.

    C’erano una volta le aquile di Palanca

    Altro che Magna Graecia delle migliori annate, come proclamano di queste contrade sconvolte le guide di un turismo nostalgico. Ma anche la Catanzaro del XXI secolo a suo modo resta tributaria dei miti. Un mito suo, araldico, nobiliare, da primatista, molto auto-costruito, sempre preteso e mai conquistato, che risorge ogni giorno anche come tema politico e civico. Un leitmotiv rinfocolato e respirato dai catanzaresi come tema identitario che si impone assumendo spesso le forme di un delirio collettivo piuttosto sconnesso. Dopo la crisi della politica, si pensi al tifo e alla squadra delle aquile giallorosse, che è dai tempi dello storico gol segnato nel 1972 da Mammì alla Juve e dalle gesta funamboliche del mitico bomber–tascabile “Massimé-pari-‘na-molla-Palanca” (tripletta alla Roma nel 1978) non riesce più a rinverdire i suoi allori calcistici, galleggiando con frustrazione crescente dei tifosissimi locali nelle sabbie mobili di una serie C molto maldigerita per le pretese di pubblico e dirigenti cittadini.

    Un posto da antropologia del disordine

    Passano gli anni e Catanzaro la osservo, come faccio sempre ogni volta che ci ritorno; resta lì come un geroglifico disegnato tra il ponte e il cielo meridiano. Sono un irrequieto, e il mio è mestiere che si fa in movimento. Ma Catanzaro si è infilata dentro il mio lavoro, e dentro la mia vita come un ospite. Sono quasi una trentina d’anni ormai. È qui, nella città capitale di quelle che una volta erano le vecchie “Calabrie” degli scrittori del Grand Tour, che faccio quella che Marc Augé chiama “antropologia della prossimità”, l’antropologia di quello che vivo e vedo da vicino, di quel che siamo, piaccia o no. Col tempo dentro questi sguardi incrociati Catanzaro è diventata così anche il luogo di molte pagine della mia scrittura. Dovrei dire, dopo tutto questo via vai, che la città dei ponti e del vento si è presa un posto, un posto non da poco, anche nella mia vita. È un luogo interessante per uno come me. È un posto da antropologia del disordine sudista. Anzi, per me, è la già a modo suo la capitale post-moderna del gran bazar calabrese.

    LEGGI QUI LA PRIMA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

  • IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    IN FONDO A SUD | La Calabria e la cultura non si incontrano

    La Calabria e la cultura non si incontrano. Neanche dopo che i fuochi fatui della propaganda elettorale si sono spenti. Restiamo ai fatti, a quelli di oggi. La politica non crede che il futuro di questa regione abbia a che fare con la “Cultura”. Che sarebbe anche quella cosa con la quale, in una democrazia degna di questo nome, si smette di essere sudditi e clienti e si diventa cittadini attivi e consapevoli. E non di rado, dato che la cultura «non è cosa libresca e astratta», ma appartiene «al mondo della vita ed è in grado di produrre effetti politici e di muovere l’azione storica» (A. Gramsci), è quindi anche “lavoro”, e col lavoro, persino in Calabria, si mangia. E invece no.

    Nessuno si meraviglia se manca l’assessore alla Cultura

    Dall’organigramma comunicato dal nuovo presidente della giunta regionale Occhiuto, a mancare è proprio un assessorato e un assessore regionale che nel nome in ditta abbiano proprio il sostantivo identificativo di “Cultura” (e non i suoi surrogati di marketing). Idem, è notizia di alcuni giorni fa, la scelta amministrativa fatta dal nuovo primo cittadino di Cosenza, Franz Caruso, che nella città di Bernardino Telesio, quella che un tempo ebbe fama di “Atene delle Calabrie”, ha pensato bene a sua volta, almeno per ora, di fare a meno di un assessore responsabile alla cultura a alle politiche culturali.

    E questo in una città capoluogo, al centro di una vasta area urbana a cui risponde anche una popolazione universitaria, quella dell’Unical -la prima università- campus fondata in regione-, oggi seconda (dati Censis 2018) tra i grandi atenei statali italiani con circa 30.000 studenti e un migliaio di professori.

