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  • STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

    STRADE PERDUTE| Mare, ruderi e vino: Cirella nel calice del Papa

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    Dov’è Cirella? A monte, a riva, in mezzo al mare? Cos’è, Cirella? Un luogo a sé stante, mi pare, un punto che si separa dal resto senza spocchia ma con un’aria quasi offesa, impermalosita. Formalmente frazione di Diamantela chiassosa Diamante, la mondana Diamante estiva, coi suoi cliché logori altalenanti tra murales, peperoncino e inezie di recentissimo parto – Cirella ne conserva forse l’anima più eletta, più regale, mantenendo con grazia un basso profilo che altrove s’è dimenticato (ammesso che vi sia mai stato).

    Cirella nuova sta giù, lungo la riva del mare. Tra lei e la vecchia, sta il taglio feroce della SS18 (intendo il tratto nuovo, perché un tempo si passava in mezzo a Cirella nuova), che ha lasciato miracolosamente incolume una tomba romana. Un ponticello porta le scuse del taglio e conduce alle rovine di Cirella vecchia – ahimè fin troppo immortalate – che fanno da guardia dalla cima della collina. E questo tutti lo sanno.

    Ci torno per guardare a 360° quel cortometraggio naturale che la postazione offre. Una sorta di balconata su una piccola porzione di Magna Grecia: a nord la pianura, fino a Scalea, dove la cementificazione selvaggia ha messo a tacere per sempre chissà quanti reperti archeologici. Restano ancora alcuni spazi coltivati, nemmeno piccoli. Non so se sperare che restino così o che vi si faccia più attenzione (quell’attenzione che dalle nostre parti è poi spesso controproducente).

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    I ruderi di Cirella vecchia e, a destra, il Convento dei Minimi

    I ruderi di Cirella vecchia e il Convento dei Minimi

    E poi non solo la pianura, ma anche tutta la teoria di varchi tra le montagne, che millenni fa portavano – non proprio dritti dritti – a Sibari. Sono le cosiddette vie istmiche. E da queste parti ne arrivavano almeno tre, alla faccia della viabilità attuale: la più certa è quella che da San Sosti si inerpicava nella gola del Torrente Rosa (dove oggi sorge il santuario della Madonna del Pettoruto, già tempio dedicato ad Hera) fino a raggiungere il Valico del Palombaro (tra il Monte Alto e la Montéa) e ridiscendere verso la località Pantanelli (ancora oggi meta di scampagnate per gli abitanti di Grisolia e Maierà) e da qui finalmente a Cirella vecchia attraverso Grisolia.

    Altra via istmica era una semplice variante della suddetta: arrivati al Valico del Palombaro procedeva ad ovest anziché a nord, aggirando il Monte Carpinoso (quella sorta di grande carapace brullo alle spalle di Maierà) lambendone le pendici, per giungere ugualmente a Cirella vecchia, attraverso quella bellissima stradina che ancora oggi conduce ripida dai ruderi fino a Vrasi, passando vicino all’antico al Convento dei Minimi e a qualche vacca placida.

    La terza via costituiva ancora un’altra variante: sempre arrivati al suddetto Valico si scendeva a sud-ovest verso la località Serrapodolo, nell’entroterra di Buonvicino, e da qui si raggiungeva la costa di Diamante.
    Che poi perché “del Palombaro”? Vi si rifugiavano i colombi, ad un’altitudine del genere? Dubito. Vi era stata costruita una colombaia, in mezzo al nulla? Idem. E dubito pure che c’entri qualcosa col significato dialettale, anzi gergale, del verbo derivato dal palummo (digressione impercettibile: in proposito penso sempre a come la rondine, in inglese, possa significare esattamente il contrario: insomma: si può “colombare” solo ciò che si è prima “rondinato”). Ma torniamo a noi.

    Ovviamente non dovete immaginare delle strade rotabili: si tratta e si è sempre trattato di sentieri, a tratti anche scomodi e ripidi, buoni da fare a dorso di mulo o, più probabile, a piedi di fianco al mulo già oberato. Lungo queste vie si trasportava di tutto, a seconda del periodo storico: il ferro, il sale, l’olio, il vino, eccetera. Il vino, appunto. Mica vero – come qualcuno ha pur scritto – che il vino calabrese dei secoli passati fosse poi così cattivo. Anzi, esattamente il contrario. E almeno in un’eccezione che coinvolge proprio Cirella, i cui vini hanno goduto da sempre di fama indiscussa (e meritata).

    Il Chiarello era il vino di Papi e cardinali

    Chiarello, il vino dei Papi

    Questa faccenda mi va di spiegarla un po’ meglio, perché merita. Una traccia sta tra le celebri pagine degli almanacchi editi nell’Ottocento da Borel e Bompard, quando dicono che «gli zibibbi o uve passe (…) di Calabria sono i migliori del regno e di tutto il resto dell’Italia. Quelli delle isole di Cirella e di Dino sono eccellenti».
    Ma l’eccellenza è il Chiarello: addirittura Strabone (†23 d.C.), ricordò «il borgo di Cirella (…) nel contado del quale si producono due qualità di vino (…) chiaro e rosso. Il primo è detto Chiaretto per il suo splendore e per il suo corpo e perché, quanto a chiarezza, potrebbe gareggiare con l’oro. (…). Si conserva per due o tre anni e merita di essere detto il modello unico d’ogni vino più eletto; (…) è gradevolissimo al palato e allo stomaco, scende rapidamente nelle prime vene e fino ai reni, è molto nutriente, genera sangue buono e sottile, conduce alle loro vie naturali i residui degli umori, provoca il sudore e l’urina e scaccia la renella. Non prende alla testa, bensì vivifica tutti quanti i sensi e meravigliosamente spinge a profonde speculazioni l’ingegno dei vecchi e anche di coloro che hanno la mente intorpidita. Rallegra il cuore e l’animo».

    Praticamente una teriaca, più che un vino. E se faceva miracoli non poteva non interessare chi di miracoli se ne intende: divenne infatti oggetto di particolare riguardo nei palazzi vaticani. Nel 1492 il re Ferdinando d’Aragona scrisse al poeta Pontano di aver inviato in dono – al pontefice appena salito al soglio – 24 botti di vino tra cui 9 del Chiarello di Cirella. Una cinquantina d’anni dopo Sante Lancerio – “bottigliere” di papa Paolo III (Alessandro Farnese, †1549) – inviava una lettera al cardinale Guido Ascanio Sforza, in cui faceva cenni di plauso a “La Centula”, al “vino di Ciragio”, a quello “di Pesciotta” ma soprattutto al “vino Chiarello“.

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    La scogliera di Cirella

    Il preferito di Sua Santità

    Attenzione, papa Farnese e Lancerio non erano degli sprovveduti: giudicarono ben 53 vini e il secondo disse del Chiarello: «È molto buono et era stimato da Sua Santità e da tutti li prelati della corte (…). Bisogna che sia di colore acceso più che l’oro et odorifero assai, ché non odorando sarebbe di Grisolia od Orsomazzo [sic]. E non ha bevanda pari, ma volendolo salvare alla stagione d’autunno, bisogna si pigli alla barca nella primavera e mettisi in luogo fresco e che non senta travaglio, e pigliarlo crudo, odorifero e grande, che il caldo lo maturerà».

    Superiore ai vini di Francia per Torquato Tasso

    Ad elogiarlo ci si misero pure lo storico Gabriele Barrio, l’abate Pacichelli e addirittura Torquato Tasso (†1595), il quale dichiarò che il vino di Cirella era «uno degli onori d’Italia, superiore ai vini di Francia».
    Insomma, il “chiaretto” a Roma cominciava a pagarsi «a grandissimo prezzo» ed era divenuto distintivo di un certo privilegio sociale, tanto che veniva definito quale vino “da signori” e non “da famiglie”. I maggiori consumatori di questi vini calabresi restano dunque le alte gerarchie ecclesiastiche: la corte pontificia consuma da mille a milleduecento botti di vino calabrese.
    E insomma fu proprio lo Stato Pontificio, dal Rinascimento in avanti, a emanare molte delle norme inerenti alla produzione e alla vendita di questo vino. Tuttavia né gli storici locali, né i vaticanisti, né gli storici dell’enologia si erano mai imbattuti in un certo documento che incrociai anni fa tra le carte della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

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    Il bando pontificio cinquecentesco a tutela dei vini di Cirella, custodito presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma

    Si tratta del Bando contra quelli che adulterano o misticano vini & vendono per chiarelli altri vini che quelli del loco di Cirella, emanato nel 1589 dalla Camera apostolica: già durante il trasporto dei vini via mare avvenivano troppe mistificazioni al fine di “vendere per Chiarelli altra sorte di Vini, che quelli, che realmente si raccogliono (sic) nella Terra di Cirella & suo Territorio e distretto, quali ab antiquo, se sogliono chiamare Chiarelli”. La cosa più curiosa è l’incredibile severità delle pene previste, tenendo presente che si tratta pur sempre di vino: «cento scudi d’oro, perdita delli Vini & barche & altri vascelli (…) altre pene corporali, da imporsi, & moderarsi à nostro arbitrio». C’è da credere che facilmente si addivenisse a forme di compromessi e a corruzioni diverse.

    Il declino del Chiarello

    Tutto ciò può probabilmente esser letto come motivo del declino dei vini cirellesi: una attenzione eccessiva verso di essi da parte delle autorità avrà convinto commercianti e produttori a rinunciare all’esportazione di questi vini. Fine del Chiarello?
    Davanti alla vera e propria isola di Cirella e dopo la scenografica scogliera, incredibilmente preservatasi (il basso profilo…), sono tuttora visibili i resti delle celle e delle tubature di cui scrisse Ferdinando Ughelli nel 1722: «Vi erano duecento tubature nei campi e anche di più erano le celle vinarie presso il mare, alle quali attraverso le tubature i vini venivano condotti».

    Fino a qualche anno fa il vino locale – e che vino – si trovava nella piccola cantina della signora, lungo la strada che porta all’antica chiesetta in mezzo al borgo. Oggi la cantina è chiusa, e ne resta traccia solo per la fatidica esortazione dipinta sul muro esterno (cito a memoria) «Vuota il bicchier che è pieno, riempi il bicchier che è vuoto. Non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar mai vuoto».
    Oggi può chiacchierarsi però con un anziano (e bravissimo) cuoco, quando chiude la cucina e si mette a fumare in sala, guardando la tv, davanti agli ultimi clienti (tutti talmente soddisfatti da non essere minimamente infastiditi dal fumo). E ti racconta che mette le favette nere per cambiare il terreno e dargli più azoto, così da far venire le verze più buone. E che i cinghiali si sono rotti il muso nel suo orto pur di scavare per cercare l’acqua vicino ai paletti di cemento.
    Ecco cosa succede, a cercare acqua e non vino a Cirella…

  • STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    STRADE PERDUTE| Rocca Imperiale: Totò, limoni e nobiltà

    Chi se lo ricorda Totò in Destinazione Piovarolo? Umile ferroviere, vi veniva spedito a fare il capostazione: il luogo era dimenticato da Dio e chi poteva se ne andava. Poi un giorno arrivava la sospirata notizia: Totò veniva distaccato a Rocca Imperiale. Ma era una pura formalità: era solo successo che le autorità fasciste avevano cambiato nome al paese.
    Pare che gli sceneggiatori nemmeno sapessero che la nostra Rocca Imperiale esistesse realmente.

