Categoria: Rubriche

  • Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

    Botteghe Oscure| Il business del “caro” estinto

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    Il diciannovesimo secolo portò innovazioni nei vari campi della vita. Perciò anche la morte e le sue adiacenze subirono cambiamenti repentini e radicali. La spinta data dalle leggi successive all’Unità d’Italia sulla costruzione dei cimiteri e l’abbandono delle sepolture nelle chiese fu fondamentale per la modernizzazione della “bottega” della morte.

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    L’Editto di Saint Cloud

    Chiunque abbia studiato I Sepolcri di Foscolo dovrebbe aver conservato una qualche reminiscenza dell’Editto di Saint Cloud (1804), con cui Napoleone vietava nel suo impero il seppellimento dei cadaveri all’interno dei centri abitati e delle chiese. Una legge di civiltà, non c’è che dire, ma che ovviamente in Calabria venne recepita e applicata soltanto molti decenni dopo. Le discussioni sul tema furono vivacissime per tutto il secolo. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo abitudini secolari, scarse finanze degli enti preposti, e l’atavico immobilismo della classe dirigente. Che fosse ormai necessario costruire un camposanto in ogni centro abitato era ormai chiaro ai più.

    Un moderno cimitero a Cosenza

    Nel 1856 il dottor Michele Fera illustrava agli accademici cosentini la sua relazione sulle febbri che periodicamente affliggevano Cosenza. E tra le misure di profilassi indicava la realizzazione di un moderno cimitero, schernendo chi ancora era restio all’idea: «Non si dee credere che i Camposanti siano stati nelle grandi città costruiti per offrire ispirazioni a’ romantici poeti, o perché l’innamorato trovi una perenne ricordanza de’ passati palpiti sull’avello che chiude il frale di colei che amava, ma denno ritenersi come utilissimo trovato della pubblica igiene per evitare che, colla putrefazione de’ cadaveri, s’impurasse l’aria delle città; e le usanze di tutti i paesi dell’antichità ciò mostrano perché i cadaveri s’incenerivano».

    Essiccati come il baccalà

    Ancora nel 1864 la situazione era pietosa anche nelle città più grandi. Il solito, mai abbastanza appezzato, Vincenzo Padula, nel suo periodico Il Bruzio ci offre un quadro a tinte fosche della situazione cosentina. Passando in rassegna le statistiche comunali, osservò che in dieci mesi erano morte più di mille persone. E che tutte erano state seppellite all’interno delle chiese della città. Gran parte di queste ultime si trovava in pieno centro abitato e l’una non lontana dalle altre. Padula ne aveva esperienza diretta: «Il bruzio abitando a 30 passi dal Cimitero di Santa Caterina ha osservato che il fetore dei cadaveri cresce secondo i gradi di umidità, minimo nelle giornate asciutte, massimo nelle piovose […]. Il possesso di un buon naso diventa una sventura».

     

    Sarà stato anche per questo che buona parte della popolazione negli ultimi mesi estivi e in tutto l’autunno “migrava” nelle campagne e nei casali vicini dove il clima era più salubre. Del resto, proprio nella chiesa di Santa Caterina «i morti non che sotterrarsi sotto un buon cofano di calce, si lasciano disseccare col metodo adoperato pel baccalà».

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    Padula dixit

    Né si deve credere che altrove la situazione fosse migliore. Anzi. È facile immaginare non solo il fastidio arrecato dal cattivo odore, ma anche le implicazioni negative a livello sanitario. «A medicare tanta pestilenza si grida contro i porti, si perseguitano i cani, si chiama l’opra degli spazzini, e non si vuol capire ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti».

    Beccamorti 

    Finché si continuò a seppellire nelle chiese, quella dei beccamorti fu una categoria professionale poco numerosa e ancor meno considerata. I documenti ci restituiscono tracce minime di Carmine Mancino e Gabriele Fabiano, abitanti nel quartiere di Santa Lucia. Indicati come “becchini”, nel 1844 si occuparono della registrazione della morte dei fratelli Bandiera. E, probabilmente, del loro seppellimento. Ma la costruzione dei cimiteri era un problema indifferibile e non di facile soluzione. I comuni, che avrebbero dovuto accollarsi tale spesa, non sempre potevano affrontare l’impresa. Inoltre la resistenza della gente, legata alle proprie tradizioni, era forte e trasversale alle varie classi sociali.

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    Atto di morte di Attilio Bandiera, 1844. Foto Museo dei Brettii e degli Enotri

    Confratelli

    I nobili tenevano molto alle proprie sepolture gentilizie, il popolo a riposare all’interno di una chiesa. E parroci e priori delle confraternite si occupavano della gestione di tutto ciò. Le confraternite ebbero un ruolo centrale. Antesignane delle attuali società di mutuo soccorso, erano associazioni laiche di credenti, soggette solo parzialmente all’autorità ecclesiastica, mentre per il resto erano controllate da quelle civili.

    Funerale con Confraternita a Napoli nel 1861

    Le confraternite si occupavano del sostegno ai propri iscritti, che versavano annualmente una quota in denaro, e delle attività di culto. Ma anche di ciò che riguardava la morte, il funerale e la sepoltura dei confratelli. Ogni iscritto aveva diritto a ricevere un funerale particolare, con l’intervento degli altri iscritti e di altre cerimonie. E, soprattutto, a essere seppellito nella chiesa del proprio sodalizio. Un discorso a parte meriterebbero le spese funerarie affrontate dalle famiglie in vista, che per prestigio ambivano a cerimonie particolarmente solenni, ed erano così alte che «tre casi di morte in un anno bastano a rovinare ogni ricca famiglia».

    Servizio pubblico di seppellitori

    Padula proponeva di stornare queste somme di denaro e destinarle alla costruzione del camposanto, visto che «si riposa meglio in campagna, e sotto un albero, o lungo la strada maestra come usavano i nostri antichi che nel recinto d’una chiesa». Un camposanto avrebbe così portato maggiore decoro e migliorato la salute pubblica. Ma la sua proposta era tanto (per l’epoca) innovativa quanto utopica: ogni municipio avrebbe dovuto organizzare un «servizio pubblico di seppellitori, il quale, dietro domanda delle parti interessate, curerebbe l’esequie del defunto in modo eguale e gratuito per tutti, lasciando però la facoltà di pagarle a chi le volesse fatte con maggior pompa».

    La costruzione dei cimiteri migliorò le condizioni igienico-sanitarie di paesi e città. La municipalizzazione del servizio di “seppellitori” avvenuta qualche decennio più tardi non portò invece tutti i benefici sperati, nonostante gli auspici. Le vicende della costruzione dei cimiteri nelle città e nei paesi calabresi in alcuni casi furono delle vere e proprie odissee durate anni. E anche quando realizzati erano spesso in condizioni pessime. Nel comune di Rose, in provincia di Cosenza, nel 1893 le pratiche per la costruzione del cimitero erano state avviate ma i cadaveri si seppellivano ancora nella chiesa di un ex convento, in fosse carnarie ormai sature, tanto che si iniziò a utilizzare anche l’atrio e i corridoi del convento.

    I topi fanno il loro dovere

    Nel 1908 un medico di Catanzaro raccontava che «in alcuni cimiteri della provincia scorrazzano grufolando i maiali». In un paese della provincia di Reggio «il cimitero è circondato da una sconnessa palizzata per cui si introducono nella notte le volpi, tantochè alcuni cacciatori del luogo sogliono mettersi alla posta per ucciderle». Agli inizi del ‘900 in alcuni paesi esistevano ancora le “fosse carnarie”. In una relazione dell’epoca si legge che, ancora in un comune della provincia di Reggio, i cadaveri venivano gettati in una cella carnaria attigua alla chiesa, dove però «durante la notte vi entrano gatti e animali».

    Il sindaco del posto, interrogato su come potesse essere sufficiente quella fossa per tutto il paese, rispose candidamente «i topi fanno il loro dovere». Non mancavano episodi poco edificanti, come il caso di un custode del camposanto di Catanzaro che, per aver sottratto dal cimitero beni mobili come «casse mortuarie, croci di ferro, basi granitiche, ecc.» venne accusato di concussione e il suo caso nel 1895 arrivò fino alla Cassazione.

    Disumani becchini al cimitero di Cosenza

    Nel 1903 il cimitero di Cosenza versava in condizioni pietose, con i cadaveri disposti in «veri carnai» e «i familiari dei morti recenti disponibili a dar mance per ingraziarsi i disumani becchini». A ciò bisogna aggiungere «le Congregazioni di Carità che speculavano sulla concessione dei loculi nelle loro Cappelle», annota Enzo Stancati sulla base di uno spoglio dovizioso della stampa d’epoca. In attesa della municipalizzazione del servizio di pompe funebri, a S. Ippolito e Torzano l’utilizzo del carro era ancora un’utopia e il trasporto dei defunti si effettuava «a spalla d’uomo».

    Un funerale d’inizio Novecento a Paola @Foto Agenzia Funebre De Luca Paola

    Sepolture di carità

    Francesco Marano è un povero lustrascarpe della Cosenza d’inizio Novecento. La morte della moglie «per cui ottenne una sepoltura di carità» lo obbliga ad indebitarsi con la Banca Cattolica per pagare oltre al carro e a una minima «rivestitura della cassa», 2 lire e mezza «per ottenere i documenti dal Comune e centesimi cinquanta per mancia a chi gli portò la cassa». Marano è uno dei primi, impotenti cosentini a finire invischiato nell’allora fiorente ramo industriale del “caro estinto” per trovare un posto alla consorte nel cimitero di Cosenza.

    Cari estinti

    Dal lontano 1903, un’unica ditta, la Gaudio-Cundari, gestiva in maniera monopolistica il trasporto dei cadaveri dell’intera città in un oleato sistema di connivenze e piccole speculazioni proprio a danno degli indigenti. Lo sappiamo grazie a una puntuale Inchiesta sull’Amministrazione del Comune di Cosenza, stilata nel 1913 per conto del Ministero dell’Interno dall’ispettore Paolo Donati, “sceso” per fare le pulci ad amministrazioni pigre e scialacquatrici, tra ammanchi di cassa, scandali piccoli e grandi e una gestione familistica della cosa pubblica.

    Pubblicità di onoranze funebri di Cosenza su un periodico degli anni ’20

    La municipalizzazione del servizio di pompe funebri dalla quale «il Comune potrebbe ritrarre un vantaggio di otto o dieci mila lire all’anno» era ovviamente avversata dall’impresa Gaudio-Cundari alla quale «il Comune paga, invece pel trasporto dei cadaveri appartenenti a famiglie povere lire 12 per ognuno».
    La tariffa corrente, stabilita dal regolamento di polizia urbana, per un carro di terza classe era di 10 lire.

    I miserabili del cimitero di Cosenza

    Nella relazione, l’ispettore governativo pone l’accento sulla gestione della ditta di pompe funebri «cui affermasi appartengano, come soci note persone di Cosenza» e su di un servizio «sfruttato in modo poco pietoso». Ma è la concessione da parte del Comune dei certificati di miserabilità a finire sotto osservazione ministeriale: «Non si dura molta fatica ad essere classificati come poveri, dato il modulo adottato dal Municipio e la facilità estrema con la quale si prestano certi individui, fra cui mi si afferma siano anche i facchini della ditta, ad attestare a favore di chicchessia il concorso dei coefficienti necessari ad essere classificati come poveri».

