Il 2025 sarà ricordato come l’anno delle celebrazioni. Digitando “2025” sui motore di ricerca si ottengono lunghe liste di anniversari: dal 60° della morte di Churcill, al 40° della nascita di Calvino. Se si cercano date specifiche in ambito di nostra competenza si dovrà procedere per parole chiave, come: parità di genere, diritti, libertà. Si scoprirà che ricorrono rispettivamente:
10 anni dell’attentato alla redazione di Charlie Hedbo – 7 gennaio 2015
35 anni dall’inizio della Guerra del Golfo – 2 agosto 1990
60 anni dall’assassinio di Malcom X, attivista per i diritti umani afroamericano – 21 febbraio 1963
100 anni dalla nascita di Pol Pot, dittatore responsabile della morte di 3 milioni di persone – 19 maggio 1965
250 anni dalla nascita di Jane Austen, scrittrice britannica antesignana del femminismo – 16 dicembre 1775
Tra gli anniversari di questo 2025 ricorre anche il decennale della strage nella redazione di Charlie Hebdo
Due importanti anniversari del 2025
Sempre più affascinati dalla numerologia, che ci consegna l’anno in corso quale raro quadrato perfetto (45²) – rappresentando anche la somma dei cubi di tutte le cifre del sistema numerico decimale – continuiamo a cercare nei numeri qualche elemento di certezza che ci sollevi dalla vaghezza dei tempi. Dettagliando ulteriormente la ricerca di anniversari, nel 2025 troviamo il 30° dalla Conferenza di Pechino e il 25° dalla Risoluzione 1325/2000 dell’ONU.
Conferenza di Pechino 4-15 settembre 1995
Quarta e ultima Conferenza mondiale sulle donne organizzata dalle Nazioni Unite, durante la quale i leader di 189 Paesi si riunirono, insieme a oltre 30.000 attiviste, elaborando una sorta di tabella di marcia per favorire la parità di diritti per donne e ragazze. Pietra miliare dell’uguaglianza di genere, eleva i diritti di genere al rango di diritti umani (a partire dai risultati della III Conferenza, Vienna 1993), affermando il diritto delle donne a vivere libere dalla violenza, cosa che la rende assai contemporanea. La Dichiarazione (e la Piattaforma d’Azione) di Pechino resta l’Agenda Globale più ampiamente approvata per i diritti delle donne.
Tra i più importanti anniversari del 2025 c’è anche il trentennale della Conferenza di Pechino
Risoluzione ONU su Donne, Pace e Sicurezza
Il 31 ottobre del 2000 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dagli impegni annunciati dalla Dichiarazione e dalla Piattaforma d’Azione di Pechino, riconosce l’impatto (maggiorato) che la guerra ha sulle donne, ma anche la necessità che proprio le donne siano incluse nelle negoziazioni, essendo il loro contributo quello più innovativo e imprescindibile per una pace duratura. A oggi diversi paesi del mondo hanno reiterato la Risoluzione e la rispettiva Agenda, attraverso Piani d’Azione Nazionale su Donne, Pace e Sicurezza. Quello italiano è il più longevo e articolato.
Ricordare per non ripetere gli errori del passato
Ma a cosa serve ricordare? Nell’epoca dell’utilitarismo generalizzato, cerchiamo di capire quali sono i vantaggi dell’esercizio di memoria, individuale e collettivo. Partiamo dall’etimo.
“Ricordare” deriva dal latino Recordari, prefisso Re e verbo Cordare, le cui origini riportano a Cordis che significa cuore.
Ricordare significa dunque ritornare al cuore, che per i romani era il luogo della memoria.
Convenendo sul fatto che, tenere a mente le esperienze passate significa valorizzarle, o anche solo prenderle in considerazione come precedenti degni di nota. Il ricordo è tra le esperienze umane più potenti e condivise, sia a livello personale che a livello collettivo. Non diamo tutti medesima importanza a medesime circostanze, ma in quanto cittadini di uno Stato, di una Comunità di Stati e del mondo, dovremmo concordare sulla rilevanza di alcuni accadimenti che hanno inciso sulla nostra storia rendendoci parte di un tessuto civico che si costruisce, anche, in relazione ai cosiddetti precedenti storici.
Commemorare significa celebrare
Le commemorazioni hanno lo scopo di onorare un passato da cui saremmo tenuti a imparare come cittadini e come collettività. Alcune commemorazioni, più di altre, contribuiscono a tracciare i tratti di un’identità condivisa che dovrebbe essere tanto più pacificata, in riferimento ad eventi storici che dovremmo essere in grado di valutare all’unisono, senza se e senza ma, come il 27 gennaio, Giornata della Memoria. Gli 80 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, avrebbero dovuto essere sentiti, unanimemente, come ricorrenza utile a validare un monito contro ogni forma di persecuzione di popoli e di gruppi sociali, una ricorrenza che avrebbe dovuto trovarci tutti dalla stessa parte, quella dell’umanità, ma così non è stato.
Memoria minuitor nisi eam exerceas
Il dominio pubblico non valorizza i buoni sentimenti quali denominatore comune su cui costruire visioni condivise, e anche la questione delle celebrazioni, affatto pacificata, riflette scuole di pensiero diverse, alla base delle quali ci sono altrettante visioni del mondo. Negli anni dell’intelligenza artificiale, però, una cosa è certa: le ricordanze attivano sentimenti di condivisione, un’empatia che ci contraddistingue come specie capace di immedesimazione ed emulazione. Marginalizzare quello che di più profondo ci caratterizza potrebbe rivelarsi controproducente, specie in ambito umanitario.
Un busto di Cicerone
Cicerone sottolinea che «la memoria diminuisce se non la si esercita» e noi ne siamo testimoni vivi perché, non riteniamo sia importante trasmettere a chi verrà, il valore che alcune ricorrenze avrebbero dovuto evocare in noi, evidentemente disillusi rispetto alla possibilità di imparare dalla storia, e ingrati rispetto a quanti hanno creduto così profondamente nella pace, nella giustizia e nelle libertà da difenderli a costo della vita.
Guerra all’indifferenza e restare umani
Il 28 luglio di quest’anno avrebbe compito 55 anni Jean-Sélim Kanaan, morto nell’attentato alla sede ONU di Baghdat, in Iraq, nel 2003. Nel suo libro La mia Guerra all’Indifferenza ci lascia in eredità una disamina dei conflitti onesta e partecipata, denunciando l’incapacità e l’inettitudine delle Nazioni Unite nella difesa delle popolazioni civili e l’importanza del volontariato, a partire dalle esperienze fatte in Somalia e in Bosnia. La sua visione critica è un monito per noi peacekeeper che misuriamo sui nostri corpi la necessità di ridefinire regole che servono anche, se non soprattutto, in contesto bellico.
Vittorio Arrigoni a Gaza
«Restiamo umani», si raccomandava Vittorio Arrigoni a chiusura dei suoi pezzi.
Un invito a non dare per scontato che, in quanto esseri umani, siamo capaci di praticare l’umanità. Un ammonimento, in una fase in cui, agli addetti ai lavori, era già dato di osservare come le brutalità belliche cozzassero con le avanguardie dei nostri Paesi emancipati, così emancipati da perpetuare una logica coloniale all’occorrenza, nei rapporti con un Terzo Mondo che è bene resti tale, sulla falsariga imperiale che ci ha resi noti nel mondo, e che fatica a favorire paradigmi paritetici, ispirati alla cooperazione reciproca.
