Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».
La stazione di Cosenza a inizio ‘900
Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.
Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big
C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.
L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura
Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.
Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800
Brutti, sporchi e cattivi
«Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita dadon Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.
Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna
Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».
La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».
Tavernari di Cosenza
Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.
Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta
Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
«Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.
La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».
Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli
Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.
Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)
A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».
Vino e follia nelle cantine di Cosenza
Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.
Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi
A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.
Dal bicchiere alle lame
Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.
Diamante ha davvero un bel nome. Ma non è bastato. Non sarà capitale della cultura italiana nel 2024. Finisce così l’inseguimento del “grande evento” che avrebbe potuto cambiare la storia non solo del paese – spopolato d’inverno con meno di 5.000 abitanti, che d’estate diventano 50.000–, ma forse anche di un intero comprensorio che sogna da sempre di diventare meta del turismo che conta. Resta la realtà recente, luci e ombre, di questo piccolo centro della Riviera dei Cedri. Scosso anche, non molti giorni fa, da preoccupanti episodi di cronaca nera.
Diamante è nota anche per i suoi murales (foto pagina Fb Diamante Murales 40)
Diamante da D’Annunzio a Cetto la Qualunque
Diamante è un bel paese di mare, di quelli col mare sotto. Sorto intorno al 1630, colonia penale di galeotti trasferiti dai viceré spagnoli là dove c’era un tempo il porto dei Focesi, si dice che già ai tempi della Belle Époque da queste parti venissero in gita D’Annunzio e Matilde Serao. Palati fini, e strana coppia a volerci credere. Oggi è decisamente un altro vedere. Centro storico minuscolo e ancora bello. Il resto è un assedio di villette standardizzate stile immobiliarista à la Cetto La Qualunque, tutte assiepate sui bordi sbaraccati della Statale 18. Gli anni in cui Diamante è diventata quella specie di Positano dei poveri che si vede adesso, sono stati gli anni del debutto del cemento armato sulla SS18, la città-stradale della Calabria. E qui chi poteva ha fatto grandi affari.
La giornalista e scrittrice Matilde Serao
L’estate dei cosentini
Adesso d’estate c’è il chiasso del turismo dei grandi numeri del Peperoncino Festival, l’inquinamento, la smania di apparire. Diamante è da sempre la scena estiva dei cosentini-bene e di tutti gli autoconvocati del generone politico di sopra e sottogoverno, che qui hanno villa e tengono corte. La sera sul lungomare è una sfilata di yachtman di provincia col Paul Picot al polso, sfoggio di soubrettine glamuor e completini Henry Lloyd.
Riccardo Scamarcio ospite della ventinovesima edizione del Peperoncino Festival
Il paesino ad agosto si trasforma in un labirinto di club privè che accoglie quelli che da queste parti vogliono, fortissimamente vogliono, champagne e posto-barca a Diamante. Anche se quella del porto turistico da costruire proprio sotto la bella passeggiata a mare è una vicenda che va avanti da anni tra inchieste, scandali sugli appalti, stop e proroghe. Un porto delle nebbie che non c’è, e quel poco che c’è è abusivo, brutto e molto malmesso.
La Diamante di Matilde Serao
Pare invece che la definizione di “Perla del Tirreno” attribuita a Diamante sia una stima d’affezione proprio dalla spiritosa Matilde Serao (come, un ‘diamante’ che diventa una perla?). Lei che fu la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, il Corriere di Roma, candidata al Nobel per la Letteratura per ben sei volte, scoprì questo tratto di costa e restò stupita che ci fosse spargimento di tanta bellezza anche più giù di Sorrento, Positano e Capri. Così fuorimano, nelle vecchie Calabrie. Pezzi di paradiso, e la Serao si innamorò di Diamante. Meglio dire, di quel Tirreno d’altri tempi, limpido e profumato che allora si vedeva sotto la balaustra del costone della vecchia camminata a mare che dava riparo alle piccole case e alle barche da pesca del borgo marinaro.
Alla giunonica Donna Matilde, la Diamante limpida, cenciosa e odorosa di pesce degli anni della Belle Époque piacque. Era un posto più saporoso e bello della solita Costiera amalfitana, una variante marinara del suo Paese di Cuccagna napoletano. Oltre l’affaccio sul mare c’era la bellissima scogliera, ampia come un enorme acquario, da cui era possibile vedere “pesci di ogni genere, ricci di mare, patelle, capelli di mare”. Una peschiera naturale, ghiottonerie e un vero spettacolo all’aperto. I polpi con le tane nella scogliera si pescavano con il “coccio”: bastava immergere in mare una vecchia “lancella”, la brocca di terracotta che teneva in fresco l’acqua da bere. Poteva farlo anche uno scugnizzo, che da sopra gli scogli tirava su con lo sagola il coccio con il polipo dentro, già pronto per andare in pentola.
Un mare di cemento (e non solo)
L’acquario della Serao ora è morto da un pezzo. Pescatori non ce ne sono più. I paesi di mare sul Tirreno, adesso che pure loro si fanno chiamare borghi, hanno accecato il mare con il cemento. Come a Diamante, hanno perso il mare e i pescatori, hanno perso l’amore degli occhi delle amate alla finestra.
La scogliera naturale con l’acqua bassa e trasparente – così ancora fino a qualche anno fa – è destinata tra breve a far posto ad un nuovo scempio. Il progetto prevede che sia ricoperta da un sarcofago di cemento. L’interramento servirà a fare di quello che resta della bella scogliera di Diamante il piazzale dell’ennesimo porto turistico. Una rastrelliera di acqua morta per lasciarci a mollo un po’ di barche da diporto e i motoscafi dell’upper class locale a caccia di status. Al posto degli scogli, dei pesci e dei polpi, le barche e gli yacht che dovrebbero risolvere la crisi del turismo e la moria di lavoro post-covid.
Il mare, la risorsa primaria del turismo delle spiagge e delle seconde/terze/quarte case. Pure su questo fronte poco di buono da dire. La stagione ormai anche qui non si schioda dal pienone le due settimane-due. Tanto che gli immobiliaristi ormai non vendono più neanche una villetta, pure se le danno via a prezzi d’inflazione. Lo stato delle acque di balneazione. Una situazione folle che ormai non si nasconde più neanche con il rito delle promesse e con le rassicurazioni pelose di amministratori e tecnici. Ogni fine primavera, puntuale come il destino, una macchia di schiume marroni larga e limacciosa viene a galla a pochi metri dalle spiagge.
Teatro di chiazza
Resta lì a fare compagnia ai bagnanti e ai pendolari delle vacanze low cost che traghettano qui per il poco che restano. Ogni anno è uno psicodramma. Con l’acqua che diventa sempre più torbida e sospetta e i turisti, sempre di meno, che invocano l’intervento della magistratura e poi scappano via. Naturalmente i sindaci si discolpano, la Regione pure, i giornali strillano allo scandalo e poi ospitano lamentele e accuse bipartisan. Insomma un teatrino. Nessuno fa niente. A volte la Procura interviene e sequestra qualche depuratore arrugginito. Troppo tardi, con i turisti e i bambini già a mollo nella mota, a stagione balneare in corso, quando picchia il sole, suscitando l’ira degli albergatori, le proteste convenienti degli amministratori, lo stupore dei cittadini e l’indignazione degli stessi poveri turisti implacabilmente fottuti.
A parte qualche commendevole episodio giudiziario, la fabbrica di merda che ogni anno ammorba Diamante e il resto del Tirreno Cosentino continua a girare indisturbata, a pieno regime. Ed è un peccato, perché tra Praia a Mare, Diamante e Amantea, sulla bella costa luminosa del Tirreno non si vivrebbe affatto male. Sono luoghi ospitali e naturalmente ricchi di bellezze e di benedizioni, nonostante il demente ingolfamento edilizio. Insomma, se rivedesse adesso Diamante pure Donna Matilde si dispererebbe. Invece gongolano il ricco farmacista cosentino, l’esotico diportista napoletano, il commercialista e l’avvocaticchio rampante. Tutti con la barca a mare. Questi i turisti, il turismo che avanza: tra gli avanzi.
La chiesa di San Biagio a Diamante
Diamante d’inverno, voci nel deserto
Dopo il casino rutilante delle ferie d’agosto, scomparse le folle in fermento dei vacanzieri napoletani, in posti come questo dipendenti dall’agitazione psicotica del turismo estivo, resta da smaltire la noia mortale degli inverni di 10 mesi.
Inverni che coi capricci climatici sembrano, un giorno sì e uno no, quelli delle coste atlantiche del Mare del Nord o quelli del Nordafrica. Variabilità che anche potrebbe tornare utile ad un turismo ben fatto, che tiri fuori davvero dall’ombra la natura violata, il mare, le bellezze del paesaggio, qualche discreto attrattore cultuale e non forzi esclusivamente il suo appeal su peperoncino, discoteche e murales. Nessuno qui pensa a un parco marino, a un’area protetta. Nessuno vuole salvare quello che resta del mare, della natura, delle risorse archeologiche. Neanche qui a Diamante, la riviera dei cedri, la “perla del Tirreno”.
Qualche voce nel deserto da queste parti resiste e testimonia per l’impegno culturale e il cambiamento. Fabrizio Mollo docente universitario e archeologo di fama , scopritore di importanti siti archeologici e allestitore dei pochi, e purtroppo trascurati, musei archeologici sparsi su questa costa; Enzo Ruis vignettista talentuoso che racconta con dolente ironia la sua Diamante, i matti del paese, i personaggi più iconici e coloriti di chi se ne va; Francesco Cirillo, ambientalista riottoso e da sempre contrario a speculazioni e abusi edilizi; Francesco Minuti, giovane pittore che a Diamante realizza con successo la sua pittura raffinata e iconica come quella di un artista rinascimentale, imprimendola però sugli scafi e il fasciame scrostato delle vecchie barche oramai arenate e inservibili.
Un bar che si chiama Desiderio
Vicinissime a Diamante e al suo prossimo porto, si stagliano le uniche due isole calabresi, Cirella e Dino. Sono ancora belle, sulla costa massacrata del Tirreno, davanti al mare di tutte le storie. Ormai vicine, vicinissime a questi paraggi di costa incasinatissimi e trafficati, zeppi di albergoni vuoti, discoteche, gelaterie, pizzerie e ipermercati. Se ne stanno lì solitarie e tristi a poche bracciate dalle riva, tonde come carcasse rigonfie di capodogli spiaggiati. Due mucchietti di rocce e di terra calabra ammonticchiati in acqua. Appena un’ombra sotto la linea ininterrotta dell’orizzonte del tramonto immenso che cala senza ombre sul Tirreno.
I ruderi di Cirella e l’isola omonima
La scogliera di Cirella verso l’imbrunire è un mare grigio di scogli appuntiti. Irti come spuntoni di bottiglie rotte da ubriachi che si lasciano dietro vetri scheggiati e una spiaggia scorticata dal maestrale. A Cirella anni fa c’era un bar che fu a lungo uno dei luoghi dell’estate: una fermata obbligata. Il bar si chiamava “Desiderio”, come il tram della pièce di Tennessee Williams o forse più banalmente era il cognome del proprietario. Non saprei dirlo, suonava bene però. Adesso anche il bar Desiderio non c’è più. Chiuso, per una brutta storia.
Mentre vado via in auto sulla 18 trafficata, i monti aguzzi e seghettati che sovrastano Diamante all’imbrunire sono come le guglie e i pinnacoli di un solenne duomo di pietra. Per un attimo tolgono di mezzo gli spropositi del cemento, tutta la fatua noncuranza e la prepotenza che si agita di sotto, sulla strada delle vacanze. «Cosa mi rimane? L’azzurro là in alto, e l’inquietudine, da niente, proprio da niente domata, che la vita, nonostante tutto, sia poi vasta, precaria e insieme inesplicabile: che sia romanzo, anzi una prigione, questa, dove tutto si rispecchia e irrimediabilmente abbacina». Diamante, Enzo Siciliano (Mondadori, 1983).
Una delle opere nei vicoli di Diamante (foto “Diamante Murales 40”)
Stavolta proviamo a entrare in Calabria dall’angolo in alto a destra. Una strada oggi ancora pericolosa, ma antica e in perenne via di ammodernamento, scende lungo tutta la costa altoionica pugliese, lucana e calabrese. Il tratto lucano, dritto, monotono e trafficato non meno degli altri, è battuto spesso da un sole impietoso, allontanato ogni tanto da qualche filare di eucalipti. Ad est il mare, in lontananza la costa salentina o quasi. Ad ovest le campagne: vite e grano in prevalenza. Anche questa strada, sebbene priva di dislivelli e di particolari asperità, era piuttosto sconsigliata fino a tutto l’Ottocento. Figurarsi – ho le prove – che quando nel 1865 una giovane di Roseto Capo Spulico dovette sposare un nobile di Pisticci, la famiglia di lei vi si recò in barca, facendo scalo a Metaponto. E non certo per diletto.