    La Casa delle Culture, sede dell’amministrazione comunale di Cosenza prima della costruzione di Palazzo dei Bruzi

    L’ultima prova del rodato sistema di connivenze e compiacenze tra la ditta Gaudio-Cundari e l’amministrazione comunale la offre il primo cittadino di allora. Guarda caso si chiamava Antonio Cundari, sindaco dal 22 giugno 1908 al 6 febbraio 1911. In una «statistica dei trasporti funebri per i defunti poveri nel biennio 1908 e 1909», datata 4 aprile 1910, ne denunzia 130 nel primo e 140 nel secondo. Quelli sepolti a carico del Comune risulterebbero, sempre secondo i calcoli dell’ispettore Donati, in un anno circa 180.

    Appalti senza concorrenti

    In una città infestata da batteri d’ogni sorta, con condizioni igieniche allarmanti che minavano la salute dei cosentini, specie quelli di condizioni miserande, l’industria della morte rappresentava una fonte inesauribile di guadagni che gli amministratori tenevano a riparo da fastidiosi concorrenti come Salvatore Belsito. Questi, alla scadenza dell’appalto, si sentì di precisare: «Badiamo di non fare qualche altro contratto a trattativa privata; e loro risposero: non temete, che intenzione nostra è che vada l’asta pubblica, perché vantaggiosa al Comune». Alla fine la premiata ditta Gaudio-Cundari si aggiudicò un altro anno di appalto solo perché non avendo dato la disdetta «nel frattempo il vecchio contratto erasi rinnovato per tacito consenso».

  • STRADE PERDUTE|  Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

    STRADE PERDUTE| Bonifati: contrade da cinema dove osano i satanisti

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    Ci sono dei luoghi precisi che hanno il potere di evocare molto più di altri l’incalzare del tempo, l’abbandono speranzoso ma in fondo colpevole, e il rimpianto per un passato non necessariamente idilliaco ma certamente fatto di equilibri più naturali. Uno di questi è Campo del Monaco, a 200mt sul livello del mare, tra il burrone Marianna e il fosso Bambagia: non cercatelo su Google, non è quello che troverete. È un pendio, piuttosto ripido, affacciato sul mare e punteggiato non tanto da ruderi di edifici rurali modesti ma da resti di masserie padronali di ordine superiore, la cui magnificenza doveva splendere su queste colline fino a molto meno di cento anni fa.

    Il bivio per Bonifati

    Su queste colline si arriva facilmente, procedendo sulla SS 18 verso Nord e prendendo il penultimo bivio per Bonifati. Lo ripeto, appena si lascia una strada principale si fa cronologicamente un passo indietro: fuori da un’officina, subito infilato il bivio, un paio di anni fa faceva splendida mostra di sé una vecchia e gloriosa BMW 3.0 csi. Direte «che c’entra?». C’entra, perché se si parla di strade bisogna ogni tanto omaggiare anche chi le strade le batte, le copre e le setaccia materialmente. Omaggio per omaggio, due o tre tornanti più su, un muretto inneggia “Viva il giro”. Era il 2016, e il Giro d’Italia davvero passò faticosamente da qui.

    Finocchietto, mare e monti

    Di fianco, una masseria è stata ristrutturata recentemente, e per fortuna. Forse il nuovo colore non è troppo sobrio ma, considerato tutto il sole che la schiaffeggia, stingerà presto. Ancora un paio di tornanti e si passa tutt’intorno ad una casa-torre, quasi spaccata in due. Dietro di lei, un incomprensibile ponte sul nulla. Anzi, sul crinale: da un lato il suddetto burrone Marianna, dall’altro il suddetto fosso Bambagia (che è molto più “burrone” dell’altro, a dire il vero, e molto più inquietante). Per il resto, nulla: una distesa di finocchio selvatico (ottimo, se distillato…), un panorama a perdita d’occhio (da un lato il mare, fin dove visibilità permette; dall’altro i monti) e nient’altro. Però non è finita qui.

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    Rudere presso Campo del Monaco, in agro di Bonifati (foto L.I. Fragale)

    Un edificio straordinario

    Da un’altra curva si può infilare un sentiero. Procede in piano e continua zigzagando, obbligato dalle rientranze della collina. È un sentiero lungo, e oggi senza apparente funzione. A destra e a sinistra è costeggiato da piccoli poderi, campicelli recintati, ma niente di che, e non una voce. Il fatto è che questo sentiero è l’unica via di accesso (“accesso” per modo di dire…) ad un edificio straordinario. Sto parlando di ciò che resta dell’ex convento di San Nicola: un palazzotto sventrato, con tanto di cappella d’ordinanza, loggiato angolare e finestroni baroccheggianti decorati a stucchi.

    Il valore aggiunto di questo edificio, oltre a quello architettonico (e alla sua impenetrabilità dovuta all’essere circondato da rovi e vegetazione da foresta pluviale) è il fatto di essere anche scarsamente visibile. Il modo migliore per osservarlo è dalla spiaggia di Pietrabianca, con un buon binocolo o un teleobiettivo. O, al limite, procedendo ancora sui tornanti in salita, dall’unico incrocio che si trova appena più in alto (a destra per il centro storico, a sinistra per Aria delle Donne o Sangineto paese) ma da qui non si vedono gli scenografici finestroni sul mare.

    Bonifati, terra di conventi (e satanisti)

    Dalla spiaggia non va confuso con quell’altro edificio maestoso, un’altra masseria abbandonata, poco più a valle del convento, più o meno alle spalle dell’Hotel Sol Palace. L’ex convento di San Nicola è più imponente, più austero, più sofisticato nella struttura.
    Terra di conventi rurali, questa di Bonifati, se a pochissimi km da qui spicca l’altro, quello di San Francesco, ristrutturato una ventina d’anni fa e convertito ad albergo di lusso (quantomeno lo si è sottratto all’uso che abitualmente si faceva dei suoi ruderi, ovvero quello di improvvisati ‘templi’ per attività sataniste).

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    Bonifati, inizi Novecento

    Lunga vita a Bonifati

    E va bene il miraggio dell’industrializzazione, e va bene l’emigrazione amaramente necessaria per tanti… però vale la pena immaginarli, questi luoghi, quando brulicavano di esseri viventi, uomini e bestie, di attività, di rumori, di voci, di versi d’animali. Sembra impossibile ma tutta un’economia e tutta una vera e propria ‘vita’ animava queste campagne che ora restano desolate e mute. Ha resistito una contrada, non lontana da qui, Cirimarco, sulla collina appena sopra Cittadella del Capo.

    Parcheggio la macchina davanti all’unica chiesetta: mentre spengo il motore guardo davanti e l’occhio mi cade sui manifesti dei morti, le ‘mortaline’, come li chiamano da certe parti: 5 o 6 decessi recenti, ok. Ma tutti ultranovantenni. E ti credo: basta guardarsi intorno, e basta pensare al loro stile di vita (classe 1925 o giù di lì…) o alla loro alimentazione. Nota a margine: da qui si dipana una lunga mulattiera selciata, che scende dritta (no, dritta no) verso la marina di Cittadella, attraversando l’altra Contrada vicina, Greco: i Gradini San Vincenzo. Quindi mettiamoci anche l’esercizio fisico, quando i muli non fossero stati d’aiuto.

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    Chiesetta a San Candido di Bonifati

    La costa delle torri

    Da Cirimarco si arriva alle altre due frazioni provvidenzialmente sperdute nell’interno: San Candido e Pero. O, avendo coraggio, su una bretella che riporta all’ardimentosa e lunga dorsale che dalla frazione di Torrevecchia porta a Fagnano attraverso laghi e boschi abbastanza inaccessibili. Torrevecchia, appunto, detta così per la vecchia torre saracena d’avvistamento, costruita proprio lì sull’angolo del costone più ripido del promontorio sul mare: perché, non lo si può dimenticare, Bonifati è anche o forse soprattutto un luogo di mare e anzi, appunto, un Capo: quello spigolo che interrompe la continuità della costa da Capo Suvero a Capo Scalea. Non è un caso che qui si trovino altri relitti di torri o punti strategici (la torre del telegrafo, che ora dà il nome a una contrada; la torre di Capo Fella, la Torre Parise…).

    Dei confini sul litorale bonifatese ho già detto parlando di Cavinia e di Sangineto.
    Tutta la costa meridionale di Bonifati ha ancora i caratteri di quella cetrarese: strapiombi e grotte, insenature abbastanza incontaminate e non prese d’assalto dai turismi peggiori. Vi spuntano scogli, qua e là, che possono fungere da miniature di grandi isole, ottimi per progettarvi sopra altre strade che con minuscoli e arditi tornanti portino dalla base fino alle cime (un santuario? un mirador?).

    Cittadella del Capo (foto L.I. Fragale)

    Bonifati da cinema

    Bando alla fantasia, qui non serve. Dopo aver percorso il breve tracciato della ex SS 18 in contrada Santa Maria, si possono ammirare tre edifici che svettano su questa parte di spiaggia: un ex casello ferroviario equilibrista sulla cima di uno scoglio; un casino padronale semiabbandonato sulla scogliera della Zaccarella (era una residenza minore dei nobili De Aloe) dove Mimmo Calopresti ha girato alcune scene di uno dei suoi film (non il migliore, va detto: L’abbuffata); e poi il principale dei palazzi De Aloe, ovvero l’attuale albergo del Palazzo Ducale.

    Resto dell’idea che però il meglio stia nella parte più nascosta e meno battuta, ovvero lungo quelle due stradine parallele che costeggiano la ferrovia da qui in poi, verso Nord: via Magellano e via Amerigo Vespucci raccolgono la parte forse più amena e riservata di buona parte della costa, benché poste immediatamente sotto la Stazione ferroviaria di Capo Bonifati. E segnano anche uno spartiacque: da qui in poi, solo ed esclusivamente spiaggia, spiaggia, spiaggia, sotto lo sguardo magnanimo della cinquecentesca Torre Parise.

    La scogliera della Zaccarella (foto L.I. Fragale)
  • MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    MAFIOSFERA| Australia, la ‘ndrangheta della porta accanto

    Ci sono circa 5.000 mafiosi italiani in Australia divisi in 51 clan di cui 14 di ‘ndrangheta. Questa la notizia con cui ci si è svegliati nel nostro emisfero la mattina del 7 giugno. Capita spesso di arrivare ‘tardi’ quando qualcosa accade in Australia; complice il fuso orario al nostro risveglio è già successo molto Down under. I principali canali di comunicazione australiani, dall’ABC (Australian Broadcasting Corporation) al The Guardian, hanno pubblicato nella notte la notizia, già commentata in radio e in tv locali, e twittata e condivisa sui social plurime volte, ripresa da un lancio stampa sul sito dell’Australian Federal Police. Nel leggere il comunicato stampa dell’AFP, prima ancora che le news rielaborate, si comprendono una serie di cose.

    Fbi e telefoni criptati: AN0M

    Primo: non si tratta di un’operazione in corso, ma di una serie di chiarimenti sull’operazione Ironside, altrimenti conosciuta come AN0M. Proprio un anno fa, l’8 giugno 2021, uno sforzo congiunto tra FBI americana e AFP australiana portava a centinaia di arresti, oltre 700 in tutto di cui 340 solo in Australia, in Australia, grazie a un’idea geniale: intercettare una app criptata, AN0M, che funzionava solo su un particolare tipo di telefono che costava oltre 2.000 dollari e non aveva accesso né a mail né a GPS, dunque irrintracciabile.

    Calabresi d’Australia e influencer della ‘ndrangheta

    App e telefoni, ideati appunto dalla FBI – che chiamò l’operazione Trojan Shield – erano stati introdotti nel mercato criminale grazie a degli “influencer”, cioè membri di spicco della criminalità australiana la cui voce e reputazione fosse in qualche modo adeguata per un’operazione di marketing. Tra questi, un certo Domenico Catanzariti, di Adelaide nell’Australia meridionale, che di giorno fa l’orticoltore, e nel tempo libero, dicono gli inquirenti, importa cocaina e altri narcotici dall’Europa grazie a un network di ‘ndrangheta e di altri trafficanti locali, tra cui altri australiani di origini calabresi, come Salvatore Lupoi e Rocco Portolesi ad esempio. Altri nomi, chiaramente di origine calabrese, sono quelli di Francesco Nirta e Francesco Romeo, arrestati nell’Australia meridionale. Gli arresti tra Stati Uniti e Australia e alcune indiscrezioni su questo caso sono quindi roba dell’anno scorso. Li hanno ripescati un anno dopo quasi in commemorazione di questa grossa operazione del 2021.