I modelli in cui crediamo sono quelli sostenibili, quelli che ci ispirano e non ci lasciano cedere ad un a desolazione che, a tratti, neanche un certo impegno civico elude.
Il 15 aprile – a 2 anni dall’inizio della guerra in Sudan – Vittorio avrebbe compiuto 50 anni, se non fosse stato ucciso a Gaza nel 2011 mentre si spendeva per praticare la solidarietà a popoli oppressi. Ma il suo appello resta, se ce ne vogliamo ricordare!
Manuela Vena
Presidente Associazione Culturale Fidem Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza
Centotrenta, anniversario tondo, celebrato ufficialmente il 19 marzo. Per l’occasione, il 3 aprile uscirà nelle sale italiane Lumiére. L’avventura del cinema, che è appunto di questo che si parla, della nascita dello stupore.
Il film, diretto da Thierry Frémaux, megadirettore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumiére di Lione, raccoglie 120 “vedute” dei fratelli Auguste e Louis, fra cui il l’arcinoto arrivo del treno in stazione e l’uscita degli operai dalla fabbrica. Roba da 50 secondi l’una – tanto durava un caricatore di pellicola – restaurate dal laboratorio della Cineteca di Bologna “L’Immagine Ritrovata” senza aiuto dell’intelligenza artificiale. Un film, per chi ha voglia di saperne di più, del quale sono disponibili sul web tutti i dettagli, dal pianoforte di Gabriel Fauré che fa da colonna sonora, alla voce narrante di Valerio Mastandrea, con corollario di recensioni varie, qualcuna alla Bertoncelli.
Café Lumiére
Ma c’è una cosa, che dura ancora meno di quei 50 secondi, altrettanto ipnotica quanto la meraviglia del cinema dei Lumiére. Che fu tale che ancora oggi, a distanza di 130 anni, si racconta del pubblico del Salon Indien du Grand Café, lungo il Boulevard des Capucines di Parigi, che alla vista dell’arrivo della locomotiva scappò dalla sala per paura di essere travolto.
Prima di quel treno si provò in tanti modi a riprodurre il movimento con aggeggi come il fenachistoscopio o il prassinoscopio (qui www.collectorsweekly.com/articles/dawn-of-the-flick/), roba non facilissima da maneggiare, oltre che da pronunciare. Come lo erano invece i flip book, quei libricini che si tengono in una mano mentre il pollice dell’altra gira le pagine così velocemente che le immagini sembrano prendere vita.
Flip book era il nostro smartphone
Ce n’è uno con la copertina di un certo tono di viola invecchiato dal tempo, sopravvissuto miracolosamente alla mia infanzia, che conservo in una di quelle scatole magiche che ci vai a frugare quando hai bisogno di ripigliarti, come alternativa low cost ad una seduta dall’analista. È un gadget dei primi del ‘900 delle sigarette Turkish, di cui mio nonno è stato estimatore fino all’enfisema, che riproduce una milf in mutande che fa esercizio ginnico. All’epoca di noi boomer non c’erano gli smartphone a fare da strepito-calmante istantaneo quando sei fuori a tentare di mangiare una pizza, con i genitori ad arrangiarsi come potevano.
Ecco, quel flip book aveva su di me lo stesso effetto dello schermo di uno smartphone, e in realtà, sempre dell’ipnotismo delle immagini in movimento si tratta. Poi, nel tempo, quel mazzettino mignon di foto stampate ha cambiato funzione, come oggetto per meravigliare amici e soprattutto amiche in odor di piacenza, fino ai giorni di ricordi quasi-bamba.
Quelli bravi lo chiamerebbero dispositivo ottico, vivisezionandolo in mila pagine dotte, ma la magia del cinema nonostante tutto, nonostante Netflix, pandemia e blablabla, è ancora questa: innescare orditi di ricordi e suggestioni…
Una delle scene più belle del primo film del regista Gianni Amelio, La fine del gioco, girato 55 anni fa a Catanzaro, rimane sorprendentemente impressa dopo averlo visto. È quella che ritrae un gruppo di ragazzini. Prima seguiti dall’alto e poi a livello della strada. L’occhio del regista che li segue, mentre a ritmo lento e dolente, sfilano in corteo.
Una marcia a testa bassa, in silenzio e braccia conserte dietro la schiena, come fossero in ceppi. Il gruppo di adolescenti messi in fila come un plotone sono seguiti lentamente da un’auto, che li tiene d’occhio e li scorta infine dietro un cancello e oltre le mura di un recinto. In quel passaggio sorvegliato tra strade cittadine di una Catanzaro illividita dai toni del bianco e nero, in una controra quasi spettrale, c’è tutta la condizione di privazione di libertà dei giovani che erano detenuti all’interno del carcere minorile di Catanzaro. Il luogo dove il film si ambienta dopo quelle prime scene.
Il regista Gianni Amelio durante un intervento alla Stampa estera
Gianni Amelio a Catanzaro
A lato di quel primo scorcio rivelativo, a quel piccolo gruppo di ragazzi sorvegliati, si contrappone l’allegra e libera frenesia che anima il gioco di un altro gruppetto di figuranti. Un gruppo dei bambini che si svagano sparpagliati e vocianti oltre la transenna di una grande piazza. Loro, uno sciame di liberi, e i separati, gli estranei, già lontani, chiusi da quei confini, in quelle stanze, le camerate del correttorio già così simili a celle. Sembra il distillato del set iperrealista di uno dei film di Amelio più belli, Il ladro di bambini. Catanzaro del dopoguerra, e questi ragazzi che guardano sempre per terra e non si voltano indietro, e in alto non guardano mai.
L’infanzia difficile, il rapporto tra i bambini, i giovani e gli inganni degli adulti, il sentimento del tempo e la nostalgia, gli sfregi alla bellezza e al paesaggio, le rivelazioni che balenano nel movimento che coglie lo spazio e la luce, il senso profondo della storia. In questo piccolo film di 60 minuti, c’è, riassunto in un’epitome tutto il cinema che sarà di Amelio, da quei primi spezzoni di pellicola sperimentale sino ad oggi.
La proiezione organizzata da Fondazione Trame
È merito della Fondazione Trame, guidata da Nuccio Iovene, che da 13 anni organizza il Festival dei libri sulle mafie a Lamezia Terme, e di “Trame a Sud”, lo spin-off affidato al giornalista e scrittore Vinicio Leonetti per promuove iniziative di riflessione artistica e cinematografica legate alla Calabria e al Mezzogiorno, a cui va il merito di aver allestito e organizzato questo primo appuntamento, se a Catanzaro nei giorni scorsi il cinema fuori dalle sale è tornato in luogo della città così significativo, vicinissimo e lontano, il Minorile di Catanzaro, che oggi si chiama Istituto Penale per Minorenni con Sezione per Semilibertà. “Trame a Sud” comincia da questo luogo e da questo autentico, e presto dimenticato, capolavoro riscoperto.