La Calabria che non c’è
Benvenuti in Calabria? Nemmeno stavolta. Non del tutto, almeno. Mettiamo piede in quest’isola nell’isola, nell’Alto Ionio Cosentino, appunto. Un recinto di cui non si capisce ancora bene dove stia l’inizio e dove la fine. Vada per i confini geografici (una fiumara o l’altra, a sud o a nord, poco cambia; qualche crinale che fa da spartiacque ad ovest; il mare, indiscutibilmente, ad est); vada per i confini linguistici (la famosa – davvero? – Area Lausberg), vada per quelli ufficiali (la Comunità montana?); ma io mi attengo ai confini “umani”. Non siamo forse più in Basilicata (e dico forse), ma col cavolo che siamo davvero in Calabria. Targhe a parte, prefissi telefonici e codici di avviamento postale a parte, non c’è proprio niente che possa suggerire d’essere entrati in provincia di Cosenza.
La zona altoionica nell’Italia di Giovanni Antonio Magini (1620)
Chi vive qui ha come punto di riferimento nemmeno Matera, no, ma addirittura Taranto (due Regioni più in là, come se niente fosse). Il suo ospedale, ad esempio, o i centri commerciali lucani. A Cosenza, proprio, nemmeno ci pensano. In comune neppure l’accento e, soprattutto, nemmeno gli atteggiamenti o l’umorismo, lo spirito. E del resto si tratta di un brandello di territorio che storicamente ha altalenato nella sua pertinenza ora alla Calabria ora alla Basilicata. E non solo: periodicamente, numerosi gruppi di cittadini di queste zone si uniscono proprio per chiedere l’annessione alla Basilicata.
Perché se l’attuale territorio della provincia di Cosenza corrisponde pressoché fedelmente a quello della plurisecolare Provincia di Calabria Citeriore, è pur vero che il suo ultimo lembo nordorientale si trova attualmente al di là di quella Petra Roseti che per lunghissimo tempo ha segnato il confine fra la Val di Crati e la Terra Giordana, indicando perciò l’ingresso in Lucania. Come a dire che nel Cosentino c’è un Alto Jonio, sì, ma pure un Altissimo Jonio dall’anima ancora più estranea: Rocca Imperiale, Canna, Nocara.
Nocara, Armi S. Angelo, rupe ovest
Lasciando la SS 106
Anche qui, come sull’altra costa, tanti paesi hanno voltato le spalle ai monti e alle campagne per mascherarsi in chiave balneare finché si può. E allora anche qui, per non farmi ingannare, provo per una volta a bypassare la 106 e a inerpicarmi per una strada che non conosco. La prima strada che valichi il confine più all’interno rispetto a quest’ultima. La prima non sterrata, intendo; la prima che porti da qualche parte, manco si trattasse del confine USA-Messico, Serbia-Montenegro (e chi più ne ha più ne metta), da controllare a vista attraverso pochi varchi e troppi doganieri nevrotici. E allora parto da Valsinni (MT) e prendo una stradina fortunosamente asfaltata.
I miei appunti sul cruscotto parlano chiaro, non c’è che dire (mi rifiuto di usare i navigatori e suggerisco di fare altrettanto): “a sinistra al bivio per Rotondella / al cippo a sinistra / al bivio dopo il cippo: a destra per Nocara / al bivio tra i faggi: a destra”. Più chiaro di così… Dopo vari tornanti su pendenze discutibili su per il Monte Coppolo e qualche bivio enigmatico, da testa o croce, la stradina mi porta esattamente dove volevo. Diciamo in Calabria. Ma sarebbe meglio dire nel pieno dell’Alto Medioevo, a Serra Maiori, giusto ai piedi dei resti della cittadella di Presinace. Un po’ come a Frittole.
Un angolo della zona archeologica di Presinace
Riti e palazzi
Da qui posso continuare a occhi chiusi, quindi mi fermo e invece li apro, perché in pochi posti vale la pena farlo come in questo. Ci sono già stato e ci sono tornato almeno altre tre volte: 10 minuti (a piedi) dal bivio per l’area archeologica e si arriva nel punto in cui la stradina passa in mezzo alla fenditura tra due magnifiche rocce: è l’Arma dei Gatti, o le Armi S. Angelo (‘armi’ alla greca, nel senso di ‘grotte’). Un giovanissimo Lorenzo Quilici (Siris-Heraclea, Roma, 1967) vi trovò sulla sommità vasellame magnogreco e indizi della remota presenza di un luogo di culto.
Da qui veniva poi la pietra utilizzata un paio di secoli fa per i portali dei palazzi nobiliari di mezza Calabro-Lucania, qui leggenda vuole che si facessero – ancora in tempi non lontanissimi – riti pagani per supplicare fertilità. Di certo non è un sito che possa lasciare indifferenti: vento costante, anche ad agosto può esserci nebbia (vi assicuro), si cammina su un crinale stretto, ad ovest lo sguardo scivola verso le campagne lucane, giù per la valle del Sinni, e sconfina fino a chissà dove, cime dopo cime, abbracciando mezza Basilicata.
Armi S. Angelo, le rupi viste da nord (foto L.I. Fragale, 5.8.20)
Fuori dal contemporaneo
Ad est lo sguardo rotola in Calabria verso le campagne di Rocca Imperiale e il mare. Anzi, da qui si gode una prospettiva del tutto inusuale: il castello di Rocca Imperiale lontano, minuscolo, giù in basso, mostra i suoi bastioni posteriori sulle rupi spoglie, senza il paese a fargli da solita cartolina presepiale ai suoi piedi. Sembra di intravedere Adso e Guglielmo da Baskerville, avvolti nei loro mantelli, Brunello che si gettava felice nelle feci umane sotto la torre. Ma che bestia! Che cavallo! E invece c’è solo rumore di vento, campanacci di vacche, un toro che se le controlla, una minuscola sorgiva in mezzo all’asfalto (è una sorgiva, è una sorgiva, niente tubature a quest’altezza).
Il castello di Rocca Imperiale, visto da ovest
“Da qui, messere, si domina la valle…”, diceva Astolfo. E invece no, è soltanto un’oasi che resta tagliata fuori dal contemporaneo:il capoluogo della provincia a due passi da qui è stato Capitale Europea della Cultura nel 2019 (che sembra già un decennio fa). Ma di quale Cultura, l’abbiamo notato? Queste erano le categorie di classificazione dei vari eventi: Digital / Sport / Design and architecture education / Circus / Food / Dance / Street art / Contemporary art / Classical art / Theater / Photography / Cinema / Music / Literature (quest’ultima categoria è stata confinata in altri paesi fuori dal capoluogo).
Nessun evento a Matera ma ben 4 letture di brani a Melfi e Rapolla, una delle quali alle 10:00 di mattina del 30 marzo: come non esserci?; uno a Villa d’Agri; uno addirittura nella lucanissima Brescia; un contest di poesia a Muro Lucano – ma perché poi la poesia si presta tanto alle competizioni? boh – e ben 9 a Policoro, di cui 5 sul ‘giallo’ lucano, nuovo genere di cui non s’aveva notizia. E nessuna menzione di Albino Pierro, di Rocco Scotellaro, di Isabella Morra (e chi se li ricorda più? anzi, chi li ha mai letti?). Ma, soprattutto, mancano alcune paroline: History, Anthropology, Nature, Landscape/Environment e magari qualcosa d’affine, che in un programma del genere ci si aspetterebbe pure (perché mica in queste terre c’è mezzo Parco del Pollino, mica è un pezzo di Magna Grecia, mica Alan Lomax o Ernesto De Martino ci hanno messo mai piede, no).
Armi S. Angelo, rupe est (foto L.I. Fragale, 5.9.17)
Tutto il paese è mondo
Tutto insomma è declinato alla subcultura d’evasione. O a quella della fuffa del primo che si sveglia la mattina e si autoincorona fotografo o street artist quando non entrambe le cose o, peggio, curatore degli stivali dei suddetti. Tutto in sintonia con i gusti personali del discutibile direttore artistico di turno (artistico, appunto, eppure ben poco culturale). L’indirizzo, anzi, l’obiettivo mi pare chiaro e perfettamente in via di conseguimento. Continuiamo così, barattiamo ciò che abbiamo con ciò che non ci serve affatto.
Tutta l’Italia è paese. Anzi, tutto il paese s’atteggia a mondo. Cade a pennello il modo di dire delle nostre parti, “ni tìani munnu!”, che si rivolge di solito a chi ostenta ricercatezze, fisime o vittimismi smisurati. Nel frattempo, e prima che sia tardi, fatevi un regalo: andateci, a Nocara. Godetevi con estrema lentezza i tornanti che scendono giù per i suoi dirupi, in direzione Oriolo-Montegiordano, mentre qualche rapace vi volteggia in testa. State tranquilli, non ce l’ha con voi.
Nel dicembre del 1906, dopo un un’estate e un autunno inclementi di pioggia, una spaventosa tempesta di grandine provocò le ire del fiume Crati che si abbatté sulle tane dei cosentini. Ma, ieri come oggi, la natura è responsabile solo in parte della furia distruttiva. Già dalla fine dell’Ottocento, infatti, una vera e propria “febbre edilizia”, con abitazioni tirate senza alcun criterio estetico ed edilizio affiancate a eleganti palazzotti, aveva gonfiato a dismisura i quartieri bassi della città di Cosenza.
L’epopea di Mancuso e Ferro
Alla “Castagna” aveva sede l’opificio Luigi Mancuso e C. (poi “Ditta Mancuso e Ferro”) che con i suoi innumerevoli manufatti in cemento contribuì per decenni alla grande espansione della città verso Nord. E fu anche uno dei siti maggiormente danneggiati dalla tempesta del 1906. Insieme al Tannino, collocato sulla sponda opposta del Crati, la fabbrica di laterizi che aveva aperto i battenti nel 1903 contribuì a dare alla città di Cosenza un primo germe di sviluppo industriale.
Un campionario di cementine che si producevano alla Mancuso e Ferro
Cementine
Più di mezzo secolo dopo, alla fine di novembre del 1959, la furia degli elementi si abbatté sulla fabbrica. Le acque raggiunsero i due metri di altezza, inghiottendo materiali e attrezzature – si apprende dalla documentazione del Genio Civile. All’epoca la Mancuso e Ferro era la fabbrica più importante della città, dava lavoro a circa 150 operai e da soli tre anni aveva aperto dei saloni di rappresentanza in piazza Fera. In poco più di mezzo secolo di vita i suoi manufatti in cemento erano apprezzati soprattutto fuori regione, oltre a ornare gli edifici borghesi della città dei bruzi. Il fiore all’occhiello del campionario era rappresentato dalle cosiddette “cementine” in pasta colorata, dette anche “pastine”. Si trattava di mattonelle dai motivi delicati ed eleganti utilizzate anche oltre gli anni ’30 del Novecento in sostituzione dei vetusti pavimenti in argilla pressata.
Fabbrica, amianto e musei mancati
Delle pregevoli cementine della Mancuso&Ferro dai motivi geometrici o floreali restano solo alcuni esemplari che ornano il muro di cinta del vecchio stabilimento alla Castagna. Beffarda memoria di un’eccellenza che fu. Nonostante da alcuni anni siano stati rimosse le tettoie in amianto, causa di patologie tumorali per gli abitanti di via Carducci e dintorni, la vecchia fabbrica-zombie è ormai l’ombra di se stessa. «In questo quartiere in passato trascurato, e in particolare sul sito dove sorge l’ex fabbrica, il Comune ha in programma di realizzare il Museo di arte contemporanea nell’ambito di un percorso culturale che inizia dal Museo all’Aperto Bilotti e termina proprio nella città antica» scriveva nell’aprile del 2015 l’Ufficio del portavoce dell’allora sindaco Mario Occhiuto. Una reinterpretazione visionaria rimasta carta morta per un glorioso reperto di archeologia industriale che (forse) è più facile dimenticare che recuperare.