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    L’Università della Calabria
    Una strategia bipartisan

    Complimenti quindi per la scelta lungimirante e di grande efficacia strategica per il futuro della Calabria. Cultura: se ne fa a meno. Con accordo e spregio bipartisan che mette sullo stesso piano schieramenti politici, sulla carta, di diverso orientamento.
    La Calabria ha certo molte urgenze da risolvere. Altri problemi, molto compromettenti, si sono accumulati in decenni di malgoverno e di incuria. Sono sotto gli occhi di tutti, e tutti ne paghiamo caro il prezzo. Ma la crisi delle politiche culturali e lo stato di paralisi della cultura amministrata dai poteri pubblici in Calabria non può essere considerato il livello meno compromettente e preoccupante della crisi complessiva che attraversa da decenni la società regionale.

    Lavoratori della cultura in ginocchio

    Chi lavora nel teatro, nei musei, nello spettacolo, nella musica, nell’arte, nell’editoria e nell’associazionismo culturale, nelle attività di produzione di beni e servizi per la cultura, settori già colpiti e messi in ginocchio a causa della pandemia, spesso in Calabria si trova a combattere solo per la sopravvivenza, mentre si arranca da anni a colpi di immagine e di interventi spot privi di visione, tra indifferenze, favoritismi e inadeguatezze croniche e umilianti da parte di politica e istituzioni.

    Protesta dei lavoratori dello spettacolo a Cosenza
    Della cultura si può fare a meno qui

    Fare a meno di assessori con deleghe specifiche (e dunque anche del sostegno di adeguate strutture amministrative) sancisce in fondo solo un dato di fatto, una realtà, che è nota e non da ora a chi è impegnato nel settore. Della cultura in Calabria si può fare a meno, senza troppi rimpianti.

    Se non è questo il sottotesto, è dissimulazione pura. Perché anche quando un assessore e un assessorato in grado di programmare e decidere ci sono, quando si passa al confronto tra i designati di parte politica, amministratori ed enti pubblici – Regione in testa-, e i cosiddetti operatori accreditati (i famigerati stakeholders), nella prassi quello che accade in questo mondo, e tra le pieghe non sempre trasparenti del suo fitto sottomondo, riguarda cose che spesso hanno davvero poco a che fare con la cultura. Quello che normalmente capita da anni nella conduzione di questo settore e nella definizione di leggi, provvedimenti, regolamenti, obiettivi e strategie, volumi di spesa e destinatari, dimostra che l’intero settore viaggia da tempo in ordine sparso. Manca del tutto una politica per la cultura.

    Troppe rendite di posizione

    Quello che accade segue troppo spesso le traiettorie di convenienze, rendite di posizione e discrezionalità procedurali che non rispondono sempre, come si dovrebbe, a valori culturali solidi, a competenze e professionalità certificate, e men che meno da processi originati da conoscenze e da confronti di partecipazione civile e democratica alla vita culturale di questa regione.

    La Calabria, come nella Sanità, nella scuola e nelle politiche del lavoro, con i suoi numerosi ritardi e tare, è una regione opaca, che ancora non favorisce processi fondamentali di elaborazione e sviluppo di politiche pubbliche per la cultura in grado di promuovere le libertà, il civismo, l’innovazione di qualità e quindi il cambiamento culturale necessario nella società. Pochi settori della vita regionale come quello della cultura hanno invece necessità e bisogno urgente, oltre che un decisivo impulso in termini di immaginazione, di competenze e professionalità, di essere anche urgentemente illuminati da criteri autentici di pubblica utilità e da azioni di legalità e trasparenza.

    Capitali della cultura (per tre giorni)

    Bisogna, per esempio superare, definitivamente la logica dell’evento, dei cosiddetti “Fiori all’Occhiello”, delle “Capitali della Cultura (per tre giorni)”, dei “Festival di Qualcosa” e dei “Premi Importanti”, che finora ha contraddistinto con inutile monotonia e indifferibile conformismo le politiche culturali di questa regione.