Gianni Amelio gira nel carcere minorile di Catanzaro
La fine del gioco è il primo mediometraggio filmato realizzato e prodotto per la Rai dal regista Gianni Amelio nel 1970. Un film in cui un regista della televisione nazionale, decide di intervistare un bambino molto particolare. Leonardo è un piccolo orfano che senza colpe che non siano la sua condizione di orfano e piccolo lazzaro, si trova chiuso in una casa di correzione. Il regista lo sceglie per farne il protagonista di un film-documentario per la televisione.
E’ sta la straordinarietà del cinema, che diventa il cinema girato proprio lì, con il racconto di una storia che si svolgeva nel recinto del Carcere Minorile di via Paglia, diventato set, con un protagonista che, come quei ragazzi, era uno di loro. Amelio girò La fine del gioco in bianco e nero a soli venticinque anni, scrivendolo insieme ad un altro importante catanzarese del cinema italiano, Mimmo Rafele, che di questa pellicola di Amelio fu aiuto regista e sceneggiatore.
Con gli studenti del Galluppi, il liceo di Amelio
La visione del film, a distanza di più di mezzo secolo dalla sua realizzazione, è stata condivisa adesso dagli studenti del Liceo Classico Galluppi (che fu il Liceo di Amelio), insieme ai ragazzi che entro le mura del Minorile di Via Paglia, sono ancora oggi come allora ristretti. Difficile, se non irrealizzabile per la ritrosia sentimentale e umana che contraddistingue il suo autore, far tornare Amelio, che ha da poco compiuto 80 anni ed è al cinema con il suo ultimo film Campo di Battaglia, nella città del suo debutto di regista per celebrare questa bella e simbolica ricorrenza.
Era presente invece Domenico Rafele, felice di ritornare dopo 55 anni nella sua città e sui luoghi che furono set di quel film. Rafele è uno dei più noti e affermati sceneggiatori italiani. Oltre che con Amelio, ha poi collaborato tra gli altri con registi come Bernardo e Giuseppe Bertolucci. Tra i suoi film come regista e sceneggiatore si ricordano Domani (1974) Ammazzare il tempo (1979), La piovra, Il giovane Mussolini, Vite a termine, Codice Aurora. Oggi Rafele vive a Roma, dove continua a dirigere film e a scrivere (anche libri; suo il romanzo La forma della paura, scritto con Giancarlo De Cataldo) come sceneggiature per il cinema e la televisione.
Leonardo, il piccolo protagonista di allora
Alla proiezione de La fine del gioco, tra gli ospiti radunati da Leonetti per la proiezione nel piccolo cinema del Minorile, non c’era il regista, ma c’era invece, il suo protagonista di allora, Leonardo. Gino Valentino, che a 12 anni fu preso dalla strada e scelto proprio da Amelio per interpretare il piccolo protagonista del racconto, che nel film si chiama appunto Leonardo. Gino/Leonardo è oggi un simpatico, sorridente, e affabile signore di una certa età. Una vita ordinaria di lavoro e di affetti.
Un tranquillo pensionato quasi settantenne che vive nel quartiere popolare di Fortuna, tra la città e il lido di Catanzaro. Ma quella del film fu per lui un’esperienza indimenticabile, che ha raccontato ai ragazzi e al pubblico con l’incanto intatto di quando era bambino, con ingenuità e fervore, esattamente come allora. «Gianni e Mimmo mi sono stati molto vicino allora, io non avevo mai visto il cinema; mi hanno guidato loro in tutto, ma se feci bene l’attore per quella parte fu perché mi sentivo davvero com’ero nel film».
Un ragazzino di una periferia del Sud, cresciuto in quegli anni faticosi, ingenuo testardo, diffidente e incantato da tutto. Rivisto, nella parte di Leonardo, lui è davvero un magnifico. Anche il giorno della proiezione i ragazzi ristretti del Minorile lo avevano scambiato per uno di loro. Invece Gino allora era solo il ragazzino di un suburbio di case popolari, l’abitante di un quartiere di provincia, cresciuto per le strade polverose di una Calabria fine anni ‘50 povera e piena di speranze, non ancora smagata dalle illusioni del boom. Il Minorile lui, Gino, lo chiama ancora “riformatorio”.
E confessa che ancora oggi tra i suoi conoscenti c’è chi fatica a credere che lui non fosse uno degli adolescenti reclusi lì dentro. Ci tiene a raccontare di non avere mai avuto problemi con la giustizia, né prima né dopo il film. Ma forse fu, dice, solo per caso, per fortuna, aggiunge, se lui fece “le scuole”, ebbe genitori buoni e con loro un destino che lo portò lontano dalle mura del riformatorio di Via Paglia. Racconta come fu che arrivò a fare quella parte.
La troupe si presenta nella sua scuola di Catanzaro. Alla selezione si affollano in tanti, tutti ragazzini delle medie cittadine. Lui ad un certo punto, irrequieto com’era stava per scappare via per tornarsene a casa, quando Amelio lo fermò, interpellandolo in dialetto catanzarese: “Duva fuji tu!, veni accà!”. Era lui quello che cercava per il suo Lorenzo. Gino aveva la faccia giusta, il gesto, i tratti, la voce, la postura che cercava Amelio. Da quel giorno Gino fu per sempre il Lorenzo del film. Lavorò per alcuni mesi fianco a fianco con Amelio e Rafele, ogni giorno sul set, girando diligentemente e con una bravura stupefacente buona parte delle scene tra gli spazi interni al carcere minorile, che ancora oggi è accanto allo Stadio dove gioca il Catanzaro.
Il set per gli esterni fu poi portato anche tra gli scompartimenti deserti di un treno del Sud. Gino recita le sue scene in compagnia del solo grande Ugo Gregoretti, che nel film interpreta il giornalista della Rai che vuole intervistare Leonardo. Gregoretti è l’adulto che lo scruta e lo indaga, lo straniero viene da una città lontana, l’altro che lo avvicina tentando di offrire con il passaggio dallo schermo uno spiraglio redenzione piccolo borghese al piccolo carcerato ribelle. Devono ad un certo punto fare insieme un viaggio, uno spostamento altrove, trasognato, teso, solitario.
Un vagone di un Treno Espresso fu per questo preso in affitto dalle Ferrovie dello Stato. Si girò, ricorda Mimmo Rafele, su un convoglio in movimento che faceva realmente la spola sulla tratta tra Roma e Lamezia.
Colpiscono anche quelle scene prese dal vero e registrate in diretta da Amelio e Rafele. Con i sobbalzi e lo sporco di fondo, mentre dai finestrini del treno scorre un paesaggio del Sud già rotto e privo di bellurie, con voci e rumori che si sovrappongono, con piani sequenza e lunghi silenzi, poche parole spezzate e gli sguardi persi e poeticamente intensi di Leonardo. Furono girate così le scene del viaggio con cui il film nel racconto del piccolo Lorenzo si conclude.
L’Oliver Twist di Amelio
Il piccolo orfano ribelle prima si nasconde, poi scende dal treno a una delle fermate, da solo, scalzo. Fugge. Va via. La vita e la rinascita prospettata per lui restano incerte, ma la strada che sceglie sarà quella che farà, a modo suo. Allo stesso modo Amelio cominciava in sordina ma in forma luminosa e poetica il suo cinema a Catanzaro con questo piccolo film. Lo fece raccontando in pellicola la parabola malinconica del piccolo Leonardo, un lazzaro fantasioso e ribelle – un orfano povero, che parte senza mezzi verso l’età adulta e per compiere la sua avventura dal profondo della provincia fugge via, come fu del resto per lo stesso Amelio.