Il rendering del museo che aveva in mente Occhiuto sul sito della Mancuso&Ferro
La ciminiera e il pompiere
Tra le prime fotografie pubblicate dai giornali calabresi troviamo, nel 1905 sulla prima pagina della Cronaca di Calabria, quella della grande ciminiera della fabbrica di laterizi “Aletti” a Rende. Il terremoto dell’8 settembre di quell’anno aveva provocato ingenti danni alla struttura. La ciminiera doveva essere demolita, ma nessuno ovviamente aveva intenzione di arrampicarsi fino all’altezza di 45 metri. «Si era in sul forse se demolirlo a colpi di cannone – scrive il periodico cosentino – o se far venire da Bologna un’apposita scala per raggiungere l’altezza del fumajuolo», quando un coraggioso alla fine spuntò fuori: il caporale dei pompieri Estro Menabue.
La ciminiera Aletti sulla Domenica del Corriere del 26-10-1905
Il bolognese Menabue, insieme al tenente Barattini e al pompiere Finelli che rimasero sulla tettoia, si arrampicò per iniziare il lavoro e riuscì, dopo sei ore, a demolirne una parte consistente. Le foto dell’evento rimbalzarono sugli organi di informazione, passando dalla Cronaca di Calabria ai giornali nazionali. Perfino sul diffusissimo La Domenica del Corriere si diede spazio all’evento con tanto di foto della ciminiera ancora intera, compreso il pompiere arrampicato in lontananza, e foto della ciminiera ormai dimezzata.
Imprenditori del Nord
La fabbrica di laterizi della famiglia Aletti rappresentò una realtà industriale di importanza notevole per il territorio, sia per la portata della produzione e per la mole dello stabilimento, sia perché la famiglia non si limitò alla produzione di mattoni ma estese la sua azione in molti settori, dalle ferrovie alle piccole miniere, dalle segherie agli impianti idroelettrici. Ne ricostruisce le vicende, attraverso i fondi superstiti dell’archivio della famiglia, una pubblicazione edita nel 1989 da Editoriale Progetto 2000 e curata da Roberto Guarasci e Silvia Carrera. Uno spaccato interessantissimo della vita economica calabrese tra fine ‘800 e inizi ‘900, quando questa famiglia di imprenditori giunti dal Nord, da Varese per la precisione, incrociò la propria storia con quella di molti “simboli del progresso” di una Calabria che con un po’ di ritardo si affacciava nell’età contemporanea.
La fabbrica di Laterizi ‘Aletti’ di Rende alcuni anni fa
L’acquedotto dello Zumbo, ad esempio, quello del Merone, e soprattutto vari tronchi ferroviari tra cui la tratta Cosenza-Pietrafitta, e ancora ponti, strade, palazzi. In molte di queste opere si possono ancora vedere grandi porzioni realizzate proprio con i mattoni prodotti nella mattoneria di Rende e marchiati con il caratteristico simbolo della “A” stilizzata in un triangolo inscritto in un cerchio. A Rende, nella zona di Surdo, la presenza della fabbrica di laterizi fu una svolta. Lavoro sul posto e materiale a portata di mano possono spiegare il gran numero di edifici a mattoni a faccia vista che sorsero nella zona attorno alla vasta fabbrica, caratterizzando quella porzione del territorio di Rende. Nel 1906 gli Aletti costituirono una società per aprire una nuova fabbrica a Trebisacce, sullo Ionio, un’altra realtà vivace in cui la fabbrica Aletti impiegò un gran numero di operai.
I mattoni rendesi
Rende, in verità, ha una “storia di mattoni” molto più antica, che getta le radici nella presenza di argilla utilizzabile per la realizzazione di diversi manufatti in terracotta. Gli oggetti da cucina in terracotta, “terraglie”, erano da secoli una delle produzioni tipiche della zona, evolutisi poi nella produzione su più larga scala di laterizi tanto che a metà Ottocento, come scrive Giovanni Sole, vi operavano ben sette fabbriche di vasi, tegole e mattoni che impiegavano sessanta dipendenti, tra cui ventuno donne. Si trattava comunque di opifici artigianali e a conduzione familiare e per trovare esempi di dimensione più “industriale” ci volle il nuovo secolo, quando oltre a quella di Aletti operavano anche le fabbriche di laterizi Magdalone e Zagarese.
Dodici ore di lavoro al giorno
Nella metà dell’Ottocento quella dei laterizi era, comunque, una delle industrie più importanti della Calabria Citra, con opifici sparsi oltre che a Rende anche a Fiumefreddo, Lago, Longobardi, Carolei, Roggiano, Paola e Cosenza. Il lavoro era duro, le fornaci e le calcare richiedevano tanta fatica, sudore e legna da ardere. Le fabbriche di mattoni di Fiumefreddo, riporta ancora Sole, occupavano otto uomini e due donne per 12 ore al giorno, con una produzione di tegole e mattoni concentrata nei mesi estivi, quando si lavorava di continuo giorno e notte, mentre per gli altri oggetti di terracotta la produzione continuava tutto l’anno.
Operai nella fabbrica di Trebisacce nel 1931 (foto tratta dal volume di Guarascio e Carreri, Editoriale Progetto 2000)
Archeologia industriale
I ruderi di molte di queste fabbriche sono ancora oggi i testimoni muti ma eloquenti di quell’epoca. Delle fabbriche rendesi i ruderi della Aletti, sulla strada che da Saporito va a Marano Marchesato, sono i più imponenti. Un complesso di archeologia industriale che riflette ancora la cura con cui venne realizzato, utilizzando quegli stessi mattoni che vi si producevano sia per le parti strutturali che per le parti decorative. Nel corso degli ultimi anni le proposte di riutilizzo sono state tante, perfino la creazione di un Museo della civiltà industriale, ma allo stato attuale tutto sembra ancora fermo.
Migliore sorte è toccata allo stabilimento di Trebisacce, che conserva ancora l’alta ciminiera in mattoni, dove la ex fornace Aletti-Palermo è al centro di un consistente progetto di recupero. Molto altro è andato invece perduto irrimediabilmente sotto i moderni picconi dello sviluppo edilizio a tutti i costi. A Cosenza, ad esempio, la ciminiera e ciò che restava della Mattoneria Pupo, posta proprio accanto allo stadio San Vito-Marulla, è stato demolito intorno al 2010 per fare posto a moderni edifici. È il progresso, bellezza.
Operai nella fabbrica Aletti di Rende (1920)
Mattonificio Aletti a Rende
Il logo del mattone Aletti
Il vecchio opificio di Contrada Castagna
La vecchia fabbrica Mancuso & Ferro vista da viale Dante Alighieri
Qualche mattina fa ho percorso in macchina la statale 106 ionica, da Catanzaro Lido verso nord. È una strada trafficatissima e sinistramente famosa, infiorettata di edicolette, di cippi e di altarini di plastica ai lati delle carreggiate. Volevo arrivare a Crotone. L’auto è l’unico mezzo per farlo in tempi ragionevoli. Trasporti pubblici assenti e isolamento sono uno dei problemi che fanno della antica città ionica una sorta di enclave: la ferrovia costiera è ancora quella di fine Ottocento, a binario unico, non elettrificata, e con i vecchi treni spinti dalle automotrici. La stazione sembra uno scalo in mezzo al deserto.
La stazione ferroviaria di Crotone
Il porto invece è diviso in due: il bacino più antico è ancora quello che fu costruito con i blocchi divelti nel corso del Settecento dal tempio di Hera Lacinia; quello “nuovo” si limita al cabotaggio di naviglio piccolo, per via dei bassi fondali sabbiosi. L’aeroporto Sant’Anna funziona a singhiozzo e lì vicino c’è un grosso centro Sprar. Soppressi da anni i treni notturni e quelli a lunga percorrenza. Per qualsiasi altrove lontano da qui ormai si salpa in bus, di notte.
In mezzo alle pale
Crotone è un posto della Calabria che ha qualcosa di magnetico e fascinoso, di allucinato e di incongruo allo stesso tempo. La strada verso Crotone, già dopo Botricello, non riesce più a staccarsi dal collo i morsi degli abusi al vasto panorama dell’antico Marchesato del grande latifondo, il serbatoio del Mediterraneo preindustriale, quello delle terre del grano, delle pecore e del formaggio di cui scrive anche Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo.
La curva di orizzonte delle dolci colline ioniche oggi è tutta trafitta dalle mostruose torri eoliche costruite nei terreni degli Arena, cosca intoccabile del pantheon mafioso locale. Ce ne sono centinaia sparpagliate per chilometri. Se guardi meglio ti accorgi che ne girano pochissime, inutili come enormi segni di interrogazione. Il Marchesato di Crotone è uno dei luoghi più aridi del continente, a imminente rischio desertificazione. In più c’è il rischio mafia. Qui più che il vento servirebbe l’acqua. Ma gli interessi sull’eolico sono molti, scottano, sono poco illuminati dal sole e difficili da arginare. Intanto i mulini a pale continuano a crescere e a roteare indisturbati nei posti più improbabili.
La nuova Crotone
Circa un’ora di tragitto sulla 106 e mi sono ritrovato nel dedalo di giravolte, incroci e cavalcavia che porta a Crotone. La città nuova è questa colata di macerie alte e basse, scolorite e tetre, un teatro di quartieroni popolari come Vescovatello (dove il grande mercato coperto in abbandono, col tetto in lastre di amianto, sparge al vento i suoi veleni), Lampanaro e Fondo Gesù. Si ergono dai sabbioni di una costa un tempo malarica. Sono luoghi pericolanti di noia e di sciagure umane, che crescono tra stecche di casermoni disadorni.
Case popolari nel quartiere crotonese Fondo Gesù
Sul paesaggio della Crotone di oggi campeggia l’enorme accozzaglia di ferraglia industriale abbandonata tra gli sterpi e le discariche supertossiche. Poi abituri indistinti, ristoranti per matrimoni, sfasciacarrozze, stazioni di servizio sgangherate, grandi ipermercati, nuove speculazioni e gru che crescono come steli di fiori maligni non lontano dalle lusinghe eterne del mare odisseo. Crotone staccata dal mare appare come una spessa piastra di cemento fratturata da un groviglio di strade sconnesse che sembrano smarrirsi nell’inerzia sul bordo esausto, sopraffatto e guasto del litorale.
La Stalingrado del Sud avvelenata
Si sapeva già dalle inchieste dei magistrati che a Crotone i carichi di rifiuti tossici, una volta finiti nelle mani delle mafie, sulla terraferma diventavano materiali per costruire case e asfaltare strade. Come già è accaduto per le ferriti di zinco e le altre scorie contaminate smaltite liberamente nell’ambiente dopo la chiusura del polo chimico della Pertusola, proprio davanti alle periferie arrugginite del vecchio stabilimento. Poi i veleni industriali sono finiti dentro la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale. Era la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del Sud, a cui qualche mediocre cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”.
Una mappa degli ex stabilimenti Montedison di Crotone (foto Archivio storico Crotone)
Adesso si sa che per anni nessuno ha saputo opporsi al paradosso criminale della costruzione di scuole, marciapiedi, strade, uffici pubblici e abitazioni civili impastate di un amalgama micidiale di veleni e scorie tossiche provenienti dalla bomba chimica sotterrata nei piazzali della Pertusola. A Crotone adesso si contano i morti per cancro, regalati come buonuscita agli operai e alle famiglie cresciute nei quartieri popolari vicini agli stabilimenti o all’ex Montecatini-Edison. Mentre ancora si aspetta di arrivare alla bonifica delle scorie tombate per decenni. Cumuli di scarti tossici movimentati nel porto e diretti alle lavorazioni nello stabilimento della Pertusola, appena più a nord di quello della Montecatini. Lì sotto giace, ed è un paradosso, un pezzo della antica Crotone dei greci. Insieme alle bonifiche ci si aspetta un processo che accerti finalmente i danni e le responsabilità. Qualcosa che rimetta ordine e dia pace, e un qualche risarcimento, a queste contrade.
La Storia è sempre più giù
Neanche il calcio offre più consolazione. Il tesoro sommerso dell’antica Crotone, più che una risorsa per il futuro della città, sembra un ingombro di cui disfarsi. Anche lo stadio Ezio Scida, abusivo come quasi tutto quello che sorge da queste parti, ampliato di recente tra polemiche e sequestri, convive, si fa per dire, con l’area archeologica che rientra nel programma di riqualificazione dell’antica Kroton. Si fa fatica a crederlo, ma nonostante dal 1981 la Soprintendenza archeologica abbia dichiarato inedificabile l’area su cui l’impianto sorge, il prato e gli spalti rinnovati negli anni della serie A sono stati allargati sopra i resti dell’agorà di una delle più importanti polis della Magna Grecia.