    Una sequela di eventi, premi e festival, sovente dai contenuti culturali incerti, rigonfiati da risorse spropositate e rigorosamente sponsorizzati da politici regionali in cerca d’autore, poi i tanti festivalini che prosperano, con largo utilizzo di denaro pubblico, le effimere fiammate estive della premiopoli in cui fanno passerella i personaggi che vediamo ogni sera accendendo il televisore, a che (e a chi) servono? Gli strombazzati e alquanto incerti “attrattori turistico culturali”, i fantasiosi e misconosciuti “marcatori identitari”, gli eventi identitari al morzello e al sugo di capra, sono altrettanti cattivi esempi di intervalli pubblicitari che il giorno dopo, risolto il clamore mediatico, lasciano le cose come stanno e dove stanno. Il vuoto, il nulla.

    Lo scrittore Corrado Alvaro
    Parlano di Alvaro senza averlo mai letto

    In Calabria la dimensione pubblica della cultura resta confinata in una dimensione di intrattenimento per escursionisti da riserva indiana, o peggio immersa nella fuffa di un baraccone itinerante con offerte da avanspettacolo televisivo per turisti da pro loco estiva. Nessuno pensa che la dimensione pubblica della cultura debba riguardare invece, più concretamente, i diritti che garantiscono l’accesso a beni e servizi fondamentali per i diritti di cittadinanza, a sostegno di studenti, anziani, giovani e famiglie, da destinare ad aree di crisi, a piccoli centri e a comunità fragili.

    Per la salute di questa regione sarebbe urgente, piuttosto che indire l’ennesimo bando per alimentare la macchina festaiola dei “Grandi Eventi” (sic), potenziare il languente sistema delle biblioteche, dei sistemi bibliotecari e dei centri di lettura. Nella regione che a ogni piè sospinto si vanta di Alvaro senza averlo mai letto, (per non parlare poi di Strati, Perri, La Cava, Seminara, Repaci, Calogero, Costabile, De Angelis, Zappone ed altri, solo per restare al passato) siamo ben lontani da queste urgenze civili.

    In fondo alle classifiche di lettura

    E questo vuoto di politiche per la cultura a cui corrisponde il mancato adeguamento dei servizi primari per la cultura, è tanto più grave per le sorti civili e per il futuro prossimo di questa regione se solo consideriamo un punto di crisi che è di per se sufficiente a gettare una luce sinistra sul futuro prossimo della nostra collettività regionale: la Calabria è da anni invariabilmente in fondo a tutte le classifiche di lettura e di accesso al libro e ai consumi culturali (come teatro, musei, mostre e cinema).

    Solo il 28,8% dei calabresi ha comprato un libro (1 libro!) nell’ultimo anno, non solo per effetto della pandemia. Una conferma. Dato che la Calabria con il 69,3% è terza (a contenderle il podio del non invidiabile primato solo Campania e Puglia) nella più alta percentuale assoluta dei “non lettori” in Italia. Gente che in 12 mesi non ha mai aperto un libro e che non avverte il bisogno di farlo, neanche nel tempo libero, e quel che è peggio si tratta di una fascia di popolazione che va dall’età scolare, i 6 anni (sic!), sino agli 85 (dati Istat 2018).

    Il contesto sociale gioca un ruolo decisivo

    Altra aggravante per la nostra regione è che l’insieme dei non lettori è composto in misura prevalente da persone con un basso livello di istruzione e che l’incidenza è maggiore nei piccoli comuni, e tra gli uomini e tra coloro che hanno ridotte disponibilità di reddito. La scarsa confidenza dei nostri corregionali con i libri è spiccatamente associata dunque al contesto urbano e sociale di appartenenza: l’incidenza di persone che non hanno mai letto negli ultimi 12 mesi raggiunge infatti il 63,2% nei piccoli centri e nei comuni fino a 2.000 abitanti.

    La scuola e persino l’università non se la passano meglio: il 52,3% dei bambini di 6-10 anni e il 47% di quelli tra 11 e 14 anni non hanno letto altri libri al di fuori dei testi scolastici e non hanno praticato alcuna forma lettura se non per motivi di studio. E considerando anche il divario di genere, lo scarto maggiore tra i due sessi (ben 24,4 punti percentuali) si registra tra i 20-24enni, dove le “non lettrici” sono più di una su tre (il 37,2%) mentre i “non lettori” sono il 61,5%.