Come Dickens circoscrisse in letteratura le scabrosità e le esclusioni brutali della società vittoriana dipingendo di speranze e di fidente genuinità il volto del suo Oliver Twist, Amelio lo fa nel suo film riuscendo a dare un volto e un sembiante poetico al suo piccolo Leonardo, dipingendo speranze e ribellione sul volto innocente e riottoso di Gino, aggiungendo scetticismo e malinconia alle gesta minime del suo piccolo protagonista. Non a caso, quindi, da questo luogo di “correzione” e da questo particolare racconto cinematografico era partita l’originale avventura cinematografica di Amelio.
Dal carcere ai vagoni del treno
Il film implicitamente e per contrasto ci appare oggi anche come un discorso figurato sull’immaginario e sull’iconografia culturale catanzarese degli ultimi decenni. Merito anche questo di Amelio, intellettuale e regista transfuga dalle circonvenzioni cittadine. Allievo, come Alvaro, del famoso Liceo Galluppi, dopo una parentesi universitaria messinese, Amelio evade da Catanzaro per rinascere cinematograficamente a Roma. La fine del gioco è anche per questo un film già precocissimo e completo. Compendia il tema del ritorno, sia nel soggetto del film – la storia del ragazzino che appena dodicenne si trova rinchiuso senza colpe in un riformatorio calabrese, da cui cerca faticosamente di fuggire per trovare fuori la sua strada –, sia nella suggestiva e minimalistica ambientazione dei paesaggi, con gli esterni girati a Catanzaro. Mentre nel carcere minorile della città si girarono tutti gli interni, solo le scene della seconda parte in viaggio, furono spostate dentro i vagoni di un treno.
Nella pellicola tutti i temi di Gianni Amelio
Questo primo film catanzarese contiene in cifra, dicevamo, tutti gli ingredienti della filmografia maggiore sviluppata successivamente da Amelio: i temi del contemporaneo, il cinema sul cinema, il rapporto fra padri e figli, quello difficile e irrisolto del richiamo dei luoghi delle origini, con la lotta fra gli integrati e i fragili, i marginali, i fuoriposto, opposti alla logica conformista e feroce della società contemporanea. Centrale, come in tutto il cinema di Amelio, è anche il tema dello spaesamento e del viaggio, narrati come archetipi culturali e umani di un Sud inaridito, slogato e fuori posto. Forse proprio il conflitto intimo e mai risolto di Amelio con la sua Catanzaro resta intatto e ancora aperto come sottotesto implicito del film.
La città per lui «ferma» e «malferma», il suo ricordo di una piccola società di provincia, burocratica, conservatrice e chiusa nei suoi privilegi, a cui si oppone oggi l’immagine contemporanea di luogo di incroci politici e di potere prepotenti e corrivi, riflessi nello specchio rovesciato di paesaggi urbanistici caotici e sconvolti. Un catalogo di contrasti irrisolti che restano ancora oggi il tratto distintivo e perturbante di questa capitale ideale della Calabria di adesso.
Un luogo che oggi scorre ineffabile, immobile e chiazzato di enormi palazzoni e costruzioni fuori scala, lontano dai finestrini delle auto in corsa sui grandi snodi stradali, nel traffico impazzito delle circovallazioni, oltre i ponti vertiginosi gettati su calanchi e burroni di questa Calabria post-tutto. Un paesaggio che sembra un compimento di quel primo set di Amelio, l’apoteosi di quelle cupe location del non-finito sudista di un tempo. Set ideale, magari, per girarci un nuovo film di Gianni Amelio, un’altra fine del gioco.
Il dibattito e la proizione nel carcere minorile
Alla fine del dibattito e della proiezione, la sala-cinema del Minorile era strapiena: studenti, docenti, ma soprattutto tanti giovani in vinculis, i ragazzi in custodia presso il Minorile che hanno visto il film. Tutti bravi, tutti in parte. I dirigenti della struttura di oggi, l’aiuto regista di allora, il protagonista del film, Vinicio Leonetti e i dirigenti di Trame festival, la giornalista e scrittrice Annarosa Macrì, autrice -con Giosi Mancini- di una bella e dettagliatissima intervista ad Amelio per i suoi ottant’anni uscita nei gironi scorsi su Il Quotidiano del Sud. Con la sorveglianza delle guardie carcerarie, che lì per servizio, hanno apprezzato molto anche loro.
Tutti insieme a vedere e compitare le scene di questo bellissimo film, un apologo sull’adolescenza e il senso della vita che dopo più di mezzo secolo da quando fu girato, non smette di interrogarci e farci riflettere. Applausi per tutti. Quindi. A cominciare da quelli che nel lontano 1970 hanno immaginato, realizzato, interpretato questo piccolo prezioso capolavoro nascosto del cinema italiano – che va riportato all’attenzione del pubblico e restaurato prima che sia troppo tardi. Se ai giovani spettatori radunati a vederlo è rimasto attaccato qualcosa della poesia e della luce di questo primo scarno e potentissimo film di Amelio, di questa storia povera e pensosa, in cui un piccolo orfano ribelle, povero e malvissuto, si stacca dagli adulti e prende la sua vita in mano, anticipando “la fine del gioco”, sarà questo di nuovo e soprattutto il suo vero successo.
Quella di oggi è una storia di passione, morte e rinascita. Contemporaneamente anche un racconto di community building, incubazione di “proto-imprese”, collaborazione e azioni dal basso per la rinascita delle aree interne. Perché dietro – o, meglio, attorno – al protagonista si snodano le strade e le scelte di altri protagonisti che contribuiscono a formare una nuova narrazione corale dell’Aspromonte. Sono le vite degli altri nella storia di Demetrio D’Arrigo, per tutti Demi e meglio conosciuto sui social come AspromonteWild. Per me il cicerone con cui ho alle spalle molte giornate condivise, tanti chilometri percorsi, tracce di speleologia e geologia e un confronto serrato sui temi che riguardano le aree interne, i restati e i ritornati. Il nostro rapporto, nato durante la visita a Pietra Cappa in occasione dell’intervista ad Annamaria Sergi , si è strutturato nel tempo e Demetrio è diventato compagno di esplorazioni e amico.
La nostra tappa stavolta è stata a Roghudi Vecchio, antico insediamento aggrappato a uno sperone di roccia nel ventre dell’Amendolea, versante Sud dell’Aspromonte. Diverse volte alluvionato, dichiarato inagibile, è in stato di abbandono fin dagli anni Settanta. Terra di vento, crepacci e leggende nel cuore della Calabria greca dove ci sono cascate che, per la loro conformazione, fungono da prima palestra per i neofiti del torrentismo.
«Pronto a fare l’esperienza delle corde?», chiede mentre ci appropinquiamo alla meta. L’idea è di realizzare un’intervista in natura, cercando di documentare le attività e le passioni di Demetrio D’Arrigo, voce autorevole tra gli operatori del settore e leader indiscusso del comparto sport di montagna.