A parte pensare alla meraviglia seppellita sotto il rettangolo verde, c’è una cosa che ogni volta che vado a vedere una partita del Crotone allo Scida mi mette i brividi addosso. Quando la curva Sud, prima del calcio d’avvio o in un momento difficile della gara, all’improvviso fa salire al cielo l’incitamento ai rossoblù. Migliaia di tifosi cantano all’unisono e a gola spiegata Ma il cielo è sempre più blu o A mano a mano di Rino Gaetano, omaggio al ragazzo di Crotone che ha iscritto il proprio nome nel pantheon della canzone popolare italiana. La squadra ha adottato entrambi i motivi come inni ufficiali. Non so se ne esista al mondo una che possa vantarne di più belli.
Da Cutrone a Crotone
L’addizione urbanistica novecentesca che forma il nucleo della Crotone nuova scivola dai piedi del castello di Carlo V e dal piccolo centro medievale murato poco oltre gli alti bastioni, dilagando fino alle campagne dell’antico latifondo del Marchesato. La città nuova è un labirinto ansimante di cemento impolverato e caotico, sparpagliato per chilometri sul litorale e costellato da ammassi di spazzature e rottami non rimossi. Resta ben poco delle memorie classiche della antica città magnogreca, tutta sepolta e divelta sotto i cascami e gli ingombri di cemento della nuova.
Crotone, Il Gladio
Crotone si chiamava Cotrone fino al 1928 e la gente del posto con inflessione dialettale la chiama ancora così: Cutrone. Poi il fascismo in vena di grandezze restaurò il nome classico della polis, la colonia achea di Kroton, di cui non restava più traccia. Sarà forse per questo che su una delle colline argillose che guardano verso la città un sindaco fascista non molti anni fa ha issato il totem ideale per la Crotone di oggi: un enorme gladio romano che campeggia sul panorama cittadino come una croce blasfema su un regno di tormentati.
La città della bellezza
E pensare che qui Zeus, secondo il mito, pare abbia incontrato le donne più belle del mondo dei greci (cinque diverse fanciulle di Crotone, ognuna per un dettaglio del sembiante, formavano il composito ideale estetico della più desiderabile bellezza). Un canone di bellezza eterno che fu ripreso da Shakespeare nei Sonetti – sino a precipitare poi nel famoso motivetto di Mambo number five di Perez Prado e nella hit di Lou Bega.
Affidato (a destra) con Amadeus a Sanremo
La bellezza trascorsa, per quanto rattristata dalle corrosioni del moderno, qui è però una suggestione che ancora fa scuola. A Crotone cesellano ancora la loro arte antica, divenuta nel frattempo brand griffato per dive e grandi firme della moda, gli orafi Gerardo Sacco e Michele Affidato (suoi i premi di Sanremo). Realizzano i loro gioielli ispirandosi alle tradizioni popolari. Rifanno citando – e molto aggiornando alla voga modaiola – i modelli classici indossati un tempo da aristocratiche, vestali e dee greche. Preziosità venute alla luce con il diadema d’oro e gli altri magnifici reperti affiorati dal tesoro di Capo Colonna.
Gissing a Crotone
Lusso e prosperità erano di casa a Crotone ancora in tempi non lontani. George Gissing, scrittore e viaggiatore vittoriano in Calabria nel 1897, si rammaricava di non aver potuto portare con sé «nessuna lettera di presentazione qui a Cotrone. Mi sarebbe piaciuto poter visitare una delle dimore più in vista, entrare in uno dei salotti migliori della città. Qui a Cotrone, ho saputo, vivono persone molto ricche e benestanti, hanno belle case e, mi è stato detto che con il bel tempo, almeno una mezza dozzina di carrozze private si possono vedere fare il giro alla moda sulla Strada Regina Margherita. Quasi come a Napoli». Della città ricca di un tempo resta qualche vestigia concreta. Come la bella piazza Pitagora, in pieno centro, incorniciata dai portici, caso unico in Calabria. Sotto i portici c’è lo storico Bar Moka, dove si può ancora gustare un dolce belle époque come l’Iris. In piazza Pitagora, dormire ancora oggi all’Hotel Concordia come fece Gissing, vuol dire ritrovarsi nel bel mezzo di atmosfere del Grand Tour.
Lo scrittore e viaggiatore George Gissing
In prossimità della riva jonica c’è un altro luogo gissinghiano: il vecchio cimitero dalle alte murate di cocci diroccati che sembrano cotti in un crematorio del tempo. Un tempo l’elegante recinto dei morti di Crotone era ai margini assolati della città, circondato di mura e adornato da piante solenni e palme svettanti come preghiere. Era un’oasi di pace «simile a un bel giardino fiorito». Oggi il camposanto è circondato dalle auto e dal movimento caotico che va verso la periferia. Lo salva ancora quell’alto recinto di mura sbeccate, quasi fosse una rotonda spartitraffico dimenticata ai margini della waste land alla fine del lungomare.
Malattie e sanità
Nella periferia sconciata dagli abusi spicca anche lo stato di abbandono degli ex Villini Pertusola. Da lì in avanti la città non ha più profumi, avvizzita tra i veleni e il catrame infetto. Sembra che di fiori a Crotone non ne crescano più, neanche fuori dal recinto dei morti, con la città che ha le apparenze di un reclusorio di malattie micidiali. Crotone è immersa in una mortale quarantena per i vivi, malata fino al midollo. La città di oggi è mostrificata, inquinata dai resti mefitici della Montedison, di cui restano le spoglie spente e rugginose di un enorme compound degli orrori che continua ad alitare veleni sopra e sotto terra sulla vita di tutti.
L’Ospedale San Giovanni di Dio è l’unico presidio sanitario pubblico rimasto in città. Affollato, dolente e sempre in affanno sembra un lazzaretto per i poveri. Il sistema sanitario nazionale qui come altrove in Calabria è in crisi. Invece quello delle cliniche private, che ha fondato vere e proprie dinastie della sanità a pagamento, è fiorente. È uno dei punti di preminenza per l’intero settore, ma solo per quelli che possono curarsi senza passare da intralci e guasti del servizio pubblico.
Calcutta, Tirana… Crotone
A dispetto del bellissimo mare, Crotone ha un aspetto grigio spento. È piena di pozzanghere, di detriti e cascami decomposti che fermentano vicino a cliniche di lusso per ricchi che sembrano hotel. Una carcassa smembrata dagli abusi infiniti e dagli orrori spesso rimessi all’aria dai segni delle periodiche alluvioni che atterrano la città. La comunità cittadina sembra ormai afflitta dalla noia strisciante o dalla rassegnazione di vivere senza più speranze, nonostante i recenti cambi di poltrona nei palazzi del comune. Una dimissione civile che leggi anche nelle facce della gente per strada.
Crotone allagata nel novembre del 2020
Ai ragazzi di Crotone restano la carta dell’emigrazione o i mestieri provvisori del precariato a vita. Come riparo di fortuna ci sono solo i call center dei grandi gruppi di gestori di telefonia. Qui hanno fatto man bassa, con paghe inferiori a quelle dei pària tecnologici che rispondono dalle postazioni di Calcutta o Tirana. Servizi di recalling e customer care interconnessi agli utenti di cellulari e smartphone urbi et orbi, che rispondono nella lingua globalizzata del business da qui, da Crotone. E invece stiamo con i piedi sopra le tombe degli eroi, nella Magna Grecia delle migliori annate.
Cultura, legami e resistenza
Ogni volta che passo da Crotone faccio un salto alla Libreria Cerrelli, in via Vittorio Emanuele, di fronte al vecchio Municipio e di fianco alla Chiesa dell’Immacolata. Fondata nel 1900, è la più antica libreria della provincia. Ed è una delle ultime rimaste vive in Calabria senza passare dalla servitù delle catene editoriali. In più di 120 anni di storia, visitata anche da Corrado Alvaro e da molti altri scrittori, è oggi uno dei pochi punti caldi rimasti come riferimento per la vita culturale cittadina. È un presidio che resiste nonostante la crisi. Merito di Paolo Cerrelli, che la gestisce come un luogo di grande vivacità, con numerosi appuntamenti.
La Rari Nantes in un’immagine d’epoca
Oltre che libraio, è un attivista e agitatore culturale, difensore delle librerie indipendenti e del valore della cultura crotonese, antica e moderna, che anima anche attraverso festival di musica e letteratura. Ha un passato da militante di sinistra e da atleta nella mitica pallanuoto “Rari Nantes Auditore”, settant’anni di storia sportiva di cui oggi restano solo gli avanzi desolati di una piscina olimpica scassata, ricettacolo di rifiuti. Cerrelli ha chiesto di recente all’amico Sergio Cammariere di poter utilizzare un brano tratto dal suo ultimo disco “Piano nudo” per sviluppare sul tema una poesia o un breve racconto, massimo di 20 parole. Il cantautore è un altro dei crotonesi da ricordare per il suo legame con la città. Nel suo libro autobiografico Libero nell’aria la ricorda così: «Volevo vivere di musica e ci sono riuscito, ma lontano da Crotone, a Roma», dove lo aveva preceduto Rino Gaetano, che di Cammariere era appunto lo zio.
Sergio Cammariere
Invece Giacinto de Rosario, esperto alimurgico e cuoco raffinatissimo, impegnato in azioni pubbliche per la sovranità alimentare, sulle sorti di Crotone, da crotonese di ritorno dopo una vita da antiquario di successo a Firenze, sottolinea il dovere di andare oltre le dichiarazioni d’amore per la città: «Occorre l’impegno di scoprire, salvare, avere cura della memoria e non farla più seppellire, per quel che resta di sopra e soprattutto di sotto. Non occorre stilare luoghi e storie da primato, ancor meno mi aspetto aiuti dagli eletti in parlamento, dagli ordini professionali ed altre categorie. È giunto il momento di farsi sentire e vedere tutti insieme, altrimenti è bene rassegnarsi al nulla». A proposito di impegno, il Gruppo Archeologico Crotonese assieme agli attivisti di Italia Nostra si batte da anni per difendere il grande patrimonio archeologico della città e dei dintorni.
I nuovi mostri
Sventato per ora il massacro di una grande lottizzazione speculativa per la costruzione di ville sull’area archeologica di capo Colonna, si profila all’orizzonte un’altra mostruosità: un colossale parco energetico offshore da piazzare nelle acque antistanti la città. Se verranno confermate le concessioni alla trivellazione alla Global Med, una società estrattiva americana, il progetto promette in un sol colpo di collocare su una superficie di mare di ben 2.250 kilometri quadrati tre nuove piattaforme di trivellazione, un campo di enormi pale eoliche offshore e una piastra di approdo per navi container e navi gasiere per rifornimento di gas naturale liquefatto. Tutto dentro le sacre acque che bagnano l’antica città di Kroton.
Si narra che Pitagora, che 2.500 anni fa scelse Crotone per fondare la sua scuola sapienziale, iniziasse la giornata insieme ai suoi scoliasti salutando il sole che saliva da oriente. Per ora il megaprogetto, avversato da gruppi ambientalisti e associazioni, pare aver trovato oppositori anche tra gli attuali amministratori cittadini. Se così non sarà, dopo lo scempio compiuto in terra, anche l’orizzonte ionico blu cobalto e il meraviglioso paesaggio marino dello specchio d’acqua crotonese avranno forse le ore contate.
Il prezzo del progresso
Oggi il Sud e la Calabria sono com’è Crotone: un immenso e caotico terreno di battaglia disseminato peggio che altrove delle macerie e dei ruderi informi di una modernizzazione scarsa di sviluppo che è stata – e sarà – incapace di tenere fede alle promesse di progresso annunciate un secolo fa. Il prezzo delle conquiste della modernità qui è stato tra i più compromettenti ed elevati: territorio massacrato, assenza di un’economia reale, disoccupazione che non smette di crescere, amministrazioni e governi locali allo sbando, una mafia efficiente e pervasiva come qui nessun potere legale riesce ancora a diventare.