    Tante sovranità e un primato

    Del resto, come ho già detto, Rocca ha storicamente altalenato nella sua appartenenza amministrativa: un territorio, se non conteso, quantomeno condiviso e quasi mercanteggiato dalle diverse sovranità territoriali che vi si sono succedute, passando addirittura da essere pertinenza del Principato di Benevento ad esserlo poi della Terra d’Otranto, e successivamente assegnato alla Basilicata, alla Calabria e nuovamente alla Basilicata (prima sotto Matera, poi sotto Potenza). E, ancora, al distretto di Lagonegro, di Castrovillari, al mandamento di Rotondella, di Oriolo Calabro e infine, solo dal 1817, alla provincia di Cosenza.
    Rocca Imperiale ha pure un primato: è il capoluogo di Comune più settentrionale della Calabria (mentre appartiene al Comune di Nocara il lembo di terra più a nord della Regione).

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    Un frame da “Destinazione Piovarolo” (1955)

    Come di consueto, mi tengo lontano dall’enumerare attrazioni turistiche e culturali. Del resto sono chiuse in pieno agosto, com’è altrettanto consueto che sia, dalle nostre parti, nelle località balneari, per via delle illuminatissime gestioni locali. Però non posso evitare di menzionare quel manifesto dove si elencavano le principali opere custodite presso il Museo delle Cere. Tra i tanti personaggi dell’elenco spiccava (con tanto di foto, a scanso di equivoci) la laconica definizione di “Calcutta”. Da intendere, ovviamente come “Madre Teresa di” e non nel senso del cantante. Tutto molto analitico, insomma. Con buona pace del senso del ridicolo.

    Rocca Imperiale: presepe e limoni

    Dicevo quindi che non è il caso di cadere – come si fa sempre anche per Morano Calabro – nel solito luogo comune del paese che «uh, che bello, sembra un presepe». Anche perché, a rigor di logica, sono i presepi a voler assomigliare ai paesi. Semplice questione di uova e galline, precedenza anagrafica nell’esser fatti a immagine e somiglianza d’altro.

    Del resto, anche al meraviglioso castello ho già accennato e allora andiamo semmai a cercare quello che si vede meno: il Comune di Rocca Imperiale non è nemmeno particolarmente esteso ma i suoi talenti nascosti li ha. Non dico le arcinote e vastissime piantagioni di limone – che chi di dovere e potere protegga – ma dico piuttosto i pianori disabitati di Santa Venere.

    Vi si arriva ignorando ovviamente la nuova 106 e infilando la vecchia, oggi relegata a funzione di complanare. Da qui, si possono scegliere due diverse uscite – l’una vale l’altra – e dopo aver macinato un po’ di tornanti e un pezzo di bosco fittissimo e pietroso, si arriva sulla sommità della collina: a un tratto sparisce ogni traccia di albero e restano solo prati e vento. Anche qui l’archeologo Lorenzo Quilici setacciò palmo a palmo ogni podere trovando e catalogando con zelo ogni possibile coccio. Fu luogo abitato, infatti, secoli e secoli fa. E non di poco conto. Nulla rimane, neppure qui.

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    Piantagioni di limone a Rocca Imperiale

    Lo scoglio degli scrittori

    Altra strada interessante, se non fosse interrotta da numerose frane (almeno all’epoca in cui la perlustrò il sottoscritto) è la vecchia comunale che portava da Rocca a Canna, del resto oggi definitivamente surclassata dalla comodissima provinciale costruita su un fianco dell’ormai innocua fiumara del torrente Canna.
    E il mare dov’è? Là, dietro la ferrovia, una striscia di pini e sassi davanti a quello scoglio del Cervaro dove si incontravano scrittori del calibro di Dario Bellezza ed Enrico Panunzio . Poeta maledetto, romano, il primo, pupillo di Pasolini, seminatore di ricordi non sempre graditi tra i rocchesi; scrittore sopraffino, pugliese e poi parigino d’adozione, il secondo, incompreso, sottovalutato e sconosciutissimo cesellatore del suo ‘barocco appestato’ (rubo però la definizione data da altri, e giustamente, al genio di Enzo Moscato). Paragonato a Gadda, Landolfi, Pizzuto (ma io direi anche Bufalino o addirittura Imbriani, per la ricercatezza della lingua). Due maestri d’“oltrecalabria” che amarono risciacquare i panni in Ionio.

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    Lo scoglio del Cervarolo

    La marina di Rocca Imperiale resta in gran parte chiusa tra la nuova e la vecchia 106: si biforcano, a un certo punto, separandosi come due amanti. Congestionata, rumorosa e frenetica, l’una. Serena, placida e decorata dalle file dei suoi vecchi pini svettanti, l’altra. Su un fianco di questa sopravvive una torre d’avvistamento medievale, diventata nel corso del tempo un’abitazione privata.

    Un gioiello dimenticato

    E poi un gioiello dimenticato. Così ampio da sembrare più basso di quanto in realtà non sia; costruito in piano, e oggi quasi soffocato dagli altri edifici, qui alla marina non svetta – come meriterebbe – il Magazzino del Grano. Neppure gli storici e cultori dell’architettura settecentesca si sono particolarmente curati delle vicende di questo fabbricato.

    A farlo costruire fu il duca Fabio Crivelli, nel 1731, secondo direttive molto complesse. Era munito di buche sotterranee per le diverse qualità di grano, ciascuna della capacità di circa 500 quintali e rivestita a calce. Non deve stupire che da Rocca passasse tanto grano: qui c’era una dogana del Governo, e il traffico marittimo che vi faceva capo era addirittura superiore a quello di Gaeta.

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    Facciata del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale (foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    Nel 1855 il barone Giuseppe Mazzario di Roseto Capo Spulico incaricò suo figlio Pietro di acquistare dal duca Nicola Crivelli alcuni latifondi nonché proprio il Magazzino “sito in rivo della Marina di Rocca Imperiale”. Con quel tanto di avarizia inevitabile agli affaristi del nuovo notabilato meridionale, cinque anni dopo venne stilato un curioso contratto di deposito in base al quale l’uso dei locali dell’enorme Magazzino venne concesso al Real Governo, a causa di un’emergenza (“avendo investita questa spiaggia due Legni carichi di grani del Real Governo”).

    Il tutto a particolarissime condizioni favorevoli a Mazzario, tra cui quella di poter eventualmente “ricacciare sulla spiaggia” tutto il grano in caso di inadempimenti, ovviamente a spese della controparte e sollevandosi dalla responsabilità del deperimento e finanche della “perdita” del grano stesso, messo così alla mercé di chiunque, compresi – è facilmente intuibile – i primi ad esserne informati, ovvero gli stessi uomini di fiducia del proprietario.

    Dal grano alla cultura

    Il Magazzino passò poi sotto le cure dei nobili Toscano di Rocca Imperiale, prima di diventare di proprietà pubblica, restando inutilizzato. Abbandonato così per anni, è diventa-to semplice deposito di materiali deperibili. Non troppo tempo fa si progettò un possibile recupero dell’edificio, prendendo ad esempio il recupero della Sala Borsa di Bologna, dimostrando cioè come – da struttura abbandonata – il Magazzino avrebbe avuto le qualità per diventare luogo di aggregazione in cui far confluire attività culturali (potendo disporre, peraltro, di una superficie di circa 980 mq potenzialmente raddoppiabile con la predisposizione di un ballatoio).

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    Interno del Magazzino del Grano di Rocca Imperiale ((foto L.I. Fragale, aprile 2010)

    I Toscano, dicevo: e allora torniamo allo svincolo della Statale, prima di andarcene via. È proprio sul poggio qui di fianco che si riescono a scorgere alcune delle strutture dell’antica Masseria di contrada Saliva, dei baroni Toscano/i (dopo secolari indecisioni, col tempo il cognome ha preso definitivamente il plurale). Ancora una volta mi viene in mente il Gattopardo: un palazzotto nobiliare avvolto dalle piante (qualche palma stravecchia, eucalipti, chiome a ombrello di pini secolari), una cappelletta privata, un’antica dependance. Il tutto affacciato da lontano sul mare, da prima che vi fossero le strade, da prima che vi fosse la ferrovia. Sul retro, un lunghissimo viale d’ingresso, alberato, in mezzo a interminabili filari e piantagioni ordinatissime sul pianoro di contrada Maddalena.

    Voci da un altro tempo

    È forse una delle ultime residenze nobiliari, in questo lembo di Calabria, a poter conservare memorie storiche di qualche consistenza, e uno dei pochissimi casati locali sopravvissuti al Novecento. Lo guardo con malinconia, quest’edificio, un tempo elegante, ora dall’intonaco malmesso e qualche infisso esasperato dopo duecento anni di sole, vento e salsedine. Ci potevi mettere forse due minuti, a cavallo, per raggiungere la sponda del mare in mezzo agli agrumeti. Ora c’è tutta una ferita di svincoli, rotonde con in mezzo i gesucristi di cemento a braccia aperte, manco dovessero dirigere il traffico. Ah, il buon gusto!

    La vecchia nobiltà s’è ritirata (e ha fatto bene). E mi verrebbe da tornare a Panunzio e al titolo del suo primo romanzo, I signori scaduti. Ricordo una telefonata, una decina d’anni fa, con l’ultranovantenne barone Lucio Toscani che, a un certo punto, lucidissimo, mi disse con voce flebile «e questo è tutto. E ora non so come passare il tempo. E vivo completamente solo… in questo enorme palazzo». Tarda voce da un altro tempo.

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    Rocca Imperiale nel Settecento (Jean Louis Desprez per il Voyage pittoresque ou Descrip-tion des royaumes de Naples et de Sicile di Richard de Saint-Non, Parigi 1781)
  • MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

    MAFIOSFERA| Al servizio di sua maestà, il re della cocaina: i fixer e Rocco Morabito

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    Rocco Morabito, detto U Tamunga verrà estradato in Italia. Così ha deciso la prima sezione della Corte Suprema Brasiliana il 9 marzo scorso, approvando la richiesta di Roma. Ci sono voluti 10 mesi dall’ultimo arresto di U Tamunga, nel maggio del 2021, a Joao Pessoa in Brasile. E ci sono anche delle condizioni per l’Italia: la detenzione di Morabito non potrà durare più di trent’anni e si dovrà tener conto anche del tempo già trascorso in carcere precedentemente.

