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  • STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    STRADE PERDUTE| Canna, dove le pietre parlano

    Ancora sul nostro Nord-Est… Perché visitare Canna? Perché è un involontario set cinematografico fatto di pietra, o perché è un pezzo di Sette-Ottocento arrivato sano sano fino a noi. Canna resta per nulla indagata (e non mi correggo: il femminile, messo inavvertitamente, si giustifica in realtà con la parlata locale, che vuole si vada ‘alla’ Canna, che si sia ‘della’ Canna e così via) e la bibliografia locale è muta, non esistendo neppure un solo libro sulla storia generale del paese, e sì che meriterebbe. Vi si stava accingendo il compianto Salvatore Lizzano e dispiace che il suo decesso prematuro non gli abbia consentito di ripetere i risultati già ottenuti nell’altra sua opera, quella su Roseto Capo Spulico.

    Canna, il paese dei portali

    Altra ragione per scegliere di addentrarsi tra i vicoli di Canna sta nel fatto che il suo patrimonio araldico è stranamente e quasi sfrontatamente superiore a quello di qualsivoglia paese dello stesso circondario, se non di tutta la Calabria: tra le quinte di una ridottissima manciata di stradine si accalcano infatti ben undici portali di qualche rilevanza artistica, per un totale di ben quindici stemmi. Questa densità non si spiega in altro modo, in un borgo tanto minuscolo, se non attraverso una sola interpretazione: la storia di Canna va sempre letta in stretta connessione con quella di due paesi limitrofi, Rocca Imperiale e Nocara.

    Ma mentre Rocca Imperiale restituisce visivamente l’impianto medievale, col castello posto in cima a un rovescio di case popolaresche digradanti verso la piana che conduce al mare, Nocara rimanda, al contrario, all’idea di un vecchio avamposto d’avvistamento, una sorta di accampamento rude, diventato poi stanziale sulla cima della sua scarpata inospitale. In mezzo a questi luoghi – e dunque, volendo, tra autorità, popolo e difesa – si piazza Canna, che appare subito come qualcosa di diverso, una sorta di appartato buen retiro per la nobiltà e la borghesia locale.

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    La rampa di accesso al Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Status symbol di una volta

    Intendo dire che a Canna deve essere successo qualcosa, ed esserci stato quantomeno un momento in cui il paese cominciò ad essere letteralmente di moda, quando possedervi un palazzo con un portale pregiato e possibilmente uno stemma dovette essere una sorta di status symbol irrinunciabile per il notabilato del circondario. Aggiungo: una cappelletta privata, eventualmente annessa al proprio palazzo nobiliare, e con campana propria, era un valore aggiunto. Un po’ come oggi la piscina per le ville. Sono almeno sei i palazzi cannesi che hanno o hanno avuto cappelle annesse:

    • Toscani,
    • Ricciardulli,
    • Campolongo,
    • Troncellito (poi Bruni),
    • Crivelli (poi Favoino)
    • Crivelli bis (poi Pitrelli).
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    Verso di Catone sul Palazzo Rinaldi di Canna (foto L.I. Fragale)

    Scripta manent

    E poi c’è qualcosa di anche più antico, e sempre scolpito nella pietra (evidentemente a Canna o si scrive per sempre o non si scrive): un’iscrizione rozza e piccola, apposta nel 1605 in cima alla parete esterna di Palazzo Rinaldi, si palesa nientemeno come frammento di un distico di Catone (I, 5): NEMO SI/NE CRIMI/NE VIVIT, inno a un’indulgenza fatalista che mi richiama alla mente due cose. Innanziuttto l’adagio napoletano “e si tiene figli mascule, nun chiammà mariuolo, e si tiene figlie femmene ecc. ecc.”, e poi quell’altra citazione latina che troviamo a Cosenza, su una chiave di volta nel rione Portapiana, dove viene scomodato Orazio (Odi, III, 3, 8) e il suo verso “IMPAVIDU[M] / FERIENT / RUIN[A]E” che il poeta riferiva all’inattaccabile rettitudine umana mentre, con tutta probabilità, il committente cosentino deve aver riferito alle sorti dell’edificio dopo il terremoto del 1638.

    Iscrizione sacra risalente al Cinquecento (foto L.I. Fragale)

    Ma restiamo “sulla” Canna: un’altra iscrizione, più antica e altrettanto consunta, è quella di una lapide cinquecentesca poggiata oggi su un muretto di pietra a secco, che credo possa essere sciolta così: HA[N]C ECCL[ESI]AM F[IERI] FECER[UN]T PLURES [CON]FRAT[RES] / […]CO TARENTINO DE CANNA A[…] / [SANC]TISSIMI ROCCHI S[TATUERUNT] A[NNO] D[OMINI] 1529. Delizia per i paleografi, questa lapide potrebbe essere proposta all’esame di archivistica, visto che si presenta come spaventoso compendio delle più svariate brachigrafie (abbreviature per contrazione con lineetta sovrascritta, per troncamento finale con lettere sovrapposte e finanche con segni abbreviativi propri… ma non mi dilungo).

    Portale di Palazzo Melazzi (foto L.I. Fragale)

    Non solo Canna

    E dicevamo dei portali… la loro presenza così fitta mi aveva spinto, qualche tempo fa, a svolgere una ricerca mirata ad una specie di improbabile censimento di quelli del circondario altoionico calabro-lucano, e almeno di quelli che avessero caratteristiche comuni ai tanti portali cannesi. Finii per impelagarmi invece in una sorta di genealogia delle maestranze artigiane locali, che però la dice lunga, anzi lunghissima, proprio in termini geografici. I portali ‘alla cannese’ – con o senza stemma – hanno valicato i confini calabri pur essendo scolpiti senza alcun dubbio dalla stessa mano (o dallo stesso paio di mani) e sono decisamente più di quelli che ci si potrebbe aspettare. Una prima traccia, dunque, della mobilità delle maestranze.
    Provare per credere, confrontando – se solo si avesse la pazienza – i palazzi:

    • Mazzario, a Roseto Capo Spulico (1821);
    • De Pirro, a Nocara (1825);
    • Carlomagno, a San Giorgio Lucano (1826);
    • Tarsia (poi Troncellito, ora Bruni), a Canna (1845);
    • Rinaldi, a Noepoli (1845);
    • Mesce o Morano (ora Rago), a Canna (1846);
    • Crivelli (poi Pitrelli), a Canna (1848);
    • Pignone (poi Minieri, ora Solano), a Montegiordano (1860);
    • Troncellito (ora Marcone), a Senise;
    • Donnaperna, a Senise;
    • Guida, a Tursi;
    • Giannettasio, a Oriolo Calabro;
    • Tarsia-Sanseverino (poi Toscani), a Canna;
    • Melazzi, a Canna;
    • Silvestri, a San Giorgio Lucano;
    • Camodeca, a Castroregio;
    • Pace, a San Costantino Albanese;
    • Ricciardulli, ancora a Canna.
    Stemma di Palazzo Pace, a San Costantino Albanese

    Fermiamoci un attimo: intanto, giusto per rimanere in tema di citazioni classiche, non mi va di tralasciare altri due motti, ovvero quello del Palazzo Rinaldi di Noepoli (VIS UNITA FORTIOR) e poi il motto sullo stemma del penultimo dei palazzi citati, nientemeno ΚΑΤΕΦΙΛΗΣΑΝ ΔΙΚΑΙΟΣΥΝΗ ΚΑΙ ΕΙΡΗΝΗ, deformazione della traduzione greca del salmo 84.11 (ελεος και αληθεια συνηντησαν δικαιοσυνη και ειρηνη κατεφιλησαν): “misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. Poi va annotato da qualche parte, a futura memoria, che lo stemma di Palazzo Melazzi di Canna – di cui resta ora, solitario e allusivo, il gancio – è da individuare senza alcun dubbio nello stemma che oggi campeggia – in linea con intricati passaggi ereditari – sul Palazzo Blefari Melazzi di Amendolara, il cui portale fu realizzato in tutt’altro stile e materiale.

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    Palazzo Crivelli, poi Pitrelli (foto L.I. Fragale)

    I fratelli Calienno

    E fin qui si tratta di proprietari bizzarri. Ma, per non allontanarci dalla genealogia delle maestranze, bisogna notare altre due “firme”: il primo di questi palazzi riporta, sotto la chiave di volta, la dicitura M. RAFAE. E / PASCA. CALIE., mentre il Palazzo Crivelli (poi Pitrelli) di Canna porta sull’architrave la dicitura PASCALIS CALIENNO FECIT. L’enigma è fin qui parzialmente risolto. Ora, senza addentrarmi nella descrizione di tutte le peripezie della ricerca storica, si viene a scoprire che Raffaele e Pasquale Calienno erano due fratelli evidentemente attivissimi tra Calabria e Lucania almeno nella prima metà dell’Ottocento.

    Di più, a questo punto dobbiamo attribuire loro il copyright di un vero e proprio stile inconfondibile, perché il loro portale è sempre uguale, quale che fosse il committente. Andrebbe definito, volendo dargli vera e propria dignità di tipo architettonico, “modulo Calienno”. Confrontiamo un leone scolpito dai Calienno e uno dei leoni sui portali a loro solamente attribuibili: la mano è assolutamente la stessa, è quella mano che taglia la criniera in modo netto, dal garrese al petto, che scava oltremodo l’occhio, che allunga a dismisura la lingua e si fa goffa nell’eseguire gli arti posteriori.

    Stemma su Palazzo Tarsia-Sanseverino, poi Toscani (foto L.I. Fragale)

    Scarpari, cappellari, falegnami ed ebanisti

    Ma la farina è tutta del loro sacco? Proprio per niente. Cosa sappiamo di questi Calienno, richiestissimi e abili scalpellini (ma un po’ meno abili disegnatori di leoni)? Da quanto si può ricavare dagli atti dello Stato Civile di Amendolara (le tracce sono più lì che altrove), Pasquale è meno rintracciabile, mentre il nucleo familiare di Raffaele è abbastanza completo: “scalpellino e marmoraro”, nasce a Napoli – da Salvatore – intorno al 1798 e muore ad Amendolara nel 1869. Ma si scopre anche, con qualche triplo carpiato con avvitamento, presso quale scuola artigiana avessero appreso l’arte.

    Se si ficca il naso tra gli atti ottocenteschi dello Stato Civile della città di Napoli, si nota che i non pochi Calienno sono per la maggior parte servitori, camerieri, domestici, portieri. A parte un cappellaro, uno scarparo e due falegnami generici, troviamo solo due artigiani indicati con la più sottile definizione di ebanisti. Ma nessuno scalpellino. La pietra, insomma, non è cosa loro e l’arte deve essere stata appresa altrove e forse proprio in Calabria.

    Scalpellini da generazioni

    E, come volevasi dimostrare, si scopre che Raffaele Calienno sposa una giovane amendolarese nata in una vera e propria stirpe di scalpellini e mastri fabbricatori, strettamente legati da generazioni a questo mestiere: scalpellino il suocero, il fratello e il padre di questi, il loro nonno castrovillarese e gli antenati di quest’ultimo, provenienti da Cetraro (dove erano stati addirittura incaricati, nel 1761, della ristrutturazione della Torre di Rienzo) e, prima ancora, da Rogliano.

    E, si sa, quello delle stirpi artigiane roglianesi ha sempre costituito un vero e proprio monopolio artistico (proprio la chiesa cetrarese di San Benedetto fu oggetto di abbellimenti da parte di maestranze roglianesi), la cui accortezza ha lasciato testimonianze celebri sia in ambito scultoreo che architettonico. C’è poco da fare, quindi: per una volta si può dare a Cesare quel che è di Cesare: il “modulo cannese” è tutto, essenzialmente e orgogliosamente, calabro: peregrinato dal Savuto al Tirreno e poi allo Ionio, oltre la Lucania non s’è azzardato a metter piede. Dicesi autoctonia.