Un nuovo e più sottile disordine sociale sta finendo per sgretolare una società pericolante. Che, a dispetto del benessere materiale ostentato ovunque, resta sottomessa, immiserita nei valori e culturalmente dimidiata nel suo unico bene: la sua memoria, la bellezza dei luoghi, il monito dimenticato che proviene dalla storia e dalla forza del suo paesaggio. Una società entro la quale nessuno pare avere il coraggio, la forza sufficiente a contrastare il peggio. Altre regioni, si dirà, altri Sud offrono della modernizzazione un bilancio simile, e tuttavia ‘ora’ è meglio di ‘allora’. Restano pur sempre il benessere dei consumi, le macchine, i frigoriferi, i computer, i telefonini, le parabole, l’economia di carta. Certo, è vero. Ma non è comunque una buona ragione per tacerne stupidamente il prezzo e nasconderne lo scandalo.
L’ultima colonna
Rivolgo lo sguardo al Capo Lacinio, da qui si intravede l’ultima colonna rimasta in piedi sul promontorio. Capo Colonna con la sua solennità a futura memoria resta lontano, sembra confinato a una distanza disperata, crescente. Un’altra nemesi sfacciata, uno scherzo beffardo della storia. Più di cent’anni fa, di passaggio nella “terrificante Crotone” battuta dallo scirocco e senz’acqua potabile, si ammalò di febbre polmonare George Gissing, e qui restò lungo in balia della tisi.
Si salvò solo grazie alle cure di un medico di campagna, il dottore Sculco, che divenne poi suo amico, e all’amore per lo straniero di un paio di donnette del popolo che aveva incantato, la povera gente che lo risollevò alla vita in una misera stanzetta dell’albergo Concordia, un posticino che in realtà era un bordello maltenuto. Il vittoriano solitario così scrisse grato: «Per me sarebbe stato meglio meglio morire qui sulle rive dello Ionio, piuttosto che in un tugurio di Shoredicth», il quartiere per dannati della Grande Londra dove era finito a vivere.
L’area archeologica di Capo Colonna
Prima di riprendere la strada voglio andare a rifarmi gli occhi e la mente al Museo di Capo Colonna, che conserva meravigliose la bellezza e la magnificenza che qui abitarono e che sono solo del passato. Ad accogliermi, anche qui, sono cumuli di monnezza traboccanti da cassonetti artisticamente piazzati nell’area archeologica, all’interno dell’oasi naturalistica del Parco di Capo Colonna, un centinaio di metri appena dall’ingresso del Museo archeologico. Se Gissing fosse venuto in macchina con me a rivedere Crotone, anche lui si sarebbe sentito coinvolto nel disastro morale della storia. E avrebbe pianto.
“Qui non si gode immunità”. Così recita una lapidetta ottocentesca sulla facciata di una chiesa a Morano Calabro. A pensarci bene, messa lì, sulla metaforica porta d’ingresso della regione, oggi suona quasi come un monito: “benvenuti in Calabria, a vostro rischio e pericolo”. Si scherza, ovviamente, ma, d’altro canto, a poche centinaia di metri da lì non venivano esposte le teste dei briganti infilate sulle colonnette ai margini della strada? Senza farla lunga, il fatto è che a cavallo tra Sette e Ottocento la Chiesa e il Regno di Napoli concordarono che taluni luoghi di culto fossero esenti dal dover garantire il rifugio ai colpevoli della maggior parte dei reati.
Morano Calabro. Iscrizione ottocentesca sulla facciata di una chiesa (Foto L.I. Fragale)
La Calabria come un’isola
E però oggi, in tempi di ambite immunità di gregge, questa iscrizione suscita pure qualche riflessione in più. Lo annotavo due anni fa, all’alba del lockdown: «La Sicilia chiude. La Sardegna chiude. La Val d’Aosta idem. Se si escludono due spiagge, due fiumare, due linee ferroviarie, porti e aeroporti, un numero indefinibile di sentieri escursionistici, fiumiciattoli e strade sterrate, gli unici accessi alla Calabria sono 1 autostrada, 3 strade provinciali, 4 statali e circa 14 comunali. Una ventina di strade. Quest’è tutto. Intelligenti pauca».
E, di riflessione in riflessione, viene pure da pensare a quanto in realtà la Calabria sia, sì, geograficamente peninsulare, ma forse assai più intimamente insulare: una metaforica isola vera e propria, tagliata fuori dal resto d’Italia da quell’enorme sipario roccioso del Pollino, che per secoli deve essere stato un discreto deterrente rispetto alla possibilità di fare due passi più a Nord. Lo guardavi da Sud e probabilmente ti passava la voglia di valicarlo. Volendo esagerare si potrebbe dire che è molto più insulare lei che una stessa Sicilia, appiccicata com’è questa a Villa San Giovanni e quindi al ‘continente’ (ponte o non ponte, visto che qualcuno attraversò lo Stretto a nuoto, e ahilui non in omaggio all’Horcynus Orca).
Il massiccio del Pollino visto da Sud
Ancora una riflessione, alla quarta potenza: mi pare che la perifericità del Sud (tutto) faccia sì che involontariamente, inconsapevolmente, i suoi abitanti abbiano maggiore conoscenza della geografia rispetto ai settentrionali. Un paradosso, ma come a dire: necessità fa virtù. Se non fosse che resta molto spesso una conoscenza, appunto, confinata al bisogno: meramente istintiva e perciò acritica.
La prima grande strada della Calabria
Ma, dicevo, il sipario roccioso: se ne riconoscono a memoria, da sinistra a destra, le cime principali. La rotondità di Serra del Prete, la piramide del Pollino, il triangolo isoscele della Serra Dolcedorme, la linea lunga della Manfriana e poi le rupi sopra Frascineto, e ancora più a destra le obliquità taglienti del Monte Sèllaro…
Il tracciato della Via ab Regio ad Capuam, o Popilia
Porzione calabrese della Tabula Peutingeriana
Eppure a valicare questo massiccio ci riuscirono – ovviamente prima di Cristo (a quei tempi non servivano i miracoli. Nemmeno per i Lavori Pubblici) – con la Via ab Regio ad Capuam, o Popilia, la prima (e ultima?) grande strada calabrese, di cui oggi l’autostrada ricalca paro paro (o giù di lì) tutto il percorso, quantomeno dallo “svincolo” di Nerulum (…), addirittura più di quanto l’avesse ricalcato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) che, a differenza della Popilia, oggi sopravvive leggermente meglio e in più punti.
Trattorie e McDonald’s
L’ho voluta percorrere praticamente tutta, questa qui, da Salerno a Palermo, in due sole ed estenuanti tappe, perché lo dico spesso: l’autostrada sta alle vecchie strade come un McDonald’s sta a una trattoria. E mi pare sufficiente. Eppure anche nei luoghi più impensati non c’è verso di salvarsi da certe ovvietà, da certi appiattimenti subculturali inutili, se non altro: perché bisogna chiamare “via Posillipo” un pezzetto della vecchia Strada Regia, peraltro in piena montagna?
Appena un pezzo di strada si infila in un tessuto urbano o, meglio, viceversa: appena un tessuto urbano cresce e ingloba un pezzo di strada antica e usurpa dignità di Comune sopra o sotto gli X abitanti, ecco tutto un fiorire di toponomastica e odonomastica da brivido. In Calabria come altrove. Ricordo, in un paesino nel mezzo del ridente Polesine (sì, certo che è ironico) una stradina intitolata a Eduardo De Filippo. Anzi: ovviamente ad Edoardo. Con la o. C’era da aspettarselo: ‘l male, ‘l malanno e ‘l danno all’uscio, direbbero nel senese.
Certo, ricordo il tratto campano chiuso per frana (Petina-Polla), un brevissimo tratto lucano (ingresso da Nord nel centro abitato di Lagonegro) ufficialmente riservato ai residenti, e quindi tutto il tratto in Calabria da Laino a Mormanno, ufficialmente chiuso per frana ma regolarmente utilizzato dai locali (almeno al 2014). Poco più oltre si giunge a Campotenese, ignorando un incrocio per una sorta di sentiero dorato da Mago di Oz, che conduce verso luoghi di cui parlerò un’altra volta. E si arriva così alla famigerata Dirupata, a nord-ovest di Morano.
La Dirupata nuova (in basso a sx) e ciò che resta della vecchia (a dx). In fondo, l’autostrada
La Dirupata antica è però fuori uso da almeno 60 anni: se ne intravede qualche tratto dalla Dirupata nuova, che vale comunque la pena di percorrere come surrogato di un ‘battesimo stradale calabro’. Quella vecchia, che sopravvive zigzagando sterrata rispetto al tracciato della nuova, è stata invece l’incubo di generazioni di palafrenieri, postiglioni, viaggiatori di ogni specie.
Il miglior modo di viaggiare in Calabria
Ripidissima, quasi sempre innevata, quasi a strapiombo sulla vallata sottostante. La gente ci moriva, le ruote schizzavano fuori, le diligenze scivolavano a valle tirandosi dietro cavalli e passeggeri. C’è un quadro ispirato proprio a questo luogo. Lo dipinse il calabrese Andrea Cefaly, nel 1866, e lo intitolò Il miglior modo di viaggiare in Calabria. Con dedica (si fa per dire) al Ministro dei Lavori Pubblici (all’epoca il lombardo Jacini, conte di Casalbuttano…).
Andrea Cefaly, “Il miglior modo di viaggiare in Calabria”, 1866
Eppure su questa strada sono passati tutti. Tutti, fino alla costruzione dell’autostrada. Che, se ci pensate bene, tanto remota non è. Tutti ci sono passati ma nessuno più se la ricorda. È stata percorsa da briganti, truppe militari, addirittura da quei carcerati tradotti a piedi, da regnanti, dagli stranieri del Grand Tour, da tutti i giovani che per secoli sono andati a studiare a Napoli (compresi tutti i nomi nostrani più celebri) e da chiunque avesse voluto o dovuto per ogni ragione dirigersi da una capitale all’altra, da Palermo a Napoli e viceversa.
Vita da nobili
E tra questi quel danaroso viaggiatore calabrese che nel 1836, di ritorno da un lungo giro dell’Europa, si fece comodamente trasportare addirittura in lettiga, mica in carrozza, da Morano fino ad Amendolara perché, scriveva, “questo modo di viaggiare è molto comodo nei paesi in cui non vi sono strade carrozzabili”. Più che giusto, noblesse oblige, caro il mio Alessandro Mazzario. E si chiude il cerchio, tornando a parlare di pandemie ed epidemie, perché lo stesso giovane calabrese scampò il colera di quegli anni (il colera che non risparmiò Leopardi, per intenderci).
Viaggiare in lettiga
Durante la quarantena dentro a un lazzaretto si invaghì prima della figlia del luogotenente di guarnigione. Quindi conobbe due gradevoli imprenditrici toscane che avevano appena inaugurato una loro cappelleria a Madrid. Poi conobbe Edward Leeves col quale scambiava libri. Infine, si invaghì di una cameriera russa: “[…] Vi son poi due cameriere piuttosto graziose, e bastantemente svegliate per essere Moscovite. L’una di esse mi sorride tutte le volte che la guardo, e par che abbia gran voglia di farmi ricominciare la quarantina […]”. Insomma: quando si dice “prenderla con filosofia”.
Il guardiano dell’autostrada
Poco più oltre vale la pena di lasciare un attimo la Strada Regia, e perdersi nelle campagne di Castrovillari – prima di raggiungere la zona delle Vigne, una sorta di miglio d’oro senza mare –, tra le masserie di contrada Cutura, per arrivare fino al convento di Colloreto che tra Sei e Settecento pare fungesse da copertura per ospitare non tanto dei monaci ma qualcosa di equivalente ai Servizi segreti d’oggi, intenti a controllare ogni tipo di traffico obbligato sulla Strada Regia.
Masserie in contrada Cutura di Castrovillari (foto L.I. Fragale)
Il convento-fortino, con torre di vedetta anziché consueto campanile, si è salvato – per modo di dire – dalla costruzione dell’autostrada e dal recente ampliamento della stessa. Rudere silenzioso, resta a guardia pure del traffico e del suo rumore costante. In una specie di mise en abyme cronologica, le gallerie dell’autostrada si possono scorgere, tristemente, attraverso brecce e finestre, tra le sue mura di pietra a secco. Una ferita sacrificata per quale progresso?
Perché chiamare una rubrica Franco tiratore, quando l’Italia della politica ci fa associare sempre quell’espressione a chi in segreto tradisce la propria fazione? Non per quelle elucubrazioni con cui ci si diletta nei giornali pur di sfruttare a tutti i costi il nome di qualcuno in un gioco di parole. Certo, il direttore de I Calabresi si chiama Franco Pellegrini e sarà lui a tenere la rubrica, ma la cosa ha influito meno di quanto possa sembrare.