    Verso il peggio

    Quel che più allarma è l’inarrestabile tendenza al peggio: negli ultimi anni in Calabria si è registrato un calo progressivo di fruitori di libri e di centri di lettura. Nel 2016 la percentuale fu del 28,8, nel 2014 del 29,9 e nel 2013 del 34,5%. La quota di famiglie che possiedono libri nel 2017 erano l’89,4%, ma dal 2009 in poi il 10% di famiglie calabresi ha stabilmente dichiarato di non avere libri in casa. Commentando questo dato Guido Leone, dirigente tecnico dell’Urs (Ufficio scolastico regionale) ha stimato che «la Calabria è la prima regione italiana ad avere la percentuale più bassa di famiglie che non possiede libri in casa. Mentre il 16,4% ne possiede da uno a dieci, il 14,9% da undici a venticinque, e solo il 4,1% più di quattrocento».

    La cultura non è un optional

    Di fronte a questo dramma piuttosto che far finta di niente e tirare avanti con i soliti spottoni mediatici e gli eventi ad effetto “vacanze intelligenti”, è necessario che la politica prenda atto dell’insostenibilità del divario ormai profondissimo e del danno civile che ne deriva, provvedendo con urgenza ad allargare e riqualificare le politiche per la cultura e il circuito territoriale dei servizi culturali. Se vogliamo che il libro e una dimensione democratica e civile di cultura sopravviva e cresca nelle biblioteche pubbliche, nelle librerie, nelle case e nelle piazze dei calabresi. Tutto questo accadeva peraltro quando un figurante di assessore alla cultura ancora c’era.

    Oggi si pensa addirittura di farne tranquillamente a meno. La cultura non è un optional, non è nemmeno divertimento circense o sagra estiva: è quello che siamo, ed è quello che, nel bene e nel male, possiamo diventare e diventeremo tutti, come individui, come società, come democrazia. Vale anche i politici e gli amministratori calabresi. Che sarebbe il caso che qualche libro in più, dando il buon esempio, lo leggessero. Un assessore ci vuole. Un Assessore alla Cultura. Bravo e competente. E occorre immaginare urgentemente buoni progetti e un futuro decente.

    Marcatori identitari per le solite sagre

    E occorre anche spendere e spendere bene per la cultura. Indipendentemente dalla crescita del Pil. Non per fumisteriosissimi “attrattori culturali” (doppioni, nel migliore dei casi, del marketing turistico), e non per definire in una sorta di menù à la carte fantomatici “marcatori culturali identitari”. Non per abboffare l’estate di inutili e costose vetrine, non per le solite sagre culturali copiate dalla televisione, ma per aiutare i calabresi, magari con un libro in mano, dentro a un museo, in una mostra, in un concerto di musica decente, davanti a un gruppo di attori che animano un teatro, a capire meglio a che punto sono della loro vita, e dello loro scelte.

    È con i libri che si fa la cultura, non senza. E’ urgente e necessario, perché rende i calabresi cittadini più attivi, più democratici, più liberi, più consapevoli e persino felici. O invece non è proprio questo che si ritiene superfluo? Ed è forse per questo che meglio di un nuovo assessore alla cultura, c’è un nuovo, e tanto facebukiano, assessore agli “attrattori culturali”?

  • IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    IN FONDO A SUD | Catanzaro e il ponte di Babele

    Povera Catanzaro. Il suo destino sembra giocarsi di continuo tra le pretese di grandeur provinciale e suoi sogni di egemonia regionale, e i pesanti risvegli che puntualmente gettano la città capoluogo nel fango delle cronache. Molto spesso quelle giudiziarie. Come la recente inchiesta della DDA catanzarese, che dopo la tragedia del ponte di Genova ha fatto in tempo a far luce sugli appalti truccati del ponte di Catanzaro, inquinati da affaristi senza scrupoli e funzionari corrotti in combutta per lucrare sui finti lavori di messa in sicurezza del Ponte Morandi.

    Ponte Morandi totem identitario di Catanzaro

    Già, dici Catanzaro e ti figuri il ponte. L’opera pubblica-simbolo che di Catanzaro è diventata il totem identitario. La sua più grande celebrità. Era il 1963, appena pochi mesi dopo il taglio del nastro, e lo scorcio iconico di modernità raggiunta con il ponte, arditissima opera di ingegneria ammirata in tutto il mondo, entra eloquentemente in campo e conquista la scena in “La ballata dei mariti”, pellicola diretta da Fabrizio Taglioni, e interpretata da Memmo Carotenuto, Marisa Del Frate e da un calabrese di successo come Aroldo Tieri, protagonista di questa non indimenticabile commedia all’italiana, tutta di ambientazione calabro-catanzarese – anche molti interni furono girati in centro a Catanzaro, in quello che allora era l’elegante Albergo Moderno, altro vanto cittadino dell’epoca.