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    Rocco Morabito negli anni ’90 e al momento dell’arresto in Sud America

    Narcotrafficante e membro apicale del clan omonimo di Africo, sulla costa ionica reggina, Morabito era stato condannato in Italia nel 1994 in seguito all’Operazione Fortaleza. Trenta gli anni di carcere per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, dall’America Latina alla Calabria e, soprattutto, nel Milanese. Secondo InsightCrime il reggino avrebbe forgiato una collaborazione tra la ‘ndrangheta e il Primeiro Comando da Capital – PCC, un network para-mafioso brasiliano dominante, tra le altre cose, nel traffico di cocaina.

    U Tamunga, il re della cocaina

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    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    U Tamunga rimane latitante fino al 2017 quando fu catturato a Montevideo, in Uruguay. A quanto pare aveva vissuto lì per 15 anni sotto falsa identità; aveva ottenuto documenti uruguaiani presentando certificati brasiliani con il falso nome di Francisco Antonio Capeletto Souza, nato a Rio de Janeiro. Durante i suoi 23 anni di latitanza, conosciuto come il “Re della Cocaina”, era considerato il secondo latitante italiano più pericoloso dopo il siciliano Matteo Messina Denaro.

    L’evasione e il nuovo arresto: dall’Uruguay al Brasile

    Rocco Morabito si è fatto conoscere anche per la sua rocambolesca evasione dal carcere con altri tre detenuti nel 2019. Dopo essere fuggito da un passaggio che portava direttamente sul tetto del carcere di Montevideo, insieme agli altri tre compagni di evasione, U Tamunga si sarebbe introdotto in un appartamento al quinto piano di un palazzo vicino. Avrebbe quindi derubato la donna che ci viveva per poi scappare in taxi.

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    Rocco Morabito e i suoi tre compagni di fuga

    Dopo oltre un anno passato lungo la Triple Frontera tra Brasile, Argentina e Paraguay, secondo IrpiMedia, viene ricatturato dalla polizia brasiliana nel maggio 2021 grazie a una partnership promossa da Interpol, I-CAN (Interpol Cooperation Against the ‘Ndrangheta). I-CAN, un programma voluto, sostenuto e guidato dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza in Italia, ha altri 11 stati partner in giro per il mondo:

    • Stati Uniti
    • Australia
    • Canada
    • Brasile
    • Argentina
    • Germania
    • Svizzera
    • Colombia
    • Francia
    • Spagna
    • Uruguay

    Al servizio di sua maestà Rocco Morabito

    E proprio grazie all’Interpol e ad I-CAN un altro tassello si aggiunge alla parabola di Rocco Morabito con l’Operazione Magma. A guidarla è la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria e si concentra sui traffici di stupefacenti del clan Bellocco di Rosarno in America latina. Nell’estate del 2020 – in seguito a sei arresti guidati da Interpol tra Argentina, Costa Rica e Albania – Magma ha rivelato come Carmelo Aglioti, un imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina) si stesse impegnando anche per conto del clan Morabito, per trasferire 50.000 euro in Uruguay per facilitare la liberazione di Rocco Morabito. Dopo il suo arresto a Montevideo nel 2017 per la famiglia Morabito bisogna evitare l’estradizione.

    Rocco Morabito scortato dalla Polizia brasiliana

    Questa estradizione non s’ha da fare

    Aglioti agiva dunque per conto di Antonio Morabito, cugino di Rocco, U Tamunga: «Il cugino vostro, per riciclaggio è? […] Quindi, il motivo … per cui bisogna fare tutte questa operazione … pi mu staci ddocu (per farlo stare in quel luogo, ovvero in Uruguay, ndr) quindi non estradato qui in Italia, giusto!? […] Di farlo rimanere là! Perché i reati contestati là (Uruguay, ndr) non sono gli stessi di qua, giusto o no!? […]». E Antonio Morabito confermava «[…] Mh mh … questa è la prassi che stiamo cercando di fare! […]».

    L’avvocato del diavolo

    I messaggi whatsapp su un’utenza in uso ad Aglioti rivelano i contatti dello stesso Aglioti con Fabio Pompetti, avvocato italiano residente in Argentina, arrestato nel luglio 2020 a Buenos Aires per operazione Magma con I-CAN. «Mi hanno contattato delle persone per dirmi se conoscevo un avvocato in Uruguay, io gli ho fatto il tuo nome perché hanno bisogno di essere assistiti per un loro parente che si trova carcerato in Uruguay. Questi sono persone che pagano, praticamente e lo stesso problema di cui ti sei occupato in passato capito?». «Tutto ok per le tue persone in Uruguay. Mi devo muovere con molta cautela», risponderà Pompetti.

    Un caso, tre temi

    Il caso di Rocco Morabito offre spunti di analisi su tre temi interconnessi:

    1. le sfide alla cooperazione internazionale per finalità di polizia;
    2. la natura della ‘ndrangheta all’estero;
    3. il ruolo dei fixer in località come Argentina, Uruguay o Brasile, strategiche per gli affari dei clan.

    Indagini: serve collaborare e in fretta

    I-CAN è un progetto sicuramente innovativo, il cui massimo impegno sta nel facilitare la comunicazione tra paesi e forze di polizia molto diverse tra loro. Quando si tratta di fare indagini transnazionali o transcontinentali infatti il problema primario, soprattutto fuori dall’Europa, rimane la difficoltà delle istituzioni nei vari paesi coinvolti di comunicare velocemente e altrettanto velocemente condividere dati e intelligence.

    È necessario valorizzare, come cerca di fare I-CAN, team di indagine unitari che dall’inizio dei lavori possano condividere ipotesi e dati. Soprattutto perché, e qui arriviamo al secondo spunto di analisi, la ‘ndrangheta all’estero non ha sempre la stessa faccia. Ed è necessario non solo saperlo ma ipotizzare quale faccia ci si possa trovare davanti.

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    Milano, la provocazione di Klaus Davi, Pasquale Diaferia e Alberto Micelotta all’indomani dell’arresto di Morabito in Uruguay

    Rocco Morabito e la ‘ndrangheta all’estero

    Prendiamo il caso di Rocco Morabito. Abbiamo un soggetto, Aglioti, che – da associato di un clan tirrenico, i Bellocco – si pone come intermediario per un clan della ionica, i Morabito, grazie alla sua frequentazione di alcuni luoghi, nello specifico Uruguay e Argentina. «No, basta che li avvisano… non c’è problema! Buenos Aires e Uruguay sono due passi, con il traghetto si fa… arrivi a Rio de La Plata e vai fino a Buenos Aires e viceversa!»; Aglioti dimostra di conoscere i paesi in cui egli stesso fa affari. E sa dare consigli a riguardo a chi li chiede, nel suo clan o in altri clan. Questo rende alcuni soggetti particolarmente importanti all’estero.

    La ‘ndrangheta all’estero, infatti, non si presenta mai come un’organizzazione fissa, pre-strutturata e razionale, dunque prevedibile. Occasioni e opportunità individuali per i singoli clan dipendono in larga misura dalla capacità e dalla reputazione internazionale di alcuni soggetti in supporto ai clan; il tutto ovviamente si adatta di volta in volta a cosa conta nei contesti di destinazione, che sia denaro, potere o anche il capitale relazionale di individui e di associati.

    Fixer e broker: un aiuto oltreoceano

    Lo spaccato di Operazione Magma che riguarda Rocco Morabito e il tentativo (vano) della sua famiglia di proteggerlo dall’estradizione ci racconta anche altro. E cioè che è grazie alla figura del fixer – colui che aiuta i clan nelle questioni specialistiche – oltre che alla figura del broker – colui che aiuta i clan negli affari – che si mantiene un piano criminale oltre oceano. Quando il fixer e il broker sono la stessa persona, o sono molto legati come a Buenos Aires sono Fabio Pompetti e il suo ‘collaboratore’ Giovanni Di Pietro (alias Massimo Pertini) – che si occupava anche della gestione del narcotraffico per vari clan calabresi – allora si garantisce la continuità del servizio e dunque la possibilità di espanderlo a più gruppi criminali.

    Pantaleone-Mancuso
    Pantaleone Mancuso

    Non manca di far notare, Aglioti, che la ragione per cui si è rivolto a Pompetti è perché l’avvocato italo-argentino aveva già dimostrato di poter gestire questioni simili a quella di Rocco Morabito. «Dato che allora hanno fermato qua, a coso qua … a Mancuso …… l’ha cacciato lui (lo ha fatto uscire lui, ndr) … per riciclaggio, praticamente» Il riferimento è a Pantaleone Mancuso, estradato in Italia, dall’Argentina, a febbraio del 2015. Per la sua assistenza legale si sarebbe attivato proprio Pompetti insieme ad altri soggetti vicini ai clan della tirrenica.

    Non solo Rocco Morabito

    Tra colletti bianchi che diventano fixer, opportunità di fare affari sia nel legale che nell’illegale grazie a broker che utilizzano i contatti con la nutrita comunità migrante per diversificare il proprio operato, non è difficile vedere come per certi clan, con disponibilità di soldi e uomini, alcuni paesi possano diventare territori chiave.

    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo era il secondo latitante più pericoloso d’Italia

    Rocco Morabito verrà estradato in Italia, ma a preoccuparci adesso dovrebbero essere i contatti che ha forgiato e dunque avviato in paesi come Uruguay, Argentina e Brasile. Quei contatti lo hanno protetto per anni, da latitante o da evaso, e potrebbero proteggere altri come lui, se a chiederlo sono le persone col giusto know-how.

     

  • BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

    BOTTEGHE OSCURE| ‘Na tazzulella ‘e Cuse’: i primi caffè di Cosenza

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    Nel 1806 la Calabria Citra era in subbuglio. Tra i dominatori francesi e i rivali borbonici erano botte da orbi e si combatteva villaggio per villaggio. Non era certamente un periodo roseo per progetti e affari, ma non secondo Michel Voizot, misterioso «francese abitante in Cosenza». Insieme al cosentino Bonanno, Voizot costituì una società col proposito d’impiantare un caffè in città. Il luogo prescelto fu una bottega lungo Strada del Ponte, la via che da Piazza Piccola porta al Ponte di San Francesco. Il locale avrebbe servito non soltanto caffè ma anche liquori. A tal proposito Voizot, versò 200 ducati, mentre il cosentino Ignazio Bonanno ne aggiunse altri 100, così da coprire le spese e le riparazioni già fatte nel “cafè”, l’acquisto di oggetti e mobili per arredarlo e le «mercanzie di zuccaro, cafè, ed acquavite».

    Le origini del caffè a Cosenza

    Monsieur Voizot ne rimaneva gelosamente il gestore e si occupava in prima persona dell’acquisto degli oggetti, riservandosi l’80% dei guadagni. A Bonanno rimaneva il 20%, e ciò in considerazione che il francese rimaneva il conduttore dell’esercizio. Il cosentino non poteva minimamente interferire nella gestione e nella realizzazione dei prodotti, sui quali monsieur Voizot pretese espressamente di «conservarsi il segreto». Il locale era ben arredato, dotato di mobili, oggetti in legno, vasi di creta, vetri, stagno e altri oggetti.