    Il ‘modulo cannese’ su Palazzo Tarsia, poi Troncellito, poi Bruni
  • FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

    FUORI RECINTO| Alla scoperta della Calabria che resiste

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    I viaggiatori del Settecento e dei secoli successivi hanno alternato nei loro diari impressioni contrastanti su questo lembo d’Italia chiamato Calabria, esaltandone alcune straordinarie bellezze e denunciandone le brutture. Quando la regione non veniva saltata a piè pari perché terra di ruberie, truffe e raggiri, assalti e uccisioni, in molte occasioni, per edulcorare a se stessi le delusioni, nei romantici diari di viaggio si attenuavano le profonde ed evidenti precarietà che la Calabria rappresentava e racchiudeva, nella medesima forma di paradigma delle negatività italiane di oggi.

    Edward Lear, disegno di viaggio in Calabria, 1847

    È pure vero che i frettolosi visitatori dimenticavano una certa quantità di eroi, soprattutto nel secolo risorgimentale. Così come pochi riuscivano a cogliere, in quei medesimi periodi, le tracce dell’antica bellezza magnogreca che pure ha interessato l’intera Calabria. Una storica frase dell’archeologo Lenormant, nel suo passaggio nei pressi dell’antica Sibari, rimane tutt’oggi memorabile: «Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura dove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole e il mare della Grecia».

    Un viaggio tra slanci e ritardi

    Sarà la nostalgia di un passato affascinante, il richiamo di radici profonde e lontane quanto attuali, il senso di impotenza e disagio a spingermi a scrivere. L’obiettivo è scorgere, nelle pieghe di un tessuto urbano e sociale lacerato, slanci e sprazzi di vitalità che pure esistono e stanno emergendo. Scavare nelle macerie della nostra malconcia modernità alla ricerca della bellezza che sopravvive. Parlare dei nuovi eroi che la tengono attiva con iniziative che superano ogni difficoltà in una diversa forma di risorgimento sociale calabrese. Ritardi e slanci, quindi.

    Eroi nel Crotonese

    La chef Caterina Ceraudo nell’orto della sua azienda agricola

    La Regione Calabria si presenta alla Bit di Milano con ambizioni, premesse e promesse che pretendono di farla sembrare la Florida, ma il turismo che interessa la nostra terra è ancora di scarso livello culturale, con modeste ricadute socio-economiche. Però, proprio nei padiglioni milanesi della Bit, si accende una luce su una delle nostri giovani eroine: Caterina Ceraudo. Chef stellata, da tempo stupisce tutti con i suoi piatti che affondano le radici nella tradizione calabrese, nei prodotti di questa terra, con rivisitazioni che conquistano. Suo padre Roberto Ceraudo con sana testardaggine calabra ha realizzato dal nulla e conduce una azienda agricola bellissima, tutta ecologica, nei pressi di Strongoli.

    Caterina Ceraudo, Piatto Sottobosco, omaggio alla Sila

    Alla stessa maniera hanno fatto, poco vicino, gli altri nuovi eroi: i Librandi. Da generazioni rinnovano una cultura enologica di rara qualità, che include l’aver saputo rigenerare persino il vitigno calabrese per eccellenza, quel Gaglioppo capace di conservare l’origine della bellezza greca. E lo fanno in un contesto – tra Crotone e Cirò – saccheggiato dalla malavita, dall’abusivismo sulle coste, dalla moria progressiva dell’ex tessuto industriale crotonese. I Librandi hanno superato, da soli, la logica dell’assistenzialismo. Di generazione in generazione hanno acquisito prestigio: dai sei ettari iniziali oggi ne coltivano 232, con una produzione di 2,3 milioni di bottiglie e un nome noto nel mondo.

    I Librandi in un vigneto dell’azienda di famiglia

    La Sila che attira i turisti e quella che li respinge

    Per rimanere nell’ambito della nuova stagione del cibo, quest’anno la stella Michelin è toccata anche al lavoro certosino di ricerca e bellezza, tra odori e sapori dei boschi della Sila, di Antonio Biafora, del ristorante Hyle, a pochi chilometri da San Giovanni in Fiore. Nella stessa località ha sede anche il Consorzio Tutela Patata della Sila, una sfida vinta contro infiniti luoghi comuni avversi all’idea che al Sud si possa fare associazionismo e prodotti della terra di qualità ed ecologici.

    Lo chef stellato Antonio Biafora tra i boschi della Sila

    Tuttavia, a queste eccellenze e a una natura esuberante e di rara bellezza dei boschi di pino laricio fa da contrasto la povertà dei tessuti urbani dei principali centri silani. Fuori dalle cinture storiche, presentano una drammatica precarietà edilizia, estetica, mancanza di elementi minimi di decoro. Sono densi di provvisorietà, esito di ritardi culturali e miopia urbanistica. Certo non sono capaci di attrarre alcun turista intelligente. E non aiutano affatto il prestigio di Biafora, tantomeno della Patata della Sila, così come di altre eccellenze silane.

    San Giovanni In Fiore, Luca Chistè 2020

    Errori pubblici e privati

    Quanto accaduto negli ultimi cinquant’anni ai centri urbani calabresi, dietro al fallimento di ingenti investimenti pubblici con aree produttive vuote e fantasmagoriche, è frutto di una totale mancanza di strategie capaci di uno sguardo che non fosse oltre la soglia di casa. Così, più si scende verso Sud e più la cultura urbana e della manutenzione si fa chimera.

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    Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Ma qui in Calabria, oltre questa assenza, si tratta di una diffusa condizione di disinteresse civico, di totale disattenzione verso qualsiasi segno di rinascita che si opponga al decadimento. E, se non fosse per il virtuosismo di iniziative private e di alcuni illuminati amministratori, il disagio e il divario verso altre realtà sarebbero ancora maggiori.

    Un’altra Calabria è possibile

    Questo, però, è anche un viaggio di speranza, di fiducia. Per accendere luci dove ci sono e smetterla con la cultura del lamento, ma seguire nel realizzare un panorama diverso dentro ai ritardi e alle devastazioni. Costruire una geografia positiva, capace nei prossimi anni di ribaltare le negatività e invertire la rotta, può tradursi in una ulteriore spinta per non sprecare l’occasione del Piano di Ripresa e Resilienza, che ha il Sud come obiettivo principale perché a Bruxelles lo sanno che è qui il punto nevralgico dell’Italia.

    Luci e ombre a Reggio Calabria

    Tra le ombre lunghe di Reggio Calabria, oltre il suo magnifico lungomare in cui una stupenda installazione dell’artista Edoardo Tresoldi conferisce a questo luogo la magia dell’Arte urbana, la città, nelle pieghe del suo tessuto più densamente abitato, esplode in un dedalo di conflitti urbani e diffusa marginalità. Con un aeroporto scalcinato indegno di tale nome, più verso la collina i pezzi di università che contrastano il degrado; un Museo del Mare mai finito, megalomane progetto dell’allora sindaco Scopelliti; fiumare abusivamente abitate e intasate di cemento.

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    I Bronzi nel Museo di Reggio Calabria

    Poi ci sono i Bronzi, felicemente ritrovati, in un Museo Archeologico che merita molto di più di ciò che ha e che può offrire. Per esempio qualcosa di più dell’inadeguato, recente, marchio per i 50 anni del ritrovamento delle due bellissime sculture, realizzato come sempre senza una sana competizione tra i migliori graphic designer italiani, ma affidato in modo superficiale a qualche miope “sguardo” localistico.

    Anche a Reggio si accendono da tempo luci tra le ombre. Nei numerosi ritardi accumulati dalla città dello Stretto si scorge lo slancio di giovani eroi che fanno cultura, innovazione, ricerca. Alcuni – intorno alla docente di UNIRC, Consuelo Nava, attivissima ricercatrice che dirige un produttivo laboratorio di tecnologia sostenibile sulle possibilità di un abitare ecologico in Calabria e nel Mediterraneo – accendono più di una speranza. Nella stessa università, pur in tempesta per le recenti indagini della procura locale, il dipartimento di Giurisprudenza è tra i più innovativi e avanzati nel settore e di recente è stato riconosciuto come Eccellenza dal MUR.

    L’importanza della scuola

    Proprio sulla tematica del costruire sostenibile, di recente, un ingente investimento statale ha consentito di mettere in sicurezza oltre 700 edifici scolastici calabresi. Le scuole sono di importanza vitale: qui si formano i cittadini futuri, le classi dirigenti e molti di essi rappresentano il segnale negativo di quanto poco interesse si ha per la qualità, il decoro, la funzionalità, diciamolo per la bellezza nelle sue diverse forme attuali. Mi fa piacere, in questo caso, accendere una luce sulla nuova Scuola d’infanzia “Virgilio” di Locri, un esempio di bioedilizia.

    La scuola “Virgilio” di Locri, prima del suo genere in Calabria

    È la prima in Calabria realizzata secondo una sintesi perfetta tra efficienza energetica, comfort e sostenibilità ambientale. La progettazione esecutiva e realizzazione sono di un’impresa calabrese, la Cesario Legno, con sede a Zumpano, dove tra capannoni anonimi e una natura bellissima, a due passi dal fiume Crati, si progettano case domotiche d’avanguardia.

    La Calabria che non si parla e quella che non si rassegna

    Da questo viaggio emerge quanto la Calabria sia in parte persa nei suoi diffusi e disarticolati territori, “che non si parlano”. Quanto questa terra di “bellezza e orrore” resti tanto chiusa nelle proprie estese e preoccupanti contraddizioni che ne amplificano il degrado. Ma emerge anche il coraggio di un esteso manipolo di resistenti, residenti, non assuefatti all’oblio, non rassegnati alla sconfitta, che alimentano già una letteratura vasta che include calabresi e non, illustri e meno noti.

    Una Calabria di oggi, dunque, ancora diffusamente punteggiata da slanci e ritardi. Dove ad aree industriali dismesse o mai decollate, strade non finite, edifici pubblici fatiscenti, luoghi della perenne precarietà, pontili nel nulla, porti senza navi, aeroporti senza aerei e senza qualità, perenni vuoti senza mai pieni, opere pubbliche faraoniche, si oppongono il desiderio del fare e un anelito al cambiamento diffusi ovunque. Alla scoperta di luci che diradano, nel tempo, le ombre più cupe, segnando una necessaria inversione di tendenza.

  • MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

    MAFIOSFERA| Mamma Eroina: Bang Bang Baby e la festa degli stereotipi

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    Alzi la mano chi non conosce la storia di Maria Serraino. Mamma Eroina è stata una di quelle donne che hanno sbaragliato il mito della donna di ‘ndrangheta che può solo essere vittima. Maria Serraino era carnefice, se vogliamo dirla tutta. Ai vertici di una delle famiglie di ‘ndrangheta più influenti del reggino, nella sua propaggine milanese, La Signora ha dominato il mercato dello spaccio di eroina e di hashish in Lombardia negli anni ’80.

    Come spesso accade per le donne al potere, la sua è una figura ambigua, ambivalente. Ricordata come “madre amorevole” eppure condannata per aver guidato “un’organizzazione criminale che ricorreva all’eliminazione fisica dei concorrenti”, Mamma Eroina, originaria di Cardeto (RC), è stata donna di vertice nella ‘ndrangheta in un periodo di enorme cambiamento per l’organizzazione criminale, in Calabria, in Italia e nel mondo. È morta nel 2017, agli arresti domiciliari.

    La fiction sulla nipote di “Mamma Eroina”

    Chi non dovesse conoscerla, Maria Serraino, può vederla in versione fiction su Amazon Prime, nella nuova serie Bang Bang Baby. Interpretata da Dora Romano, il personaggio di Donna Lina è Mamma Eroina, o meglio, Nonna Eroina in questo caso, come tra l’altro è conosciuta in inglese (Granny Heroin). La serie TV, infatti, non è inspirata alla storia di Maria Serraino, quanto a quella di Marisa Merico, sua nipote.

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    Maria Serraino in un singolare ritratto di famiglia

    Figlia di Emilio Di Giovine, primo di 12 figli di Rosario Di Giovine e Maria Serraino, Marisa non è una rampolla di ‘ndrangheta come tutte le altre. A renderla diversa è sua madre, Patricia Riley, inglese, che incontrò e sposò Emilio a Milano e che, quando la situazione familiare diventò insostenibile (cioè spararono a Emilio, anche se non fatalmente, in un ristorante milanese) decise di andarsene, con Marisa, a Blackpool, in Inghilterra.