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    Il porto di Melbourne, dove molta della droga importata dai calabresi continua ad arrivare

    Il contributo dell’Italia

    Secondo: l’AFP chiarisce che molta dell’intelligence che si è riusciti a ricavare dall’intercettazione della piattaforma AN0M, è stata studiata in questi mesi grazie all’aiuto delle autorità italiane, di Europol e di Interpol, in particolare il programma I-CAN (Interpol Coordination Against the ‘Ndrangheta), in cui l’Australia è uno degli 11 paesi coinvolti. Per questo oggi, e non un anno fa, si riescono a dire una serie di cose a riguardo della presenza mafiosa nel paese, tipo il fatto che alcuni ‘ndranghetisti prendano ‘ordini’ dalla Calabria, o mantengano vivi i rapporti con la madrepatria, oppure che operino insieme ad altri gruppi locali su cui a volte esercitano un notevole potere.

    Come bande di motociclisti

    Terzo: c’è un problema di numeri. L’AFP dice che «ci sono 51 clan di criminalità organizzata italiana in Australia. Abbiamo identificato e confermato 14 clan di ‘ndrangheta in Australia, che contano migliaia di affiliati». E ancora «La nostra intelligence suggerisce che il numero di affiliati potrebbe essere simile a quello delle bande di motociclisti» che, per chi non lo sapesse, sono da anni il nemico numero uno delle forze di polizia nella criminalità organizzata australiana. Si è dunque calcolato, arbitrariamente e senza né conferma né smentita dalle forze dell’ordine, che si tratti di circa 5.000 affiliati, visto che appunto questi sono i numeri correnti anche per i motociclisti.

    Bikers di una gang australiana

    E gli altri 36 clan?

    Chi siano poi i 36 clan, di 51 menzionati, che non siano legati alla ‘ndrangheta non è dato ancora sapere. Probabilmente si tratta di altri gruppi criminali, a prevalenza italiana, legati a opportunità nel mondo del traffico di stupefacenti e/o ad altri gruppi minori. Ma il comunicato stampa non parla d’altro che di ‘ndrangheta e si ‘scorda’ di approfondire tutti gli altri ‘criminali italiani’. Visto ciò che si sa sulla criminalità di origine calabrese in Australia verrebbe da pensare che le affiliazioni mafiose siano un po’ più evolute e forse anche un po’ più specifiche del mero attributo etnico ‘italiano’, sebbene sicuramente dai contorni sfumati e di difficile comprensione.

    I 100 anni della ‘ndrangheta in Australia

    Volendo entrare ancora un po’ più a fondo in questa notizia, bisogna sollevare una serie di critiche. Innanzitutto, risulta strano il senso di urgenza e il senso di novità che accompagna questa notizia, non solo nel comunicato dell’AFP quanto in tutto ciò che ne è seguito. Sembrerebbe, a leggere le notizie, che si sia appena scoperta o confermata la presenza della mafia in Australia.
    Questo farebbe quasi ridere: l’Australia è l’unico paese al mondo dove la ‘ndrangheta – e solo la ‘ndrangheta in maniera strutturata – è presente da 100 anni. Anzi, si festeggerà il centenario a dicembre 2022, in ricordo della nave Re D’Italia che ha approdato a Fremantle, Adelaide e Melbourne nel dicembre 1922 portando i tre fondatori della onorata società dalla Calabria all’Australia.

    Adelaide, il pavimento del Museo dell’immigrazione

    Tanta confusione, anche per colpa nostra

    Questo aspetto leggendario della nascita della ‘ndrangheta australiana ne dimostra la forte valenza identitaria. Dal 1922, ciclicamente, l’Australia passa da momenti di panico mediatico a momenti di totale blackout nel capire, ricercare, perseguire la ‘nostra’ mafia. A volte a indurre la confusione sono state le autorità italiane: la commissione parlamentare antimafia negli anni ’70, interpellata dalle autorità australiane su alcuni eventi di sangue nelle comunità calabresi d’Australia, risponderà che non si tratta di mafia (la mafia è siciliana!) e che il mafioso non potrebbe comunque vivere così lontano dal Sud Italia. A volte, è stato per mancanza di fondi che si è smesso di analizzare il fenomeno: la famosa operazione Cerberus proprio sulla criminalità organizzata calabrese e italiana, guidata negli anni 90 dalla National Crime Authority, si chiuse al voltar del secolo per assenza di interesse e risorse.

    La culla della ‘ndrangheta in Australia

    Insomma, tutto si può dire tranne che la ‘ndrangheta sia un fenomeno urgente e nuovo oggi in Australia, quando nella storia del paese ci sono addirittura omicidi eccellenti legati a questi clan (se ne parlerà nelle prossime puntate della rubrica sicuramente). Inoltre, è in Australia – e non in Italia – che si sono per la prima volta definiti i caratteri organizzativi dell’Onorata Società – in contrapposizione con la mafia siciliana Cosa Nostra – principalmente all’epoca a Melbourne oltre che in una città del Nuovo Galles del Sud, Griffith – considerata la ‘culla’ della ‘ndrangheta platiota in Australia – in documenti di polizia del 1958 e poi nel 1964.

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    L’Italian museum di Griffith. La città del New South Wales è considerata la patria della ’ndrangheta in Australia

    Un pericolo tutto calabrese

    Un ulteriore riflessione meritano poi proprio i numeri che arrivano da operazione Ironside. L’AFP negli anni, principalmente dal 2006-2007 quando ha ripreso a occuparsi a tempo pieno di questo fenomeno, ha sempre ammesso che il ‘pericolo’ in Australia è sempre stato solo associato alla ‘ndrangheta. E che gli altri gruppi criminali a cui collaborano persone di discendenza o origine italiana non sono qualificabili come ‘mafie’ né sono cosi rilevanti come la ‘ndrangheta australiana.
    Inoltre, l’AFP lavora per mappe familiari quando si tratta di ‘ndrangheta – family trees – più o meno corrispondente alla ‘ndrina, basata sul cognome e sulle alleanze familiari.

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    La prima pagina del report del 1958 sulla Onorata Società a Melbourne

    L’Australia e la ‘ndrangheta della porta accanto

    In base alla ricerca condotta negli anni sulla ‘ndrangheta in Australia, alla sottoscritta risulta difficile pensare che ci siano “solo” 14 ‘ndrine soprattutto se ci si continua a chiedere chi siano i rimanenti 36 clan dei 51 annunciati. Si potrebbe invece ipotizzare una confusione tra ‘ndrina e locale, non inusuale all’estero, laddove 14 locali e/o 51 ‘ndrine potrebbero effettivamente corrispondere a più realtà. Il che potrebbe ridimensionare anche i numeri totali, nonostante l’affermazione del commissario AFP Nigel Ryan, riportata dal Guardian, secondo cui «è interamente possibile che qualcuno viva vicino a un membro della ‘ndrangheta senza saperlo».

    Il metodo Falcone

    Ma per saperne di più ovviamente si aspettano ulteriori dati. Fatto sta che non risulta contestato che la ‘ndrangheta australiana abbia sue connotazioni precise, storicamente rilevanti e totalizzanti nel panorama criminale ‘italiano’ del paese, dove i clan – soprattutto di origine aspromontana e ionica – offrono continuità e protezione criminale. Si tratta comunque di una notizia che fa ben sperare per il futuro degli sforzi antimafia in Australia. Infatti, come ricorda l’AFP, si è scelto di proseguire tali sforzi partendo dal metodo Falcone, quindi da un focus sul riciclaggio di denaro e il movimento di fondi illeciti nell’economia.

    Il problema non sta certo nella volontà o nella capacità delle autorità australiane nell’agire in questo senso, ma più che altro sta nella difficoltà tecnica di coordinare operazioni di polizia e processi trans-giurisdizionali all’interno di quello che è effettivamente uno stato-continente. Inoltre, il rinnovato interesse all’argomento porterà sicuramente dei finanziamenti e ricalibrerà le priorità delle forze di polizia nel paese che è conditio sine qua non per l’analisi corretta del fenomeno.

    Troppe sfaccettature per un solo metodo di contrasto

    Rimane però da chiedersi se sarà questo finalmente il momento di svolta della lotta antimafia in Australia, e cioè quel momento in cui le autorità down under finalmente inizieranno a perseguire il fenomeno ‘ndrangheta sulla stregua di quello che la ricerca criminologica degli ultimi anni riesce a intuire: un fenomeno multi-sfaccettato contro cui non funziona un solo metodo di contrasto e con diverse manifestazioni da Perth a Sydney, passando per Brisbane, Adelaide, Melbourne, Canberra e l’hinterland.

    Il cimitero di Melbourne, a Carlton, storica e attuale Little Italy e ultima residenza di molti calabresi, ‘ndranghetisti e non

    Particolarmente avvezza alla prossimità politica, con influenza e interesse anche ad alti livelli nazionali, capace ancora di vittimizzare alcune frange della comunità calabrese, meridionale e italiana, e inserita in modo totalmente integrato nella storia economica e sociale del paese, la ‘ndrangheta in Australia, a chi scrive, è sempre sembrata una delle formule più riuscite della mobilità mafiosa.

  • Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

    Mafiosfera| La ‘ndrangheta invisibile del porto di New York

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    In un ufficio pieno di carte, con una scrivania disordinata e faldoni incolonnati a terra, legati alla meno peggio con nastri, pezzi di corda e grandi elastici verdi, nell’aprile del 2018 a Manhattan ho incontrato il direttore esecutivo della Waterfront Commission of New York Harbour, la commissione del porto di New York. Un uomo dall’esperienza decennale come pubblico ministero antimafia, o meglio anti Cosa Nostra americana, Walter Arsenault è diventato Executive Director della Waterfront Commission nel 2008. Ha una conoscenza profonda del fenomeno mafioso newyorkese, principalmente e notoriamente legato alle cinque famiglie storiche: Gambino, Genovese, Lucchese, Colombo, Bonanno.

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    Walter Arsenault, Executive Director della Waterfront Commission

    Ma in quell’occasione, insieme ad alcuni agenti della Commissione, parlammo di ‘ndrangheta. E – con mio stupore – non solo di traffici illeciti via navi container attraverso il porto – che era il mio oggetto di ricerca in quel momento. Ma andiamo con ordine. La Waterfront Commission è periodicamente sui giornali – da ultimo il Financial Times qualche giorno fa – in quanto la sua esistenza è oggetto di contenzioso. E non di contenzioso qualunque. È addirittura questione di stato. Anzi di Stati: New York e New Jersey.

    New York: da Brando alla ‘ndrangheta

    Se si pensa a mafia e porto di New York, alcuni forse ricorderanno un vecchio film in bianco e nero del 1954, Fronte del Porto, (On the waterfront) con un giovanissimo Marlon Brando. Tra le altre cose, il film ci racconta di Johnny Friendly, a capo del sindacato dei portuali, che detiene il controllo delle banchine, oltre a essersi macchiato di svariati delitti, frustrando gli sforzi delle forze dell’ordine e di una commissione – proprio la Waterfront Commission – sulla criminalità portuale che tentano di portare avanti le indagini sul fronte del porto. La Commissione, infatti, è nata un anno prima dell’uscita del film, nel 1953. E ha fino ad oggi un mandato e una struttura molto peculiare.