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    Una delle vedute di Cosenza pubblicate dall’editore Sonzogno ne “Le cento città d’Italia”. Supplemento mensile illustrato n. 11289 del “Secolo” del 31 maggio 1897 (Collezione Barone)

    Circa un anno dopo la società fu sciolta. Voizot e Bonanno cedettero l’attività a Raffaele Zampelli o Zampella, «napolitano commorante pure in Cosenza», che per 150 ducati acquisì «il detto cafe ammobigliato con tutti li suddetti oggetti». Un altro napoletano, che di cognome faceva pure Zampella, a partire dal 1803 fece la sua fortuna a Cosenza con il Caffè che diventerà prima Gallicchio e poi Renzelli.

    Pietro Zampella, come evidenziano i documenti storici pubblicati nel volume che racconta la storia del Gran Caffè Renzelli, aveva rilevato «una nuova bottega di Sorbetto, Cafè, Dolci, Rosoli, ed altro» posta nei locali di palazzo Cavalcanti, sulla Giostra Nuova, aperta nel 1802 dal cosentino Francesco Caruso.

    Nobiltà e clero

    A Cosenza e dintorni la moda del caffè cominciò a diffondersi in pianta stabile a partire dalla fine del Settecento. Erano i personaggi più nobili e in vista a ricercare gli oggetti utili a prepararsi un buon caffè o a offrirne una tazza fumante ai propri ospiti. Agli albori del secolo successivo non c’era palazzo che non avesse l’occorrente per preparare caffè o cioccolata in tazza. La pratica era diffusa anche negli ambienti ecclesiastici.

    La chiesa di Sant’Agostino alla Massa nei primi del ‘900

    Nel 1806, ad esempio, nel Convento degli Agostiniani di Cosenza il “Padre maestro” intratteneva i propri ospiti con caffè o cioccolato, tanto che vi erano conservati «due molini di Cafè; una cioccolatiera di landia; due caffettiere rotte; una zuccariera; sei chiccare» oltre che piattini di caffè e «un cocchiarino di argento per uso di cafè».

    Chicchi crudi e cicculatera

    La moda del caffè si diffuse rapidamente tra tutte le classi sociali. La materia prima veniva commercializzata ancora “cruda” e doveva essere tostata, o “abbrustolita” come si diceva correntemente. La procedura avveniva per piccole quantità direttamente in casa, sulla brace o su poco fuoco. Gli strumenti per farlo erano rudimentali, simili a cilindri girabili grazie ad una lunga asta, oppure a padelle chiuse e dotate di un sistema a manovella per girare i chicchi all’interno.

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    Utensili per la preparazione domestica del caffè

    Dopo la tostatura, che richiedeva attenzione e un continuo movimento dei chicchi perché fosse uniforme, il caffè veniva fatto raffreddare e quindi macinato. I macinini a mano li conosciamo tutti, sono ancora oggi diffusi almeno come soprammobili. La fase finale di cottura della bevanda domestica avveniva nella cicculatèra, nome che più in là indicherà nel dialetto anche la macchinetta cosiddetta “napoletana” (che in realtà sarebbe stata inventata però dai francesi a inizi Ottocento, ma tant’è).

    Il boom del caffè a Cosenza

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    Un prezziario storico del caffè Gallicchio

    Il caffè da tostare a casa poteva essere acquistato dalle famiglie anche presso il locale stesso. Il celebre Gallicchio di Cosenza, ad esempio, nel suo listino del 1888 ne vendeva di diverse qualità: Portorico sopraffino, Rio fino verde, mezzo fino, S. Domingo fino e Moka, la maggior parte dei quali veniva importata dall’America del Sud. L’Ottocento vide a Cosenza un proliferare di caffè, grandi e piccoli, alcuni dalla lunga attività altri di breve durata, e così anche l’inizio del Novecento.

    Tra i “caffettieri” di Cosenza figuravano Annibale Biondi, Carmine Cesario, Francesco Ficca, il Caffè di America di G. Funari, G. Nappa, il Caffè Buvette di Angelo Noce, il Gran Caffè di Giuseppe Pranno, il Progresso di Nicola Rajola e il Caffè del Popolo di Domenico Viafora. Alcuni pensarono di mettere il proprio marchio a mo’ di réclame sulla stampa locale, come Francesco Palumbo che su L’Unione del 1919 pubblicizzava la vendita, tra i vari prodotti del suo negozio in piazza Duomo n. 2, di «Caffè Genuino Brasiliano delle migliori qualità».

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    1919, pubblicità di Francesco Palumbo su L’Unione

    Non solo una bevanda

    Caffè non è solo materia prima torrefatta, macinata e poi messa in vendita in grani, polvere oppure somministrata sotto forma di bevanda. Anche nella città dei Bruzi il caffè è, ed è sempre stato, luogo d’incontro, socializzazione, costruzione di un’opinione e creazione di ciò che si definisce sfera pubblica. Ce lo dice ormai da anni il sociologo Massimo Cerulo (Andare per Caffè storici, Il Mulino 2021) che inserisce il Gran Caffè Renzelli (ex Gallicchio) come ottava tappa del suo singolare viaggio in quei locali che hanno almeno un secolo di vita, hanno ospitato al loro interno importanti eventi sociali-politici-culturali della storia d’Italia, mantengono parti degli arredi originali, sono tuttora aperti al pubblico.

     

    Il Gallicchio e i suoi avventori

    I Caffè cosentini erano però anche il teatro di scontri verbali o fisici, che si spingevano sovente fino alle lame. Una domenica di marzo del 1895, sul far della sera, scoppiò un acceso diverbio tra i tavolini del Gallicchio, su corso Telesio. Un gruppo di giovinastri avvinazzati riempì d’insulti alcuni studenti del Regio Liceo intenti a prendere un caffè. Dalle parole ai pugni il passo fu assai breve e a farne le spese furono ovviamente i liceali. Vista la carenza cronica di agenti di pubblica sicurezza la rissa fu sedata dai gestori del locale con l’aiuto di qualche cliente e passante.

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    Il Gran Caffè in piazza Arcivescovado in una foto dei primi del ‘900

    Le adiacenze del Gallicchio diventavano spesso ricettacolo di strilloni, monelli, perdigiorno, ambulanti e mendicanti che «fanno un chiasso del diavolo, bestemmiando, lanciando parole oscene e scurrilità, importunando i clienti, mostrando i propri cenci e la propria ineducazione» denuncia la Cronaca di Calabria nel marzo del 1905. Agli albori del ‘900 i frequentatori del Gallicchio appartenevano varie tipologie.

    I già citati liceali rappresentavano una clientela “mordi e fuggi” e non osavano nemmeno avvicinarsi alle due sale – la rossa e la verde – chiamate così per via dei colori prevalenti in ciascuna e separate dal resto del locale da una balaustra che, come scrive Luigi Rodotà in Visioni e voci della vecchia Cosenza (Pellegrini, 1966) «sembrava un reticolato insormontabile che c’impediva d’entrare liberamente nelle due sale perché frequente da persone più grandi di noi».

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    Il Renzelli su Corso Umberto in una foto di Malito degli anni ’20

    Cesarino ‘o pallista e le fake news

    A tarda sera gli immancabili viveurs d’ancienne régime davano il “cambio” tra i tavolini del bar al fior fiore degli esponenti della vita intellettuale cosentina: pezzi grossi della cultura, della politica, del giornalismo e delle professioni. Erano serviti e riveriti da un tale Cesarino detto “’o pallista”, un cameriere napoletano abbigliato col frac che «correva da un tavolo all’altro recante sul vassoio la fumante tazza di caffè, il gelato o la granita».

    Per soli due soldi di mancia propinava le ultime di cronaca cittadina, clamorose fake news ante litteram che in pochi si prendevano la briga di verificare. Tra questi, probabilmente, il docente e scrittore Nicola Misasi, frequentatore assiduo del Caffè «ascoltava distratto le sue fandonie con quel caratteristico sguardo assorto e pensoso mentre seguiva la spire azzurrognole del suo mezzo toscano».

    Bar d’antan

    Decisamente più “popolare” nei prezzi e nella clientela era il Caffè Raiola, “rifugio” di studenti, viaggiatori ma soprattutto commercianti che addolcivano la propria sosta con caffè, cappuccini, bocconotti, savoiardi o, nel periodo natalizio, con i torroncini alla martiniana. Dalla piccola saletta puntellata da pochi tavoli si udiva l’inconfondibile ohè giuvino’ del famoso banditore Micarano, re di Piazza Piccola, che annunciando l’arrivo del pescato prometteva affari e delizie.

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    Micarano

    Sempre in Piazza Piccola, all’angolo del palazzo Valentini, aprì alla fine del 1908 il Gran Bar. Il locale fu uno dei primi a veder zampillare l’acqua dello Zumpo in una vaschetta incastonata in un elegante bancone sormontato da specchi lucidi, dove vennero serviti i primi espressi fumanti della città. L’ascesa del Gran Bar fu repentina al pari del suo declino. Senza fronzoli né paillettes e sotto un lume praticamente inesistente era il Caffè Luciano, ritrovo degli abitanti del rione Santa Lucia. Qui il caffè si preparava ancora nella classica cuccumella napoletana.

    Al Caffè del Popolo in Piazza san Domenico «l’odore del caffè e dei liquori si confondeva a quello del fumo che saturava le due maleodoranti salette» frequentate da operai e artigiani, soprattutto muratori, che si sfidavano a scopone e a briscola. Ai Rivocati c’era poi il Caffè dei Cacciatori, davvero essenziale, al pari del Caffè della Stazione in via Sertorio Quattromani, un locale definito dalla stampa d’epoca “inquietante”, “tenebroso”, “luogo d’ogni sorta di traffico”, obbligate e rapidissime soste. In piazza Ortale c’era infine il Biondi, un Caffè mattutino frequentato soprattutto da contadini che nelle piovose albe invernali si scaldavano con un caffè corretto all’anice prima di scaricare le bestie ricolme di ortaggi.

    Cosenza e gli altri caffè: Vittoria, Moncafè, Sesso e Cimbalino

    Una svolta interessante, dal punto di vista economico, avviene a metà del Novecento con le prime torrefazioni cosentine. L’Archivio centrale dello Stato, tra i Marchi e brevetti, conserva quello della Torrefazione Vittoria, che nel 1960 aveva come simbolo un volto baffuto coperto da un sombrero e con una tazzina di caffè accostata al viso. La ditta, di Giovanni e Gaspare Aiello, aveva sede in via Panebianco e si occupava di caffè crudo e torrefatto.

    Nel 1961 registrava invece il proprio marchio la torrefazione dell’azienda La Commerciale Cosentina con il suo Moncafè, che aveva come slogan: «Dei caffè più fini la miscela squisita». Il Caffè Sesso, altro storico marchio cosentino, fa risalire la propria attività al 1926, mentre chi scendeva dai paesi delle Serre e arrivava alla Riforma doveva fermarsi per forza di cose al Cimbalino, un bar con torrefazione propria gestito amabilmente dalla famiglia Arnone.