    La storia di Marisa non è nuova, è stata raccontata in un documentario del 2015, Lady ‘Ndrangheta. E soprattutto l’ha raccontata lei stessa nel 2010 nella sua autobiografia Mafia Princess, pubblicata da Harper Collins, come si legge sul suo sito web. Giornali, riviste, true-crime podcast, e interviste hanno raccontato del rapporto di Marisa con la famiglia milanese/calabrese, con la nonna Maria che – nonostante la vita a Blackpool – Marisa continuò a vedere nelle estati della sua adolescenza.

    Marisa Merico e la scalata al clan

    Si è raccontato del rapporto di Marisa con suo padre, della ‘scalata’ nei primi anni 90 ai vertici della famiglia Serraino di una Marisa appena ventenne e sposata con Bruno Merico, fedelissimo della nonna e del padre, prima come ‘banchiera’ della famiglia e poi come emissaria della famiglia anche all’estero. In seguito al pentimento di sua zia Rita Di Giovine, nel 1993, che ha inflitto un colpo quasi mortale a tutto il clan, Marisa scappa in Inghilterra e nel 1994 viene arrestata con l’accusa di riciclaggio (1.9 milioni di sterline in un conto in Svizzera usati per l’acquisto di un’abitazione). Marisa sconterà tre anni a Durham in carcere tra altre donne ‘pericolose’, tenute a regime carcerario particolarmente duro.

    La piccola Marisa Merico in braccio a suo padre Emilio Di Giovine

    La seconda vita in Inghilterra

    La seconda vita di Marisa inizia qui. Uscita dal carcere, completerà una laurea triennale in criminologia all’università di Lancaster, è intanto diventata madre due volte.

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    Marisa Merico il giorno della sua laurea

    In Italy vs Merico, il tribunale amministrativo inglese, che nel 2011 decise di non concedere l’estradizione di Marisa all’Italia per il completamento della sua sentenza di condanna, non menziona mai né la parola mafia, né la parola ‘ndrangheta. E conclude che Marisa è «nonostante il suo passato criminale, una madre responsabile e una figlia devota». Marisa ha svoltato. Oggi utilizza la sua particolare esperienza di vita per spiegare cosa, per lei, sono crimine organizzato ed esperienza carceraria. E come si passa da essere principessa di ‘ndrangheta, il suo brand, a donna ‘normale’, laureata in criminologia, quasi attivista, a Blackpool.

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    Maria Merico con sua nonna Maria Serraino

    Nonna Maria e mamma Patricia

    Ora che Bang Bang Baby è disponibile su Amazon Prime, e la storia di Marisa è nuovamente alla ribalta, è forse necessario provare a riallineare qualche elemento di questa storia. C’è infatti un lato dimenticato nella narrazione che se ne fa. E cioè la dimensione inglese dell’identità di Marisa, e di sua madre Pat.

    La prima cosa che incuriosisce è come i giornali inglesi raccontano di questa storia. E soprattutto quali giornali inglesi. Si tratta per lo più di tabloid, giornali che cercano il sensazionalismo con molte foto e con titoli risonanti, dal The Sun al Mirror al Daily Star. La storia è considerata una storia di costume, chiaramente schiacciata sulla dimensione criminale mafiosa. Che però non è né compresa, né tantomeno raccontata criticamente.

    Tanta Italia, poca Inghilterra

    Il Daily Mail parla di una “Milan ‘Ndrangheta Gang”; il The Sun compara la nonna Maria Serraino al Padrino. Si legge chiaramente in queste storie che a fare notizia è l’influenza che la mafia ha avuto su questa ragazza prima-donna oggi di Blackpool. Non si chiede mai il contrario, e cioè l’influenza che essere cresciuta a Blackpool – una tipica cittadina balneare inglese spesso raccontata (in modo eccessivo e stereotipato) come uno dei posti peggiori, e uno dei più violenti, in cui vivere in Inghilterra – possa avere avuto su una Marisa ragazzina che andava e veniva da Milano e dalla ‘ndrangheta.

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    Il lungomare di Blackpool

    Cos’è che non “tornava”, cos’è che appariva strano o diverso o anche uguale e familiare della calabresità milanese della ‘ndrangheta di famiglia a questa donna che per devozione al padre e alla nonna ha scelto vie criminali? E, ovviamente, non si chiede poi mai nulla su Pat, la donna inglese che si era trovata a cercare di capire cosa volesse dire entrare nella famiglia Serraino a Milano con una figlia destinata a far parte della ‘ndrangheta. Sicuramente avrebbe avuto molto da dire Pat, prima della sua morte nel 2012.

    Tabloid e pregiudizi

    Per i tabloid inglesi la storia di Marisa Merico, suo padre Emilio, sua nonna Maria e tutti gli altri personaggi, è interessante perché permette di consolidare sia i pregiudizi che si hanno sulla mafia – esterna – diversa – ‘fenomeno-che-non-ci-riguarda’ – seppur condita di un ingrediente in più, Blackpool, sia i pregiudizi sulle donne che commettono crimini e finiscono in carcere per questo.

    Per dirla diversamente, l’esperienza di Marisa come esperienza di donna, e madre, di Blackpool, che uscita dal carcere ha studiato e, sicuramente non senza fatica, ha provato a tenere insieme tante diverse identità, passate e presenti, e (tramite i suoi figli) anche future, passa in secondo piano rispetto alla sua esperienza come donna di ‘ndrangheta, come principessa di mafia, come detenuta speciale.

    Le donne appiattite

    E non solo; l’immagine di Marisa come “scolaretta” di Blackpool (“schoolgirl” nel titolo del Daily Mail) catturata nelle trame sinistre di un “sindacato criminale”, o come “un’ordinaria casalinga di Blackpool che si è trovata a gestire l’impero criminale di famiglia” (sul Mirror) ancora una volta appiattisce la realtà della criminalità al femminile su un’immagine della donna come vittima degli eventi e in balia di scelte che non comprende o che sono più grandi di lei.

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    Marisa Merico (foto Chloe Dewe Matthews per il Sunday Times)

    In Bang Bang Baby, forse si fa un passo in più in questo senso, cioè si rimette al centro la storia di una donna complessa, mai totalmente condannabile ma nemmeno totalmente assolvibile. Però, il problema di narrare l’inglesità della protagonista è qualcosa che anche la serie italiana non sa recepire.

    Le mille identità scomparse di Marisa Merico

    La serie che racconta della teenager Alice (cioè Marisa) e delle sue esperienze criminali milanesi dal punto di vista fluido-pop della mente adolescente della sua protagonista, racconta la ‘ndrangheta ancora con tanti stereotipi (alcuni anche borderline razzisti sui calabresi a Milano, ma questa è un’altra storia…) e senza la dimensione inglese della sua protagonista, che invece viene fatta ‘partire’ dall’hinterland milanese. Sicuramente la storia di Marisa Merico, una storia che tenga insieme tutte le identità di questa donna, il suo accento inglese e il suo sangue calabrese, il suo essere figlia, madre, mafiosa, detenuta, studentessa universitaria, attivista, narratrice, non è stata ancora del tutto raccontata.

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    Il cast di Bang Bang Baby
  • STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

    STRADE PERDUTE| Darwin, cliniche e alture a Belvedere

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    Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».

    Darwin a Belvedere

    Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
    Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.

    Un Belvedere anche senza mare

    Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).

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    Belvedere Marittimo e la sua spiaggia

    D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.

    “La Carrera del Diavolo”

    Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.

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    L’ingresso della Grotta della monaca

    Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.

    Fantasmi a Belvedere

    Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
    A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.

    Le masserie abbandonate

    Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.

    Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.

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    Calabaia, all’inizio della speculazione edilizia

    Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.

    Le villette col pianoforte in giardino

    C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.

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    Palazzo De Novellis, presso Capo Tirone

    La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.

    Stracalabria tra porcili, vacche e vino 

    Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.

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    L’Alimentari nel nulla, Contrada S. Andrea (foto L.I. Fragale)

    Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.

    Neve a Belvedere

    Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.

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    Un pino loricato lungo il sentiero per Serra La Croce (foto L.I. Fragale)

    Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.

    La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.

    Progetto del Santuario incompiuto, presso contrada Trìfari

    Monte Cannitello brucia

    E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?

     

  • BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

    BOTTEGHE OSCURE| Padroni e schiavi della liquirizia calabrese

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    La liquirizia di Calabria è uno di quei prodotti che non temono confronti. Aromatizzata o in purezza, dura al pari dei sassi, gommosa oppure in polvere, la liquirizia calabrese fa oggi sfoggio di sé da New York a Dubai, “regina” di aeroporti e stazioni. La propongono a prezzi anche decuplicati rispetto all’origine. D’altronde è indiscutibilmente “oro nero”. E, in quanto tale, cela una storia grandiosa, avvincente però amara, nonostante le scene accattivanti stampigliate sulle confezioni dal gusto retro.

    La liquirizia dell’abate

    Per la sua capacità di radicarsi selvaggiamente su terreni complicati, ma anche per la mole di quattrini che fruttava ai latifondisti-produttori una volta lavorata, la radice di Glycyrrhiza glabra stava sempre tra le mascelle e nelle cronache dei molti viaggiatori stranieri che attraversarono la Calabria negli ultimi secoli. Probabilmente il “testimonial” più autorevole è l’abate de Saint-Non, che in Voyage pittoresque… s’insinuò insieme a un drappello d’intellettuali francesi nei conci di liquirizia di Corigliano.

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    Vue d’une Fabrique de Reglisse à Corigliano. Incisione dall’opera di Saint-Non, 1786

    Da questa esperienza fatta nel 1778 ricavò un’incisione raffigurante l’interno di un concio, rappresentato come un antro oscuro nel quale bollivano enormi caccavi contenenti radici di liquirizia semilavorate. Tutt’intorno, tra i fumi prodotti dalla bollitura, i lavoratori erano intenti a spaccare la legna, attizzare il fuoco, mescolare, trasportare…

    Come gli schiavi delle Antille

    Ogni concio era un cosmo a sé stante. Impiegava gente addetta alle mansioni più disparate tanto da dare l’idea di un vero e proprio centro abitato: «In ogni concio è un fattore, sedici concari, un capoconcaro, un trinciatore, sei molinari, un falegname, due acquajuoli, un pesatore di legna, un fanciullo marchiatore e sedici impastatrici. Accrescete a costoro i mulattieri che someggiano legna, i contadini che scavano la radice, e già un concio vi darà l’aspetto d’un piccolo paese». È il solito autore de Il Bruzio, Vincenzo Padula, ad accompagnarci in un viaggio alle radici di una “bottega oscura” per davvero.

    Per sei mesi l’anno, da novembre/dicembre fino a maggio, uomini e donne lavoravano duramente giorno e notte, e le paghe variavano in base alla mansione. Mentre il “capoconcaro” poteva superare le 50 lire al mese, i “concari” e i “molinari” non raggiungevano le 30 lire. Una lira al giorno per un lavoro del quale, sempre secondo Padula, «l’inumano governo che se ne fa persuade a chi visita un concio di trovarsi tra gli schiavi negri delle Antille». Alla modesta paga giornaliera si aggiungeva poi il vitto: quattro chili di olio «per lume e condimento» e una mancia di sei chili di «carne porcina al Carnevale».

    Niente mance per le donne

    L’avarizia dei proprietari aveva tolto ai lavoratori i due barili di vino che si concedevano all’apertura del concio e altre mance «a Natale ciascuno uomo toccava mezzo chilogramma di olio ed altrettanto di farina per far frittelle; a Capodanno una ricotta; a Carnevale una libbra di formaggio, e due di maccheroni, ed a Pasqua un chilogramma di carne di agnello».