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    Marlon Brando diretto da Elia Kazan in una scena di Fronte del Porto

    Un porto per due Stati

    Innanzitutto, è un’istituzione gestita da due stati, New York e New Jersey, perché a cavallo tra questi due stati si spalma quello che è il principale porto della costa orientale degli Stati Uniti d’America. Dopo quasi 70 anni di storia, il mandato della Waterfront Commission è cambiato certamente, ma non poi così tanto. Nata per contrastare il potere delle famiglie mafiose appartenenti a Cosa Nostra americana sulle banchine del porto e soprattutto il loro controllo delle procedure di reclutamento dei sindacati dei portuali, ad oggi ancora si occupa principalmente di questo.

    La Commissione è chiamata a controllare che chiunque lavori o venga in contatto col porto non abbia legami con il crimine organizzato, e in particolare con la mafia. Per farlo, gestisce autonome unità di intelligence e di polizia che sono un unicum spaziale e temporale. Non esiste altrove una realtà simile, con tale competenza sulla criminalità dentro un porto (e anche fuori dal porto a dire il vero) e da così tanto tempo.

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    Una barca della Waterfront Commission in azione a NYC

    Il New Jersey, la Commissione e il sindacato

    Quale sarebbe dunque il contenzioso? Il New Jersey, nelle persone dei suoi ultimi due governatori, Chris Christie prima e Phil Murphy al momento, ha deciso che la Waterfront Commission non serve più, al punto tale da legiferare, unilateralmente nel 2018, per la rescissione del suo operato proprio in New Jersey. Ne sono nate battaglie legali, finite anche in Corte Suprema – che a marzo scorso ha bloccato l’uscita unilaterale del New Jersey dalla giurisdizione della Commissione.

    Ma all’origine di tutto questo clamore c’è una fondamentale differenza di vedute – o diciamo pure la negazione da parte dei politici del New Jersey – di quello che è oggi il crimine organizzato nel porto di New York, oltre al protrarsi di una sorta di guerra fredda – che dura da 70 anni – tra il sindacato dei portuali, l’International Longshoremen Association (ILA), e la Commissione.

    Il potere della criminalità

    Secondo il governatore del New Jersey Murphy, non ha senso mantenere in vita un ente formato nel 1953, oggi come oggi «inefficace». Un sostenitore di Chris Christie nel 2018, affermava che la Commissione è un impedimento alla crescita economica del porto. Repubblicani e Liberali in New Jersey, insomma, dubitano che serva una commissione che controlli le pratiche di reclutamento del porto, oggi che il potere della mafia a New York è inferiore a qualche decennio fa e l’evoluzione tecnologica ha comunque portato alla riduzione della manodopera sulle banchine. E si sbagliano.

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    L’ex governatore del New Jersey, Chris Christie

    Infatti l’ultima relazione pubblicata dalla Commissione ci dice che il 18% di chi chiede di lavorare al porto nel 2020 – che tra l’altro è un lavoro particolarmente lucrativo a New York (un stipendio medio da portuale si aggira tra i 100,000 e i 200,000 dollari annui secondo i dati pubblici della Commissione) – è stato rifiutato per ‘legami con la criminalità organizzata’. E dice pure che esistono ancora, come esistevano nel 1953 seppur con le dovute differenze, ingerenze pesanti della mafia cittadina sui sindacati. In particolare sull’ILA, il sindacato dei portuali.

    I Gambino, i Genovese e le assunzioni al porto

    Non stupisce affatto. George Barone, affiliato alla famiglia mafiosa Genovese, durante il processo US vs Coppola (2008-2012) confermò che la cosca utilizzava «intimidazione, paura, qualunque cosa» per continuare a controllare la forza lavoro sul porto, estorcendo i membri dell’ILA e gestendone le sorti grazie a presidenti complici. Uno dei presidenti della sezione numero 1235 dell’ILA, Albert Cernadas, fu infatti arrestato nel 2010 proprio per condotte di racketeering (il termine legale usato in USA per crimini simili a quelli di mafia). Fu rivelato in questi casi, come fu proprio la famiglia Genovese a decidere che un certo Harold Daggett, dovesse poi diventare (e tutt’ora rimanere) presidente dell’ILA.

    Harold-Daggett
    Harold Daggett

    Nel 2007, una causa civile contro l’ILA, ancora non risolta, si spinge a dire che Harold Daggett non era/è solo un presidente corrotto, ma sarebbe proprio membro di un’organizzazione criminale che esercita influenza sul porto di New York, con associati sia delle famiglie Gambino che Genovese, il cosiddetto “Waterfront Group”. La vicinanza, personale e politica, tra Harold Daggett e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, hanno poi fatto ipotizzare la chiusura del cerchio: l’opposizione del New Jersey alla Waterfront Commission si rispecchia spesso nelle posizioni prese dall’ILA. Non è difficile quindi vedere come le percezioni di corruzione e malaffare sul porto siano legate ai legami opachi tra la politica e i sindacati.

    ‘Ndrangheta a New York

    E che c’entra qui la ‘ndrangheta? Il riferimento non è (del tutto) diretto; a parte qualche indagine, per esempio Columbus o New Bridge che hanno osservato nuclei ‘ndranghetisti muovere cocaina tramite il porto di New York con l’aiuto di sodali in loco, pochi e sporadici – seppur costanti – sono i dati pubblici sui collegamenti della ‘ndrangheta con le famiglie newyorkesi. Eppure, è proprio nelle parole della Waterfront Commission che troviamo un dato interessante. Nella relazione del 2018 infatti la Commissione rivela di aver ricevuto domande di impiego al porto – non approvate – da soggetti italiani, calabresi, legati alla ‘ndrangheta.

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    I boss protagonisti di “Fear City”, docu-serie di Netflix sulle cinque famiglie

    Questo dato apparentemente banale, rivela molto di più. Infatti, appurato che l’influenza sul porto di 2 delle 5 famiglie di New York, Gambino e Genovese, rimane particolarmente invasiva per quanto riguarda il reclutamento, rimane da chiedersi quale sia il rapporto tra questi presunti ‘ndranghetisti – che vengono addirittura ‘mandati’ dalla Calabria a lavorare al porto – e le famiglie mafiose newyorkesi. Non è questo un esercizio di retorica, ma semmai un problema di analisi. Tutte le mafie vivono anche di reputazione: più solido è il loro brand, più saranno resilienti e riconosciute. Nonostante i tanti ‘successi’ criminali della ‘ndrangheta, a New York il brand delle 5 famiglie è quello vincente.

    Calabresi di nascita, siciliani d’adozione

    Da decenni, le ‘ndrine si muovono dentro le famiglie Gambino e Genovese abbandonando la loro ‘calabresità’ e ‘obbedendo’ al marchio dominante. Proprio per questo in nessun altro luogo, come a New York, è così difficile capire il vero potere – oltre ai traffici illeciti – della ‘ndrangheta. Ma ci sono individui, soprattutto legati alle ‘ndrine di Siderno (Commisso-Macrì), della costa ionica, ma anche legati ai cognomi ‘pesanti’ del rosarnese, che oggi hanno raggiunto posizioni apicali all’interno delle famiglie newyorkesi. Negli anni, molti hanno diversificato le loro attività, investendo nella logistica portuale e inserendosi nelle imprese dedite alle infrastrutture del porto. Sono questi individui a ‘invitare’ giovani leve dalla Calabria a venire a lavorare al porto e a indirizzarli nelle file delle famiglie Genovese e Gambino. Sicuramente tutto ciò conferma come la Waterfront Commission sia ancora molto necessaria.

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    Il porto di New York

    Quando si parla dunque di mafia nel porto di New York, bisogna tenere a mente che parte della storia di questa mafia non è oggi molto chiara. E che ancora la si percepisce, errando, con una stereotipata composizione ‘siciliana’. Una volta compreso l’inghippo analitico che affligge ancora la mafia americana, realizzare che la ‘ndrangheta a New York è inserita all’interno delle famiglie storiche da decenni, mantiene i contatti con l’Italia – e, soprattutto, con il Canada (ma questa è un’altra storia…) – ed è oggi una forza dinamica anche all’interno della contestata realtà portuale, potrebbe generare quesiti molto difficili da affrontare, su politica, sindacati e ‘ndrine, tra New York e New Jersey.

  • Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

    Strade perdute| Da Laino al Tirreno: quel passaggio a Nord-Ovest che sa di Abruzzo

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    Perché complicarsi la vita? Riformulo: perché considerare che certe scelte significhino necessariamente complicarsela? Ovviamente anche stavolta il riferimento non è ai massimi sistemi ma alle strade. È una questione di forma mentale, quella che induce a recepire pigramente la geografia delle rotte in compartimenti stagni: “i paesi della costa” vs. “i paesi dell’interno”, come se i due gruppi fossero a sé stanti, quasi senza possibili vie di comunicazioni in mezzo, neppure metaforiche.
    Allora vediamo che succede se si prova ad andare da Laino Castello fin sulla costa tirrenica senza toccare autostrade e, per quanto possibile, strade statali.

    Laino Castello, il paese degli zampognari

    Laino Castello – il paese che fu – è ricordato più che altro per essere la patria di quegli zampognari (forse meno noti di quelli abruzzesi) che scendevano a Natale in città e paesi di tutta la provincia. Nel frattempo, recentemente vi è stato un tentativo di farlo diventare una sorta di “albergo diffuso”, sullo stile di Santo Stefano di Sessanio, anche questo in Abruzzo. Coincidenze. La mia visita risale a qualche anno prima, quando il centro storico – abbandonato decenni fa per i motivi più vari, ma ufficialmente per via di un sisma – non lasciava più molto da ammirare, se non una desolazione piuttosto evocativa (e, nella desolazione, vi incrocio – fantasma? – il poeta e amico Dante Maffìa, fuggiasco per un giorno dalla sua amata costa ionica).

    Molto di transennato, tutto lasciato all’incuria. Lavori iniziati e lasciati a metà. Erba altissima nei vicoli. La chiesa, integra ma svuotata, faceva ancora una certa impressione (nulla di nuovo, per chi conosce la Chiesa dei Cappuccini, in cima al centro storico di Cosenza, che versa nelle medesime condizioni). E da lì il panorama violento del Viadotto Italia con cui l’autostrada taglia in due il Massiccio del Pollino. Beffarda, poi, colpisce l’occhio una vecchia stella cometa di ferro arrugginito, piazzata in cima all’edificio più in cima del paese fantasma. Chissà da quanti anni sta lì. Dalla Natività alla mortalità.

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    La Grotta del Romito

    Papasidero e la Grotta del Romito

    Lasciamo Laino Castello al suo destino, incrociando le dita per lui, e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito: non è solo testimonianza degli insediamenti preistorici in Calabria, quanto pure la dimostrazione della sopravvivenza di piccoli paradisi naturali. Mica scemo, st’Homo Sapiens… Il più solerte guardiano della zona archeologica è un docile cagnolino che scorta attentamente ogni gruppo di visitatori, dal parcheggio alla grotta e viceversa, senza distogliere lo sguardo nemmeno un attimo. Dalla grotta bisogna risalire di quota, un bel po’, per tornare sulla strada principale (principale, si fa per dire) e non invidio quella coppietta di giovanissimi ciclisti nordeuropei, stremati a mezzogiorno da una salita disumana.

    Avena, la frazione evacuata (?)