La seconda vita di Demetrio D’Arrigo
«Sono alla mia seconda vita. La prima, un passato nel mondo della post-produzione musicale, si è chiusa diversi anni fa. Di quella conservo il mio orecchio assoluto. Abbracciare la montagna, perdendomici in solitudine anche per giorni, mi ha risollevato da un momento cupo e mi ha indicato una nuova strada. Il mio percorso inizia nel 2007, anno del mio ingresso nel Soccorso alpino. Nel 2009 lancio la mia associazione impegnata nella valorizzazione del territorio e nella promozione dei percorsi escursionistici in Aspromonte. Nel 2013, grazie alla legge sulle professioni non regolamentate, avvio la mia attività di guida canyoning. Poi nel 2015, finalmente, dopo un corso di formazione promosso dall’Ente Parco, divento una sua guida ufficiale. Oggi sono socio fondatore dell’ENGC e unico calabrese a farne parte. Sto cercando di diventare una guida completa, sia sul versante sportivo che escursionistico, accompagnando su più terreni, su diversi territori e in varie attività sportive».
Oblio e alleanze
Formatore, istruttore di canyoning molto conosciuto e riconosciuto, Demetrio D’Arrigo è un incredibile facilitatore: oltre al proprio lavoro coi gruppi turistici, si dedica a promuovere e divulgare le risorse del territorio ai calabresi, collaborando con le comunità e svolgendo una vera e propria attività di coaching e capacity building.
È quello che gli ho visto fare durante le uscite di gruppo e i sopralluoghi a due durante tutti questi mesi: disseppellire da un oblio collettivo patrimoni naturalistici ed escursionistici e, contemporaneamente, rafforzare il fronte dellealleanze per lo sviluppo tra i territori. È stato lui a introdurmi e presentarmi a Giuseppe Murdica, Stefano Costantino con la moglie Arianna Branca e i tanti altri restati e ritornati con cui collabora e che ha spronato a credere nella possibilità di uno sviluppo endogeno.
Demetrio D’Arrigo e Peppe Murdica
«Tento di ricucire i territori con le loro comunità, spesso inconsapevoli delle loro risorse naturalistiche e di quello che può essere attivato. Una cosa che è diventata quasi naturale, perché è parte integrante della natura stessa delle attività escursionistiche e sportive che propongo. I residenti dei territori inseriti nei miei itinerari sono un elemento essenziale: sono i loro custodi. Tra loro ci sarà sempre qualcuno con una storia da raccontare e un patrimonio da divulgare». Praticamente la nuova frontiera del marketing territoriale di prossimità.
È quello che è successo nella piccola comunità di Armo, media collina a un passo da Reggio; a Piminoro, versante occidentale del lato più tropicale dell’Aspromonte che domina la Piana di Gioia Tauro; a Pietrapennata, tre case, qualche decina di abitanti e nemmeno un forno, più in quota di Palizzi Vecchio, dove allena i suoi allievi su una delle palestre di roccia utilizzate dagli scalatori.
Lo schema di Demetrio D’Arrigo
Lo schema di Demetrio D’Arrigo è sempre lo stesso: effettuare sopralluoghi alla ricerca di mete per nuovi percorsi escursionistici; agganciare i loro abitanti per carpire la natura e l’essenza di quei luoghi; costruire itinerari stimolando quelle comunità a creare servizi di accoglienza, promozione delle tipicità, narrazioni autentiche; lanciare quei nuovi punti escursionistici attraverso i suoi canali digitali, aggiungendo ogni volta un nuovo nodo a questa infrastruttura immateriale di relazioni. L’indicizzazione dei motori di ricerca gli dà ragione, il suo sito è da anni in prima posizione su Google. «E nel periodo estivo gli accessi alle pagine hanno notevoli picchi di ingresso».
Mimmo Plutino e Stefano Costantino
A confermarmelo è Stefano Costantino, componente della Cooperativa Sant’Arsenio. Realtà di forte ispirazione cattolica, opera ad Armo dal 2005 aggregando piccole produzioni locali, orti urbani, ospitalità, formazione per le scuole, approccio eco-sostenibile. «Demetrio D’Arrigo è spuntato qualche anno fa per contrassegnare Armo, terra del monaco eremita Sant’Arsenio, come una delle ultime tappe del Cammino Basiliano. “Abitate un luogo straordinario da cui è passata la storia del monachesimo di Calabria. Siatene fieri”».
Da Armo a Piminoro
Mimmo Plutino, diacono della parrocchia, è più esplicito: «Quando, qualche anno fa, tornai a visitare il canyon dei Rumbulisi, condividendone le foto, Demetrio D’Arrigo mi contattò per organizzare un itinerario che unisse il canyon e la grotta del santo, mostrando contemporaneamente le formazioni rocciose di arenaria del luogo e la visita in paese. La sua idea ha funzionato, alimentando un nuovo flusso di visitatori». Che, oltre all’accoglienza e alle piccole produzioni, trovano ad Armo, conosciuta in zona per il modello di raccolta differenziata a impatto zero fatta con gli asinelli, un dedalo di murales a cielo aperto realizzato dal gruppo Creativi Armo.
Murales ecosostenibile realizzato ad Armo con il recupero dei tappi di plastica
Lo stesso copione è andato in scena a Piminoro: dall’incontro di Demi con Giuseppe Murdica, già impegnato nella rivalutazione di vecchi sentieri verso le tante vie dell’acqua di questa frazione, sono germogliate iniziative nuove. Da un primo tentativo di ristorazione familiare ed ospitalità alla riattivazione, nel 2019, della Cooperativa Monte dei Pastori. «Ho conosciuto Demetrio 13 anni fa, in occasione di uno dei suoi sopralluoghi. Dopo avergli mostrato una delle tante cascate che abbiamo in zona, l’ho invitato a pranzo. Da lì sono nati un confronto e una sinergia che non si sono mai fermati».
L’area dell’ex caserma Naps a Piminoro
Oggi Giuseppe con la sua famiglia ha creato un punto di riferimento per escursionisti e camminatori. Non solo: la cooperativa ha chiesto al Comune di Piminoro la concessione dell’area della vecchia caserma NAPS (Nuclei Anti Sequestri della Polizia di Stato), passata dal Comune all’Ente Parco che l’aveva lasciata in abbandono dopo un periodo transitorio in cui vi erano stati ospitati i richiedenti asilo. L’idea è di creare un villaggio polifunzionale con 300 posti letto e servizi per roulottes e camper. I lavori sono già partiti.
La montagna che collassa
Se questa emergente strategia complessiva sia consapevole o meno non posso dirlo, ma che inneschi un processo di auto-sostentamento è fuori di dubbio. Ed è funzionale alla battaglia contro l’abbandono e la deriva di territori in cui, emigrati gli uomini che li abitavano, la Natura si è ripresa spazi di vita e comunicazione un tempo antropizzati. «L’abbandono porta al collasso delle aree interne. Questi movimenti di persone e idee che cerco di accompagnare rappresentano un antidoto e una risorsa in un mondo dove il comparto del turismo e dei servizi collegati prende sempre più piede.
Torrentismo a Piminoro
Se prima il modello di sviluppo legato a una certa industrializzazione appariva l’unica via possibile, oggi le attrazioni naturalistiche sono parte di soluzioni alternative per la rinascita dei territori. Ogni paese aspromontano ha diverse possibilità di creare un indotto a partire dalle proprie risorse: acqua, legna, pietre, antichi mestieri. Bisogna condurre quegli abitanti a crederci. Una montagna abbandonata non torna più autentica o incontaminata, ma rischia il collasso».