    Alle donne, neanche a dirlo, toccava la condizione peggiore. Alle impastatrici, ad esempio, non spettava alcuna mancia. Spesso le donne giungevano ai conci insieme ai padri o ai mariti, altre volte erano «avventuriere». I “concari”, infatti, arrivavano da luoghi lontani e trasferivano lì l’intera famiglia, compresi asini, gatti e galline. Era invece “bandito” portare i maiali. Il lavoro delle impastatrici consisteva nel rimescolare con i polsi la pasta di liquirizia bollente su di un tavolo, ungendosi le mani con dell’olio per non scottarsi e cercando di fare arrivare la pasta alla giusta consistenza.

    Il concio è un lutto

    A differenza di altri lavori, nel concio non era permesso ridere e cantare. «Il Concio è un lutto», dichiarava a Padula una giovane impastatrice di Longobucco. Donne e uomini vi vivevano separati, anche se sposati: «Qui le mogli si dividono barbaramente dai mariti, e questi per vederle alla macchia pagano una multa». Trovarsi fuori all’orario di chiusura del concio, infatti, impediva di farvi rientro fino alla mattina dopo, e al rientro si doveva pagare una ammenda. La situazione era quasi inumana e i fattori facevano il bello e il cattivo tempo. Ma in molti, soprattutto tra i braccianti che nella stagione invernale vedevano scarseggiare il proprio lavoro, erano disposti a spostarsi anche di decine di chilometri pur di guadagnare qualcosa.

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    Corigliano, concio di liquirizia dei baroni Compagna. Foto Fb ‘Centro Storico Corigliano’

    Gli abitanti dei Casali di Cosenza, ad esempio, lasciavano i propri luoghi per recarsi a lavorare nei conci, non senza difficoltà. Non si stupiva perciò il letterato di Acri che in molti non vedessero l’ora che arrivasse la bella stagione «per pigliare il mestiere del brigante, o del manutengolo». Anzi, lo stesso Padula invitava i padroni ad avere atteggiamenti più umani: «Proseguite pure, miei bei signori Calabresi, a far così inumano governo della povera gente, e poi gridate, ché ne avete ben d’onte, che vi siano briganti i quali vi sequestrino».

    Non solo Jonio: la liquirizia in Calabria

    Le radici di questa pianta si sviluppavano anche spontaneamente «in terreni pliocenici e quaternari», in particolare sul versante ionico della valle del Crati, del Neto e nel Marchesato fino al fiume Alli. Il circondario di Rossano, con la «vasta pianura volta a tramontana tra Corigliano e Rossano» la faceva da padrona. Ma la pianta era diffusa anche nei territori di Terranova da Sibari, Malvito, Cassano, Spezzano Albanese. Anche in provincia di Reggio Calabria si poteva trovare nei terreni incolti.

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    Concio dei Longo a San Lorenzo del Vallo. Foto pagina Fb ‘La Peschiera’

    Durante l’Ottocento i conci si moltiplicarono e le condizioni di lavoro conobbero un miglioramento. Tra gli stabilimenti più importanti si confermavano quelli di Capo Rizzuto, nei pressi di Crotone, e quelli di Rossano e Corigliano. Fabbriche di pasta di liquirizia a fine secolo si trovavano anche a Castrovillari, Altomonte, Fagnano Castello, Bisignano, Cassano, Cervicati, Cerchiara, San Lorenzo del Vallo, quasi tutte legate allo spirito imprenditoriale delle famiglie facoltose.

    Le fabbriche di liquirizia

    Nel 1894, secondo i dati forniti da Giovanni Sole, nella provincia di Cosenza erano operative 9 fabbriche di liquirizia. Ben tre erano a Corigliano, di proprietà del principe Nicola Gaetani, del barone Francesco Compagna e di Guglielmo Tocci. Mosse da motori a vapori o idraulici, tutte e tre producevano quasi duemila quintali di liquirizia all’anno e impiegavano 193 operai. A Rossano erano presenti le fabbriche di Giuseppe Amarelli, che da sola dava lavoro a 66 operai, di Giuseppe Martucci e di Gennaro Labonia. A Cerchiara era attivo l’opificio del principe Pignatelli, a San Lorenzo del Vallo quello di Giulio Longo e a Rende quello di Tommaso Zagarese.

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    La fabbrica di liquirizia Zagarese a Rende. Foto gruppo “Il Senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza”

    Meritano una menzione le due fabbriche esistenti in provincia di Reggio a metà Ottocento. Una a Gioiosa, del signor Macrì, e una a Stignano, del signor Baracca. Lavoravano la liquirizia che cresceva spontanea nei territori di Bianco, Bovalino e Riace, dove per la raccolta spesso giungevano «vanghieri cosentini».

    Regalìzia

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    Archivio Centrale dello Stato, Roma. Marchio liquirizia Zagarese, 1956

    È interessante notare come la liquirizia calabrese venisse soprattutto esportata, mentre a livello locale la regalìzia, come veniva chiamata in dialetto, era consumata pochissimo, salvo qualche panetto che veniva comprato dai ragazzi come «ghiottoneria» e dagli «infermi per espettorante». All’estero era molto ricercata, invece, in Inghilterra, Germania, Belgio, Austria, Ungheria e perfino in Russia e Olanda.
    Nota dolente restavano i trasporti. Il barone Compagna di Corigliano beneficiava di tariffe ferroviarie speciali per il trasporto del suo “sugo di liquirizia” da Taranto a Napoli. Ciò voleva dire che dai conci di Corigliano il prodotto doveva giungere con altri sistemi fino a Taranto.

    Ancora agli inizi del ‘900, comunque, la coltivazione e lavorazione della liquirizia costituiva in provincia di Cosenza una discreta fonte di reddito. Dai dati di una inchiesta del 1908, ad esempio, si ricava che, lasciando la radice a dimora per più anni, da un ettaro si potevano ricavare tra i 300 e i 500 quintali di radici grezze.

    Liquirizia: dall’oscurità al grande schermo

    Delle diverse fabbriche di liquirizia operanti in Calabria, solo in poche riuscirono a superare le peripezie del secondo dopoguerra. Se la Zagarese di Rende oggi opera col nome di Nature Med, altre piccole aziende lavorano e commercializzano il prodotto. Da alcuni anni le imprese del settore hanno costituito il Consorzio di Tutela della Liquirizia di Calabria Dop.

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    Interno del Museo della Liquirizia Giorgio Amarelli, Rossano

    La regina indiscussa rimane tuttora la secolare Amarelli di Rossano, la cui epopea familiare e imprenditoriale legata alla liquirizia smerciata (e apprezzata) in tutto il mondo è raccontata nel docu-film Radici presentato nei giorni scorsi al Cinema Citrigno di Cosenza: «Un viaggio reale, in automobile con due amici, che poi si è trasformato in un viaggio nel tempo. E a guidarci è stata proprio la liquirizia. Così, seguendo i solchi segnati nel terreno dai rizomi, attraversiamo secoli di storia, di arte, di cultura, nella terra indissolubilmente legata alle dolci radici sotterranee: la Calabria ferox. Radici come rami sotterranei. Radici come origini di una terra sempre da riscoprire» ha dichiarato il registra Fabrizio Bancale.

    La locandina del film-documentario “Radici” di Fabrizio Bancale
  • MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

    MAPPE| Massoni e comunisti, cibo e atelier: le mille vite dei Rivocati

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    Alle sei del pomeriggio una quindicina di ventenni, in cerchio, discute animatamente in un magazzino di via Rivocati. Non parlano dell’ultimo trend di TikTok né della mise di Damiano dei Maneskin e nemmeno di chi vincerà lo scudetto, ma molto probabilmente della crisi russo-ucraina. È la federazione dei giovani comunisti: il che sarebbe già una notizia se non fosse che tutto ciò accade in uno dei quartieri più marginali eppure – o forse, proprio per questo – affascinanti della città.

    Era il cuore della “Cosenza città di provincia”, ma con cinque cinema, raccontata da Stefano Rodotà, che proprio in questo quartiere, nel palazzone nobiliare di via Sertorio Quattromani, crebbe e maturò prima del grande salto a Roma.

    I ragazzi della Federazione dei giovani comunisti animano il dibattito pubblico del quartiere (foto Alfonso Bombini 2022)

    Prologo. Tre fiere: il commercio nel dna del quartiere

    “Fino a tutto il 1300 e il primo quarto del 1400 Cosenza non superò le sponde dei due fiumi tranne che con il borgo dei Rivocati al di là del Busento, a nord, nella zona pianeggiante occidentale”, scriveva Enzo Stancati nel primo dei quattro volumi di Cosenza nei suoi quartieri (Luigi Pellegrini editore, 2007): nel Duecento, dal 21 settembre al 9 ottobre vi si teneva la fiera annuale dei santi Matteo e DionigiFederico II elesse nel 1234 Cosenza una delle sette sedi delle esposizioni generali del regno con Sulmona, Lucera, Capua, Bari, Taranto e Reggio – con lana e oreficeria tra i prodotti in vendita e soprattutto seta (qui “si stabiliva il prezzo del prodotto che poi veniva accettato dalle altre fiere”).

    Già nel 1416 era il luogo della fiera della Maddalena (iniziava il 22 luglio e durava 15 giorni), poco dopo il convento dei Domenicani – dove transiterà Tommaso Campanella – contribuirà a farne abitato popolare in espansione, tra commercianti e artigiani, ortolani e fornaciai “insediati a debita distanza dai cittadini più abbienti, accanto all’acqua del fiume necessaria al loro lavoro”.
    Una terza fiera stagionale (Annunziata, dal toponimo della piana oggi ereditato dall’ospedale) “accordata da Filippo II con un privilegio del 4 agosto 1555 (…) in base a un documento del 1839 (…) si svolgeva in un solo giorno, il 25 marzo, in piazza San Domenico”.

    Perché Rivocati?

    Il compianto storico di Lago racconta anche che questo “quartiere suburbano” era “collegato al nucleo urbano dal ponte – poi appunto detto “delli Rivocati” – che immetteva direttamente in città mediante l’antica via consolare (oggi corso Mazzini, ovvero isola pedonale, ndr). Nella zona (…) si rinvennero nel 1840 i resti di un pilone di ponte romano, forse un secondo ponte sul Busento, che aggirava l’abitato e, circuendo il Pancrazio, conduceva forse a Portapiana”.

    Le tracce romane si ritroverebbero anche nella conformazione ortogonale delle strade, con via Rivocati asse principale e viale dei Platani e Viaròcciolo – oggi rispettivamente corso Umberto I e via Piave – assi paralleli procedendo verso nord.
    E l’etimologia dei “Rivucati”? Vexata quaestio: dialettizzazione di “ad rivum casae” (umili casupole a ridosso del fiume) o toponimo riferibile alla “revoca” della decisione di un feudatario limitrofo, tra XII e XIII secolo, di negare la concessione abitativa ai cosentini in questo lembo demaniale e non infeudato?

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    La statua dedicata a Lucio Battisti (foto Alfonso Bombini 2022)

    1. Dal puttan-tour ai servizi segreti

    Corsi e ricorsi: Stancati cita cronache del 1891 che riportano “reclami per la nettezza urbana trascurata” mentre “nel 1893 si lamentavano schiamazzi notturni e indecenza igienica”.
    Quegli stessi “Rivucati”, un secolo fa zona di cantine e accoltellamenti ma anche bagni nel Busento non ancora irreggimentato, oggi cercano una nuova identità: una spinta arriva dalla recente intitolazione a Battisti dei “giardini di Lucio”, con tanto di accenti sbagliati nei titoli riportati sulla scultura bifronte inaugurata da Mogol, ma un primo segnale di agognata renaissance – l’ennesima, dopo i bombardamenti e il degrado sempre dietro l’angolo, letteralmente – si era avuto già con l’inaugurazione in pompa magna del “distretto di cybersecurity” nella vecchia e sontuosa sede delle Poste, alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi (era il 2015).