    Non lontano dal Romito vale assolutamente la pena (ma quale pena, poi?) allungarsi fino ad Avena, frazione di Papasidero. Non è lontana ma, intendiamoci, mi riferisco sempre a distanze in linea d’aria. Perché visitare Avena? Per fare il paio con Laino Castello: anche Avena è abbandonata, ma in compenso alcuni scorci riescono a ricordare – parola di un affidabilissimo e appassionatissimo gallerista e antiquario bolognese, mica mia – certi quadri di Telemaco Signorini. Un cartello ufficiale all’inizio dell’abitato (o, meglio anche in questo caso, del “disabitato”) parla di zona evacuata ex lege, più o meno nei primi anni Ottanta.

    Nelle case sventrate trovi soltanto bottiglie, bottiglie, bottiglie. Televisori di quarant’anni fa, reti da letto e scarpe spaiate. Eppure nel primo edificio all’ingresso dell’agglomerato – poco prima di quella piazzetta che, non so perché, mi fa pensare a Leopardi, al Sabato del villaggioqualcuno sembra abitare eccome, quantomeno saltuariamente. Con tanto di panni stesi al sole e grasticelle di peperoncino ben curate. E fa bene, chiunque egli sia.

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    Scorcio della frazione Avena di Papasidero (foto L.I. Fragale)

    Abruzzo e Golf

    Papasidero decido invece di attraversarla senza sostare. Diretti verso la costa, subito dopo il paese si passa su un ponte dal nome curioso: il Ponte Golf. Proprio così, un vecchio ponticello su una forra, che ben poco può avere a che fare con attività golfistiche: e infatti è stato denominato in questo modo, in maniera ufficiale, soltanto a causa di una modesta deformazione – ipercorrettismo nell’italianizzazione maccheronica – del più antico idronimo Orfo (‘u g’Orf), ovvero il torrente che vi passa sotto.

    Mi starò suggestionando ma è la terza volta che mi viene da citare l’Abruzzo: la strada tra Papasidero e Santa Domenica Talao mi ricorda enormemente, a tratti, quella che si inerpica da Anversa degli Abruzzi fino a Scanno, scavata nei costoni del meraviglioso canyon nella Gola del Sagittario. Ma è un miraggio frequente, che meriterebbe un pezzo a parte, “Strade che assomigliano ad altre strade”… e, a pensarci bene, altri tratti di questa via dalle montagne al mare mi ricordano invece alcune specifiche curve nella zona del Cippo Pisacane, a Sanza. Ma lasciamo perdere certe stratificazioni della memoria fotografica…

    Restiamo con gli occhi qui: è il luogo ideale per quello che ho sempre ritenuto il più ambiguo, imbarazzante, incoerente dei segnali stradali: Pericolo caduta massi. Ché non si capisce uno cosa dovrebbe fare… rallentare? Peggio, si allunga l’esposizione al pericolo. Accelerare? Meglio di no, vuoi mai che le vibrazioni sveglino il mazzacane che dorme? Fare inversione ad U, se possibile? Ma allora perché non chiudere la circolazione? Il significato di quel segnale è semplicemente: «continuate a vostro rischio e pericolo, noi ce ne laviamo le mani». Ciance bandite, proseguiamo.

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    Il fiume Lao (fonte web)

    Rafting e il brutto che avanza

    Sulla destra, scendendo verso la costa, mi incuriosisce quella lunghissima, vistosissima tubatura che scende orrenda, a precipizio, dritta dalla cima di un monte giù lungo i dirupi del Ciminnito, costeggiando ciò che resta dell’antica Torre dello Scirro. Non è altro che la condotta che mette in collegamento la poco poetica “Camera Valvola” dell’Enel, sul monte Rininella (in agro di Orsomarso), con la centrale idroelettrica giù sulla riva del fiume Lao (e sì, siamo nella Riserva Statale del Lao, delizia per chi fa rafting, e non solo per loro). Ma la centrale e la tubatura annessa preannunciano il brutto che si fa vivo, inevitabilmente, quando ci si avvicina agli insediamenti più intensivi.

    E pensare che dietro quel monte, proprio a un passo e mezzo dalla “Camera Valvola”, cade a pezzi l’antico convento di Santa Maria di Scòrpano, avvolto da erbe infestanti e rovi. Si è deformato, col tempo, finanche il toponimo (ora Scorpari). E anche lassù, ve ne parlerò, mi pare di stare in Abruzzo, ad esempio sui pianori di Campo Imperatore o sulla strada per Roccamorice. E siamo a quattro ricorrenze aprutine.

    Papasidero

    Da qui al mare, sotto un tramonto settembrino, è una bella discesa dolce, lunga e panoramica: ritrovo i due ciclisti che all’ora di pranzo erano boccheggianti sulla salita della Grotta del Romito. Adesso posso invidiarli.
    Ancora più giù, a luccicare sono le foglie di vere e proprie piantagioni di giovani eucalipti che preannunciano la calura della costa. Li avevo presi per piccoli pioppi, per via di questo luccichio alternato e invece no, qui nemmeno il populus tremula, sebbene – che confusione! – la frazioncina appena superata sia, proprio come un piccolo pueblo, Tremoli. Perché semplificarsi la vita?

  • FUORI RECINTO| Calabria incompiuta, terra di eccellenze e di precarietà

    FUORI RECINTO| Calabria incompiuta, terra di eccellenze e di precarietà

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    Arrivare all’aeroporto di Lamezia è prendere subito confidenza con una certa idea di Calabria: una sorta di anticamera di ciò che attende il viaggiatore, inoltrandosi, dopo il volo, nei diversi territori. Aver attraversato i precari tendoni di plastica, crea l’effetto del viaggio nel provvisorio-permanente: l’ampliamento del nostro aeroporto “internazionale”, per sopperire agli angusti spazi dentro un’aerostazione realizzata ormai oltre cinquant’anni fa, che diventa simbolo del non finito anche in una struttura pubblica! Un luogo sempre malamente rimaneggiato. In cui muovendosi tra i negozi delle eccellenze, dagli orafi, agli editori, ai pasticceri, dichiara il doppio volto della Calabria dei contrasti. Le eccellenze e la precarietà, il chiaro e lo scuro.

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    L’aeroporto di Lamezia

    L’incompiuto, il precario e le eccellenze

    Così, nella seconda parte del viaggio, ci rivolgiamo, brevemente, anche al neocommissario al sistema aeroportuale della Calabria, Marco Franchini. Al quale chiediamo se oltre a razionalizzare le priorità trasportistiche, si preoccuperà di dare dignità architettonica a questi incompiuti, irrisolti manufatti: una porta dal cielo, in cui arriva gente da ogni luogo. Proseguiamo dunque, nell’itinerario nella Calabria del buon cibo, dell’accoglienza, dei paesaggi unici e contrastanti, della montagna e del mare, della cultura, dell’arte, della buona impresa, dell’agroalimentare competitivo, di alcune eccellenze nella ricerca.

    Fuori dal gregge

    Una regione che nel contesto del Sud manifesta interessanti potenzialità, soprattutto in questi anni, con ancora tante risorse, energie, da spendere rispetto ad un Nord affaticato che ha sfruttato ormai molte e più carte da giocare. Una Calabria in cui nel “gregge” ci sono pecorelle che restano nel recinto solito, buone, mansuete, obbedienti ai pastori di turno. Mentre diverse altre iniziano a saltare lo steccato e sono quel “fuori recinto” che fanno la differenza e alle quali guardiamo con ammirazione, curiosità, speranza. Viaggiare tra questi contrasti, che sono fondativi e identitari della Calabria, fare spazio alle luci, nelle ombre, è dare visibilità al cambiamento. Che c’è e fa sempre fatica ad emergere. Ed è attribuire valore culturale, sociale, economico allo sforzo di provare a rendere diversa questa terra, una volta e per tutte.

    La Cittadella nel nulla

    Dirigendosi verso Catanzaro, a una decina di chilometri dall’aeroporto, intercettiamo la Cittadella regionale e universitaria. È uno dei tanti luoghi del nulla in cui l’esercizio del potere si palesa nella retorica di un insieme di costosissimi edifici amministrativi e universitari. Con il grande Policlinico ospedaliero, ennesimo palazzone fuori scala in un paesaggio di campagna dai suggestivi tratti arcaici.

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    Il policlinico di Germaneto

    L’incubatore di start up

    A Caraffa troviamo ad attenderci, fuori da un edificio ex industriale riusato, Gennaro Di Cello. Calabrese vivace, intelligente, generoso, sfugge ad ogni classica, rigida classificazione professionale. Autore di preziose ricerche di design grafico (in alcune delle collane più recenti e originali della Rubbettino, c’è la sua firma), uno dei “dominus” di Entopan, il primo incubatore di startup in Calabria, con un livello di innovazione e reti internazionali, pari a quelle di importanti università, con le quali Entopan dialoga e collabora dalla sua fondazione.

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    Il progetto dell’hub per l’innovazione che vuole realizzare Entopan

    I talenti “coltivati” in casa

    Visita allo spazio che odora di “serra” per i talenti calabresi, e non solo, con tante postazioni di lavoro per giovani aspiranti imprese innovative, entusiasmo e visione. In attesa della sede definitiva che, per scelta, sarà un pregevole recupero di un edificio esistente. E tanta speranza di una nuova Calabria che dialoga con il resto del mondo.

    Le eccellenze agricole calabresi

    Lamezia esiste? Qualcuno ha scritto che è solo cartelli stradali, e poi una serie di centri urbani esplosi, tanti capannoni, un grande sberciato ospedale, il pontile Ex Sir, un lungomare incompiuto e ormai già consunto, cui fanno da contrasto quella estesa parte della Piana del Lametino, ricchissima di produzioni agricole eccellenti con aziende che hanno capacità di competizione ed export internazionali.

    La coltivazione di fragole ad Acconia di Curinga

    Il marchio della qualità

    Qui è nata la candidatura di un forte Distretto del Cibo, che raccoglie anche il Reventino – dove nel capoluogo Soveria operano l’editore Rubbettino, il Lanificio Leo, la Sirianni produttore di arredi per scuole e comunità, aziende soprattutto affermate anche fuori dalla Calabria -, e qui si sta lavorando ad un marchio di originalità per le migliori produzioni agroalimentari.

    L’architettura ardita e le ombre

    Verso Catanzaro, la città che si staglia nella sua confusa, articolata morfologia collinare, scorgiamo il bellissimo ponte di Riccardo Morandi, una delle poche ardite architetture viarie di questo geniale progettista, sul cui restauro grava l’ombra di pressioni malavitose, che ci auguriamo non ne pregiudichino la longevità, essendo testimonianza rara di opera d’ingegno. La città capoluogo regionale ha una bellissima passeggiata storica nel centro, ricca di palazzi, di slarghi collettivi accoglienti, chiese di pregio, una interessante offerta museale di arte contemporanea, e una serie edifici modernisti di qualità del geniale architetto Saul Greco, nato a Catanzaro, che ha realizzato opere straordinarie in tutto il mondo.

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    Il ponte Morandi a Catanzaro

    Tra caos urbanistico e rigenerazione

    Un godimento tuttavia alterato, qui come altrove, da una infinita quantità di automobili che intasano ogni spazio destinato al pedone. Pregiudicano una vivibilità alta di questi luoghi. E sono l’esito del perenne, banale, lamento dei commercianti, ovvero “che le strade chiuse al traffico non generano vendite”! Nel caos urbanistico della moderna città “esplosa” di Catanzaro, si intravedono la serie di originali opere di Arte Urbana del collettivo “Altrove”, giovani locali attivissimi nella rigenerazione urbana e culturale, e nella parte bassa, verso il mare, il ristorante stellato di Luca Abbruzzino che ha scelto di realizzare l’alta cucina locale, ovvero la tradizione e il contemporaneo in un mix eccellente e di grande gusto!