Il fatto è che il franco tiratore vero, l’originale, era l’esatto contrario di quello contemporaneo: un soldato – o un gruppo di soldati – che poteva entrare in azione senza dover sottostare a ordini come il resto dell’esercito. Libero, con la sola missione di difendere la propria comunità. Proprio come, fuori dall’originario contesto bellico, sarà questo nuovo spazio. In fondo anche questo giornale combatte una battaglia: raccontare la comunità dei calabresi e le sue molteplici sfaccettature, offrirle un’informazione indipendente, sincera e con un taglio originale, stimolarne la voglia di confrontarsi con opinioni a volte differenti dalle proprie.
Pensiamo che un appuntamento video periodico in diretta per affrontare un argomento possa essere un modo per coinvolgere ancora di più i nostri lettori in questa battaglia culturale comune. Franco tiratore sarà questo, vi aspettiamo.
«Se doppo haver mangiato carne di porco bevissimo dell’acqua vi farebbe molto danno, ma bevutoci vino temperatamente, sarà buona, e salutevole». Il saggio consiglio di abbinare del buon vino alla carne di maiale per ridurne gli effetti dannosi per l’organismo viene da un astrologo e astronomo cosentino. A cavallo tra ‘500 e ‘600 il torzanese Rutilio Benincasa nel suo Almanacco Perpetuo – in cui si occupa sostanzialmente di firmamento, corpi celesti, calcoli pseudoscientifici e nozioni di storia – si premura di dare al lettore «alcuni buoni et utili avertimenti per conservarsi la salute et vivere lungo tempo sani». Non sappiamo quale beneficio per la salute ne abbiano tratto i lettori dell’Almanacco. È certo però che nei secoli passati la gente comune faceva incetta di carne di maiale, che rappresentava una vera e propria “conquista” e occasione festiva per molte famiglie.
Maiali neri di Calabria
Vasci e detti
L’allevamento del maiale era una delle voci che più contribuivano al sostentamento famigliare. Allevare maialini e poi macellarli, di gennaio in gennaio, significava avere la dispensa piena. Quella del “porco” era un’industria dal basso e le “botteghe oscure” erano in questo caso le stesse abitazioni. A parte le famiglie benestanti che potevano permettersi una stalla, generalmente nelle case il piano superiore era riservato alle persone mentre il piano inferiore a masserizie e animali. Ma a “sua maestà” il maiale veniva generalmente riservato un angolo a sé.
La ‘piertica’
Le famiglie povere invece condividevano il “vascio” con le bestie, porco compreso. Il possesso di maiale rappresentava un vero e proprio spartiacque tra l’inedia e la sazietà, che significava benessere. A tal proposito un proverbio riportato da Luigi Accattatis nel suo vocabolario del dialetto calabrese recita che «amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, ca ‘e vide e li desiddera i sazizzi». Oppure un altro avverte che «chine se spùsa sta cuntientu nu jùarnu, chine s’ammazza lu pùorcu sta cuntìentu n’annu».
I porci del marchese
Nel 1770 il marchese ed economista Domenico Grimaldi diede alle stampe un Saggio di economia campestre di Calabria Ultra con l’obiettivo di diffondere quelle che oggi definiremmo con un termine abusato “buone pratiche” agricole. Grimaldi, che aveva delle proprietà in Calabria, era consapevole che «fra li maggiori capi d’industria della Calabria, quella d’ingrassare i Majali è una delle più considerabili». Ciò era dovuto al fatto che i suini erano soliti scorrazzare liberi nei boschi e cibarsi di ghiande che rendevano «la carne di questi animali più solida, e più sana, e più durabile dopo salata» rispetto a quella dei maiali nutriti a granturco e che dimoravano nei porcili. Ma se c’era una cosa che non gli andava a genio era il modo di produrre e commercializzare i salumi in Calabria.
De’ Majali. Dall’opera di Grimaldi del 1770
Secondo il marchese non si usava «alcuna diligenza per scegliere la carne […] niuna regola prefissa per salarla e mettersi la giusta quantità di sale […] Di più i Calabresi ignorano la maniera di prosciugarli e unger di tempo in tempo i detti salami». Nonostante l’ottima qualità delle carni, i discutibili metodi di conservazione rendevano disponibile per l’esportazione una bassissima quota di prodotto. I calabresi avrebbero dovuto dunque imitare «il più ricco commercio che fanno i Bolognesi delle loro mortadelle» e incominciare a «estrarre salami dalla Calabria, che fossero gustati nell’Inghilterra, e in altre parti oltramontane, che il profitto farebbe certamente stropicciar gli occhi alli nazionali».
Maiale al bando
Nella seconda metà dell’Ottocento i maiali vagavano indisturbati per le vie di città e paesi. Erano una presenza costante nei più immondi tuguri, tanto da far scrivere al solito Vincenzo Padula che «il Calabrese nasce tra porci e porcelle». Nell’articolo L’ostracismo dei porci (Il Bruzio, Cosenza 4 Maggio 1864) il sacerdote-giornalista si spinge in «quei bugigattoli, dove stivate, pigiate e affumicate albergano le famiglie del popolo». Poco oltre quel «fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo [trogolo, mangiatoia dei maiali, nda], e presso al truogo un porco».
Una Calabria non troppo antica dove il maiale viveva in famiglia (foto pagina Facebook Calabria Ieri)
Padula non manca di sottolineare la stretta simbiosi tra esseri umani e rosee ma talvolta pezzate creature, giacché «il porco in Calabria dorme sotto il letto, scorrazza per le vie, si conduce a passeggiare per le piazze, spinge il grifo [naso grosso] nei caffè, si ferma innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli buttano i bevitori, e quando bene gli pare entra in chiesa a sentire la predica». Tutto ciò suscitava le sdegnose proteste di quei pochi privilegiati e dei sindaci «dai calzoni di segovia e dagli stivaletti di vitellino incerato» che in nome della civiltà e dell’igiene chiedevano «di mettere i porci cittadini al bando».
Pentolini di creta
Tra il serio e il faceto Padula spiega come all’improvviso «i porci si posero sotto il patrocinio di S. Antonio». In effetti Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici, è spesso raffigurato con un maialetto al suo fianco. Padula annota come in Calabria i frati Cappuccini e Riformati – francescani come Sant’Antonio di Padova – abbiano attribuito a quest’ultimo la protezione dei maiali ma solo per un fatto di omonimia con l’altro santo Antonio.
Rende (CS), chiesa di S. Antonio Abate. Il santo con il maialino
Questo garbuglio di santi e maiali serve a Padula a introdurre un uso devozionale, praticato in alcuni paesi della Calabria fino pochi decenni or sono e legato al suino. «Appressandosi la stagione del porcocidio» i frati andavano di uscio in uscio e lasciavano dinanzi a ciascuno cinque pentolini di creta. Nel trovarli, spiega Padula, «la donna calabrese li bacia per devozione». Dopo una quindicina di giorni un fraticello sarebbe passato a raccoglierne uno solo ma pieno di strutto, un “ben di Dio” che si ricava dalle parti grasse dell’animale.
Maiale, unica industria
Padula tuona però contro sindaci, agenti di pubblica sicurezza e paladini della nettezza urbana: in Calabria «togliere la cittadinanza ai porci non si può». Il sacerdote dalla penna affilata adduce tre ragioni a sostegno della sua affermazione. La prima: «Dei nostri cento paesi, novantasette non hanno macelli, né beccai; e se gli hanno, il villano è sì povero che deve rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca». La seconda: «Tra noi l’uomo del popolo, a rompersi tutto il dì l’arco della schiena, è molto se guadagna una lira e la sua donna 25 centesimi».
Dinanzi a siffatta «spaventevole miseria, effetto di mancanza di lavoro e di arti» a quei disgraziati non rimane altra industria che «allevare un porco» e godere dei suoi frutti. La terza motivazione a sostegno dei suini è pratica: «Lungi dal creare immondezze, le distruggono». In breve: finché in ogni paese non verrà costruito un sistema fognario in pietra, per Padula non cesserà «la necessità delle fogne vive che sono i porci».
Pubblico mattatoio
A Cosenza nel 1859 l’aria era poco salubre anche per via della pratica della macellazione delle bestie, maiale incluso. A tal proposito Ferdinando Scaglione annota che «l’abuso generale de’ macellai di sgozzare e di scorticare quasi entro l’abitato gli animali vaccini, pecorini e porcini, riempendo ogni luogo di sporcizia e d’impurità». Bisognava dunque «impedire ogni sorta di putrefazione, sola cagione di miasmi e di febbri tifoidee» e ci si pose il problema della creazione di un pubblico mattatoio cittadino. Tuttavia, ancora nel 1870 il medico Domenico Conti scriveva che «per mancanza di adatto macello sgozzansi gli animali nell’abitato buttandosene gli escrementi o nelle strade o ne’ fiumi Crati e Busento».
Grastaturi e daziari
Era colui che interveniva con la sua arte per castrare il maiale. Si riteneva che la procedura favorisse la crescita dell’animale e evitasse alcuni inconvenienti che potevano inficiare la qualità delle carni. Chiamato all’occorrenza, il grastature giungeva nella “zimma” con la sua cassettina di legno contenente gli attrezzi del mestiere, quasi una valigetta da chirurgo viste le mansioni veterinarie che era invitato a svolgere. Attraverso delle piccole lame affilatissime interveniva incidendo, dopo una sommaria pulitura della parte interessata, e quindi, con un altro arnese, castrando il malcapitato maiale. Si trattava di competenze chirurgiche molto rudimentali ma non alla portata di tutti, acquisite non con lo studio ma con la pratica, spesso passata di padre in figlio.
Lo ‘scannaturu’ (foto Lorenzo Coscarella)
Se il grastature godeva del rispetto delle famiglie allevatrici, al contrario l’agente del dazio, chiamato a riscuotere una tassa per ogni animale macellato, si accattivava tutti gli odi. I “porchicidi” non denunciati erano passibili di multe che rappresentavano per le famiglie un danno economico. In breve, l’agente daziario era il guastatore della festa e in molti cercavano di eludere i controlli. C’era chi sottoposto a indagine dichiarò di trasportare due mezzi maiali quando, in realtà, ciascuna metà era dotata di coda e dunque i maiali dovevano essere almeno due. La multa fu inevitabile e salata.
Cosenza caput… puarci
Le statistiche circa “l’industria del porco”nellaprovincia di Cosenza tra ‘800 e ‘900 dimostrano quanto questa fosse diffusa e popolare. Accattatis scrive infatti che solo la città capoluogo «coi suoi mercati settimanali provvede di carne suina anche le altre Calabrie». Il prodotto medio annuale dell’intera provincia era di 249 mila animali. Questi consumavano 100 mila ettolitri di ghiande e 150 mila di castagne. Circa 40mila maiali venivano consumati nella provincia, di cui 4.000 nella sola Cosenza ricavandone prosciutti, costa, gelatina, sanguinaccio, frittule, gambone, soppressata, salsicce, capocollo, lardo, frisuli, grasso. Un maiale tra i 30 e i 90 kg poteva costare tra le 34 e le 100 lire in base al peso.
Nel comune di Cosenza nel 1908 erano stati macellati 4098 maiali, per un totale di circa 165mila kg di carne suina (a peso morto). I capi di suino consumati erano stati però 8991, quindi gran parte dei maiali giungeva in città dai centri vicini. A Corigliano i suini macellati erano stati 1151, a San Giovanni in Fiore 3742. A Catanzaro, nello stesso anno, erano stati macellati 1080 suini per un totale di 158mila kg di carne, mentre i maiali consumati 3947. Nel suo circondario è possibile conoscere i dati di Monteleone, con 359 maiali macellati; Nicastro con 1648; Sambiase con 860. Per Reggio non si hanno a disposizione dati per quell’anno, visto che i registri furono dispersi durante il terremoto, ma per la provincia le statistiche riportano 451 maiali macellati a Palmi e 67 a Cittanova.
[…] Successivamente a Sangineto s’è parato davanti il teatro umano più interessante, le due anime principali di quelle invasioni estive: la borghesia professionale cosentina da una parte e un pot-pourri di ceto medio, medio-basso e basso tra il partenopeo e l’avellinese. Nel mezzo, qualche fioritura di ceto medio e piccola borghesia cosentina, pure. A fare da cuscinetto o, appunto, da spettatore divertito. Le due anime di cui sopra, infatti erano a compartimenti del tutto stagni. Se comunicazione c’è stata, fidatevi, era quasi sempre fasulla. Pregiudizi da una parte, pregiudizi dall’altra (e so bene quali gli uni e quali gli altri. Ma anche quali verità).