    Una raccolta di foto e stampe tratte dal gruppo Fb “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”

     

    Fu allora che arriat’ii poste virò da toponimo di pecorecce iniziazioni sessuali perlopiù verbali a polo di alta tecnologia con una spruzzata di servizi segreti. Un mood da spy story reso ancora più attuale, qualche giorno fa, dall’ufficializzazione della destinazione d’uso del palazzotto liberty di via Trento restaurato alla grande nell’ultimo anno e sul cui ingresso – incastonato tra due alti cipressi appena posti – troneggia finalmente, dopo iniziali chiacchiericci e segreti di Pulcinella finali, la scritta Grande Oriente d’Italia. Il mega-tempio massonico a un paio di metri dal palazzo comunale. Giusto per titillare le battutine dei detrattori del neo-sindaco Franz Caruso esponente di spicco proprio del Goi — dìciche.

     

    2. Il vecchio che resiste al brutto modernista

    Il tappeto multicolor di piazza Riforma che in pieno stile-Penelope dell’evo occhiutiano (scascia e conza, scascia e conza…) se ne sta già venendo via, è il segno dei tempi: ricorda la pavimentazione stradale attorno a piazza Bilotti, che si sfonda in virtù di implacabili leggi di obsolescenza simili a quelle che regolano la durata dei frigoriferi: con la differenza che quei blocchi di pietra si sfondano e vanno cambiati ogni 2, 3 mesi mentre l’elettrodomestico almeno a dieci anni ci arriva.

    Ai Rivocati, al contrario, alcuni manufatti resistono agli anni, alle intemperie e al cemento che avanza sbranando le antiche vestigia: da decenni abbevera i viandanti, per esempio, la fontanella resa iconica da uno scatto in b/n del compianto Fabio Aroni, zampillo che in un angolo della fu via Montello (oggi Davide Andreotti, storico) con via Pasubio serviva gli espositori del fu mercatino ortofrutticolo oggi rimpiazzato da uffici di nuovissima costruzione dell’Azienda ospedaliera e altro.
    È invece sparita da un paio d’anni la targa Cristiani Banane – altrettanto iconica – che svettava qualche metro più avanti. Era il quartiere dei commerci, qualcuno dei quali è oggi rimasto, come vedremo. Palazzoni moderni sono entrati a gamba tesa, con esiti alterni, tra i vecchi palazzi sventrati dalle bombe del 1943.

    3. Cultura, in attesa del pubblico il privato si organizza

    Il cine-teatro Italia Tieri, una delle strutture cittadine in cerca di identità, è il fulcro di una zona che galleggia tra innovazione e abbandono: proprio davanti all’ex Gil, edificio figlio del Ventennio, ecco il Centro di Salute mentale: non proprio l’Eden per chi ha bisogno di cure.
    Attorno, accanto ad altri poli istituzionali come la Casa della Musica collegata al conservatorio Giacomantonio, non mancano le nuove iniziative private: sta per partire l’Atelier AC (iniziali di Adele Ceraudo, artista cosentina celebrata anche oltre i confini calabresi) su corso Umberto; alle spalle, sullo stesso isolato, c’è quello di un’altra artista: Luigia Granata (via Davide Andreotti 23).

    Il cine-teatro Tieri diventato rifugio per i senzatetto

    Sul lato opposto della strada, in pochi metri sullo stesso marciapiede troverete le officine visuali “Ovo” di Andrea Gallo e la sede della Fgci e, a breve, la nuova sede della casa editrice Coessenza, già galleria d’arte Vertigo dove una ventina di anni fa trovarono nuova collocazione e linfa gli esponenti del “Laboratorio delle due anime” raccontato da Concetta Guido nell’omonimo libro edito da Le Nuvole (2001).

    La targa che ricorda lo scrittore Nicola Misasi

    Un passaggio poco prima della casa in cui visse Nicola Misasi “illustre scrittore calabrese” (1850-1923) conduce nella sede di Tecne, lo studio musicale di Costantino Rizzuti, cerebrale sperimentatore di suoni.
    Sono tutti soggetti che operano con dedizione e nel silenzio ma meriterebbero qualche attenzione.

    4. Negozi: chi ha chiuso e chi resiste reinventandosi

    Se il mitologico Cimbalino, cantato anche da Totonno Chiappetta, ha chiuso poco prima del traguardo delle 70 candeline (le avrebbe spente l’anno prossimo), come pure il salone del barbiere presente poco distante dal 1955, altre insegne storiche come Montalto sport (dal 1937) si sono reinventate adeguandosi, in questo caso, al mercato delle bici elettriche.

    Poco lontano, il negozio di cordami Mazzuca – tempio degli imbottigliatori e dei preparatori di conserve – ha ceduto il posto a un ristorante (CalaBry, via Sertorio Quatromani / piazza Tommaso Campanella) mentre si sente anche la mancanza della bancarella-cappelleria all’innesto nord del ponte Mario Martire.
    Fratelli Bruni (via Trento 7) è un’insegna che in questo 2022 festeggia i 130 anni. Un altro Bruni (corso Umberto, di fronte al Gran Caffè Renzelli) si vanta ancora oggi di essere l’unico concessionario di Borsalino. Insegna vintage che fa il paio con il lezioso lettering della cartoleria Morano, un civico prima.

    Caso a parte Scarpelli, che dal 1946 a oggi si è trasformata da bottega di quartiere – carattere che ancora conserva per la clientela autoctona – a tappa gourmand, tra cantina sconfinata e prodotti localissimi o internazionali di fascia altissima. Nell’arco di tre quarti di secolo ha annesso locali su locali creando infine un isolato interamente dedicato al gusto. Degno dirimpettaio il rivenditore di sale Borrelli, che non rinnega il piccolo spaccio accanto alla presenza nella grande distribuzione. Ma qui siamo già entrati di diritto in zona cibo.

    5. I Rivocati a tavola (da 10 euro in su)

    Nel quartiere bifronte potrete concedervi una tappa cosentinissima dal crapàro (trattoria Miseria e Nobiltà, largo dei Visigoti / Lungobusento Tripoli) e da Grandinetti (via Sertorio Quattromani 32, dove la leggenda vuole che il conto sia sempre di 10 euro) oppure una serata super-chic nel neonato Fellini (via Trento 15), dove se siete fortunati trovate anche la musica dal vivo.
    Negli anni novanta la rosticceria Reda, a gestione familiare, sfornava – si fa per dire: era tutto frittissimo – panzerotti a ciclo continuo: adesso i locali sono tra i tanti della zona in affitto.

    È però questa tutta una zona a tale vocazione gastronomica che potrete trovare ristoranti anche in due civici attigui (è il caso de Il paesello e A gulìa, su via Rivocati 95 e 91) oppure uno di fronte all’altro (Tina Pica e Osteria gemelli Tucci al 104 e 102).
    Da segnalare infine due presenze, una storica e una recentissima: EnoBruzia, l’apprezzato spaccio di vini di Lattarico per tutti gusti e le tasche, e il panificio l’Aurora, punto vendita dell’azienda Carelli che evidentemente ha intuito la vocazione di un quartiere vecchio 800 anni eppure dinamico come pochi altri. Il quartiere dei fornai e delle fiere.

    Silverio Tucci, chef dell’omonima osteria nel quartiere Rivocati

    COSA VEDERE

    Il giardino della Banca d’Italia (corso Umberto) curato nei minimi dettagli davanti a un edificio maestoso ma vuoto è uno dei simboli della città sospesa tra inespresse potenzialità e triste realtà.

    DOVE COMPRARE

    Siamo nel quadrilatero compreso tra il Renzelli a due passi dal municipio (assolutamente da provare la varchiglia) e la bottega delle meraviglie di Scarpelli: bisogna solo scegliere.

    DOVE MANGIARE

    Anche in questo caso tocca solo scegliere: consigliamo un tuffo nella cosentinità del crapàro o di Grandinetti, ma anche il pesce dell’osteria dei gemelli Tucci.

    (1. continua)

  • MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

    MAFIOSFERA| Rinascita-Scott: perché piace tanto alla stampa estera (e meno a quella italiana)?

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    Il 21 aprile scorso, sui canali della Australian Broadcasting Corporation (ABC) per il programma Foreign Correspondent è andato in onda The Magistrate vs The Mob (Il Magistrato contro la Mafia), un documentario di 30 minuti sul maxiprocesso Rinascita-Scott. Preceduto da un articolo che ne delinea il contenuto, e con la professionalità che contraddistingue il programma e in particolare le produttrici di questo episodio, il documentario spalanca all’Australia le porte del Vibonese e della sua ‘ndrangheta ora a processo.

    Rinascita-Scott, il documentario australiano

    Con immagini mozzafiato catturate da un drone su Tropea e Capo Vaticano, per poi aggiungerci lunghe riprese su Vibo Valentia città, sulle campagne intorno a Limbadi, sui vicoli di Nicotera, l’episodio inizia dicendo «la Calabria è una terra di feroce bellezza». Il resto del documentario vede riprese a Catanzaro, con il procuratore capo Nicola Gratteri, a cui il maxiprocesso è notoriamente legato, nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per Rinascita-Scott, e sul resto del territorio per incontrare vittime di poteri e soprusi mafiosi e anche ovviamente mostrare quella resistenza civile che, seppure ancora ai primi passi, dopo Rinascita-Scott si è sicuramente formata. Il risultato sono 30 minuti godibili, con belle immagini e note emotive, e anche, prevedibilmente, una serie di commenti stereotipati sui rapporti tra mafia e territorio.

    L’equivoco iniziale e il piano B

    Sono stata invitata a fornire una consulenza per il programma nel gennaio scorso. L’interesse dell’Australia per la ‘ndrangheta non è certo cosa nuova, visto che il paese conosce il fenomeno mafioso calabrese da quasi un secolo e – a volte con più serietà, a volte con molta meno attenzione – fa i conti con una ‘ndrangheta locale dalle molte sfaccettature. Ma i produttori non mi avevano contattato per la ‘ndrangheta australiana, bensì per Rinascita-Scott. «Ci sono dei collegamenti con l’Australia?», mi chiesero. Cercavano un aggancio alla loro ‘ndrangheta, che però in questo processo non c’è – o se c’è non appare affatto chiaro.

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    Il boss Pasquale Barbaro, ucciso a Sidney nel 2016

    Dopo aver precisato che questa era un’altra ‘ndrangheta – vale a dire un processo sulle dinamiche di clan mafiosi del Vibonese – che per quanto collegati alla ‘ndrangheta reggina, preponderante in Australia, non guardava precipuamente a queste connessioni – il programma è stato virato sul territorio ‘straniero’, sul processo, sul procuratore Gratteri (come rivela già il titolo), con buona pace della ‘ndrangheta australiana.

    Rinascita-Scott: Italia vs Resto del Mondo

    Questo documentario è l’ultimo di una lunga serie di articoli, video, interviste, reportage, che svariate televisioni e testate giornalistiche straniere hanno dedicato a Rinascita-Scott dal 13 gennaio 2021 quando il processo è formalmente iniziato. Decine di notiziari, in inglese, francese, tedesco, turco, spagnolo, portoghese. Anche dopo il gennaio 2021 l’interesse è rimasto alto, basti pensare al reportage di France24 titolato A trial for the history books (Un processo per i libri di storia) del gennaio 2022.rinascita-scott-fran

    Al contrario, sui giornali o sui canali di informazione italiani, a parte qualche notevolissima eccezione (pensiamo alla puntata di Presadiretta nel marzo 2021 dedicata al maxiprocesso), gli articoli si limitano primariamente alla cronaca, raramente sul nazionale, molto più spesso sul locale. Ed ecco che per alcuni l’interesse della stampa internazionale al processo è segno incontrovertibile che all’estero prendono sul serio l’antimafia e riconoscono il carattere destabilizzante di Rinascita-Scott, mentre in Italia questo non accade.

    La retorica su Gratteri

    Alcune malelingue poi mettono il carico da novanta, riconducendo il disinteresse italiano al processo (comparato all’attenzione dall’estero) a implicite prese di posizione ‘pro-Gratteri’ o ‘contro-Gratteri’. È questa una retorica di pessimo gusto, perché ovviamente non può e non deve esistere uno spazio del ‘contro-Gratteri’ in questo contesto, essendo il procuratore un bravo magistrato, al pari di tanti altri suoi colleghi, avendo egli la capacità (per alcuni il demerito) di dare alle istituzioni calabresi molta visibilità. Ma soprattutto un processo non si identifica mai con il Procuratore Capo della Procura che l’ha istruito. Specie questo processo che di procuratori, magistrati, funzionari, avvocati e, soprattutto imputati, ne ha davvero tanti.