    L’arte al Parco

    Superando l’intricato groviglio di viadotti, sovrappassi, ponti che Catanzaro ha realizzato nello scomposto puzzle urbanistico per garantirsi una minima funzionale mobilità, si lambisce il Parco della Biodiversità. Che accoglie opere d’arte di grandi autori contemporanei, tra i quali Antony Gormley, Jan Fabre, Michelangelo Pistoletto. Un luogo che merita una visita apposita. Così come il vicino sito storico, di straordinaria bellezza, in cui queste sculture sono state in un primo tempo installate: la Roccelletta di Borgia.

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    Il Parco della Biodiversità a Catanzaro

    La sfida nell’urna

    A Catanzaro si voterà per le Comunali il 12 giugno. Una campagna elettorale vivace, appassionata, vede contrapposti alcuni candidati come Wanda Ferro, Valerio Donato, e Nicola Fiorita. La sfida è aperta e si gioca sull’equilibrio tra continuità di modelli tradizionali e spinte ad un nuovo e vero volto di una politica sensibile ai giovani, agli artigiani, ai servizi, alla qualità dei luoghi, alla rigenerazione urbana, e culturale, affinché sia la volta buona per iniziare dalle città calabresi a voltare pagina e uscire fuori recinto!

  • Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Botteghe Oscure| Carbonai: gli ultimi uomini di fuoco in Calabria

    Non esiste “bottega” più oscura della produzione del carbone: lavoro gravoso, d’altura, e poco visibile. Ciononostante il mestiere di carbonaio e il prodotto del suo lavoro erano parte integrante della vita quotidiana di alcune comunità calabresi. Su quest’attività calava inoltre un alone di mistero: sarà per questo che ai carbonai e al loro mondo si ispirò la società segreta della Carboneria, nata agli inizi dell’Ottocento nel Regno di Napoli?

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    Carbonaie in un’incisione del Dizionario delle arti e de’ mestieri di Griselini del 1769

    Operai da fuori regione per il Carbone calabrese

    Agli inizi del Novecento la produzione del carbone era ancora una delle maggiori industrie forestali della regione. Ma, inutile dirlo, il tutto veniva portato avanti seguendo tecniche tradizionali e metodi primitivi. La quantità di carbone ricavata per ogni quintale di legna era molto limitata: «Pel faggio si ammette comunemente necessaria una quantità di circa 6 quintali di legna stagionata per averne uno di carbone, e per la quercia 5 quintali». Il rendimento era dunque del 16% nel primo caso e del 20% nel secondo. E la causa, secondo Nino Taruffi, era dovuta alla lavorazione all’aperto, mentre la carbonizzazione in forni chiusi avrebbe potuto portare il rendimento fino al 25/27%.

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    La legna da trasformare in carbone tra le Serre vibonesi (foto Mario Greco 2015)

    Nonostante ciò si trattava di un settore vivace e che richiamava anche lavoratori da fuori regione, come i 40 carbonai del circondario di Catania che giunsero nel Catanzarese nell’ottobre 1905 per tornare in patria a febbraio dell’anno successivo. Nel Reggino, nello stesso periodo, si mobilitavano tra gli 80 e i 100 carbonai della provincia. L’industria del carbone nel Reggino aveva meno forza rispetto alle altre province, ma già dalla fine dell’Ottocento faceva eccezione il distretto di Palmi, da dove «se ne esporta una notevole quantità per la Sicilia, ed i punti principali di smercio sono i comuni di Gioia Tauro e Bagnara».

    Gli ultimi uomini del fuoco e del carbone

    In genere veniva utilizzato per la carbonizzazione «molto del legname grosso di specie diverse e tutto il legname di sfrido nella fattura di tavole e traverse». I tagli avvenivano spesso in modo indiscriminato. Perfino molti alberi di sughero «vennero devastati per averne carbone e corteccia da concia».

    Ma ciò che gli osservatori di fuori regione avevano già rilevato più di un secolo fa circa la deforestazione della Sila avrebbe interessato poco gli speculatori. Il problema non era certo dovuto ai soli carbonai ma, come riporta lo scrittore Saverio Strati in un suo articolo del 1961, erano questi a pagarne lo scotto cadendo sotto la scure del pregiudizio: «Terra del vento, terra bruciata. E a bruciarla, secondo l’opinione popolare, sono i carbonai, questi uomini del fuoco, questi maledetti che dietro di loro lasciano sempre piazza pulita, che sempre sono nudi e affamati, come nuda lasciano la terra».

    Fuoco e pagliaio

    Le condizioni di lavoro erano durissime. Le difficoltà iniziavano con l’approvvigionamento della legna. Il carbonaio riceveva in consegna un pezzo di bosco da un appaltatore e doveva obbligarsi a consegnare un dato quantitativo di carbone a un determinato prezzo e in un tempo stabilito.

    Giunto sul posto, si preparava lo spiazzo per le carbonaie. Come prima cosa, si tirava su il pagliaio, che per molte settimane sarebbe stata l’abitazione del carbonaio, e spesso anche della sua famiglia, bambini compresi.

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    Il “pagliaro” con i carbonai e le loro famiglie

    Una casa «incerta come la loro esistenza», dice ancora Strati: «Coprono di rami d’elce, le cui foglie sono più dure che quelle della quercia, il pagliaio, e poi di terra pressata. Per letto rami frondosi, o felci secche. In un lato tre grosse pietre messe a modo di fornace, per contenere il fuoco, che d’inverno è sempre acceso».

    Il fuoco va “civato

    Poi iniziava la parte più delicata. Dopo aver tagliato, trasportato e raccolto la legna, bisognava sistemarla in forma circolare per realizzare la carbonaia, mettendo in basso i ceppi più grossi e man mano la legna più minuta. Al centro si lasciava una bocca circolare da servire per accendere il fuoco e per far fuoriuscire il fumo. Il tutto veniva ricoperto di terra. La combustione all’interno doveva avvenire senza fiamma, altrimenti la legna si sarebbe trasformata in cenere. Una grande perdita per il carbonaio.

    Il piccolo vulcano che ne nasceva andava controllato e “civàto, cibato, inserendo dal buco in alto nuova legna per mantenere il fuoco. Non meno faticosa era la fase di “scarico”. Sulla carbonaia si buttava tanta acqua e infine, rompendo il guscio di terra compattata, il carbone estratto doveva essere poi trasportato fino a valle con muli o, più spesso, a spalle.

    Carbone e ferriere nelle Serre calabresi

    Le selvagge e impenetrabili foreste delle Serre calabresi hanno fornito da sempre legname per le sporadiche ma significative attività metallurgiche, attestate in regione sin dal XI secolo. Ricca di legname e di acqua, la regione delle Serre ha visto nascere nella seconda metà del Settecento le ferriere di Mongiana prima poi quelle di Ferdinandea (oggi frazione di Stilo). Qui oltre ai minatori, ai fonditori e ai mulattieri trovavano spazio centinaia di uomini dediti alla produzione di carbone dal legno per alimentare queste industrie sempre bisognose di combustibile. Chiuse le ferriere, la produzione di carbone di legna continuò a rappresentare il sostentamento per un intero paese.

    Vivere di bosco

    Nella seconda metà dell’800 la popolazione del territorio di Serra San Bruno «vive pei boschi» e «se un grave incendio od una speculazione disastrosa distruggesse quei boschi, una emigrazione di massa ne sarebbe la dolorosa conseguenza». Lo si trova scritto in un numero della “Nuova Rivista Forestale” del 1886. In realtà una migrazione massiccia c’era già stata quando, dopo la chiusura della fabbrica di Mongiana, quasi tutti gli armaioli e gli artigiani del ferro che dimoravano a Serra San Bruno partirono alla volta di Terni, allettati da un impiego sicuro.

    L’ondata migratoria spopolò il paese, in cui rimasero oltre ai bovari solo segatori, accettaioli e carbonai. Ma agricoltura e pastorizia garantivano a quelle genti la sussistenza soltanto per due mesi l’anno. Così la sussistenza famigliare era legata unicamente ai cosiddetti “lavori del bosco”: abbattimento degli alberi, taglio dei tronchi, sramatura, sminuzzamento del legname da carbone e cottura dello stesso.

    Affari di famiglia

    I lavori boschivi si praticavano per contratto a «tanto al pezzo». In particolare, per il carbone si parlava di “tanto al cantaro” (85 chilogrammi). I carbonai di Serra San Bruno, al pari degli accettaiuoli, non formavano squadre di venti operai sotto la direzione di un capo e una mensa comune come avveniva nelle zone alpine, ma «le compagnie si restringono a due od al più tre individui legati o da vincoli di sangue o da vecchia amicizia».

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    Gli ultimi carbonai di Calabria a Serra San Bruno (foto Mario Greco 2015)

    Gli ultimi carbonai di Calabria

    Ad assumere le lavorazioni erano di solito i carbonai «più anziani od intelligenti» che ovviamente tenevano per loro una percentuale relativa «alle loro particolari prestazione e responsabilità». Nella grande filiera del legno da carbone, i carbonai entravano in gioco subito dopo gli accettaiuoli. Preparata la legna e composta la carbonaia, i carbonai vi appiccavano il fuoco secondo il “metodo tedesco”, vale a dire dalla sommità di quest’ultima.

    Esclusi i mesi di «gran neve», la produzione del carbone dal legno d’abete o di faggio si protraeva per tutto l’anno. Oggi nelle contrade di Spadola l’attività di produzione del carbone secondo il metodo tradizionale è ancora praticata dalla famiglia Vellone e suscita la curiosità di studiosi e fotografi. Come Mario Greco, il cui reportage ha conquistato le pagine di La Repubblica.

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    Carbonai del Vibonese (foto Mario Greco 2015)

    «Costano meno le donne dei muli per il trasporto del Carbone»

    Il trasporto del carbone prodotto avveniva di norma a trazione animale, specialmente per mezzo di muli e somari. Anche se, come afferma Agostino Lunardoni sulla stessa rivista, «le donne fanno la concorrenza ai primi». Lo studioso stimava per il territorio di Serra San Bruno «da 700 a 800 povere contadine occupate esclusivamente al trasporto della legna da fuoco e del carbone, sia per loro uso sia per vendere». Ovviamente il loro guadagno era misero e oscillante dai 50 ai 70 centesimi al giorno.

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    Le portatrici di carbone nella foresta di Ferdinandea nel 1908

    Leonello De Nobili, nel suo studio sull’emigrazione in Calabria, nel 1908 afferma di non poter dimenticare «due donne che mi apparvero come anime dannate nella folta boscaglia di Ferdinandea, dileguarsi sotto il peso di enormi carichi di carbone (40 kg) che portavano, così sulla testa, fino a Serra San Bruno (circa 10 miglia) per la mercede di 50 centesimi». «Perché non adoperare i muli?», chiese quindi a un taglialegna, che rispose candidamente: «Costano meno le donne». Oltre alle fatiche del lavoro, le trasportatrici erano esposte a diverse forme di violenza.

    Elisabetta donna ribelle

    In Storia dello stupro e di donne ribelli, lo storico Enzo Ciconte narra la storia di Elisabetta. Era una giovane carbonaia che nel 1888 aveva rifiutato la proposta di matrimonio di un giovane di Serra San Bruno. «La rapirò nel bosco quando di notte andrà pel trasporto di carboni» affermò il giovane rifiutato che «avendo pensiero di sposarla cercava obbligarla con oscenità».

    Un giorno mentre trasportava carbone insieme ad alcune compagne nei boschi secolari intorno alla Certosa, Elisabetta si trovò di fronte il giovane malintenzionato che «con la scure fece allontanare le altre e gittandola a terra le disse: o vuoi o non vuoi ti devo togliere l’onore ed Elisabetta gridando rispondeva: mi ammazzi ma non cedo». Fortunatamente l’accorrere di altre persone impedì all’uomo di usarle violenza.