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    Il Grande Albergo Moderno di Catanzaro in una foto d’epoca
    Vista dal ponte, bella o brutta che sia

    Il viadotto sulla Fiumarella come fosse il suo ponte di Brooklyn, disegna ancora oggi il punto più alto e scenografico dell’inconfondibile skyline catanzarese. Vista da lì sopra, così com’è adesso, l’intera città, bella o brutta che sia (guai a sminuirla, Catanzaro per i catanzaresi è Parigi), è un museo all’aperto, il paradossale santuario di se stessa. Tutta la città trae identità proprio da questo suo simbolo identificativo, il brand sacrilego e universale del Ponte Morandi. Ancora oggi porta principale e unica via d’accesso alla città dal versante occidentale.

    Questa è la più vera scultura concreta di Catanzaro, coessenziale alla città edificata in verticale dal calcestruzzo vertiginosamente innalzato come una ininterrotta torre di Babele dagli anni del boom fino a oggi. Il ponte che ancora oggi svetta sulla piccola Catanzaro storica è un’opera formato king size degna dell’enfasi impacchettatrice di un Christo, il monumento al presente in cui Catanzaro si celebra al suo meglio (e ora, stando alle cronache giudiziarie, anche al suo peggio).

    L’unico ponte rimasto in piedi dei tre gemelli

    Ogni volta che ci passo sfidando in auto il traffico delle ore di punta – qualche volta anche a piedi, esperienza, assicuro, da escursionismo no limits -, mi vengono i brividi pensando all’incredibile e inavvertita sottigliezza di quel lungo arcone in calcestruzzo armato, opera capolavoro degli anni del boom, universalmente conosciuta e celebrata. Costruito tra il 1959 e il 1962 su progetto dell’architetto Riccardo Morandi, quello di Catanzaro fu a lungo il primo ponte ad arco al mondo per ampiezza tra quelli a campata unica (l’unico rimasto in piedi di tre che gemelli che furono costruiti).

    Il vento di Catanzaro

    Il viadotto di Catanzaro, che un tempo sorgeva dal nulla tra i valloni coperti di ulivi e fichi d’india, si apre sulla città che oggi si disegna ininterrottamente da un capo all’altro dell’orrido spalancato sotto i palazzoni aggrappati all’orlo dei burroni in secca che scivolano verso le rive dello Ionio. È come una vertiginosa passerella tibetana, spaventosamente oblunga e tesa su una sola gettata di calcestruzzo che copre una luce di quasi mezzo chilometro.

    Uno scenario astruso e indimenticabile che diventa ancora più impressionante in una giornata d’inverno. Quando una formidabile tramontana (il famoso vento di Catanzaro) soffia feroce come una bora e scuote le tre corsie automobilistiche e le due sottili fettucce pedonali che corrono ai lati del ponte infinito. Un vento così forte che imperversando sulla città cupa e infreddolita, culla il ponte e chi ci passa sopra per tutta la sua luce, accompagnando il transito con un sinistro dondolio.

    I nuovi quartieri lungo la Statale 106

    Sotto e intorno al ponte Morandi (poi ribattezzato “viadotto Bisantis”) la città dei due mari continua a riprodursi a soverchio più giù, avvampata dai rivoli di una colata di cemento che parte in alto dai colli della vecchia “Catanzaru”. Il centro antico raggomitolato intorno all’intrico di vicoli e vecchie case strette sulle mura del forte di origine araba e bizantina. Un riflusso ardente che si spegne solo quando il fiume di cemento tocca il doppio confine sull’orlo dei due mari dell’istmo, fino al lato della valle del Corace chiusa dalla grande borgata marina di Lido. Quasi 10 km più giù del ponte in riva allo Ionio, tra la Cittadella Regionale, l’Università Magna Graecia e la teoria dei quartieri nuovi cresciuti lungo la 106 ionica.