    Quei maxiprocessi tutti italiani

    La domanda però sorge spontanea: qual è la ragione dei riflettori puntati dall’estero sul processo Rinascita-Scott, a confronto di un interesse molto più scarso in Italia? La risposta non è semplice; possiamo scomporla in quattro diverse componenti, tecniche e culturali.

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    L’aula bunker del maxi processo calabrese

    Una prima componente sono i numeri e le caratteristiche del processo. Sicuramente vedere un processo con oltre 350 imputati, dozzine di avvocati, decine di collaboratori di giustizia, al punto da dover costruire un’aula bunker ad-hoc per contenerli tutti, non è spettacolo quotidiano. E uso appositamente la parola ‘spettacolo’. Se per l’Italia questo non è il primo né l’unico processo di grandi dimensioni – anche dopo il maxiprocesso di Palermo infatti ricordiamo Crimine-Infinito, Aemilia e altri processi con oltre 100 imputati – fuori dall’Italia questi numeri sono molto inusuali, se non impossibili, in un’aula di giustizia.

    La giustizia si fa spettacolo

    La giustizia (altrui, cioè la nostra in questo caso) si fa dunque spettacolo proprio per questo profilo di straordinarietà. Non scordiamoci poi che in molte giurisdizioni non esiste l’istituto per noi costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione legale. Soprattutto nei sistemi anglosassoni il pubblico ministero va a processo quando ha una quasi certezza di vittoria dell’accusa (altrimenti si patteggia o si archivia per mancanza di prove o per assenza di ‘interesse pubblico), per questo nel 90% dei casi vince e ottiene condanne.

    La tortuosità del sistema italiano, con processi abbreviati, ordinari, appelli, controappelli, rende difficile raccontare i processi, perché appunto non si sa come andranno a finire, se l’accusa reggerà oppure no, e di solito si dovranno aspettare molti anni per saperlo. Ma in questo caso il processo si può spettacolarizzare e non solo raccontare, e questo è più facile per gli stranieri che per noi italiani.

    L’eroe contro l’antieroe: Gratteri e Mancuso

    Una seconda componente è la simbologia della classica contrapposizione tra l’eroe e l’antieroe, e conseguente glorificazione del primo e dannazione del secondo. Non è un caso che i media esteri si focalizzino sul procuratore Gratteri. Come non è un caso che alcuni media italiani chiamino in causa quella retorica pro-Gratteri/contro-Gratteri di cui sopra. Sicuramente il procuratore capo di Catanzaro è l’incarnazione simbolica dell’antimafia in Calabria (e oltre), anche perché il suo lavoro è sempre stato diffusamente presentato al pubblico, oltre che nella sua attività di magistrato inquirente, anche a seguito del suo intenso impegno quale autore di libri e protagonista di interventi, dibattiti pubblici, eventi. Ciò favorisce la spettacolarizzazione di un processo che ne esalta l’operato, anche nel racconto delle sue difficoltà di uomo sotto scorta da decenni e ostracizzato da varie parti.

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    Luigi “il Supremo” Mancuso

    All’eroe ecco poi affiancato l’antieroe, che in Rinascita ha un nome e un cognome, Luigi Mancuso, boss di Limbadi e della provincia, onnipresente in articoli e reportage esteri sul processo. Non è il solo boss a processo Luigi Mancuso. Non è neppure la prima volta che va a processo. Eppure spesso, parlando di lui, i media esteri danno a intendere che aver portato Mancuso, l’antieroe, a processo sia una delle vittorie dell’eroe, uno dei caratteri fondamentali di Rinascita. Le due facce, quella del magistrato e quella del boss, spesso affiancate, sono volti nuovi all’estero, meno in Italia e molto meno in Calabria, cosa che ovviamente rende più facile la narrazione giornalistica straniera.

    La ‘ndrangheta ovunque

    Una terza componente è poi la pervasività della ‘ndrangheta sul territorio come viene raccontata in Rinascita-Scott, soprattutto nei rapporti con la politica e le istituzioni. Ecco che all’estero si racconta dell’avvocato, ex-senatore, Giancarlo Pittelli, che accanto ad eroe ed antieroe rappresenta la corruttibilità del potere (e dunque aiuta anch’egli la spettacolarizzazione), e delle vittime, o famiglie delle vittime, della ‘ndrangheta sul territorio, come per esempio Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci ucciso da un’autobomba a Limbadi – vicenda per per cui alcuni membri della famiglia Mancuso sono stati ritenuti colpevoli.

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    Sara Scarpulla e Francesco Vinci, genitori del 42enne ucciso con un’autobomba a Limbadi

    Le vittime invocano, giustificano, l’intervento dell’eroe e rendono più nitida, ancor più stilizzata, la figura dell’antieroe. Fuori dall’Italia questi sono ingredienti fondamentali per creare una storia, mentre in Italia sono tutte cose già viste (purtroppo) nei grandi processi di mafia. I rapporti tra mafia e politica, mafia e vittime, mafia e istituzioni per l’Italia sono costanti delle vicende di mafia, ci si aspetta che emergano anche nei processi; così non è all’estero, dove mafia spesso è ancora ‘solo’ crimine organizzato.

    Paradossalmente la novità di Rinascita-Scott non è il presunto o reale rapporto tra mafia e politica o la pervasività delle famiglie sul territorio, ma semmai il contrario – cioè il fatto che il processo voglia confermare come certe dinamiche siano in corso e pervasive da decenni al pari di altri territori, come il reggino, in Calabria. Su LaC News, nel programma di approfondimento ‘Rinascita-Scott’, questo emerge non appena si inizia a parlare con vari ospiti e scavare negli archivi giudiziari.

    Pietro Comito conduce una puntata della trasmissione Rinascita-Scott su LaC Tv

    Gli stereotipi sulla Calabria

    E qui si arriva alla quarta componente, che è lo stereotipo della Calabria come terra meravigliosa e maledetta. Distante, fonte di nostalgia per i tanti migranti, ma impenetrabile. E soprattutto preda di una mafia potente che ne impedisce sviluppo e progresso. Questo stereotipo, che rende possibile ma non facile relazionarsi con la Calabria per chi non la conosce, non vi è nato o non la studia, assolve tanti (politici, cittadini…) e distorce il potenziale di questo processo. Se il problema è la mafia, certo portare a processo oltre 350 ‘mafiosi’ (perché non è facile poi capire a quanti e a chi tra gli imputati sono contestati reati di mafia) dev’essere un colpo mortale, no? Soprattutto se ci si aspetta, come detto sopra, che vengano condannati.

    La realtà è più complessa

    Per questo Rinascita diventa il processo per i libri di storia. Eppure così non è, come riconoscono sia alcuni magistrati che tanti rappresentanti della società civile, perché la mafia non è il ‘cancro’ di una società altrimenti sana, e l’antimafia giudiziaria non può essere l’unica ancora di salvezza.

    Tra esigenze mediatiche di riduzione della complessità e polemiche sul cono d’ombra informativo, questo processo probabilmente non è stato ancora trattato per come sarebbe auspicabile, tanto in Italia quanto all’estero. Senza spettacolarizzazione, riconoscendo la complessità del territorio, delle sue relazioni sociali e la difficoltà di ‘resistere’. D’altronde, questo non accade spesso anche per gli altri processi di ‘ndrangheta, o di mafia in generale? C’è poco da stupirsi allora.

  • STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

    STRADE PERDUTE| Oriolo: il gioiello che si sgretola

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    Ursulus, Orgilus, Ordeolus, Oriolo Calabro è l’unico comune calabrese a confinare con entrambe le province della Basilicata. L’incrocio in cui i tre confini si incontrano è un innocuo punto in cui un torrente calabrese diventa fiumara lucana: a sinistra Cersosimo (PZ) e a destra San Giorgio Lucano (MT). Il luogo è così anonimo da non essere raggiungibile nemmeno attraverso sentieri o mulattiere. E, del resto, sarebbe anche interessante capire cosa abbia decretato che il Comune di San Giorgio Lucano diventasse materano pur essendo storicamente nato da una costola della potentina Noepoli. Ma tralasciamo…

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    Confini…

    L’exclave stritolata da tre paesi 

    C’è un’altra curiosità legata ai confini amministrativi di Oriolo (peraltro neppure registrata da Wikipedia): è uno dei pochi Comuni calabresi a possedere un’exclave intercomunale. Una propria minuscola zona di montagna, dalle parti del Timpone della Foresta, di chissà quale insondabile importanza, è infatti tutta chiusa tra i comuni di Alessandria del Carretto, Albidona e Castroregio. Misteri…

    La cosa è ancora più bizzarra se si pensa che la stessa Castroregio, a sua volta, ha un’exclave (l’intera frazione di Farneta) completamente circondata dai Comuni di Oriolo, di Alessandria e dalla Basilicata. Scambievoli partite di giro? Exclavi culturali, a pensarci bene, più che geopolitiche.

    Terra di exclavi

    Non vorrei mettermi a fare una lista di tutte le exclavi calabresi, ma me ne vengono in mente almeno altre tre, in provincia di Cosenza. Cerchiara ne ha una lontanissima, confinante con la Basilicata proprio sulla cima del Pollino, anzi, più esattamente sulla cima più alta del massiccio, ovvero la Serra Dolcedorme, mentre sul lato calabrese è chiusa dai Comuni di Castrovillari e di San Lorenzo Bellizzi.

    Mormanno ha una propria zona di montagna chiusa tra i comuni di Laino Castello e di Papasidero. E infine Acquappesa possiede, a notevole altezza, quel piccolo territorio – che racchiude il Monte Pistuolo e due case cantoniere – inserito tra i Comuni di Cetraro, Fagnano, Mongrassano e Guardia Piemontese. Ve ne sono sicuramente altre che mi sfuggono, ma conviene tornare ad Oriolo.

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    La chiesa madre di Oriolo

    Alla base della rupe su cui sorge il centro storico, vicino alla fenditura che lo separa dalla collina adiacente, hanno (ri)visto recentemente la luce i ruderi del convento quattrocentesco di San Francesco d’Assisi. La notizia è passata come una poderosa scoperta, ma in realtà l’ubicazione era nota, i ruderi – e finanche gli affreschiin parte visibili; le fonti confermavano, i vecchi contadini del luogo pure.

    Il fatto è che trent’anni fa erano stati chiusi due occhi per farci passare sopra un ponte. Nel frattempo l’altro convento, quello dei Cappuccini, fa mostra dei suoi ruderi in cima al paese e delle sue suppellettili più preziose nella Chiesa madre di San Giorgio martire, che vale la pena d’essere visitata.

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    Particolare dell’affresco trovato nel sito del convento di San Francesco d’Assisi

    Il dito di San Francesco di Paola

    Altri trasferimenti di reliquie stanno invece alla base di una leggenda che sarebbe l’ora di sfatare. Ovvero quella legata al toponimo “Rivolta del Monaco”, una zona di Oriolo, dalle parti del Ponte Giambardino e di contrada Donnangelo, lungo la vecchia strada che porterebbe ancora al centro storico di Amendolara se non fosse franata anni fa. La tradizione orale e le non meno fantasiose memorie scritte intorno ad alcuni avvenimenti che interessarono le reliquie di S. Francesco di Paola, narrano – e ci si mise anche Vincenzo Padula! – di un monaco recatosi nottetempo nella chiesa del convento per rubare il sacro oggetto (un dito del santo).

    Durante la fuga si sarebbe alzato un vento minaccioso e, giunto il monaco all’altezza dell’attuale accesso alla strada vicinale per le Destre di Pizzi, una pioggia torrenziale avrebbe ingrossato la fiumara del Ferro, rendendone impossibile il guado, cosicché il poveretto avrebbe dovuto (ri)voltarsi indietro nel luogo poi denominato, appunto, Rivolta del Monaco. Peccato che però rivùtu e rivóta significhino ben altro, nel lessico contadino; e che nel Settecento il luogo fosse registrato anche, e più comprensibilmente, come Raccolta del Monaco.