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    Cosenza, Piazza Riforma e il bar Cimbalino negli anni ’50
  • STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

    STRADE PERDUTE| Bevi, mangia e prega a Buonvicino

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    A Buonvicino si arriva in 15 minuti da Diamante. Basta volersi fare questa cortesia e sopportare qualche curva. Quella per arrivarci non è una “strada perduta” ma è una strada che, per chissà quale ragione, ancora troppi si ostinano a non percorrere. Eppure Buonvicino ha ottime carte da giocare e basterebbe farsi guidare da appetiti – è il caso di dire – molto ruspanti, senza arzigogolare troppo di fantasia. Perché c’è poco da girarci intorno: a Buonvicino tanto per cominciare si mangia in maniera straordinaria. E questo è un primo dato di fatto inconfutabile.

    Qui si mangia e si beve bene

    Se c’è una cosa per cui i turisti ricordano la Calabria con ammirazione stupita, questa è solitamente la quantità di portate che si nascondono dietro la vaga dicitura di “antipasto misto della casa”. Bene: a Buonvicino, generalmente, dovete moltiplicare per 2 la quantità già ipertrofica e almeno per 5 la qualità rispetto alla media regionale (e giuro di non essere al soldo della pro-loco locale).

    Non è finita qui: i vini locali hanno sapore, corpo e gradazione che francamente non ho mai trovato altrove (gusti personali, ovviamente ma c’è anche una ragione storica di cui parlerò un’altra volta). I ristoranti disseminati lungo i tornanti che portano al paese possono provarlo con fierezza (e qui mi taccio), qualora a provarlo non bastasse la toponomastica con le contrade Vignali, Ficobianco e Puma: tutto intorno al “food”, insomma. Ma mica da ora…

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    Frontespizio della prima edizione della Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837)

     

    Il duca Cavalcanti con la passione per la cucina

    Il caso – anzi – la storia vuole che, ad un certo punto, a fregiarsi del titolo di duca di Buonvicino fosse quell’Ippolito Cavalcanti che nel 1837 fu anzitutto autore di quel libro – la Cucina teorico-pratica – che fu il più celebre ricettario d’Italia per almeno 54 anni (nonché il primo a menzionare la ricetta della pasta al pomodoro), ovvero quando fu soppiantato dall’ormai più inclusivo e ‘unitario’ Pellegrino Artusi (col fin troppo popolare La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene).

     

    Ora, parliamoci chiaro, il ‘buonvicinato’ c’entra poco, in quanto Ippolito era tutto campano: di madre, di nascita, formazione e decesso (e lo stesso libro è scritto in due lingue: napoletano e italiano). Vero, al suo bisnonno Lucio era stato conferito da Carlo VI il titolo di primo duca di Buonvicino già nel 1720, e l’omonimo nonno di quest’ultimo ne era già barone ancora prima, ma va anche considerato il fatto che, lasciata la Toscana, i Cavalcanti tra Napoli e la Calabria proliferarono enormemente, ed è quindi difficile stabilire quanto davvero Ippolito abbia solcato i vicoli di Buonvicino.

    I vicoli forse no. I campi e i vigneti forse di più, perché una cosa certa c’è: ai Cavalcanti appartenne il gattopardesco Casino di Contrada Lago, oggi abbandonato dopo un primo tentativo di ristrutturazione e ampliamento da parte di privati. L’imponente portale, sempre chiuso, cela dietro al suo muro di cinta semicircolare diversi corpi di fabbrica, tra cui una cappella intitolata a San Giacomo, che certamente potrebbe dire qualcosa di più anche sulla storia di Ippolito e dei suoi.

     

    L’albero genealogico

    Non c’entra ma c’entra: un piccolo dato genealogico che solitamente sfugge e va invece fissato da qualche parte è che la nonna paterna di Ippolito era Marianna Andreassi de Consiliis – originaria di Oriolo Calabro – il cui nonno Francescantonio era, a fine Seicento, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e i cui avi De Georgis furono committenti, nel Cinquecento, dello splendido presepe in pietra di Tursi. Chiusa parentesi.

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    Cartiglio lapideo nella chiesa di San Ciriaco Abate, con voto di Ippolito Cavalcanti (senior) e consorte

     

    Buonvicino è un po’ Napoli

    Buonvicino e Napoli, dunque, e il nesso torna quando intravedi nel centro storico un “vico Speranzella”, che riporta dritto ai Quartieri Spagnoli e alla pizza fritta di Donna Fernanda. Ancora una volta, testa e pancia. Nel bar della piazza mi ero fermato a parlare con due anziani – forse nemmeno tanto – che si contendevano la scena mentre il numero di bicchieri di vino reciprocamente offerti diventava sempre più incerto.

    Gerardo e Angelo mi raccontavano così del maestro d’ascia Francesco Martorello, classe 1906, che batteva i boschi dormendo all’addiaccio in sacchi a pelo fatti di foglie d’albero; della grotta del diavolo, di quella d’u sìettu, della zona della scivulenta detta così perché ci si facevano scivolare i tronchi degli ontani appena tagliati, della grotta di Maladurmì che col suo nome confermava tutto il mio scetticismo di quando altri mi raccontarono l’improbabile etimologia che riconduceva a questa stessa parola il nome della contrada Maladrumi in Sardegna, verso Porto Istana.

    Ma torniamo agli anziani del luogo, meno fantasiosi (forse): mi parlavano dei feudatari della prima metà del Seicento, i De Paula di Malvito (pure avi del gastronomo Cavalcanti), contro i quali la popolazione di Buonvicino si sarebbe armata ferocemente non soltanto per opporsi all’aumento dei balzelli ma anche – immancabile in ogni leggenda che si rispetti – allo ius primae noctis.

    Sanzioni economiche 

    Buonvicino e l’Impero fascista: appena si entra nel centro storico ci si imbatte in una lapide che, lì per lì, dice poco e che invece ha anch’essa un suo primato ben preciso: è tra le meglio conservate delle circa 40 colleghe superstiti in Italia. Risale alla fine del 1935 e ricorda le sanzioni economiche comminate all’Italia da parte della Società delle Nazioni in occasione delle conquiste in Africa Orientale.

    Lapide fascista contro le sanzioni inflitte all’Italia dalla Società della Nazioni (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per disposizione dello stesso Mussolini, tale lapide doveva essere affissa presso tutte le sedi municipali italiane. Dopodiché furono rimosse, abrase, riutilizzate, distrutte e, appunto, ne rimangono oggi pochissimi esemplari. Quella di Buonvicino è tra le più intatte, neppure le lame dei fasci sono state intaccate (solitamente era l’intervento “minimo”): potere della perifericità.

    Non trasferire mai la statua del Santo

    Buonvicino e l’imperscrutabile. Il 17 settembre 2006, festa di San Ciriaco (guaritore ed esorcista vissuto a cavallo dell’anno 1000, patrono di Buonvicino), un masso si stacca dal costone di roccia che sovrasta il paese. Rimbalza da un angolo all’altro del dirupo, ignora il centro storico e si dirige verso la piazza alle porte del paese, laddove è in corso il mercato per la festa.

    Tradotto: persone, bancarelle, automobili. Risultato: nessun danno a persone o cose (e le persone, ok, possono darsela a gambe con una certa prontezza; bancarelle e auto parcheggiate, un po’ meno). Mi fermo ad ascoltare il racconto un po’ più attentamente perché, man mano che i dettagli aumentano, mi ricorda sempre più la trama di altri due o tre racconti analoghi.

    Le chiavi della città donate a San Ciriaco Abate, patrono di Buonvicino

    Pare insomma che la sacra effige del santo fosse stata portata anche quell’anno in processione dalla Chiesa di San Ciriaco Abate fino alla chiesetta costruita nei pressi della grotta che il santo adoperò come eremo, in fondo al vallone nei pressi del paese. Fin lì tutto normale. Se non fosse che quella volta fu deliberatamente lasciata lì e non riportata “a casa sua”. Da qui l’ammonimento del Santo: ira e salvazione, mazze e panelle. Tutti questi dettagli, insomma, m’hanno ricordato la storia di un’immagine sacra, rinvenuta in un bosco, poi trasferita in una chiesa, poi sparita e ritrovata esattamente nel luogo originario, laddove si decise infine di fondare il monastero del Sagittario, in Basilicata.

    La stessa ‘cocciutaggine’ delle statue sacre mi è nota, per il pochissimo che ne so, almeno in due altri casi: a San Bartolomeo ad Alicudi, e alla Madonna del Càfaro ad Albidona (portata in una nuova chiesa e puntualmente ritrovata nella chiesa precedente, e puntualmente riportata nella nuova fino alla frana definitiva di quest’ultima, in cui si salvò solo la statua). Sarà per questo che al bivio della sterrata che conduce alla grotta di San Ciriaco un cartello invita religiosamente a non bestemmiare per le buche, perché “Dio ti sente, il Comune no”.

    Sacro e profano sull’antica via istmica (foto L.I. Fragale, 21.09.2021)

    Enogastronomia e misticismo

    Va detto, Buonvicino riesce a unire sacro e profano, sensi e spirito. Enogastronomia e misticismo, forse, per giunta, tutto in chiave naturalistica: l’enorme statua di San Ciriaco che incombe – protettiva e minacciosa – sul paese, sta fuori da una delle prime curve della martoriata strada che porta alla chiesa della Madonna della Neve, 720 metri s.l.m. (ovvero un dislivello di 320 in pochi tornanti). Ma, quando si arriva lì, si è presi dal guardare a tutto fuorché alla chiesa, trovandosi su un terrazzo naturale a metà tra cielo e montagne dell’Orsomarso. A fare da guardia, due cagnolini, ma proprio cuccioli, che vi seguiranno imploranti (benché non randagi) fino a quando non rimetterete piede in macchina.

    Panorama dalla Madonna della Neve (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Ventisei famiglie senza luce e acqua corrente

    Dall’altra parte del bivio “delle bestemmie” si prende invece la strada sterrata, ma abbastanza in piano, per la contrada abbandonata di Serrapodolo, a circa 5 km dal centro storico. È ciò che resta di una delle antiche vie istmiche calabresi: questa si insinua subito fuori dal paese, in mezzo ad un canyon, e procede fino al Varco del Palombaro (quello che portava al santuario di Artemisia, in seguito a quello del Pettoruto, e da sempre alla Piana di Sibari).

    Le poche case abbandonate di contrada Serrapodolo (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

    Per arrivare a Serrapodolo bisogna bagnarsi i piedi un paio di volte e ne vale la pena: oggi ci si incontra al massimo qualche gruppo composto da bue, vacca e vitellino, ma fino al 1968 qui vivevano ben 26 famiglie, mi dicono. Non erano mai state raggiunte dall’acqua corrente e dalla luce elettrica, e lentamente abbandonarono questa vallata e questi paradisi, restituendoli alla loro eternità.