    Carbonari e briganti

    Le buone maniere, in ogni caso, non erano certo la prassi. Nei boschi i carbonai non erano liberi di scegliere il luogo dove tagliare e impiantare le proprie cravunère. E oltre ai vincoli contrattuali e di proprietà intervenivano fattori “esterni” a condizionare il lavoro e la vita di questi lavoratori. Come noto, nei boschi silani a cavallo dell’Unità d’Italia i briganti facevano il bello e il cattivo tempo. Avendo interesse a che ampie porzioni di foresta facessero loro da nascondiglio, condizionavano la scelta dei luoghi dove impiantare le carbonaie, non senza ricorrere ad avvertimenti e violenze.

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    Carbonaio in Sila negli anni ’70, Dal volume “Serra Pedace nel mirino. Click sul passato”

    Come avvenne nel novembre 1864, quando alcuni carbonai di Piane (Francesco Guzzo, Pietro Prete, Salvatore Esposito e Antonio Pellegrino) intenti a far carboni nella contrada silana di Acqua del Corvo, si imbatterono in «otto individui armati di fucili a due colpi e di revolver» che uscendo dal bosco iniziarono prima a percuoterli e poi a sparare, uccidendone tre. Scrive Padula che «gli uccisori fossero briganti della banda di Francesco Albi della provincia di Catanzaro», e che dopo il fatto si spostarono in contrada Quaresima dove spararono a un altro carbonaio di Piane, Antonio Arcuri.

    Qualche anno dopo le uccisioni dei carbonai da parte dei briganti divennero oggetto di dibattito parlamentare grazie al senatore Guicciardi, già prefetto di Cosenza, che intervenendo a proposito di una legge sulla Sila ricordava che i briganti «in diverse occasioni commisero uccisioni di carbonai, perché questi non vollero limitarsi a fare il carbone nelle località e nella misura che loro era prescritta. I carbonai poi, difficilmente disobbedivano a tali prescrizioni perché l’autorità non aveva modo né di tenerli costantemente protetti, né di garantirli contro l’audacia dei briganti, i cui fatti crudeli e le cui sommarie esecuzioni incutevano un terrore a cui nessuno sapeva sottrarsi».

    Da Serra San Bruno a Serra Pedace

    Le tracce lasciate dal carbone ci conducono a Serra Pedace, uno degli storici Casali di Cosenza. Vista la vicinanza dei boschi silani, qui quello del cravunàru era uno dei mestieri più diffusi. Nella bella stagione gli uomini si spostavano per settimane nei boschi per attendere alle “cravunère”. Sistemavano le “catine” di tronchi disposti in forma circolare. Coprivano il tutto con le “tife” di terra, “civàndo” la carbonaia introducendo man mano la legna dallavùcca per raggiungere la combustione ottimale.

    Per la festa di San Donato

    Alla fine del duro lavoro il carbone era trasportato, a spalle o con i “traini”, in paese o a Cosenza per essere venduto. Non di rado a spostarsi erano intere famiglie. E la vita del paese rimaneva quasi come congelata, per riprendere normalmente al ritorno dei carbonari dai monti. La festa patronale di San Donato era fissata annualmente la seconda domenica d’ottobre. In questo modo potevano partecipare coloro che nei mesi estivi erano lontani dal paese. Rappresentava così molto più che una semplice celebrazione religiosa.

    E proprio la festa patronale segna in paese il mutare dei tempi. Gli ultimi carbonai sono scomparsi e non c’è più necessità di recarsi in Sila per lungo tempo nei mesi estivi. Anzi, l’estate è divenuta, come ovunque, un momento di ritorno al paese per i molti che lo hanno lasciato, e da alcuni decenni la festa è stata spostata ad agosto.

  • MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    MAFIOSFERA| Luna di miele con delitto: si fa presto a dire ‘ndrangheta

    Le spiagge di Cartagena, città caraibica sulla costa nord della Colombia, in queste settimane sono invase dal sole e dai colori. Cartagena non è solo una bellissima città, dove il giallo-oro ispanico-coloniale si mischia perfettamente al rosso, verde e blu di cibo, vestiario e vita di strada. È anche una città la cui posizione geografica ha sempre attirato molto turismo e reso il territorio un importante hub commerciale, grazie anche al porto, il più importante dei Caraibi.

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    Il magistrato paraguayano Marcelo Pecci con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera

    Marcelo Pecci ucciso in luna di miele a Cartagena

    L’isola di Barù a poche miglia da Cartagena è stata l’ultima meta turistica del procuratore paraguayano Marcelo Pecci, ucciso il 10 maggio 2022 a colpi di pistola da individui su una moto d’acqua venuta dal mare, mentre era sulla spiaggia con la moglie, la giornalista Claudia Aguilera. I due, appena sposati e in luna di miele, avevano appena annunciato sui social di aspettare il loro primo figlio, cosa che ha reso questo omicidio, se possibile, ancora più tragico.

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    Il procuratore Marcelo Pecci e la moglie: le scarpette del bambino che il giudice non potrà conoscere

    Marcelo Daniel Pecci Albertini aveva 45 anni e aveva dedicato gli ultimi anni della sua professione alla lotta al narcotraffico e al crimine organizzato, anche nelle sue manifestazioni terroristiche, tra Paraguay, Colombia, Bolivia e il resto dell’America Latina. “A Ultranza Py“, l’operazione anti-droga e antiriciclaggio che lo aveva coinvolto in prima linea insieme alla Drug Enforcement Administration – la DEA americana – colleghi uruguayani e forze di polizia di Europol, aveva portato, solo un paio di mesi fa, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benítez a chiedere le dimissioni di due ministri, per il loro coinvolgimento con dei narcotrafficanti tra Brasile e Paraguay.

    Le vie della coca: Paraguay e ‘ndrangheta

    L’operazione, infatti, si concentra sul ruolo che il Paraguay ha assunto nel panorama del narcotraffico da Bolivia e Colombia verso l’Europa sfruttando i container, la logistica e i network brasiliani da un lato, e i porti, la rete di distribuzione e la disponibilità di capitali in nord Europa. Che il Paraguay sia diventato un paese chiave per comprendere il traffico di cocaina dai paesi produttori, non è una novità.

    L’indice globale sulla criminalità organizzata redatto dall’Ong The Global Initiative Against Transnational Organized Crime nota come in Paraguay sia non solo aumentata la capacità di lavorare la coca, dunque diventando una tappa importante della catena di produzione, quanto sia anche aumentata la presenza – proprio per questo – di gruppi brasiliani sul territorio, come ad esempio il PCC – Primeiro Comando da Capital – temuta organizzazione criminale che da anni – si dice – essere in combutta con i peggiori (o migliori, dipende dai punti di vista) ‘ndranghetisti. Dal Brasile infatti, ‘ndranghetisti importatori di stupefacenti, hanno da lungo tempo stabilizzato una delle rotte più importanti dell’approvvigionamento di cocaina verso l’Europa.

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    Il Paraguay è una tappa fondamentale della catena di produzione e commercializzazione della cocaina

    Colletti bianchi in Sud America

    Questo lo sapevo sicuramente Marcelo Pecci, che infatti proprio a dicembre 2021 si era recato a Buenos Aires a incontrare l’esperto per la sicurezza italiana stazionato in Sud America. Avevano discusso anche di ‘ndrangheta, come ricorda proprio un suo tweet. In un’intervista rilasciata sotto Natale a La Nacion, il procuratore parlava molto lucidamente della presenza della mafia calabrese in Paraguay e avvertiva che membri di questa organizzazione nel suo paese «sono persone con preparazione accademica e senza precedenti penali», le cui attività commerciali «vanno da ristoranti a hotel, il tutto con un sistema di comunicazione attento e cifrato»; i soliti fixer in colletto bianco. Marcelo Pecci notava come ci fossero cittadini italiani indagati, ma come ciò non significasse che venissero necessariamente considerati parte dell’organizzazione.

    La ‘ndrangheta dietro la morte di Marcelo Pecci?

    Il procuratore paraguayano aveva compreso bene, dunque, che la ‘ndrangheta d’oltremare è una criminalità affarista, che si protegge spesso con la legge – nei gangli della società – e non dalla legge – come spesso fanno i gruppi di narcotrafficanti, con armi, forza bruta e terrore. Nonostante la chiarezza delle analisi di Pecci (decisamente più bilanciate di tante disamine italiane sull’argomento della ‘ndrangheta all’estero), e sicuramente complice lo shock della notizia del suo omicidio, è subito stata paventata, da alcuni canali di informazione italiani e non solo, l’ipotesi che dietro questo atto efferato ci fosse proprio la ‘ndrangheta. Non a caso si parla, in Italia, dell’ombra della mafia calabrese tra i possibili mandanti del crimine.

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    Marcelo Pecci, magistrato paraguayano ucciso sulla spiaggia di Cartagena, in Colombia

    Marcelo Pecci diventa pm antimafia

    A sostegno di questa tesi, sposata anche da canali spagnoli, proprio quelle indagini discusse da Pecci nel dicembre 2021, e alcuni arresti che ne sono seguiti. Non mancano riferimenti alla sua discendenza italiana. Tra i giornali italiani si intervistano magistrati, da Gratteri a Ingroia, perché speculino (ché di pura speculazione si tratta) su queste voci e in generale ché parlino dei rischi di chi è esposto in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Non a caso poi Pecci, il cui ruolo ufficiale era ‘Fiscal Especializado contra el Crimen Organizado’, diventa nelle news italiane ma anche straniere “pm antimafia”. Perché quando si tratta di morire per mano di gruppi organizzati dediti, tra le altre cose, al narcotraffico e al riciclaggio, siamo noi – italiani, o meglio siciliani e calabresi – a saperne di più, nel bene e nel male.

    In quest’ottica la corsa a far commentare la notizia dai procuratori nostrani non è di per sé cosa stranissima: Gratteri ammette di non averlo conosciuto di persona e si concentra sui metodi “mafiosi” utilizzati. Vista la nota efferatezza dei narcos, Ingroia si chiede come mai non fosse protetto. Altri commentatori poi dicono che «è perfettamente possibile» che ci sia la ‘ndrangheta dietro all’omicidio.

    L’ex magistrato siciliano Antonio Ingroia

    Perché potrebbe non essere un omicidio di ‘ndrangheta

    Sarà anche perfettamente possibile ma è veramente improbabile per almeno tre ragioni con la natura del crimine organizzato di cui si occupava il procuratore Pecci. Primo, quei narcos efferati, come li definisce Ingroia, come già detto scelgono lo scontro diretto con lo Stato perché il loro potere si fonda – tra le altre cose – sulla paura (e non solo sul consenso) e sulla sopraffazione violenta di qualunque competitore: i loro mezzi sono pertanto molto più violenti che in altre parti del mondo e soprattutto impiegati senza necessariamente che ci siano delibere dall’alto del gruppo criminale, spesso molto più fluido nell’organizzazione.

    Questione di metodo

    Secondo, se si va a guardare quel metodo mafioso di cui parla anche Gratteri, non può non notarsi che se il metodo terrorista-brutale è stato certamente usato dalle nostre mafie (cade questa settimana proprio il trentennale del morte di Giovanni Falcone), la ‘ndrangheta è stata molto più parsimoniosa di questo strumento soprattutto per “esterni” all’organizzazione. Bisognerebbe poi capire di “quale” ‘ndrangheta staremmo poi parlando, perché – come ci ha ricordato Pecci – in America Latina – soprattutto Paraguay, Brasile e Colombia – non sembra esserci capacità decisionale dell’organizzazione calabrese a questi livelli – quindi il massimo ipotizzabile è una partecipazione secondaria degli ‘ndranghetisti a una vicenda del genere.