    Tombe e reperti

    E cosa si trova se si risale dalle suddette Destre di Pizzi verso le colline boscose della Rùscola, oramai paradiso dei cinghiali? Tombe “alla cappuccina” venute alla luce durante le campagne archeologiche in contrada Gattuzzo. A due passi da lì, vale la pena soffermarsi ad osservare un altro tipo di reperto “archeologico”: se c’è una riverita archeologia industriale, è il caso di apprezzare anche quella agricola, come appunto un raro esempio di “jazzo” semicircolare per le pecore. Se ne trovano ancora pochissimi, sperduti in qualche campagna più o meno raggiungibile (uno, più integro, si trova presso l’antica Masseria Acciardi, ad Amendolara).

    Peste e rivoluzione ad Oriolo

    E in fondo c’è solo un modo per capire a fondo questo paese: leggerne le cronache seicentesche scritte da Giorgio Toscano. Se ne capisce così l’anima variopinta, la stratificazione sociale e storica. Per farla breve: Toscano, nato intorno al 1630, era un benestante, nobile, e anche un coltissimo giurista. Ad un certo punto della sua vita si mette a scrivere la storia del suo paese, con una dovizia di particolari al limite dell’ossessivo, compreso un intricatissimo resoconto genealogico su tutte le famiglie più in vista: circa 250 anni di storie familiari, ascese, declini, doppi, tripli, quadrupli matrimoni quasi al limite dell’incesto.

    I suoi manoscritti sono stati trascritti e pubblicati intorno al 1996 e meriterebbero maggiore diffusione. Vi è il racconto della rivoluzione del 1647, arrivata fin lì dalla Napoli di Masaniello; della peste che colpì Oriolo nel 1656, quando si seppellirono gli appestati nell’odierna contrada Carfizi; del lago prosciugato dove l’autore, da bambino, andava a pescare; dell’invasione delle cavallette, quando una famiglia si ridusse a cibarsi di un asino morto per malattia; di qualche omicidio “eccellente” nella buona società del borgo. Il tutto cesellato con un linguaggio barocco ma anche alla mano, che non annoia e anzi riesce finanche a divertire.

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    Gli effetti della frana che alcuni anni fa ha interessato parte del territorio di Oriolo

    Caduta libera

    Purtroppo la Oriolo di Toscano è oggi in caduta libera. E “caduta” è il termine più esatto, tenuto presente che la maggior parte delle case più antiche, quelle nel borgo medievale arrampicato sulla roccia, implodono progressivamente a causa dell’abbandono prolungato. Quelle più sfortunate, poste ai bordi dell’abitato – o, meglio, del “disabitato” – franano direttamente a valle, cadendo nel dirupo (“lo garambone sicco” – come lo chiamava Toscano – dall’arabo gharraf, “precipizio con scolo”). È un’erosione lenta, che sgrana i confini del “burgo”, decennio dopo decennio.

    Un vicolo di Oriolo (foto L. I. Fragale)

    E le frane, qui ad Oriolo, hanno lasciato ricordi recenti anche più raccapriccianti: fu il 1° aprile 1973 che a franare a valle fu addirittura il cimitero, con tutte le conseguenze che lascio all’immaginazione di chi legge. No, stavolta l’assenza del trittico giuridico diligenza-prudenza-perizia non c’entra, né è una faccenda solo calabrese. Mi viene in mente l’analogo episodio accaduto appena un anno fa a Camogli, con duecento bare finite in mare; e l’altro, analogo, anni prima, a Fiorenzuola di Focara.

    Oriolo e i cimiteri

    Il vecchio cimitero di Oriolo resta lì, con una grossa catena al cancello. Dal novembre 2018 si può visitare su prenotazione, ma all’interno non resta nulla, se non qualche rudere di cappella che non aveva neppure cent’anni di vita, alcune anche di pregio, e un tappeto decennale di aghi di pino. Il nuovo cimitero è stato costruito in piano (nel punto dove confluiscono due fiumare…), a due passi da quel meraviglioso maniero rinascimentale nascosto tra gli ulivi della valle, ovvero l’ex casino di caccia di Palazzo Santo Stefano.

    Prima che il nuovo cimitero fosse pronto, Oriolo si servì di una sorta di “cimitero temporaneo” di cui resta qualche traccia, da poco recintata, senza alcuna indicazione. Non si spaventi quindi chi dovesse giungere ad Oriolo dalla strada interna che unisce a Montegiordano: è su un prato fuori da un tornante di questa S.P. 147 che a un certo punto vedrà spuntare dal nulla alcune croci di ferro, alcune lapidi, fotografie, date e qualche fiore finto.

    Una piccola Sila jonica

    Alle spalle del paese, si risale invece verso le ben più amene colline e poi verso le montagne del confine. Faccio un paragone azzardatissimo eppure non del tutto campato in aria: quasi non è un pre-Pollino ma piuttosto una piccola Sila jonica, con le sue ville e villette di montagna, alcune anche piuttosto antiche, costruite da e per la borghesia e la nobiltà oriolana. Bisogna perdercisi, perlustrare questi boschi e queste campagne senza una meta precisa.

    E il mio consiglio è quello di farlo confrontando, ancora una volta, due fonti inconsuete: ancora gli scritti seicenteschi di Toscano, e poi le mappe 1:10.000 dell’Istituto Geografico Militare non più recenti degli anni Cinquanta. Solo lì si può ancora trovare una corrispondenza quasi piena con i toponimi antichi. E allora vi sembrerà di poter incontrare realmente i personaggi narrati da Toscano. E quantomeno troverete davvero quei luoghi dai nomi bizzarri: la fontana dell’Azzoppaturo, il pozzo di Popa Battarina, le cime delle minacciose Armi di Lettieri
    Meglio guardare, da qui in alto, giù verso il paese: pittoresco, scenografico, credo uno dei più belli della Calabria. Per quanto ancora?

     

  • MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Le nuove rotte della coca: i porti della ‘ndrangheta

    Il 24 marzo 2022, la polizia federale brasiliana ha portato a termine un’operazione contro il narcotraffico durata tre anni, su tre stati: Paranà, Santa Catarina e São Paulo.
    Diciassette persone sono state arrestate con l’accusa di aver inviato tonnellate di cocaina in Europa dal porto di Paraguanà. Questo gruppo criminale, dice la polizia brasiliana, lavorava con un clan (non meglio specificato) di ‘ndrangheta che curava la logistica del trasporto del narcotico in Europa, per esempio dal porto di Le Havre in Francia, ma anche tramite gli scali spagnoli o tedeschi.

    I portuali al soldo delle ‘ndrangheta

    Come accade in molti casi simili, lavoratori portuali infedeli avrebbero aiutato fornendo informazioni e offrendo il proprio know-how portuale al gruppo criminale. Il narcotico veniva nascosto all’interno di vari compartimenti dei container – ad esempio nei vani frigo, oppure nascosto tra i sacchi di caffè o di frutta.

    Si usava anche il metodo del rip-on/rip-off, una tecnica che gli ‘ndranghetisti hanno pionieristicamente utilizzato sin dai tempi di Operazione Decollo negli anni ’90. Con la tecnica del rip-on/rip-off (che letteralmente significa “presa in giro” o “fregatura”) si nasconde la cocaina in borsoni che vengono poi piazzati all’interno del container all’insaputa di armatori, trasportatori e altri, per poi venir recuperati all’arrivo, sempre all’insaputa di chi ha ordinato il carico del container.

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    Santos, in Brasile, è uno dei porti crocevia della coca

    A cercarlo sulla mappa, si nota subito perché proprio Paraguanà sia stato il porto prescelto per questa (apparentemente) nuova venture criminale. Quinto porto del Brasile, Paraguanà è situato proprio sotto il Porto di Santos, il porto più trafficato dell’America Latina e nella top 40 dei porti più grandi del mondo. Da Santos, dicono report e indagini di mezzo mondo, passa una delle rotte più importanti del traffico di cocaina verso l’Europa. E il primato per le importazioni, storicamente ormai, spetta ai broker dei clan di ‘ndrangheta. Da Paraguanà si muove anche il commercio dal Paraguay, che non ha suoi sbocchi sul mare e che ultimamente è diventata una nazione particolarmente interessata dal narcotraffico.

    In Operazione Pollino-European Connection, diretta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria nel 2018, si erano già documentati i viaggi che Domenico Pelle aveva effettuato in Brasile per incontrare esponenti broker e rappresentanti di vari cartelli del narcotraffico, con i quali pianificava e definiva le trattative per l’invio in Italia di varie partite di cocaina, in arrivo a Gioia Tauro.

    Nel 2019, a São Paulo, fu arrestato Nicola Assisi, considerato un broker di primo livello dei clan di ‘ndrangheta, soprattutto al nord Italia. Assisi, che era l’erede criminale di Pasquale Marando, altro broker di ‘ndrangheta, aveva contrattato col Primero Comando da Capital (PCC), un’organizzazione criminale brasiliana, per l’approvvigionamento e il movimento di cocaina sul porto di Santos verso l’Europa.

    I colletti bianchi

    E infatti, in Operazione Magma, sempre della procura di Reggio Calabria – che nel 2020 ha rivelato tra le altre cose, i contatti di alcuni associati dei clan a colletti bianchi in Argentina per facilitare la scarcerazione di Rocco Morabito ed evitarne l’estradizione – leggiamo che uno dei fornitori del gruppo facente capo al clan Bellocco di Rosarno, un certo Ruben, sta appunto in Brasile e utilizza proprio Santos come base del suo traffico.

    Lo stesso Carmelo Aglioti, imprenditore nel settore import-export associato del clan Bellocco (per cui curava gli affari del narcotraffico in America latina), che si era interessato alla vicenda di Rocco Morabito per conto della sua famiglia, informava un suo collaboratore: «Se ti dice Ruben che in questi giorni ha pronto qua… Se loro riescono a farla venire a Gioia Tauro … […] Ce l’hanno, ce l’hanno. […] Loro dicono di sì […] Ma non diretto da Buenos Aires, da Santos o da un altro porto!». E probabilmente si intende Paraguanà.

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    Rocco Morabito, uomo di punta del potentissimo clan di Africo

    Le rotte della coca e i nuovi “varchi”

    Alla luce delle indagini degli ultimi anni tra Italia e Brasile, possiamo identificare quattro ingredienti chiave del narcotraffico, che aiutano anche a comprendere il ruolo della ‘ndrangheta nel mercato della cocaina.

    Innanzitutto, l’importanza di aprire “varchi”, di trovare “porte” d’ingresso – come si dice in gergo – negli scali portuali. Proprio per i volumi di merce in transito dai porti brasiliani, chiunque importi cocaina, dunque deve attrezzarsi per reperire uno o più broker che abbia accesso a tali scali. In questo, molti clan di ‘ndrangheta storicamente impegnati nel narcotraffico, si sono distinti, non solo procurandosi broker esteri, ma inviando proprio emissari che si sono poi “formati” all’estero e sono diventati broker di più clan dunque dominando il mercato. Se il broker riesce a trovare la porta d’accesso a un nuovo scalo, come nel caso del porto Paraguanà, questo influenzerà tutta la filiera di distribuzione.

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    Le rotte della cocaina dai porti del Sudamerica fino allo scalo di Gioia Tauro

    In secondo luogo, è bene ricordare che le rotte della cocaina dipendono immancabilmente dalle rotte regolari delle merci. In questo senso, avere un varco, aprire una porta, in uno scalo che non ha rotte dirette o frequenti verso l’Europa, non serve a molto. Anche gli ‘ndranghetisti dunque, per quanto capaci, devono adattarsi alla legge del mercato (legale).