È proprio così: quelli che fino agli anni Settanta e Ottanta erano territori abitati, stanno andando alla deriva. I tornanti che conducono a Roghudi Vecchio, una volta battuti e curati, sono ora invasi da una natura che se ne è riappropriata. Ma dove si attivano certi processi, la storia prende una piega diversa. Il passaggio dall’attività volontaristica o associazionistica a forme imprenditoriali rappresenta un punto di svolta: «L’associazionismo è quello da cui tutti siamo partiti. All’inizio può fare la differenza per la grande capacità di coinvolgere, mostrare e narrare. Ma per chi decide poi di fare questo lavoro, la dimensione volontaristica deve diventare impresa: partite IVA, ditte individuali, cooperative. Un passaggio obbligato che oggi è sempre più evidente: tante guide, tanta scelta per il turista di prossimità e per chi arriva da lontano».
Tutto quello che serve
È un punto su cui Demetrio D’Arrigo batte molto e sul quale io stesso mi sono soffermato durante una delle prime uscite a Natile, quando ho assistito al confronto serrato tra lui e Annamaria Sergi, ex presidente di quella Pro Loco. Riassunto: se vuoi crescere, devi fare il salto. Sergi si è poi messa in proprio: ha fondato una sua associazione programmando un percorso più strutturato per lo sviluppo della vallata delle Grandi Pietre.
«Questa d’altronde è anche la mia storia. Da realtà associativa ho lentamente compiuto un passaggio verso un’imprenditorialità che mi permette di vivere seguendo la mia passione: lavorare con la natura e in natura, accogliere, divulgare, fare formazione e sport. A ben guardare abbiamo già tutto quello che serve: natura, cultura, storia, diverse tipologie di attività e ulteriori servizi da sviluppare. Credo che, se si decide di restare, le opportunità di lavoro non manchino. Però bisogna rafforzare l’acquisizione di competenze specifiche anche in relazione allo sviluppo di filiere produttive».
La filiera delle pietre
L’esempio che ha in mente è specifico e riguarda l’economia circolare: «Anche se i turbo-ambientalisti mi criticheranno vedo un’opportunità nella cosiddetta filiera delle pietre. La provincia di Reggio è localizzata a cavallo di un sistema complesso di fiumare in cui si deposita di tutto e che andrebbe irregimentato. Dalle pietre può derivare una grande ricchezza in ottica di edilizia eco-sostenibile. Ciò consentirebbe di monitorare i torrenti mantenendo stabili, puliti e dragati i loro greti e fornire materiale naturale, resistente e ad impatto minimo per costruire». Ma come al solito serve una visione abbracciata da una politica che dia seguito a soluzioni idonee per le procedure amministrative: ad esempio un sistema di concessioni. «Mi piacerebbe che ci fossero più persone giuste al posto giusto. Se politica e amministratori ascoltassero le richieste e i suggerimenti dai territori, si vivrebbe in modo differente». Ossia migliore.
La fiumara di Roghudi, ideale per la cosiddetta “filiera delle pietre”
Demetrio D’Arrigo tra monaci e politica
Un esempio di questa crasi incomprensibile è la vicenda legata al collegamento dell’ultima tappa del Cammino Basiliano che termina al Duomo di Reggio Calabria: 81 tappe divise tra Calabria e Lucania, con la presenza di 10 dei borghi più belli d’Italia e 3 siti UNESCO. Un progetto finanziato da Regione Calabria per valorizzare, salvaguardare e promuovere la fruizione eco-sostenibile dei patrimoni presenti lungo la dorsale di questo sentiero. Demetrio D’Arrigo, che è membro dell’omonima associazione che lo ha incaricato di elaborare le ultime tre tappe del sentiero, la racconta con diplomazia: «Non sono riuscito a collegare l’ultima tappa che va da Armo a Reggio e a piazzare i cartelli che indicassero le rotte percorse dai monaci perché non ho bussato alla porta giusta».
Una delle 81 tappe – la numero 35, da Villaggio Mancuso a Pentone – del Cammino basiliano, con relativo cartello
La verità è più tragicomica, più à la Totò. Come referente dell’associazione da cui aveva avuto mandato, si era rivolto al Comune di Reggio per individuare settore e responsabile cui inoltrare la richiesta di autorizzazione per l’apposizione della segnaletica. Dopo diversi tentativi era emerso che avrebbe dovuto rivolgersi all’Ufficio Pubblicità. Cosa c’entrasse la pubblicità con la sentieristica e la valorizzazione dei beni naturalistici e culturali è ancora da capire. Fatto sta che tra passaggi, lungaggini, burocrazia e Covid non se ne è fatto nulla. La sua ultima mail al Comune risale al 15 novembre 2021. Poi il silenzio.
Il silenzio di Reggio
«Credo non avessero capito che si trattasse di un sentiero e che, per completare il percorso, da contratto con la Regione che ha finanziato il progetto, si sarebbe dovuta apporre tutta la segnaletica. Il Comune di Reggio è l’unico tra quelli contattati che non mi ha considerato. A Motta San Giovanni mi hanno aperto le porte, a Montebello il sindaco si era addirittura offerto di accompagnarmi per indicarmi il punto esatto in cui le indicazioni andavano apposte, seguendo la posizione di alcune chiese o punti di passaggio. I cartelli li ho ancora a casa e sono pronto a piazzarli appena ce ne sarà possibilità».
Il Comune di Reggio Calabria
Arrivati alle cascate di Roghudi, siamo poi scesi con corde, picchetti, moschettoni e mute. Un’esperienza di straordinaria intensità utilizzata anche nelle sessioni di team building dal management di medie e grandi aziende.
Raccontare Polsi non è stato facile: un luogo, uno spazio, talmente complesso da richiedere una lunga gestazione. Da settembre ad oggi. Ho utilizzato un format diverso dal solito. Nessuna videotestimonianza o elemento giornalistico, se non una cronaca di viaggio fatta di sensazioni e incontri. Questo mi ha permesso di parlare di Polsi fuori da luoghi comuni, semplificazioni, narrazioni iper o ipotrofiche. Avevo con me due compagni di viaggio: il generale Battaglia, protagonista della scorsa puntata e il collega Eugenio Grosso, fotogiornalista e autore di diverse foto del pezzo. Il loro sguardo e l’esperienza condivisa sono parte sostanziale di questo racconto.
«Polsi è il centro del mondo»
Il centro del mondo. Scivolando lentamente in fondo al crinale irto della vallata del Santuario della Madonna della Montagna, la tripletta verbale era arrivata precisa come una revolverata. «Polsi è il centro del mondo», aveva dichiarato il generale Battaglia mentre si annunciava al presidio dei carabinieri di guardia al cancello di ingresso. Ci accompagnavano, insieme alle prime carovane di pellegrini, due elicotteri della polizia che ci avrebbero sorvolato incessantemente per i successivi due giorni.
Era il mezzogiorno di venerdì 1 settembre e si aprivano le celebrazioni della Madonna della Montagna, sacra per mezza Calabria e anche per quel pezzo di Sicilia che si affaccia sullo Stretto. Una festa che accoglie ogni anno tra i 6 e i 7 mila visitatori.