    Terzo, infine, non dimentichiamo poi che un omicidio a migliaia di chilometri di distanza, in territorio altrui non è organizzabile in poche settimane (come in questo caso sarebbe successo se davvero l’operazione A Ultranza Py fosse la ragione scatenante) perché richiede contatti locali e supporto in caso seguano indagini dal carattere imponente; un’organizzazione cauta e sotto-esposta come la ‘ndrangheta dovrebbe, a rigor di logica, vedere un omicidio del genere come un’attività molto rischiosa e poco utile.

    Orgoglio e pregiudizio

    Detto questo, come mai si vuole tirare dentro per forza in questa vicenda la ‘ndrangheta, come mandante, o anche solo i metodi mafiosi? Da una parte perché la nostra concezione della mafia, come anche dell’antimafia, è etnocentrica e relativista: cioè, in molti magari pensano che la mafia, e dunque anche la ‘ndrangheta, siano non solo archetipo ma anche prototipo del crimine organizzato nel mondo. Così non è, le mafie sono in realtà tra le forme di crimine organizzato meno diffuse sul pianeta, senza volerne negare diffusione o pericolosità ovviamente.

    Inoltre, soffriamo in Italia – e ultimamente anche in Calabria – di orgoglio negativo nei confronti della mafia e della ‘ndrangheta. Il paese, l’Italia, che ha l’antimafia più forte del mondo (così va il noto adagio) – orgoglio positivo – ha anche le mafie più forti del mondo – orgoglio negativo. Così forti che diventa possibile, anche quando altamente improbabile, che siano i mandanti di un omicidio come quello di Marcelo Pecci.

    Conferenza stampa della Polizia colombiana dopo i 17 arresti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del procuratore Pecci

    Le indagini: 17 arresti e la pista che porta al clan Rocha

    Le indagini vanno avanti: ci sono stati almeno 17 arresti di individui di varie nazionalità in Colombia. Le piste sono concentrate, al momento, sul clan Rocha, un gruppo criminale su cui Marcelo Pecci indagava, legato al Primeiro Comando da Capital (PCC) brasiliano e dedito al traffico di stupefacenti da Bolivia, Perù e Colombia verso Stati Uniti, Africa ed Europa. Mentre ci auguriamo che si faccia presto chiarezza, oltre ogni ragionevole dubbio, su mandanti ed esecutori, e si riflette sul come si possano evitare in futuro altri atti così tragici, qui da noi sarebbe auspicabile mettere da parte il protagonismo, soprattutto quello negativo.

  • STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

    STRADE PERDUTE| Calabria Ultra, tutto il fascino dell’Aspromonte e i suoi silenzi

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    Calabria Ulteriore, oppure Calabria Ultra: per secoli è stata definita così la metà meridionale della Calabria, in contrapposizione a quella Calabria Citeriore – o Citra – che corrisponde grosso modo all’attuale provincia di Cosenza. La Calabria Ultra è tanta, e ci vuole coraggio a percorrerla tutta, e ci vuole senza dubbio un’automobile. Anche qui, lasciamo perdere l’autostrada. Lasciamo perdere i viadotti verso San Mango d’Aquino, Martirano e Martirano Lombardo. Sopportando partenze all’alba, ci si può studiare la strada più tranquilla per raggiungere da Cosenza la costiera attraverso strade secondarie.

    Viadotti e antiche (ma non troppo) macine

    Ed ecco che a Potame si vede già il mare: ai gefirofobi si dovrebbe consigliare di evitare due viadotti sul Catocastro passando dentro Lago e in quel posto meravigliosamente denominato “Aria di Lupi” (attenzione però a non impelagarsi poi in un’insidiosa sterrata a fondo cieco, verso Terrati). Si esce così nei pressi dell’antica tonnara di Amantea: un chioschetto a gestione più che familiare, su una spiaggia, dà il via al viaggio tirrenico sulla vecchia borbonica. Da qui, dopo una lunga galleria sopra Còreca, si corre abbastanza spediti, dritti verso le desolate e assolate aperture di Falerna e oltre: Lamezia, Pizzo e poi, ancora più giù, Gioia Tauro, con le sue barbarie semi-industriali.

    Bivio per Aria di Lupi

    Mi fa ridere – amaramente – notare anche qui quanti ristoranti, come in tutta Italia, si chiamino L’antica macina. Che fantasia, li trovi ovunque dalle Alpi all’agrigentino, magari ubicati in edifici che non avranno più di trent’anni, quelli che per darsi un tono – quando non sono classici esempi di ‘incompiuto calabrese’ o ‘non finito calabrese’ – finiscono col dimostrarsi più pacchiani di quanto già sono, utilizzando inevitabilmente piatti quadrati e decorazioni da haute cuisine. Passa la fame già solo a vedere quelle linee, molto parvenu, di aceto balsamico o di cioccolato gettate con fintissima casualità sulle parti intonse del piatto. Invece, quanta frutta a Bagnara, quanti fruttivendoli improvvisati lungo i tornanti che portano giù al paese… E in men che non si pensi si può già essere all’imbarco per la Sicilia, provare per credere, anche senza autostrada.

    Un classico episodio di “non finito calabrese”

    Calabria Ultra, un passato da capire

    Ma l’idea è quella di raggiungere la Calabria grecanica, benché il braccio sinistro, tenuto fuori dal finestrino, possa essere già quasi ustionato: e allora Pentedattilo, Roghudi, Africo, luoghi rimasti ancorati, appiccicati ad un passato fin troppo remoto, un passato a perdere che non interessa più a nessuno. E così è: certe tracce del nostro esser stati altro finiscono per scomparire nell’indifferenza, una parte del ‘nostro’ dna culturale e sociale viene costantemente silenziato senza appello. Non devo cadere nella retorica sociologica, non devo cadere nell’elogio pittorico, antropologico. In quei posti bisogna andarci e capire.

    Paolo Rumiz scrive, in un bel libro dei suoi, di un rifugio in Aspromonte, e voglio andarci anch’io: la strada è molto più lunga del previsto, qualche giovane escursionista suggerisce di dormire in tenda vicino a una pineta. Ma siamo a due passi dalla strada per Polsi, e non so perché, o forse sì, ciò incute timore: in più si avvicinano grossi cani inselvatichiti. Procedo per Gambarie, Delianuova, Piani di Carmelìa. Le indicazioni, da parte di diverse persone, prendono tutte come punto di riferimento certi cassonetti di spazzatura bruciati… est modus in rebus, ma almeno si arriva.

    Aspromonte puro

    L’amico di Rumiz mi spiega che è scomodo, con questo buio, montare la tenda, e mi indica una casetta vicina: manca la luce ma almeno c’è meno freddo e comunque c’è l’acqua e pure i servizi. Fa un freddo cane, bisogna accendere le candele, e chi mi accompagna accende pure il camino, vi cuoce sopra la carne e apre una bottiglia di vino. Con i sacchi a pelo adagiati sopra due divani, il tempo passa davanti al fuoco, scandito da racconti di nonni e caldarroste, condito da un rumore ormai quasi rassicurante: i tarli nel solaio. Anche Rumiz sentì gli stessi tarli.
    Al risveglio, piovoso, si prende la strada, ufficialmente chiusa, che porta verso l’ex sanatorio antitubercolare di Zervò: un filmato dell’Istituto Luce ne testimonia l’inaugurazione, nel 1929, alla presenza del duca d’Aosta.

    Poco oltre si giunge al pittoresco bivio per Piminoro, una biforcazione piena di zeppa di muli abbarbicati tra le rocce, davanti ad un panorama splendido: Aspromonte puro, ecco com’è.
    Si può procedere verso Trepitò – i suoni di questi toponimi ci ricordano che abbiamo lasciato la zona grecanica ma non quella magnogreca – e bisogna lasciare il passo a mandrie di vacche che procedono verso il laghetto di Zòmaro: è la prima volta che in coda a una mandria vedo un maiale. Un mansueto maiale al pascolo, un bel ‘nero’ di Calabria. Siamo appena più su del paese di Ardore, la patria del dimenticato Francesco Misiano, il poco ricordato martire civile di quella rara Calabria antifascista.

    Francesco Misiano, dalla Calabria Ultra a Stalin

    Due parole su di lui vanno dette: nato nel 1884, nell’umile famiglia di un ferroviere, diventa ragioniere e a Napoli sposa prestissimo la causa del Partito Socialista Italiano. Sindacalista, disertore in Svizzera di fronte a quella Grande Guerra che non condivideva, viene condannato alla fucilazione, commutata poi in ergastolo. In Svizzera stringe rapporti con gli anarchici e con Lenin, con Angelica Balabanoff e Rosa Luxemburg: da Ardore all’ardore. Da lì si trasferisce in Russia, poi a Fiume, e infine aderisce al neonato Partito Comunista d’Italia.

    Eletto alla Camera nel 1919 e nel 1921, proprio nell’aula di Montecitorio viene malmenato da una trentina di deputati fascisti proprio in quanto ex-disertore e perciò non degno della carica parlamentare. Viene trascinato in strada, la testa parzialmente rasata, imbrattato di vernice, tra sputi e cartelli di dileggio. E vi risparmio le foto.

    Francesco Misiano

    Ripara nuovamente a Berlino e a Mosca, dove presiede una casa di produzione cinematografica (distribuisce lui, in Germania, La corazzata Potëmkin…). Accusato da Stalin di trotskismo, muore in un sanatorio di Mosca per cause ‘incerte’ ma in tempi ben sospetti (ovvero nel periodo delle purghe staliniane, altro che il Sanatorio di Zervò…), e nell’indifferenza dello stato maggiore del comunismo italiano (in particolare, di quell’ala togliattiana che già lo aveva messo alla gogna). Vista in quest’ottica, la vicenda apparirebbe come il primo degli episodi di malasorte politica e personale del comunista meridionale. Malasorte dolorosamente fantozziana, per tornare alla Potëmkin …

    La pace tra i monti

    Meglio lasciare le corazzate e le guerre, restare tra i monti, procedendo sul crinale che, attraverso le foreste di Mongiana – quella delle Reali Ferriere borboniche –, portano alla più quieta Certosa di Serra San Bruno. Laddove altro tipo di silenzio regna necessariamente, anzi obbligatoriamente, con buona pace dei lati oscuri della Calabria Ultra, e pure di Misiano: bisogna pur avere santi in paradiso, più che in terra.

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    La Certosa di Serra San Bruno
  • BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

    BOTTEGHE OSCURE| Prega e distilla: Calabria alcolica e illegale

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    Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.

    Prega e distilla

    Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.

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    Alambicco di rame per produrre Gin funzionante nel 1945 (Pagina Facebook Distilleria Fratelli Caffo)

    Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».

    Alambicchi in ogni comune

    È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.

    Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa». E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.

    Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».

    Il primato di Reggio

    Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».

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    Fabbriche di spirito in provincia di Reggio Calabria, da Annali di Statistica, 1893

    Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.

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    San Giorgio Morgeto (RC), castello e fabbrica di liquori e profumi

    Catanzaro e Cosenza

    Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
    Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.

    La Stregaccia di Rossano

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    Testata del 1919 della fabbrica De Florio da www. grappa. com

    La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.

    Amari e altri tonici

    Pubblicità fabbbrica liquori Bosco, Cosenza, 1903

    Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».

    Amaro Magna Sila (Enoteca Stanislao Felice, Cosenza 1928-1929, Archivio Centrale dello Stato, Marchi e Modelli)

    Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».

    Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.

    Pubblicità fabbrica liquori Potorì, Catanzaro,1903

    Paisanella

    «Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.

    Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.

    Alambicchi silani: i segreti della paisanella

    Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.

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    Un vecchio alambicco silano per la produzione al livello familiare (Foto di Francesco De Rose nel libro di Furfaro)

    Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.

    Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.

    Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco

    Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.

    Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.