Tra i due litiganti
A un certo punto, non appartenere a nessuno dei due gruppi è stato anche un salvacondotto per barcamenarsi o, più semplicemente, farsi i fattacci propri. Certo è che qualcuno dei secondi cercava di imitare i primi, mentre non ho mai visto il fenomeno contrario. Ma senza dubbio spenderei di nuovo le mie controre dei 12/13 anni come feci allora, con i peggiori scugnizzi che mi insegnavano la combinazione di tasti (e me la ricordo ancora) per scaricare tutti gli spiccioli dai telefoni pubblici, come delle slot-machine a disposizione per innocentissimi gelati o per qualche giro ai videogiochi. O assieme ai quali si improvvisavano rally in fangosissimi campi abbandonati, con Grazielle arrugginite e di fortuna: gradi di libertà.
E altrettanto senza dubbio mi facevano piuttosto ridere (e oggi, a distanza di tempo, più pena che altro) certe mode cosentinissime: il colletto della polo alzato, la fetta di limone in quella birra lì, e soprattutto quella moda, durata per fortuna poche estati, di scendere dall’auto a piedi scalzi calcando con disinvoltura asfalto rovente e fetente – poca la differenza – davanti alle spoglie della microgattopardesca Villa Giunti, laddove pernottavano (ma ben dopo l’alba) monumentali cubiste dell’Est. Lì dove una volta c’era un ponte in pietra, quasi inspiegabile, che tirava dritto dal fianco delle chiesetta di San Michele fino al casello ferroviario ormai abbandonato.
Azzilio, Ferrari e Doc Martens
Ricorderei eccome nomi, volti e anche frasi specifiche. Ma a che pro? Ricordo il figlio del giudice, che non avrebbe mai messo piede in una Fiat (roba per poveracci, diceva). La nipotina di, lasciamo perdere, che quando le rubarono lo Scarabeo nuovo di zecca gliene comprarono immediatamente un altro, se no chi la sentiva… Quello che in spiaggia andava con le Dr. Martens perché così faceva più punk (molto, molto molto prima che diventassero obbligatorie già tra le ragazzine di V elementare), quello che… basta. E chissà quante cose davvero non ricordo. Pettegolezzi di 25 anni fa di cui, per fortuna, non m’importava nulla allora, figuriamoci ora.
Ricordo articoli dell’epoca su rampolli, protettissimi dall’anonimato, invischiati in brutti giri di prostituzione d’alto bordo; le Ferrari fuori luogo, guidate da 18enni ubriachi o parcheggiate rigorosamente in bella vista (se no perché comprarne una?) nei giardini delle ville con o senza piscina, i rampolli di seconda o terza generazione, inspiegabilmente biondi (o forse molto spiegabilmente); tutti i cognomi e qualche nome (con l’incredibile incidenza di Attilio – pronunciato Azzilio – forse dovuta a endorsement trisavoleschi delle gesta dei fratelli Bandiera, boh, se no non si spiega). Ma non pensiate a coloriture ideologiche. Di ideologie nemmeno una lontana ombra, né da una parte né dall’altra. Superficialità, invece, quanta ne cercavate.
Il finto carnevale bruziopartenopeo
Uno squarcio in questa tela periodicamente imbrattata a tinte bruziopartenopee fu, ricordo, nel pieno dell’estate del… ’90?, un funerale tutto sanginetese. Dal primo piano di una casa del Lido, la salma mosse giù per la scala esterna, e portata in processione per il lungomare, con tanto di banda al seguito, come piace a me. E i turisti zitti, finalmente. A cuccia. Davanti a certe faccende è doveroso che riemerga una tacita gerarchia naturale: territoriale, prima ancora che sociale. Ecco perché dico che se volete capire Sangineto dovete andarci quando sveste gli abiti estivi, di quel finto carnevale di eccessi e di divertimenti certamente più sbandierati che reali. Dopo che gli acquazzoni di fine agosto ripuliscono il marcio del turismo e scacciano finalmente i villeggianti in città, a meritati calci nel sedere assieme alle loro chiacchiere da spiaggia, alle loro incoerenze involontariamente militanti e al loro vuoto a perdere.
La vecchia natura di Sangineto
È allora che riemerge lentamente la vecchia natura del posto, anche dell’unica contrada che il Comune ha sul mare: quella Contrada Le Crete dove alla fine dell’Ottocento furono addirittura scoperti resti di mammut (e chi volete che lo sappia?). Qui, da metà settembre, nell’unico bar che resta aperto anche fuori stagione riaffiorano i volti locali, gli uomini che tornano ai tavoli che occupavano – direi di diritto – negli altri dieci mesi, con le loro birre e i loro mazzi di carte. E, nel periodo consentito, si può vedere uscire in barca don Pietro con le frasche per preparare i cannizzi per le lampughe.
Sangineto Lido, prima metà del ‘900
Il bar, dicevo: niente pubblicità, per carità, tanto uno ce n’è. Quel bar che è praticamente un faro, unica lucina accesa sul lungomare d’inverno. Una sicurezza, un’istituzione. Da Patrimonio Unesco: lo troverete aperto fino a mezz’ora prima di cena, il 31 dicembre. E di nuovo aperto il 1° gennaio, con tanto di alberello di Natale sul marciapiede, provare per credere. Molto più di un bar: una garanzia, quasi un servizio sociale, un approdo per naufraghi (in senso molto lato), con la signora dall’occhio vigile che ha visto crescere generazioni di bambini e bambine, poi adolescenti, risate e pianti.
La festa è finita
Poi a un certo punto (ora non ricordo bene l’anno ma fu una cosa nettissima, da un’estate all’altra) i riflettori si spensero in modo drastico. Dove ad agosto faticavi letteralmente per fare due passi nella folla, ora a mezzanotte contavi le persone sulle dita delle mani. Ricordo che si erano spostati tutti a Diamante, mi pare. Sarò maligno io, ma mi pare che la festa finì – così come finì per il tentativo di rinascita di Cosenza vecchia – quando morì Mancini. E in fondo tutto tornerebbe. Nascita, apogeo e morte di un fenomeno sociale. E nonostante l’ex voto dell’intitolazione a Mancini di un bel pezzo di strada sanginetese, vi fu sì una ripresa, lenta, difficile, ma mai in grado di eguagliare i numeri di prima. Soltanto mera emulazione dell’emulazione dell’emulazione: i ventenni di oggi, per il poco che veda, sono enormemente diversi dai ventenni di vent’anni fa. Come lo eravamo noi rispetto a paninari, yuppie rampanti & coevi, come lo erano questi dai pionieri fortunati di quindici anni addietro.
I disonori della cronaca
Più di recente, Sangineto cadde pure temporaneamente nei disonori della cronaca: Angelo era un cane e fu ucciso a sassate da un gruppetto di giovani sciaguratelli del paese. Non so come sia finita la storia, mi auguro abbiano dovuto prestare servizio gratuito (e controllato) in qualche canile, come minimo. O costruire con le proprie mani un monumento al malcapitato. Ma ovviamente da questa faccenda sortì tutta una stupida stigmatizzazione generica: indirizzata ai paesani tutti, prima, poi ai calabresi tutti, poi ai meridionali, poi agli italiani, a seconda della voce narrante. Solita sindrome del giudizio facile.
La statua di Angelo nel rione Monteverde a Roma, vittima della stupidità umana come il cane a cui è dedicata
Sangineto plurale
È come se ci fossero due Sangineto: non il paese e la marina, no. Ma da una parte quella di luglio e agosto, e dall’altra quella degli altri dieci mesi. Nella prima non metto piede da una decina d’anni. Nella seconda torno appena posso. Perciò, sia chiaro, non c’è assolutamente nostalgia in ciò che leggete, anzi. Semmai un’autoaccusa, in un certo senso, sia della mia passata natura – seppur scettica – di villeggiante, sia del mio attuale (ab)uso di dimestichezza da finto residente.
Torno nei momenti più impensabili, a perlustrare per controllare che sia ancora intatto l’abbandono totale di certi minuscoli paradisi rurali scampati alla cementificazione a suon di smottamenti e disoccupazione. Di frane ed emigrazione. E di una spolverata di colpevole ignoranza. Toponimi che non dicono più niente nemmeno ai figli di chi è rimasto. Nemmeno a chi è rimasto, a rimbambirsi per decenni davanti alla tv. Relitti di un equilibrio perduto, magari non magnifico ma funzionante.
Varese, Venezia, Courmayeur
I sanginetesi emigrati, che tornano per l’estate (se va bene), hanno accento di Varese, perché dagli anni ’60 in poi se ne sono andati lì a frotte. Ogni paese, al Sud, ha la sua testa di ponte al Nord. Per Sangineto è Varese. Per Belvedere fu Courmayeur (ebbene sì: fatevi un giro nelle campagne di Belvedere, contate quante vecchie auto vedete targate AO e non sorprendetevi. Le belle baite alpine e gli chalet in legno della Val d’Aosta sono opera dei boscaioli arrivati dai monti di Belvedere. Anche qui: farsene una ragione. Come gli ontani usati per le fondazioni di Venezia erano – anche – quelli di Buonvicino, sopra Diamante, ottimamente refrattari a infracidirsi).
Il sentiero dei ricordi
Ma torniamo a noi… Il signor Pasquale, per esempio, è emigrato a 15 anni. Ogni tanto torna giù. A marzo del 2020 c’è rimasto bloccato per la pandemia. Non sapendo cosa fare s’è messo a ripulire un sentiero che da bambino percorreva per andare alla cascata dentro la grotta, in mezzo al bosco, a due passi dal paese (la cascata del Vuglio delle Forge, ed ecco ancora i toponimi a indicare le attività artigiane di un tempo, come Le Crete, qualora non bastassero – sparsi per le campagne sanginetesi – sopravvivenze di qualche carcara o di carbonaie): il sentiero l’ha trovato abbandonato, infestato dai rovi.
La cascata del Vuglio delle Forge
Oggi, falce in mano, alla cascata ci accompagna gli escursionisti (sii come il Signor Pasquale, verrebbe da dire). Mi racconta che tutto quel sentiero e quelle fattorie abbandonate erano, fino a 60 anni fa, un pullulare di famiglie, bambini, lavandaie al lavoro giù al torrente, contadini inerpicati su per i pendii. «La vedi quella casa lì?» – mi fa, indicandomi una meravigliosa masseria a mezza costa, che oggi mi pare un rudere raggiungibile solo da qualche capra acrobatica – «lì ci vivevano tre famiglie». Non di quattro componenti ciascuna, immagino. Ma di quelle otto/dieci unità dove per sfamarsi dovettero inventarsi pietanze come la “cieca”, d’una povertà agghiacciante: acqua calda e farina rappresa; o la ricotta fatta con latte tagliato col latticello dei fichi.
Sangineto, terra di nessuno
Sangineto fuori stagione ha l’aria di un set cinematografico abbandonato, terra di nessuno pur sapendo che di qualcuno è. Ridiventa simile a tanti certi posti magnificamente desolati che ho visto in Croazia come alle Canarie (con le dovute differenze, ovvio). O come Tristan da Cunha, dove non andrò mai: l’isola più isolata al mondo, ormai famosa proprio per questo. Si trova in mezzo al nulla, nell’Atlantico (non nel Pacifico, come si potrebbe pensare: lì ce ne sono troppe perché ognuna sia sufficientemente distante dall’altra).
Tristan da Cunha, indicazioni per raggiungere il resto del mondo dall’isola più sperduta del pianeta
È un’isola fredda, non una di quelle isole tropicali da pubblicità. È un’isola ostile, con poche risorse e ben poco da fare. Un bar e, fino a poco tempo fa, un solo computer connesso a internet. La posta arriva poche volte all’anno e la città più vicina, Città del Capo, sta a tre giorni e tre notti di peschereccio, se non ricordo male. Vi abitano poche centinaia di persone, tutte discendenti di naufraghi. Anche di naufraghi italiani. Nei periodi storici in cui gli uomini da matrimonio scarseggiavano, le donne invocavano qualche nuovo naufragio. Ma quando arriva qualche mero curioso allora si barricano tutti dentro casa per paura delle malattie (hanno difese immunitarie debolissime).