    Lo Stretto, strozzatura del canyon sulla via istmica (foto L.I. Fragale, 21.9.2021)

     

  • MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

    MAFIOSFERA| ‘Ndranghetisti per caso: i free-riders canadesi sfidano Cosa nostra

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    «C’è un vecchio conflitto che ancora persiste tra siciliani e calabresi nella criminalità organizzata locale». A dirlo è stato Guy Lapointe, Ispettore Capo della Sûreté du Québec, polizia provinciale del Quebéc. Siamo in Canada, e più precisamente nella capitale dello Stato francofono, la bellissima Montreal. Da fine gennaio 2022 si sta svolgendo un processo contro Dominico (sic!) Scarfo. Un capitolo importante di una guerra di mafia che da decenni non sembra ancora voler finire.

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    Domenico Scarfo in foto nell’articolo apparso su Montreal Gazette

    Morti ammazzati in Quebec

    Dominico Scarfo, Guy Dion con sua moglie Marie-Josée Viau, e Jonathan Massari furono arrestati nell’ottobre del 2019 in seguito ad un’operazione – Project Preméditer – della polizia provinciale del Quebec, Sûreté du Québec. I quattro vennero accusati degli omicidi di Lorenzo Giordano e Rocco Sollecito, entrambi morti ammazzati a Laval, una cittadina alle porte di Montreal, nel 2016, e dei fratelli Giuseppe e Vincenzo Falduto, scomparsi nello stesso anno.

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    Rocco Sollecito è stato ucciso nel 2016

    Sotto l’ombra di Vito Rizzuto sul Canada

    Rocco Sollecito era notoriamente associato alla famiglia criminale montrealese per eccellenza, i Rizzuto. Suo figlio, Stefano Sollecito, è riconosciuto come il boss della famiglia. Anche Lorenzo Giordano era loro luogotenente, mentre i fratelli Falduto erano aspiranti membri di questo sottobosco criminale nato intorno alla figura e all’aura di Vito Rizzuto.

    Vito Rizzuto, morto nel 2013 più di chiunque altro ha impersonato la figura del mafioso siciliano in Canada. Legata originariamente a Cosa nostra siciliana e, in seguito, ai gruppi mafiosi Italo-Americani di New York, la famiglia utilizza ancora l’eredità di Vito come moneta corrente a Montreal e nel resto del Canada.

    La guerra di mafia tra siciliani e calabresi

    La polizia afferma che a capo della cellula criminale contro i Rizzuto, c’erano dei calabresi, i fratelli Salvatore e Andrea Scoppa. Chiaramente sangue chiama sangue nella mafia: Salvatore Scoppa viene ucciso nello Sheraton Hotel a Laval nel maggio 2019 e Andrew Scoppa sarà fatto fuori in un parcheggio a Pierrefonds-Roxboro a ottobre dello stesso anno. Nel processo contro Scarfo la Corte ha appreso come i fratelli Scoppa, della fazione calabrese, fossero sempre più interessati a consolidare il loro potere criminale e per farlo avrebbero deciso di far fuori i siciliani. La guerra di mafia tra siciliani e calabresi, anche nel suo ultimo capitolo, è ancora una guerra per il territorio, per anni dominato dai Rizzuto, e la protezione/estorsione di quel territorio.

    Non è la prima volta che a Montreal si formano quelle che le autorità chiamano le fazioni criminali siciliane e calabresi nella mafia italiana. Anzi, questa polarità sembra essere la normalità della capitale del Québec. L’ascesa al potere dei Rizzuto si è fondata su una faida coi calabresi, il clan Cotroni-Violi, originari di Mammola e Sinopoli, su cui i Rizzuto hanno primeggiato negli anni Settanta.

    Nel 2011, l’omicidio di Salvatore Montagna (siciliano e membro di spicco dei Bonanno di New York legato ai Rizzuto) fu l’apice di una guerra intestina all’interno del gruppo Rizzuto, in un momento in cui Vito era in carcere negli Stati Uniti, che portava ancora il segno di quella vecchia faida tra calabresi e siciliani. Per la morte di Montagna in carcere finì Raynald Desjardins, addirittura un mafioso non italiano, ma ancora molto influente a Montreal nelle fila della mafia italiana, in vari periodi opposto a Rizzuto e vicino alle fazioni “calabresi”.

    Un articolo de La Presse, giornale canadese, in cui si parla dell'omicidio di Rocco Sollecito-i-calabresi
    Una bara d’oro per Nick Rizzuto, figlio del boss Vito Rizzuto

    C’entrano poco Cosa nostra e la ‘ndrangheta

    Se l’origine del conflitto tra i Rizzuto e i Cotroni-Violi negli anni ’70 poteva essere ancora letta all’interno di dinamiche regionali – in quel magma indistinto che diventa la mafia italiana all’estero – al 2022 questo conflitto tra calabresi e siciliani non sembra più giustificabile in termini di appartenenza regionale. Chi si uccide in queste lotte di mafia sul territorio di Montreal ha di solito discendenza, ma non origine, calabrese o siciliana o italiana.

    C’entra poco Cosa nostra siciliana, molto poco anche la ‘ndrangheta calabrese, che pure esiste in Canada, con identità distinta anche se ibrida. Quando gruppi di ‘ndrangheta compaiono sulla scena – ad esempio quelli nell’area di Toronto legati ai clan di Siderno spesso di interesse delle procure antimafia italiane – non sembrano trovare in Montreal il loro campo di gioco.

    I clan mafiosi “italiani” a Montreal, e un po’ in tutto il Canada (si pensi ad esempio alla città di Hamilton e alla sua mafia doppia, mista ed eterogenea) sono molto compositi; la loro italianità è sempre negoziabile. Quando c’è origine calabrese tra i mafiosi di Montreal è di solito soltanto una questione di “luogo di nascita” e non di socializzazione o appartenenza culturale; in molti casi la migrazione dalla Calabria avviene nei primi anni di vita. Gli stessi fratelli Scoppa, dalle non meglio precisate origini calabresi, rimasero saldamente ancorati alle beghe criminali locali di Montreal, con pochi contatti, e nemmeno rilevanti, con gli ‘ndranghetisti del vicino Ontario o in Calabria, e molti contatti con gruppi libanesi, messicani, greci, a seconda del business criminale – cocaina principalmente – di riferimento.

    Vito Rizzuto, capo della Sesta Famiglia, morì a Montreal nel 2013

    Dichiararsi calabresi ha una valenza identitaria

    In questi casi, il dichiararsi calabrese, e lo stare contro i siciliani, ha una valenza identitaria. I mafiosi, per riconoscersi ed essere riconosciuti, si affidano a un capitale simbolico contestualizzato. Nel contesto di Montreal, la faida Rizzuto vs Cotroni-Violi rappresenta la resistenza al potere dei Rizzuto, ergo è ipotizzabile che chiunque voglia ripercorrere, per qualsiasi ragione, un percorso di contrasto al clan reggente, lo faccia evocando quel conflitto siciliani vs calabresi, di facile riconoscimento, e simbolico, per tutti i mafiosi, o aspiranti tali, del luogo.

    Il free-rider della ‘ndrangheta a Montreal

    Ma c’è di più in questa regionalizzazione del conflitto mafioso in Quebec. C’è infatti la sedimentazione della narrazione, passata e presente. Si può dire, in studi criminologici, che la narrazione contribuisca a creare il fenomeno criminale. La narrazione costitutiva a Montreal è sicuramente quella relativa alla potenza incontrastata dei Rizzuto e all’aura carismatica del suo leader Vito, nonostante la sua morte ormai quasi decennale.

    Eppure, Dominico Scarfo – che spesso cita il film Il Padrino, a cui forse è dovuta la sua fascinazione per il sistema mafioso – avrebbe dichiarato di appartenere alla ‘ndrangheta, sebbene non sembri avere legami strutturali con i clan di ‘ndrangheta sul territorio o fuori dal Canada. Scarfo, il cui nome denota discendenza ma non origine calabrese, è quello che potrebbe definirsi un free-rider della mafia calabrese, oggi brand vincente anche in Canada.

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    Domenico Scarfo in un articolo apparso sul giornale canadese La Presse

    Ecco, quindi, che alla narrazione criminale primaria se ne aggiunge un’altra secondaria, ma non meno costituente e costitutiva del fenomeno criminale: quella della ‘ndrangheta. La mafia calabrese, considerata e presentata – a torto o a ragione – come la mafia più potente in Italia e quella più presente sul panorama internazionale, costituisce un’alternativa credibile al potere dei Rizzuto. Soprattutto, proprio a Montreal, dunque può diventare una nuova bandiera identitaria per quei “calabresi” che si schierano contro i siciliani.

    Un’ultima annotazione: sottovalutare questo fenomeno dei free-riders (chi potrebbe poi smentirli!) senza dare a queste narrative il giusto peso analitico, rischia di rinvigorire sia la forza percepita della ‘ndrangheta, sia il noto stereotipo etnico sugli italiani, mafiosi all’estero. In entrambi i casi questa narrativa costituirebbe una versione distorta della realtà criminale.

    Anna Sergi

    Professoressa di Criminologia nell’Università dell’Essex

  • IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

    IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

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    È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.

    Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni

    E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.

    Difficile innanzitutto sottrarne la descrizione dalle immagini stratificate nel tempo, dagli stereotipi che la precedono e che ne compongono il quadro, stigmatizzandola senza appello. Lo stesso accade se invece prendiamo per buone tutte le rappresentazioni più ravvicinate che all’opposto, e in parte, ne giustificano la realtà e le sue più paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Ancora più difficile è separarne la vicenda contemporanea dall’oscurità delle cronache che da decenni la raccontano non solo sulla stampa e sui media.

    Reggio, la capitale immorale della Calabria

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.

    Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.

    Miti di ieri e di oggi

    La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.

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    Il fenomeno della Fata Morgana

    Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.

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    Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria

    Reggio Calabria sottosopra

    Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.

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    Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria

    Il fantasma del terremoto

    Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.

    Quel che resta del bello a Reggio Calabria

    Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.

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    Il Waterfront progettato da Zaha Hadid

    Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.

    Radici nel cemento

    Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.

    I paradossi di Reggio Calabria

    Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
    Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.

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    La facoltà di Architettura di Reggio Calabria

    L’unica Città Metropolitana

    Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).

    La sacralità dello Stretto

    La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).

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    L’Oracolo di Delfi

    Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.

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    Il mare dello Stretto

    «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.

    «Un mondo che non è più riconoscibile»

    Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
    È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.

  • BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

    BOTTEGHE OSCURE | La Calabria di carta finita in discoteca

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    La carta si fa con gli alberi, e di alberi in Calabria ce ne sono sempre stati tanti. Ma la produzione della carta direttamente dal legno è storia recente. Nei secoli passati la “bambagina” era fatta soprattutto con gli stracci e dal XV secolo in poi, con l’introduzione della stampa a caratteri mobili, la domanda di tale bene aumentò vertiginosamente soprattutto quando l’abbattimento dei costi di produzione portò a un uso capillare.