    Cittadella_Catanzaro
    La Cittadella regionale

    Sono i luoghi dispersi in cui tra grandi centri commerciali, raccordi trafficati e lungomari affollati, fermenta la vita dei “marinoti” catanzaresi. Qui vivono i nuovi abitanti di quella grande periferia che forma la Catanzaro del XXI secolo, che a quella vecchia sembra aver voltato definitivamente le spalle. Un vero e proprio centro sdoppiato che del corpo smembrato della città tra i due mari rappresenta già magna pars.

    Capitale della Calabria

    Ripassando a memoria molte delle vicende recenti di Catanzaro, capoluogo che ciclicamente reclama per sé il ruolo di “Capitale della Calabria”, anche invocando – accade proprio in questi giorni – una “legge speciale” che ne sancisca lo status, da antropologo e scrittore sono tornato ad interrogarmi, quasi in forma di apologo, sulla sua condizione sempre oscillante tra avvilimento ed esaltazione. A partire da una serie di storie e di circostanze rappresentative della sua avventura recente, ed esemplari anche della sua contrastata e contraddittoria immagine di città.

    La felpa di Beppe Grillo

    In una campagna pubblicitaria di molti anni fa, Beppe Grillo, allora in versione “solo comico”, si era prestato a fare da testimonial tv per una insolita serie di spot dello yogurt Yomo. Mentre gesticola e motteggia al suo solito modo, in questa buffa situazione (immortalata in sei o sette spot prodotti e andati in onda all’epoca), spicca un dettaglio dell’abbigliamento del comico. Grillo indossa una tipica felpa sportiva da college USA, che porta scritto, ben visibile e in un inglese a lettere cubitali, il logo “University of Catanzaro”.

    Non ricordo se a quei tempi l’università a Catanzaro ci fosse già. Credo di no. Comunque la felpa “americana” indossata da Grillo era come se dicesse che nessuno in Italia poteva sognarsi che esistesse un ateneo con quel nome, in una città improbabile come Catanzaro. Il solo pensiero che all’epoca qualcosa come un’università potesse spuntare in un posto sgarrupato e arcaico come Catanzaro (questo era il sentiment di quel sottotesto) creava da solo un calembour così illogico e comico che quella felpa bastava a far ridere il pubblico di tutta Italia.

    University of Catanzaro

    In realtà anni dopo a Catanzaro la prima facoltà universitaria, distaccata da Napoli, fu quella di Medicina, mentre di sicuro c’era già l’Accademia di Belle Arti, anche quella popolata in origine da una colonia di docenti e artisti napoletani. L’Università di Catanzaro, quella vera, nel frattempo è nata ed è cresciuta assai. Nel 2012 finì nel mirino della Procura della Repubblica per un’inchiesta con 97 indagati, tra docenti, impiegati e studenti della facoltà di Giurisprudenza – eh, sono tradizioni -, per esami, lauree e carriere farlocche. Vicenda passata, che peraltro consolida l’immagine, non proprio amichevole, già fissata a futura memoria nell’immaginario proprio da quella prima agnizione comica di Grillo.

    Lo spot è ancora lì su Youtube, che raccoglie sghignazzi per quella citazione politically uncorrect che motteggia e schernisce ferocemente la città del Ponte (Morandi) e delle tre V (Velluto, Vento, san Vitaliano), poi sede del chimerico ateneo catanzarese. «Ammè me piace! Troppo bella la felpa University of Catanzaro!». «Sì, troppo bella la felpa University of Catanzaro», scrive nel blog filogrilliano “lostinthesky”, un anonimo commentatore. Seguono numerosi cazzeggi e altrettante promesse di feroci vendette pronunciate da incazzatissimi utenti catanzaresi, ancora oggi feriti a morte dalla trovata comica di quella felpa derisoria di Grillo.