Silenzio
Ecco, io preferisco interpretare Sangineto come una personale Tristan da Cunha, senza bisogno di dover viaggiare tanto. Atlantide, in un certo senso, esiste. Ed è in tutti i luoghi che dimentichiamo, o che non abbiamo mai neppure considerato. Magari dietro casa, quelli rimasti nel silenzio. Il silenzio, appunto. Una volta la signora del bar mi chiese «ma cos’è che ti piace tanto, di qua?”. «Il silenzio», risposi. E lei: «certe volte questo silenzio è così forte che non ti abitui mai». Muto, anch’io.
Sangineto è ciò che non si vede. E, di conseguenza, non è ciò che vedete. Tanto per cominciare non è un “posto di mare”, piaccia o non piaccia, ma semmai è un territorio pedemontano “prestato” al mare. Prestato e mai restituito, o restituito malamente e in parte, con gravi segni dell’uso. Il mare, insomma, non è nelle sue corde e per convincersene basterebbe osservare la brevità della costa sanginetese (meno di 2 km) rispetto a quelle dei Comuni immediatamente confinanti (i 5,5 km di Bonifati – per intenderci: Cittadella – o i ben 10 km di Belvedere Marittimo): una costa che sembra più il residuato di una servitù di passaggio dal paese antico verso il mare, alla foce del torrente omonimo. Ancor più se si tiene presente quella strozzatura della mappa comunale a metà tra il mare e il paese, dove la larghezza massima è di appena 500m in linea d’aria.
Prova del nove del carattere poco balneare di Sangineto? Dal paese, in genere, il mare nemmeno si vede, se non da un paio di angoli panoramici o da qualche balcone fortunato. Non basta? Parte del territorio comunale ricade nel Parco Nazionale del Pollino. Anzi, ha il primato di esserne la punta più meridionale. Come a dire: a Sangineto crescono i pini loricati, bisogna farsene una ragione. Anzi, i loricati più meridionali d’Italia, e quindi – superando addirittura i colleghi greci – i più meridionali d’Europa (e quindi del mondo, visto che fuori d’Europa non ve ne sono). Ancora non basta? Il confine comunale orientale, quello con il Comune di Sant’Agata d’Esaro, è una linea in mezzo ai boschi lunga ben 8 km. Altro che spiagge.
Dal re agli amici degli amici
Schema del sistema viario del Comune di Sangineto (1901).
Una mappa del 1901 segnala su Sangineto un sistema viario degno di una metropoli, e pertanto difficile – ma non del tutto impossibile – da riconoscere nell’attuale teoria di strade rurali secondarie. Una cartolina degli anni ’40 mostra ben 6 vedutine del luogo: ce ne fosse una del mare, o delle spiagge… niente di niente, non se ne raffigura neppure il castello, benché in quegli anni venisse visitato finanche dal prossimo Re di maggio, con tanto di foto d’ordinanza (ben prima di diventare discoteca in libero crollo per il pubblico pagante).
La Sangineto conosciuta è invece un’altra: è quella chiassosa – anche metaforicamente – che nacque all’indomani delle speculazioni edilizie della prima metà degli anni ’60, quando per particolari congiunture vi confluirono interessi di investitori, appaltatori e amici degli amici.
Sangineto, fase n. 1:
Ne nacquero prima un grande albergo con i suoi improbabili bungalow (ora smantellati, dopo anni d’abbandono) e tutto un complesso residenziale più pretenzioso che realmente elegante, chiuso tra la ferrovia, l’albergo, il torrente e il mare. E poi altre ville più su, verso la statale, su quel pianoro che la toponomastica inopportuna ha pomposamente intitolato a un antico popolo (come ad altro popolo una sua traversa) e che io continuo a chiamare così come era sempre stato indicato sulle mappe: Renga. Lì dove spuntava un piccolo casino gentilizio e ancora spunta, sebbene oggi soffocata, l’antica Torre della Finanza (in cima alla rupe sopra al vecchio mulino) diventata poi per qualche tempo una discoteca dal nome fatato. Altro che Finanza.
Sangineto, fase n. 2:
Le “Costellazioni” di Sangineto in un vecchio depliant di un albergo del posto
Dove già esisteva qualche sparuta casa di contadini nasce, a nord del suddetto albergo, tutta una teoria scriteriata di edifici privati, villini bi e quadrifamiliari, villette a schiera e residence di gusto non proprio eccellente che, lasciando incredibilmente sopravvivere qualche ulivo secolare, si arrampicano dalle spiagge (allora sconfinate e punteggiate di bunker bellici, ora ridotte all’osso le prime, ingoiati dal mare i secondi) fin sulla strada statale. Terreno buono per ex bambine, mie coetanee, che diventeranno mogli di comici napoletani e, oggi, per padri di calciatori in vista o finanche per il fu Coriolano, mosca bianca stufa di posarsi sulla solita cosentinità a vocali sguaiate per lui poco renzelliane.
Di case vecchie, qui, ne resta una in particolare, nel bel mezzo della piazzetta: da almeno 30 anni imbavagliata e incatenata a un sequestro giudiziario. Fa la sua Resistenza.
Un’altra stava sotto al curvone alla fine del lungomare: se la mangiò in pochi bocconi una mareggiata, dopo il ’66. Come tante cose qui, era dei nobili Spinelli di Belvedere, che ancora in quegli anni venivano a cavallo, spiaggia spiaggia, a riscuoterne pigione.
Sangineto Lido, danni di una mareggiata. 30 agosto 1991 (foto L.I. Fragale).
Le mareggiate, ho detto: ammesso che Sangineto e i suoi ‘utilizzatori’ abbiano abusato del mare, è altrettanto vero che il mare, qui violentissimo, s’è vendicato a piene mani, negli ultimi decenni, distruggendo più volte case e lungomare (fotografai una mareggiata, a fine agosto di trent’anni fa che, per quanto esistessero già le massicciate a T, creò una voragine in pieno lungomare, a due passi da quella casa ora in totale abbandono ma che già allora meritava il soprannome di “casa di Beirut”, per quanto oggi sembri sul serio bombardata).
Sangineto, fase n. 3 (abbastanza coeva alla seconda):
Nasce Pietrabianca, straordinario esempio di quartiere-dormitorio balneare, che usurpa il nome della collina alle sue spalle. Solo villini, a due passi dalla Torre omonima, oggi abitazione privata, immersa nel bosco lungo il fiume. Per anni, ricordo, l’unico modo per raggiungere questo gruppo di case evitando la statale era una passerella di legno sul torrente, in mezzo al canneto. Al buio più totale (quel torrente che, leggenda vuole, un politico villeggiante negli immediatissimi paraggi avrebbe fatto addirittura deviare, novello proconsole imperiale).
Mancini, pippibaudi e cotillons
Fu così, insomma, che a Sangineto mise radici, anzi, fondamenta, prima di tutto la Cosenza manciniana: amici, collaboratori, parenti, e chi più ne ha più ne metta, si trovarono muro a muro, siepe a siepe tra di loro. Medici, farmacisti, imprenditori, avvocati, professionisti d’ogni risma acquistarono nella seconda metà degli anni ’60 quei primi cubi bianchi vagamente merlati alla moresca. Convenienza economica e sociale: spirito di gruppo, per non dire forse tribale. Perché comprare una villa molto più bella in un luogo molto più bello (per dire, in tratti di costa certamente più scenografici; in località con centri storici gradevoli), quando c’è la possibilità di essere vicini d’ombrellone di chi, alla fine dei conti, appunto “conta”? Perché andare in ferie quando in spiaggia si può parlare di affari mentre le mogli spettegolano in perfetto stile “Donna Pupetta”?
Lina Wertmüller con Giancarlo GIannini sul set di “Pasqualino Settebellezze”
Si aggiunsero, sulla collina, quelli che preferivano maggiore privacy o il nido più alto (la saga dei Gullo o Mario Misasi che qui morì), mentre Mancini restava nella sua villa defilata ma crocevia di personaggi dello spettacolo (tra cui la recentemente scomparsa Wertmüller, ma giusto per dirne una). Perché – panem et circenses – tra Mancini e l’altro villeggiante storico, Covello, la Sangineto dei tempi d’oro era anche passerella non irrilevante per il cinema, con tanto di festival, pippibaudi e cotillons.
E forse funzionava ancora la stazione ferroviaria, che di sicuro nel ’55 c’era già (sebbene in ritardo rispetto ai caselli di cinquant’anni prima) ma personalmente ho sempre visto abbandonata e semmai utile a due cose: posizionare gli spiccioli sulle rotaie e sottoscrivere l’isolamento di Sangineto (benché qualcuno di mia conoscenza abbia talvolta preferito addirittura scendere a Capo Bonifati e raggiungere Sangineto via spiaggia o scendere a Belvedere e farsela in bici).
Napoletani e cosentini
A Sangineto si arriva in tre modi (escludendo dal mare e dal cielo e, volendo, dal sottosuolo). E già questo indica i tre diversi approcci caratteriali, per non dire “sentimentali”. I napoletani vi arrivano da Nord, a 200 all’ora, con vano spirito di conquista (parentesi: esistono molti, dico molti napoletani che vengono qui da quarant’anni e ritengono ancora Cosenza un paesino di montagna. Senza esservi ovviamente mai stati). I cosentini vi arrivano da Sud, pigramente comodi, con spirito domenicale o, peggio, dominicale. Chi, come me, non è né l’uno né più si sente l’altro, arriva dall’interno, già in polemica col resto, per spirito di contraddizione. Ovvero da una strada che è già un punto d’osservazione elevato e panoramico sul tutto. Quella strada-balconata che taglia con una riga netta l’ultimo fianco del Parco del Pollino.
La si prende da Sant’Agata, per esser chiari, e porta fino ai piedi di Belvedere. Su questa strada interna si scollina al Passo dello Scalone e poi è tutta discesa con vista sul mare. Strada antica, senza ponti o gallerie. Una di quelle strade che definisco “a misura d’uomo”. Una volta vi si poteva deviare direttamente per Sangineto paese, qualche tornante più giù del Passo, a patto di non soffrire di vertigini. E vi sareste trovati nel bel mezzo di un paesaggio marziano, sulle rupi della zona archeologica di Timpa di Civita. Oggi quella strada è chiusa per motivi di sicurezza, addirittura da una cancellata, non essendo stato forse sufficiente il divieto di accesso che già da qualche anno campeggiava all’incrocio incustodito. Al sito suddetto si può arrivare da un’altra parte, ma il bello delle cose è soprattutto scoprirle da sé. Detto diplomaticamente.
Verso Sangineto tra panorami e cartomanti
C’è poi, più su, un altro bivio tutto sanginetese e conosciuto a pochi forestieri: quello che volta a Sud per l’impenetrabilissimo bosco lungo la stradina per il Lago La Penna. A continuarlo, dopo il lago, vi porterebbe sull’antica dorsale che corre da Torrevecchia di Bonifati fino a Fagnano Castello. Non roba per chi ama l’ombrellone, va detto. O c’è quello che gira a Nord per i panorami mozzafiato della Contrada Pantana, luoghi dove l’antropizzazione arriva piuttosto ad ogni tornante sotto le sembianze degli immancabili manifestini colorati di quei noti cartomanti monopolisti di un buon quarto di Tirreno (bravo Brunori ad averlo osservato, pur se omettendo – forse per metrica – la fu Madame Fifì, mica inferiore in fatto di marketing capillare).
Sangineto (in basso a sinistra)e la valle del torrente omonimo (foto L.I. Fragale).
E sempre sulla strada-balconata incrociai, tempo fa, una coppia di sconosciuti motociclisti. S’erano fermati nel punto più panoramico. Felicemente d’accordo, lui fotografava lei – graziosa bionda vestita di un romper in denim – gioiosamente a braccia aperte e seno al vento. Sarà stata la strada? Sarà stato il primitivo e totale senso di libertà che quel panorama riesce a restituire?
La Banalità del mare
E anche questa è una metafora, appunto, dell’approccio: Sangineto è stato un ottimo punto d’osservazione, suo malgrado. Già da bambino, in spiaggia, sedevo con le spalle al mare, a guardare quant’era strano il profilo di quelle montagne, oppure a indovinare dal solo modo di gesticolare dei lontani passanti sul lungomare se erano cosentini o napoletani (facilissimo). Gli altri mi parevano tutti rimbambiti a guardare l’orizzonte, la piattezza dell’acqua. La Banalità del Mare. (CONTINUA…)
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