Avevo maturato in fretta la decisione di partecipare: posto nel cuore dell’Aspromonte, Polsi era una tappa irrinunciabile del mio viaggio. Un grumo di sacro e profano, sangue, simboli, fede, terra e radici che, una volta l’anno, faceva convergere tutta la popolazione verso il centro di quel mondo con un misto di devozione, sacrificio e attesa.
Avevo cercato di aggregarmi senza esito a un paio di carovane, fin quando Demi d’Arrigo, guida parco e leader dell’offerta sportiva di montagna, mi aveva suggerito di sentire Battaglia. L’idea di accompagnarmi a un generale dei carabinieri già alla guida del Comando Provinciale di Reggio Calabria per una tappa così controversa mi convinceva. Un paio di chiamate e la nostra ospitalità al Rettorato del Santuario era stata accordata.
L’arrivo
Il tragitto si era rivelato un meta-viaggo: salendo da Scilla in quota, ci eravamo confrontati sullo stato dei territori, le attività svolte dall’Arma, i reati ambientali, i processi di legalità e le dinamiche di spopolamento. Da Gambarie avevamo deviato verso Montalto e l’auto si era tuffata nel ventre della Montagna, superando affacci mozzafiato sulla costa jonica.
Dopo il gomito dell’ultima curva era apparsa la vallata scoscesa. Dritto di fronte a noi si scorgeva l’unica altra via di accesso al Santuario per chi arrivava da San Luca. Il peso della montagna, con i suoi secoli di marce e contaminazioni che si abbattevano su di me a ondate potenti, mi aveva sovrastato. Da quell’utero montano era come rivenuta alla luce una memoria sociale e antropologica. Mi si era piantata sul petto: vedevo schiere di devoti e generazioni di monaci, eremiti, pellegrini, viaggiatori, contadini, signori, pastori in marcia. «Pazzesco!», mi era sfuggito.
Auto nella vallata (foto Silvio Nocera)
Gli accampati all’anfiteatro (foto Eugenio Grosso)
Pellegrini assiepati (foto Silvio Nocera)
Un pellegrino sfinito nel giorno della festa (foto Silvio Nocera)
Sacchi a pelo all’anfiteatro (foto Eugenio Grosso)
Ai bordi della strada e nei rari spiazzi sotto di noi, iniziavano a comparire i primi accampamenti: auto accatastaste, ripari ricavati tra accorpamenti di macchine, furgoni intasati da gente dormiente o intenta in qualche preparativo. Avevamo da poco superato bancarelle che traboccavano di effigi sacre, souvenir a sfondo religioso e svariate cianfrusaglie di vaga cifra etnica. Risuonavano già a ritmo incalzante tarantelle e tamburelli, preludio di quanto sarebbe accaduto durante la veglia.
La festa di inizio settembre rappresentava una delle quattro tappe delle celebrazioni sacre dedicate alla Madonna della Montagna. Ogni 22 agosto dell’anno cominciava la novena. Partiva allora la carovana che da San Luca attraversava le vallate verso il Santuario, per arrivarvi all’inizio di settembre in occasione della processione, cui seguiva, dopo due settimane, la festa della Santa Croce. Ogni 25 anni, poi, in occasione dell’incoronazione, ai portatori di Bagnara, si sostituivano quelli di San Luca. Una geografia che racconta bene la netta divisione di ruoli e aree, riflessi nei dettagli del racconto della fondazione del Santuario: il bue, la croce e la pesca. Sotto il simbolo mariano, l’Aspromonte è sempre stata una Regione unica, estesa dalla costa a Montalto.
Una nuova reputazione per Polsi
Nel 2023 la festa si svolgeva in un anno carico di polemiche: l’area mercatale del Santuario era stata inibita. Non tanto – e non solo – per ragioni di ordine pubblico, ma come nuovo segno di legalità. Gli ambulanti che vi sostavano spesso non avevano licenze. Era uno dei molti segnali che il Rettorato e le istituzioni lanciavano per costruire una nuova reputazione per Polsi.
La caserma dei Carabinieri a Polsi (foto Silvio Nocera)
Appena entrati al Santuario, un nutrito gruppo di militari, Rettore compreso, era arrivato a salutarci. La loro presenza era ben visibile. C’erano almeno una settantina di agenti a presidiare un complesso non più grande di un isolato. La sede del Rettorato del Santuario che dominava il complesso sacro – la Chiesa, gli alloggi, il Museo degli ex voto – affiancava la caserma dei Carabinieri, un vecchio edificio fatto ristrutturare da Battaglia che, durante la sua reggenza, aveva inteso dare un segno tangibile della presenza dello Stato in un luogo emblema di criminalità. E siccome le guerre si combattono anche con i simboli, la fiamma dell’Arma campeggiava senza timore.
La Madonna tra fedeli e carabinieri a Posi
In realtà, dopo le polemiche sul summit di ndrangheta promosso da Oppedisano nel 2009 e la condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa di Don Pino Strangio, storico Rettore del Santuario fino al 2016, molte cose erano cambiate. L’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti si era recato a Polsi quello stesso anno e il Vaticano a modo suo si era mosso. Nel maggio 2023 poi lo stesso Papa aveva benedetto la corona della Madonna. Azione che faceva seguito alla scomunica per i mafiosi.
Un millennio dopo
Appena oltre il Santuario e sulla piazza del sagrato della Chiesa, sui ballatoi degli alloggi che tradizionalmente ospitavano i pellegrini di Bagnara, erano stipati capannelli di persone intente a pregare, a prepararsi alle celebrazioni o imbastire colazioni.
Avevamo pranzato al refettorio col Rettore, i parroci, il sindaco di San Luca, vigili urbani, carabinieri, poliziotti e volontari. Era seduto accanto a me un uomo dall’aria apparentemente stralunata. Eugenio Grosso l’avevo conosciuto così, scoprendo che era un fotogiornalista catanese, trapiantato a Milano. Aveva scelto Polsi come tappa del suo fotoreportage sui culti mariani in Italia. Da Milano, era approdato a San Luca e da lì si era unito a una carovana in direzione Polsi.
Avevamo percorso il Santuario in lungo e largo: ci confrontavamo in mezzo a una storia iniziata nell’XI secolo con i monaci basiliani di rito greco, passata tra luci e ombre al nuovo splendore promosso da Idelfonso del Tufo, vescovo di Gerace, e giunta fino a noi, fermi a parlare sotto il suo campanile bizantino.
A ridosso della soglia della Chiesa, dove da ore si pregava in dialetto, si cominciava a suonare e si formavano le prime ruote di danzatori. Da alcune variazioni nel movimento dei piedi si poteva intuire la loro provenienza: i rosarnesi saltellavano, i sanluchesi strisciavano i piedi.
Dentro e fuori, sacro e profano
Quella soglia separava il dentro e il fuori, sacro e profano. Varcandola, ci si immergeva in acque mistiche e primordiali. Ero entrato in chiesa e mi ero tuffato in quel dentro al suono di giaculatorie dialettali quasi incomprensibili, fino ad un passo dalla trance. In quel contesto vincoli e differenze si frantumavano, per dare vita a un corpo unitario. Un respiro collettivo che si gonfiava in nome di quel culto mariano millenario ispirato al mito della Sibilla Cumana. Una devozione che aveva sorpassato indenne l’avvicendarsi dei diversi riti cristiani: monachesimo mistico, ortodossia bizantina e rito latino.