    La Catanzaro sovversiva va a Cosenza

    Fu invece l’Unical, sorta alla periferia di Cosenza, che divenne negli anni ‘80 il rifugio dell’intellighentzia protestataria e sovversiva di mezza Italia, guidata dal fisico Franco Piperno, nato catanzarese, come i filosofi Giacomo Marramao e il compianto Mario Alcaro, quest’ultimo, anche lui docente all’Unical, teorico che fu tra i fondatori del “Pensiero Meridiano”. Poi c’è, tra i testimoni di quella stessa generazione, il regista Gianni Amelio, che alla Catanzaro della sua non agevole formazione giovanile trascorsa al liceo Galluppi, e alla decisione della sua salvifica fuga dalle angustie e dai moralismi catanzaresi dei primi anni ’60, ha dedicato pagine intrise di nostalgica cattiveria nel suo romanzo “Politeama”

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    Il teatro Politeama di Catanzaro (foto Antonio Cilurzo)

    Intitolato proprio come il vecchio e un po’ equivoco cinema-teatro cittadino. Politeama riesumato nelle linee eclettiche e zuccherose del nuovo monumentale teatro cittadino catanzarese, le cui forme ricordano per sovrabbondanza e discrezione gli strati di una sorta di enorme torta “gateau mariage”, opera pubblica firmata negli anni ’90 dall’archistar Paolo Portoghesi, divenuta in breve celebratissima gloria e vanto della Catanzaro dal look rifatto dei giorni nostri.

    Il Tribunale controverso

    Per secoli Catanzaro è rimasta, prima di quel fatidico ponte, una lontana città di provincia delle Calabrie, sepolta quasi in fondo a Sud. Un capoluogo minuscolo, scosso da un vento proverbiale, arroccato nella sua tradizione bizantina fatta di legulei, di prelati e massoni intriganti, di funzionari di governo e sottogoverno, di caserme, ospedali e distaccamenti militari.

     

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    La sede della Procura di Catanzaro

    Il tribunale della città, ben prima degli scossoni prodotti dalle ultime inchieste di Gratteri, era noto per investigazioni fumose e processi nebbiosi, lentissimi e spesso controversi. Vi transitarono, per insabbiarvisi definitivamente, alcuni dei più scottanti processi politici, stranamente scivolati fin qui dal lontano Nord. Misteri italiani che vanno da Piazza Fontana ai tentativi di golpe destrorsi, dalle trame mafiose alle lobby politico-massoniche.

    Tradizione durevole all’intorbidamento giudiziario, se scendendo per i rami si arriva fino al più recente affare “Why not” e alle indagini di Luigi De Magistris, che qui come magistrato inquirente finì defenestrato e dovette darsi alla politica. A Catanzaro, è risaputo, la giustizia aveva, e ha, secondo i gusti, vita facile o difficile, amministrata com’è tradizione da punti di vista e interessi piuttosto fungibili.

    Effetti collaterali desiderabili

    Ma la fitta cronaca giudiziaria e la lunga tradizione legulea catanzarese annoverano pure qualche risvolto diversamente utile e narrano anche di qualche effetto collaterale molto più fortunato. Fu infatti qui a Catanzaro che nel 1969 capitò per sbarazzare più agevolmente la pratica dei suoi esami di procuratore legale, a repentina chiusura di una svogliata vocazione di avvocato dalla carriera subitamente abortita, il non ancora cantautore Paolo Conte.

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    Il cantautore Paolo Conte ha fatto gli esami d’avvocato a Catanzaro prima di dedicarsi alla musica

    Conte era uno di Asti che aveva fatto il militare come aviere a Cosenza. Seppe così che per diventare avvocato Catanzaro era la miglior piazza d’Italia, con ottime facilitazioni “ambientali” (lo sa pure la ex ministra Gelmini, anche lei generosamente transitata dagli esami di procuratore legale tra queste aule felpate). Mentre veniva giù in interminabili tradotte in treno da Asti, sapendo cosa lo aspettava a Catanzaro, città provinciale che ancora oggi non offre grandi distrazioni, aiutato dalla trance esotica del jazz e dalla noia di un alberghetto del centro, l’avvocato di Asti componeva da queste parti le sue prime stralunate canzoni.

    Per l’eterogenesi dei fini così comune nelle faccende della Calabria e di Catanzaro, la città dei tribunali e delle caserme, dei ponti e del vento, può in fondo vantare questo suo accidentale e fortuito primato: aver causato un transito vocazionale, trasformando un procuratore legale di Asti scarso e frustrato in un immortale poeta della canzone d’autore. [CONTINUA…]

    LEGGI QUI LA SECONDA PARTE: IN FONDO A SUD | Catanzaro, la capitale del gran bazar calabrese