    Correva l’anno 1590 quando i veneziani Domenico Contarino e Giacomo Ferro, e il napoletano Marcio Imparato, impiantarono una cartiera nella città di Cosenza. Non sappiamo se l’opificio venne realizzato o meno, ma l’antico documento denota la forte richiesta di carta in riva al Crati. Ciononostante per ben due secoli la Calabria non vide neppure l’ombra di una cartiera. Nel suo Saggio di economia campestre (1770) Domenico Grimaldi scriveva infatti che la regione «n’è totalmente priva, malgrado le acque, che ha in abbondanza, i stracci, e carnaccio che vende al forastiero». Poi, d’improvviso, fra ‘800 e ‘900 qualcosa cambiò.

    A Serra San Bruno producevano 12mila quintali di cellulosa

    A Serra San Bruno, venne impiantata la Fabbrica Italiana di Cellulosa e Carta, un bagliore d’industria nell’entroterra calabro. Nel 1908 spiccavano due industrie dipendenti dalla silvicoltura regionale. Si trattava di quella di Serra San Bruno per la fabbricazione di carta e cellulosa e quella di Dinami per la “distillazione del legname”. Le due realtà impiegavano insieme 155 lavoratori. Quello di Serra San Bruno era uno stabilimento ben attrezzato. Aveva macchine continue, sfibratoi con pressa, autoclavi, tre caldaie a vapore della potenza di 300 cavalli dinamici e cinque motori. Impiegava 68 uomini e 12 donne, che riuscivano a produrre 12mila quintali di cellulosa all’anno e, con lavorazione aggiuntiva, anche «carta da impacco lucida da un lato, ruvida dall’altro».

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    La Fabbrica di Cellulosa a Serra San Bruno

    Costi di trasporto troppo alti

    La materia prima utilizzata era il legno di abete proveniente dai boschi limitrofi della «nobile casa Fabbricotti, di A. Fazzari ed altri» e «ricchi di secolari abeti, che intanto si adoperano per l’industria, sebbene non forniscano il miglior materiale». Il taglio non era indiscriminato. Di anno in anno venivano gli alberi venivano «ricostituiti nell’intento di ridurli in turno trentennale». Nonostante la forte disponibilità di materia prima e i dati lusinghieri per una fabbrica di provincia, lo stabilimento di Serra San Bruno incontrava difficoltà per gli alti costi di trasporto della cellulosa e della carta fino alla marina di Pizzo e alla ferrovia più vicina. Così, come ricostruito da Brunello De Stefano Manno e Stefania Pisani nel volume La Fabbrica di Cellulosa e la Villa Fabbricotti di Serra San Bruno, già negli anni trenta del ‘900 la cartiera risultava abbandonata.

    Carta da imballaggio nel Reggino

    Nel Reggino, già negli ultimissimi anni dell’Ottocento, era attiva una cartiera a Favazzina. Si trattava di un’industria piccola ma operosa, che impiegava l’elettricità nel processo produttivo. Si occupava soprattutto della produzione di carta da imballaggio e che nel 1906 aveva esportato «quintali 1190 di carta da involti». Sempre in provincia di Reggio, nel 1968 era attiva la cartiera di Rosarno che, con quella di Cosenza, produceva «modesti quantitativi di carta-paglia e di cartone pressato, destinati alla confezione di imballaggi per agrumi».

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    Migranti nella cartiera di Rosarno, foto Andrea Scarfò, fonte Wikipedia)

    Gli ormai dismessi capannoni della cartiera di Rosarno, di recente sono assurti agli onori della cronaca per essere stati il rifugio di molti immigrati che svolgevano lavori stagionali nei dintorni. Nel 2009, in seguito ad un rogo scoppiato nei capannoni, alcuni immigrati rimasero feriti e la cartiera venne sgomberata e murata.

    Carta e tipografia lungo il Busento

    Il fattore incentivante l’inizio della moderna industria della carta nel Cosentino fu la presenza di importanti corsi d’acqua, in primis il Busento. Al 1928 risale infatti la richiesta della ditta “Luciano ed Ernesta Ragonesi” per la «concessione di derivare dal fiume Busento in comune di Cosenza» le acque necessarie «per azionare un lanificio ed una cartiera».

    Intestazione cartiera Ragonesi (foto Franco Michele Greco)

    Già nel 1921 è attestata nella cartiera Ragonesi la produzione di carta da imballaggio. La stessa famiglia possedeva pure, sempre sul fiume Busento ma nel comune di Dipignano, un impianto idroelettrico per il quale riceveva delle sovvenzioni. Lanificio e cartiera Ragonesi caratterizzeranno a tal punto la zona di Cardopiano, a monte della Riforma lungo la strada che porta a Carolei. A volte veniva identificata proprio come “contrada Ragonesi”.

    Nel 1912 la proprietà affiancò alla fabbrica anche una piccola stamperia, la “Tipografia Cartiera Ragonesi”, un modo di utilizzo diretto della propria produzione di carta ancora fino agli anni ’20. Un decennio più tardi la gestione della cartiera, ancora nominalmente Ragonesi, passò alla famiglia Bilotti, tanto che negli annuari industriali dell’epoca intorno al 1938 compare la denominazione “Ragonesi Luciano ed Ernesta di V. Bilotti”. Con la nuova gestione la cartiera cosentina crebbe notevolmente e i Bilotti ampliarono il raggio di azione raggiungendo anche gli Stati Uniti.

    Industriali cosentini

    Quando nel mese di giugno del 1950 la Cartiera Bruzia prese il posto dell’ormai dismessa Ragonesi, la città era in piena fase di espansione. Quel tessuto proto-industriale costituitosi a inizio secolo fatto da attività artigianali e piccoli opifici a conduzione familiare era ormai a un bivio: rilancio e modernizzazione oppure dismissione. Fu allora che i fratelli Mario, Vincenzo e Ferdinando Bilotti, industriali cosentini di spessore, decisero di riporre entusiasmi e capitali nella produzione della cellulosa dalla paglia e della carta oleata dalla cellulosa.

    «La cartiera Bilotti – scriveva Concetta Guido nel 2001 su Repubblica è una specie di monumento cittadino. È lì da decenni, appena fuori il centro urbano. La cartiera è uno dei primi insediamenti industriali in un territorio che di ciminiere non ne ha conosciute quasi per niente. Vincenzo Bilotti (proprietario di palazzi a Rende, il comune attaccato a Cosenza nato come città dormitorio, e di ville a Sangineto, il lido dei vip locali) è un uomo che gode di molta stima negli ambienti professionali».

     I sindacati denunciano: lavoratori sfruttati

    La fabbrica portò occupazione e un momentaneo benessere per gli oltre 100 operai impiegati. Inoltre i prodotti della cartiera di via Cardopiano 44 erano inclusi nei cataloghi di produttori e commercianti d’oltreoceano. Com’è ovvio lo sviluppo in senso capitalistico avrebbe cominciato a piagare il territorio. «Già nel 1955 la cartiera, che appestava l’aria con i miasmi dei suoi scarichi acidi versati nel Busento, attirò le denunce da parte dei sindacati, che nel 1957 segnalavano lo sfruttamento dei circa 200 operai, impegnati per 11 ore al giorno con una paga giornaliera di lire 1.100 da parte del proprietario, Mario Bilotti, consigliere comunale Dc» scriveva lo storico Enzo Stancati in Cosenza nei suoi quartieri (Pellegrini, 2007).

    Operaio muore schiacciato

    Tra l’aprile e il maggio del 1963 si consumò la rottura definitiva tra gli operai e la proprietà. Per più di un mese oltre 200 cartai intrecciarono le braccia e invasero le strade del centro cittadino. Chiedevano l’applicazione più giusti salari, la corresponsione degli stipendi arretrati, condizioni di lavoro più dignitose. E protestavano pure per avere una maggiore attenzione sul problema della sicurezza sul lavoro. Poco dopo quella che fu ricordata come “La lotta più lunga degli annali sindacali” (Gazzetta del Sud), beffarda arrivò la tragedia.

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    Gazzetta del Sud, archivio storico, settembre 1964

    Il 25 settembre del 1964 Antonio “Tonino” Garofalo, operaio venticinquenne di Santo Stefano di Rogliano, finiva schiacciato sotto l’ascensore di un compressore: «Il giovane stava pressando della carta, inavvertitamente però anziché azionare il pulsante per la salita dello ascensore del compressore, ha azionato quello per la discesa con la inevitabile conseguenza di restare investito in pieno».

    Le indagini non portano a nulla

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    Il giovane cartaio Tonino Garofalo, vittima del lavoro

    Le indagini della Squadra Mobile per omicidio colposo non portarono a nulla, se non fosse per una forte mobilitazione popolare in occasione dei funerali. In uno scritto A memoria del concittadino… (2014), Pro Loco e Gruppo consiliare “Insieme per Santo Stefano” ricordano che «gli ingranaggi facenti parte del sistema produttivo della Cartiera Bilotti, sopprimono in pochi istanti la vita di quel giovane, da pochi mesi padre di una bambina, consegnando alle vittime cadute sul lavoro uno dei migliori figli della comunità santostefanese che, avendo conosciuto nell’età giovanile il volto e le sofferenze derivanti dal fenomeno dell’emigrazione in Germania, riteneva il lavoro un momento esaltante per la dignità e la libertà individuale».

    Cartai a Montecitorio

    La cartiera Bilotti chiuse i battenti nel 1972 lasciando un centinaio di lavoratori, da mesi in cassa integrazione, senza lavoro. Pochi mesi prima il “caso cartai” venne portato tra gli scanni di Montecitorio dall’ex fascista e deputato missino per la circoscrizione di Catanzaro-Cosenza-Reggio, Antonino Tripodi. Il politico calabrese si rivolse all’allora ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, il socialista Mauro Ferri. Chiedendo al ministro come «intende intervenire con l’urgenza e la perentorietà che il caso richiede per evitare che in provincia di Cosenza continuino a ripetersi recessioni produttivistiche con drammatiche conseguenze sull’occupazione operaia».

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    Antonino Tripodi

    In quei mesi aveva decretato lo stop della produzione e l’inizio della dismissione lo stabilimento tessile di Cetraro che occupava 500 dipendenti. Stessa sorte per le metalmeccaniche Cavalli di Rende, mentre anche la Mancuso e Ferro si avviava alla fine della sua gloriosa esistenza. «Non sembra che le autorità locali stiano seriamente agendo per evitare che i dipendenti della cartiera Bilotti perdano, non solo il posto ma anche il presidio di disoccupazione. Se il governo non interviene la già dissestata economia della provincia di Cosenza riceverà un colpo fatale…», tuonò Tripodi.