    Nelle intercettazioni di operazione Magma, un associato di Aglioti ritiene di non essere più sicuro di far giungere future importazioni sfruttando le rotte con scalo in Brasile delle navi cargo dirette a Gioia Tauro a causa, verosimilmente, dei sequestri degli ultimi anni. Si propone quindi un nuovo canale di spedizione mediante l’occultamento su navi cariche di carbon fossile in partenza dalla città colombiana di Santa Marta, ma con destinazione i Paesi Bassi. «[…] Navi … non
    esiste più! (intende dire navi porta container con destinazione Gioia Tauro, ndr) […] Non esiste più … non c’è … […] Se poi ti dice con la nave carbone … trovano lo spazio nella nave carbone … solo nave carbone … ma Amsterdam o Rotterdam […] Partono da Santa Marta! […]».

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    La “roba” sequestrata dalle forze dell’ordine in attesa di essere distrutta

    Due porti “sicuri”: Le Havre e Gioia Tauro

    Terzo, per poter concludere l’importazione, è necessario avere la capacità di muoversi velocemente anche negli scali di arrivo, anche qualora questi cambino, se cambiano le rotte oppure se il carico è a rischio intercettazione. Ci conferma sempre Aglioti in operazione Magma di quanto sia necessario non solo avere i fornitori in America Latina, ma anche avere chi si occupa dello spostamento della cocaina una volta arrivata al porto di destinazione, qualunque esso sia, in Europa.

    Se l’organizzazione criminale riesce ad assicurarsi varchi all’origine e logistica alla destinazione, l’operazione sarà più sicura. «Noi abbiamo un altro porto sotto mano … “LE HAVRE”, sai dov’è Le Havre? In Normandia, in Francia. Io, prima di partire sono venuti due francesi di là …(incomprensibile) … coi calabresi […] “se voi mandate la roba là, dalla Francia, ve l’assicuriamo noi che la portiamo via dal porto! Al 100%!” … dal porto di Le Havre, dal porto internazionale di Le Havre. Quindi c’hanno 2 porti sicuri in questo momento, Gioia Tauro … [e Le Havre]».

    La reputazione della ‘ndrangheta

    La capacità di adattarsi ai cambi di rotta (letterali a volte) e l’abilità nel forgiare legami sia nei paesi fornitori che negli scali fondamentali per la logistica dell’arrivo sono fondamentali per quei clan di ‘ndrangheta che importano cocaina. Sono questi legami e queste capacità che rendono la mafia calabrese “conosciuta” in questo settore e ne forgiano la “reputazione”. Non bisogna dimenticare, da ultimo, un ulteriore fondamentale ingrediente che rende tutto questo possibile, e cioè la disponibilità di denaro.

    Serve molto denaro per operare a questi livelli. E in questo la reputazione acquisita aiuta gli ‘ndranghetisti. Aglioti conferma di essersi guadagnato la fiducia dei fornitori a tal punto che questi gli concedevano di inviare le partite di stupefacente previo pagamento in anticipo solo del 50% dell’intero valore «[…] tu paghi il 50%, il 50% a nostro carico, a nostro carico. In più, tu metti uno, noi mettiamo due. Tu metti dieci, noi mettiamo venti. Tu metti 50, noi mettiamo cento. Ne paghi 50, poi il resto è vostro», tutto il resto. Perché una volta andavano lì e compravano in conto vendita.

    E dunque, cambieranno ciclicamente le rotte, cambieranno anche le modalità di accesso agli scali portuali, si apriranno nuovi varchi, e si inventeranno nuove modalità di spedizione. Ma fintanto che ci sono domanda, offerta, denaro da investire e reputazione criminale, i clan di ‘ndrangheta che lo vorranno continueranno a scegliere il mercato della cocaina.

  • BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

    BOTTEGHE OSCURE| Bergamotto: l’oro verde come Reggio comanda

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    Se si chiedesse a qualcuno d’indicare un prodotto strettamente identificabile con la Calabria, al netto degli stereotipati ‘nduja e peperoncino, in molti risponderebbero «il bergamotto». Questo agrume noto per le essenze che è possibile ricavare dalla sua scorza, giunse in Calabria quasi per caso e non si sa bene quando. E ottenne un discreto successo per la sua bellezza come pianta ornamentale. Secondo la tradizione si diffuse agli inizi del Seicento, altri studiosi ne attestano la presenza più di un secolo prima.

    Ma è dalla seconda metà del XVIII secolo che la coltura si è estesa gradualmente. E, comunque sia, la sua fortuna, e quella dei proprietari, giunse all’apice tra Ottocento e Novecento, quando la sua coltivazione era divenuta molto redditizia.

    https://www.youtube.com/watch?v=R8lohpOthd0

     

    Come Reggio comanda

    C’è da fare un’altra precisazione. La coltivazione di questo agrume era caratteristica non dell’intera regione ma di una zona specifica: il circondario di Reggio Calabria. In una relazione del Ministero dell’Agricoltura del 1879 si sottolinea proprio questa specialità del Reggino: «Quasi esclusivamente proprio del solo territorio di Reggio, è la cultura fatta su larga scala del bergamotto (Citrus Bergamia), il quale vi sostituisce ogni altra specie di agrumi ed è fonte di grandi guadagni per l’essenza che si trae dalla corteccia dei suoi frutti». Qui, nella zona tra Scilla e Palizzi affacciata sullo Stretto di Messina, questa coltura veniva portata avanti «con arte insigne, e con pari arte si conducono le relative industrie».

    Ma cosa se ne ricavava? La coltivazione di questo agrume aveva, e in larga parte ha tuttora, come scopo principale l’estrazione dell’essenza dalla sua scorza, molto ricercata da industrie come quella profumiera. Dalla polpa si ricavava invece «agro cotto ed acido concentrato o citrato di calcio».

    Quest’idea che il bergamotto fosse «una pianta tutta propria del territorio di Reggio» e che se trapiantata altrove non avesse gli stessi risultati, nell’Ottocento era tanto radicata che in regioni vicine con clima simile, come le coste siciliane, il bergamotto non aveva riscosso molto successo.  A Messina, ad esempio, «molti proprietari, allettati dai più lauti profitti che i bergamotti fra tutti gli agrumi son capaci di dare, in varie epoche ne hanno tentato con pieno successo la coltura», ma la minore richiesta e la mancanza di persone dedite alla cura e al commercio del prodotto, non permetteva di trarne «quei vantaggi che ordinariamente ne ricavano i proprietari ed i coloni del territorio di Reggio».

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    Antichi macchinari per l’estrazione dell’essenza di bergamotto (foto Consorzio tutela del Bergamotto di Reggio Calabria)

    Le statistiche del 1879

    Le statistiche del 1879 riportano per la provincia di Reggio la presenza, contando insieme bergamotti, cedri e mandarini, di più di 400mila piante. Un numero che, da solo, rappresentava oltre il 70% dell’intera produzione italiana, percentuale che, se si considera l’alto tasso di prodotto medio per pianta, superava l’85% del totale della produzione in frutti.

    Si tratta di numeri che reggevano il confronto con le vaste produzioni di aranci e limoni delle province siciliane. Meno di venti anni dopo il numero di piante di bergamotti, cedri e mandarini dei “giardini di Reggio” era ulteriormente aumentato superando le 750mila piante, segno di una industria molto florida e di una significativa vivacità economica.

    La Zagara contro gli speculatori siciliani

    Tra Otto e Novecento quasi tutta la produzione reggina finiva per foraggiare le industrie di Francia, Germania, Russia, Inghilterra. Il polo principale dello smercio era Messina, dove «commercianti siciliani accaparrano i prodotti calabresi che vengono esportati nelle varie direzioni». Per sfuggire a questi “accaparramenti” degli speculatori, nel 1903 a Reggio venne costituita la Zàgara, una società di proprietari terrieri che cercavano di acquistare e vendere direttamente le essenze, creare depositi di prodotti agrumari, incrementare scambi e depositi di essenze.

    Nei primi anni di attività la Zàgara ottenne un discreto successo, ed era ancora attiva un trentennio dopo nel settore della produzione di essenze di agrumi. In generale, però, la produzione era «esercitata alla spicciola, proprietario per proprietario», tanto che nel 1903 erano attivi 160 piccoli stabilimenti di fabbricazione che impiegavano, nelle varie fasi, 1748 lavoratori.

    Contadini, coloni, proprietari

    I libri e le statistiche ovviamente tralasciano le fatiche insite nel lavoro di raccolta, o le sfiorano appena. I vantaggi economici che spinsero molti proprietari a impiantare coltivazioni di bergamotto si riflettevano solo parzialmente sui contadini, assoggettati in genere a patti agrari particolari. In generale negli agrumeti vigeva un sistema di “colonia mista”.

    Se in quel fondo era possibile piantare anche ortaggi, il colono si occupava della raccolta dei bergamotti. Percepiva una percentuale del prodotto e pagava un fitto per il terreno sul quale coltivava l’orto per sé. Al colono che effettuava la raccolta dei bergamotti poteva spettare una percentuale tra 1/4 e 1/7 del prodotto. Il resto era del proprietario. Ed era quest’ultimo a occuparsi delle spese per l’estrazione delle essenze e l’acquisto e la manutenzione dei macchinari. Proprio la fase dell’estrazione dell’essenza dal frutto era particolarmente delicata.

    Il reggino che inventò la macchina per l’estrazione

    Anticamente si ricavava tramite spremitura a mano. I frutti venivano tagliati in due. La polpa era tolta e la scorza lavorata attraverso delle spugne con un particolare recipiente di terracotta. Intorno al 1840 la svolta. Il reggino Nicola Barillà inventò una macchina per l’estrazione dell’essenza.

    Presto venne chiamata comunemente “macchina calabrese”. Permetteva di estrarre una maggiore quantità di prodotto. Col tempo i sistemi migliorarono, ma il prodotto continuò a rimanere pregiato: con 10 quintali di frutti si ricavavano in media 12 libbre di essenza e 35 kg di citrato. La quasi totalità del prodotto veniva esportata, ma non mancavano alcuni tentativi di lavorazione in loco. Negli anni ‘20 del ‘900, ad esempio, erano attivi tre stabilimenti che producevano acqua di colonia: a Melito Porto Salvo la “Melita”, a San Giorgio Morgeto la “Calabresella” e a Cannitello la “Efel” dei fratelli La Monica.

    Autarchia e rilancio del Mezzogiorno

    Proprio dal Reggino provenivano le sequenze filmate di un cinegiornale (in alto nel video da Youtube) del Luce del 1936. Il titolo è “Un prodotto nostrano: il bergamotto” in pieno stile autarchico. Nel video chiari messaggi in linea con la retorica del regime fascista: «Italiani che giustamente boicottate i prodotti di profumeria dei paesi sanzionisti, ecco una coltivazione e un’industria di carattere prettamente nazionale».

    Meno di trent’anni dopo, il bergamotto è nuovamente al centro di  un documentario dell’Istituto Luce sulla “XVI fiera degli agrumi a Reggio Calabria” (1964). In un tono meno aulico del precedente ma fiducioso in un rilancio del Mezzogiorno, l’agrume viene presentato come l’elemento «alla base della moderna profumeria». Prodotto che, secondo il cronista, avrebbe portato a un «aumento dell’economia a tutto vantaggio delle popolazioni del Sud».

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    Una fase della raffinazione dell’olio essenziale di Bergamotto (foto Consorzio di tutela del bergamotto di Reggio Calabria)

    Denominazione di origine protetta

    Oggi nel Reggino la coltivazione del bergamotto e la preparazione degli oli essenziali continua. Il prodotto è sempre ricercato e, per le sue peculiarità, il “Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale” ha ottenuto nel 2001 l’iscrizione nel «registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette».

    Il riconoscimento ne fissa caratteristiche, processi di lavorazione ed enti di sorveglianza, in modo che il prodotto possa mantenere alta la sua qualità, ed è sorto un apposito consorzio. Di pari passo è cresciuta la consapevolezza dell’importanza anche culturale del bergamotto, divenendo anche oggetto di studi e pubblicazioni, fino alla realizzazione di un apposito “Museo Nazionale del Bergamotto” a Reggio Calabria.

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    Il pregiatissimo olio essenziale di bergamotto