    Da cartiera Bilotti a discoteca

    Il ministro Ferri portò alla memoria i due grossi finanziamenti ricevuti dalla cartiera per un totale di poco meno di 200milioni di lire tra il 1969 e il 1970 e la promessa di una proroga a 9 mesi dell’intervento della cassa integrazione. Poi nicchiò: «Alcuni settori produttivi risentono com’è noto, da vari anni, di una recessione […] Tra tali settori è compreso il l’edilizio, il cartario e il tessile, cioè quei settori che riguardano le industrie di Cosenza che recentemente hanno interrotto la loro attività». Continuando: «Ovviamente nelle zone nelle quali il processo di industrializzazione è agli inizi, la chiusura delle industrie viene subito maggiormente avvertita ed il governo tiene in conto tale aspetto, intervenendo con tutti i mezzi di cui dispone».

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    A poca distanza dal fiume Busento, dove sorgeva la cartiera Bilotti e poi la discoteca “Soho”

    Divenuta “Cartiera Busento” dopo un piano di ristrutturazione aziendale, la gloriosa fabbrica chiuse definitivamente nel 1976. Una fine tra clamorose perdite, 35 licenziamenti e conti ballerini. Nei capannoni dell’ex cartiera, adibiti a partire dal dicembre del 1997 a discoteca “Soho Music Hall”, molti di noi brindarono al nuovo anno leggeri, psichedelici e sicuramente immemori.

  • STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

    STRADE PERDUTE| L’isola che non c’è (o forse ancora sì): Electra, Febra, Monte Sardo o…?

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    Strade perdute sono pure quelle del mare, ammettendo che possano chiamarsi così. Del resto, sempre di mappe si tratta. E allora c’è una storia da raccontare in merito ad un’isola-non-isola, che sarebbe sorta a metà strada tra il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara. Assomiglia un po’ alla storia tutta siciliana (o quasi) dell’Isola Ferdinandea. Nel nostro caso, però, si tratta di una faccenda che ancora oggi resta in bilico tra leggenda e scienza.

    I più scettici vi parleranno di un errore cartografico, e basta; o, al limite, di una coincidenza. I più fantasiosi vi parleranno di un’isola, magari pure temporaneamente abitata, e poi scomparsa per chissà quale motivo. Io mi metto in mezzo e provo a stemperare le due diverse anime, una più rigida dell’altra, aggiungendo un dettaglio abbastanza sorprendente, che non deve passare inosservato.

    L’allegoria del mostro marino in prossimità del vortice di Albidona (G.A. Magini, Italia, 1620)

    Il mostro e il Vortice

    Un’edizione del 1620 della Carta d’Italia di Giovanni Antonio Magini mostra un’interessante allegoria del mostro marino nelle sue prossimità. Nel 1785 la Marina Borbonica si spinse invece nello specchio di mare limitrofo alla Torre di Albidona. Lì riscontrò una sorgente subacquea e “il grandioso vortice marino sinistrorso, alla profondità di m. 32,20, a km 1,3 dalla Torre”.

    Il tiranno nella Secca

    Nel Banco di Amendolara si incagliarono nel 379 a.C. le flotte inviate da Dioniso il Vecchio, tiranno di Siracusa, per distruggere Thurio. Nel Libro Rosso di Taranto del 1463 si regolamenta l’esercizio della pesca nel Banco, inaugurando una serie di provvedimenti dei Viceré spagnoli, i quali riconoscevano diritti esclusivi di pesca a favore dei tarantini. La Commissione di Studi sul regime dei litorali del Regno vi recuperò nel 1936 un’àncora lignea con chiodatura bronzea, rivestita di piombo, e risalente al IV secolo a. C. (nonché identica a quelle recuperate al Porto di Siracusa). Si fecero avanti ipotesi sul passato morfologico della Secca: residuo di un’isola o addirittura di una penisola? Qualcuno si spinse prudentemente a dichiarare che la Secca fosse in passato emersa, sì, dall’acqua… ma non meno di 8.000 anni fa.

    Il Vortice di Albidona e la Secca di Amendolara nella Carta batilitologica del Sinus Thurinus, su fondo rilevato dall’Istituto Idrografico della Marina

    Oggi è una notissima secca di 31 km², a forma di ferro di cavallo con la concavità rivolta in direzione sud-ovest, adiacente al Vortice di Albidona e prospiciente la marina di Amendolara ad una distanza di circa 10 miglia dalla costa. Pescosa e pericolosa per le imbarcazioni, si erge infatti dai 200 ai soli 20 metri di profondità (addirittura solo 14 nel 1891).

    Isola o arcipelago?

    I latini registravano la presenza di un’isola Elèctoris (ma più corretto sembrerebbe Electris e poi Electra), detta anche Febra da Servio. Altri scrittori, sulla scorta di Plinio, hanno affermato l’esistenza di una o più isole nella zona, credute sommerse a causa di cataclismi “o che sian tanto piccole che appena si vedono, o le suppongono scogli, o che da cinque sian ridotte a due, a tre, e che l’arcipelago nel secolo XV più non era”.

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    L’Electris, sive Febra insula nell’Italia di Georg Horn (1595)

    Leandro Alberti, nei primi del Cinquecento ne avrebbe viste però ancora due seguendo la via lungo l’Esaro.
    Non è finita qui: è proprio una Electris, sive Febra insula, quella che nel 1595 i cartografi Ortelio e Horn registrano nelle loro opere Magna Graecia e Italia nam Tellus/Graecia Maior.
    A rendere la questione più confusionaria è poi la presenza delle piccole isole Cheradi, di fronte al porto di Taranto: nelle mappe geografiche più datate, infatti, alcune di esse vengono spinte fin quasi nel mezzo del golfo, assumendo nomi non sempre omogenei tra loro.

    Il grande equivoco

    Nel 1608 Magini diede alle stampe la sua prima Carta d’Italia, ponendo nel bel mezzo del Golfo di Taranto un’isola mai sentita prima: Monte Sardo. Egli stesso se ne accorse e corresse la svista nella successiva edizione del 1620. Troppo tardi: la diffusione della prima mappa era ormai irrimediabile. Se ciò sembra poco bisogna pensare non tanto al valore economico di quelle mappe, ma alla loro funzione di fonte per le mappe successive. Le carte che presentano quest’isola coprono la bellezza di due secoli di produzione cartografica, in cui sono coinvolte le firme dei più grossi nomi della cartografia europea.

    Ora, la tesi della svista sarebbe inconfutabile se non fosse che, appunto, l’Isola di Monte Sardo coincide spesso con quella già denominata Electra vel Febra Insula, proprio alla maniera latina, in modo molto più suggestivo ed allusivo. E allora torniamo a Magini e al suo errore. Anche lui utilizzava una fonte, e si trattava dell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Stigliola (1582). Bene: una copia di quest’atlante riporta a sud-ovest di Taranto un appunto di mano dell’autore, che raffigura un profilo di collina con la sottostante denominazione Monte Sardo.

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    La prima apparizione di Monte Sardo, nell’Atlante delle Province del Regno di Napoli di Nicola Antonio Stigliola, 1595

    L’isola c’è o non c’è?

    Per alcuni, questo disegno non si riferirebbe ad un’isola ma ad un rimando “fuori mappa” all’altura sulla quale sorge il comune di Montesardo, situato in Terra d’Otranto a 186m sul livello del mare, pochi chilometri a sud di Alessano, uno dei paesi più elevati delle Murge Salentine, e perciò importante da segnalare ai navigatori. Non si capisce però il motivo d’aver segnalato ciò proprio in mezzo al mare, e proprio dove un’isola – con tutti i “forse” del mondo – c’era o c’era stata.

    E resta poi il nodo cruciale delle fonti che riportano l’Electra o la Febra: da dove l’avrebbero tirata fuori? Se sempre da Stigliola, perché allora attribuirle un altro nome? Altra cosa buffa ma indicativa: i toponimi Electra o Febra non si riscontrano mai contemporaneamente a quello di Monte Sardo. Insomma: è stato certamente un errore utilizzare la denominazione di Monte Sardo ma… è stato anche un errore indicare l’esistenza dell’isola? Non ne sarei per niente sicuro.

    Un ultimo indizio

    Pare abbastanza ovvio, a un certo punto, che la Secca e l’Isola (o pseudo-isola) coincidano. Esperti di geologia marina hanno chiarito che se il fenomeno di subsidenza fosse stato costante negli ultimi tre secoli, la Secca poteva ben essere rappresentabile come un’isola all’inizio del Seicento. Detto più chiaramente: se l’inabissarsi dei rilievi subacquei fosse stato uniformemente costante, ne deriverebbe che già soltanto sul finire del Settecento questi avrebbero fatto capolino attraverso il pelo dell’acqua.

    Ma resta ancora il dato più sorprendente, e peraltro assai poco noto: nella mappa denominata Magna Graecia etc., realizzata da Bertin nel 1699, l’Electris Ins. possiede l’esatta forma a ferro di cavallo con concavità rivolta a sud-ovest, così come è stata descritta in tempi recenti grazie alle attuali tecniche idrografiche e batimetriche. Come la mettiamo?

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    L’Electris Ins. nella Magna Graecia di Francesco Bertin (Padova, 1699)

    Due possibili ipotesi

    Ricapitolando, restano possibili due ipotesi. L’isola è esistita prima dell’incidente delle flotte di Dionisio il Vecchio. Deve esserne poi rimasto ricordo – in seguito alla sua scomparsa – presso i latini e le successive popolazioni indigene, fino al sopraggiungere dei più moderni mezzi cartografici che hanno decretato la giusta cancellazione di questo rilievo dal Golfo di Taranto.

    Oppure, più probabilmente, l’azione erosiva deve essere stata – dall’epoca di Thurio in poi – non del tutto progressiva ed ininterrotta e, tra l’altro, alternata forse a riemersioni sporadiche dell’isola, soprattutto nel periodo di compilazione delle carte geografiche storiche. I motivi di una scomparsa del genere possono essere molteplici. Da una semplice azione erosiva marina alla subsidenza dei fondali e alla convulsione tellurica della costa, fino a qualche evento eccezionale, non ultimo un maremoto.

    L’isola gemella (eterozigote)

    A differenza della sicula gemella eterozigote Ferdinandea, l’isola Febra, Electra o di Monte Sardo, non provocherebbe mai – qualora rinascesse – conflitti internazionali, innocua com’è e inglobata com’è all’interno delle acque territoriali del Golfo di Taranto, tutto italiano, senza perciò poter dar adito a polemiche sul suo assorbimento o meno nella piattaforma continentale. Al più potrebbero sorgere dissidi tra gli enti locali costieri per aggiudicarsene l’amministrazione o, più probabilmente, per liberarsi da inattese incombenze. Che resti, allora, a sonnecchiare tranquilla…

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    L’Isola Ferdinandea, in un dipinto del 1831 (fonte Wikipedia)

     

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    Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

    Tra Cetraro e Cavinia

    Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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    Cavinia vista dall’alto

    Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

    Le torri sulla scogliera

    Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

    Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

    Cetraro e i suoi toponimi

    Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

    Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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    Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

    Verso il centro storico

    Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

    Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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    Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

    1749, fuga da Cetraro

    Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

    Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

     

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    Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

    La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?