Smartphone in Chiesa (foto Silvio Nocera)
La Madonna in piazza (foto Eugenio Grosso)
L’incoronazione della Madonna immortalata dai cellulari (foto Silvio Nocera)
Ancora smartphone per la Madonna (foto Eugenio Grosso)
Preghiera e tecnologia (foto Eugenio Grosso)
Quel pomeriggio, sotto l’occhio degli elicotteri della polizia, la liturgia era proseguita con la prima uscita della Vergine, che era scivolata lungo la navata centrale, navigando su un mare umano. Sotto un baldacchino di damasco, era stata condotta fino all’anfiteatro dietro la chiesa per i primi riti davanti a tutte le autorità. Aveva circumnavigato tutto il santuario ed era rientrata per essere vestita. La sua corona era stata condotta su un cuscino di velluto rosso. Il picchetto che la trasportava si era fatto largo nella navata centrale tra la folla che si apriva in due ali. L’avevano raccolta sull’altare il Rettore e un sacerdote. Armeggiando sopra e sotto la scala che arrivava all’edicola, tra preghiere e applausi, l’avevano posta in capo all’effige al grido di “Viva Maria!”.
Si era allora innalzato un bosco di smartphone che riprendevano, scattavano, illuminavano un rito di passaggio ciclico, rinnovato da secoli. Una selva di ceri votivi che occhieggiavano verso l’altare, in una testimonianza di fede da smaterializzare, condividere e moltiplicare in Rete.
Non sono credente, ma…
All’imbrunire il Santuario era colmo. I due ristoranti andavamo a pieno ritmo, tra alcool e carne alla brace. Il generale aspettava un gruppetto di alpinisti che vi avrebbero trascorso la notte. A breve mi attendeva la dimensione del fuori. Durante la cena al refettorio, alla presenza del vescovo Morrone, mi ero intrattenuto coi ragazzi del reparto Cacciatori delle Alpi in servizio. Carabinieri e poliziotti si alternavano: c’era chi smontava e chi si preparava per il turno di notte.
Qualcuno aveva ricordato che, intanto, in quella notte di veglia, per i sentieri di Aspromonte c’erano pellegrini in viaggio, devozione nelle gambe e sacrificio sulle spalle. Di quei momenti Eugenio mi aveva mostrato le foto fatte durante il viaggio da San Luca: donne e uomini che si laceravano i piedi scalzi su pietre acuminate, portandosi le loro croci e le promesse alla Madonna per una grazia. Si dirigevano al Santuario con viveri e bambini, sequestrati dalla stanchezza e dalla fede.
Carovana in processione (foto Eugenio Grosso)
I pellegrini guadano un torrente (foto Eugenio Grosso)
La passione dei fedeli (foto Eugenio Grosso)
Sui sentieri di Aspromonte verso Polsi (foto Eugenio Grosso)
Con Battaglia ci eravamo intrufolati nel cortile di uno dei due ristoranti per raggiungere Peppe Trovato, catanese naturalizzato reggino e affermatosi come primo esploratore di forre e cascate aspromontane. Con lui un gruppetto di alpinisti alla testa di Pino Antonini, speleologo, già direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino e tra i sopravvissuti al terremoto in Nepal del 2015.
Dopo qualche chiacchiera, ci eravamo spostati fuori ad osservare l’andamento dei festeggiamenti. Il gestore faceva avanti e indietro con le mani piene di birre e bicchieri. In un dialetto ostico, aveva spiegato Polsi a modo suo. Una vita dura, la morte sfiorata. Non era un gran credente, ma era certo che la Madonna della Montagna lo avesse protetto col suo manto.
Maschi e femmine, buoni e cattivi
Come quello era rientrato, avevo chiesto a Battaglia in che percentuale avremmo potuto dividere i “buoni” e i “cattivi” della serata. «Non lo so, ma ti dico che lo Stato si è battuto per sottrarre ai “cattivi” dei territori ritenuti perduti da molti». «Hai notato che siamo tutti maschi?», avevo ribattuto. Gruppetti di uomini di ogni età bevevano e cianciavano lungo tutta la via, sciamando da un lato all’altro fino in piazza dove impazzavano le ruote di ballo. Le pochissime ragazze presenti erano circondate da uomini intenti nel loro rituale di corteggiamento. Le altre donne erano tutte in chiesa.
Al mondo di dentro e di fuori si aggiungeva il codice di genere, con la suddivisione di ruoli tra maschi e femmine. Ognuno al posto proprio, assegnato per sesso e per nascita.
Donne sui ballatoi (foto Silvio Nocera)
Polsi, dove tutti si ritrovano
Eugenio si muoveva veloce con la sua macchina fotografica. Io continuavo a incrociare conoscenti. Gente che, in alcuni casi, non vedevo da anni: Polsi era davvero il luogo dove tutti si ritrovavano.
«Non è un caso che Polsi sia diventato emblema di ‘ndrangheta. Qui ci si incontrava tutti insieme quando muoversi era complicato. La festa diventava allora collante e occasione per riunirsi e discutere di affari di comunità, più o meno leciti; attribuire ruoli e influenze; lottizzare territori. L’intervento dello Stato ha invertito il trend, ma l’eco di certi fatti e la potenza della ritualità religiosa hanno lasciato incrostazioni dure a morire. Oggi però siamo nelle condizioni affinché questa percezione cambi», aveva argomentato il generale.
Medaglie votive (foto Eugenio Grosso)
Ero andato a letto con tutto questo nelle orecchie, mentre fuori infuriava un baccanale pompato da un tasso alcolico sempre più elevato. Ero rimasto sospeso in un onirico liquido: le immagini dei boschi e delle valli si era mescolata a echi di preghiere, impressioni di volti, sguardi carpiti, tra divise, sacralità e paganesimo.
Al mattino, dopo svariati caffè, mi ero gettato in strada con la macchina fotografica assieme a Eugenio per la processione, cui sarebbe seguita la messa solenne tenuta dal vescovo di Reggio. La folla era per lo meno triplicata e al Santuario erano arrivate altre carovane da tutta la provincia e dal Messinese. Molti portavano al collo un fazzoletto votivo straripante di medagliette, con l’immagine della Vergine. Dal giorno precedente i tamburelli non avevano mai smesso di macinare terzine. Sui popolatissimi ballatoi degli alloggi, erano stati stesi drappi in omaggio al passaggio della Madonna.
Madonna vs Sibilla
Avevo guadagnato un posto strategico in cima alla piazza accanto a uno dei passaggi obbligati della processione. L’effige allora era uscita e aveva iniziato a compiere il giro della piazza fino a piantarsi col volto fisso verso il versante opposto della Montagna.
La leggenda raccontava che in quegli anfratti fosse imprigionata la Sibilla, punita da Dio per aver tentato di sostituirsi alla Vergine come madre di Cristo. Suo fratello, che aveva osato schiaffeggiare Gesù per difenderla, era stato gettato anch’egli in quell’antro e relegato alla pena eterna del buio dietro sbarre di ferro che avrebbe colpito con la mano per l’eternità. L’eco di quella pena riempiva la valle nelle giornate dal clima più duro. Se la geografia veniva prima della storia, la morfologia del territorio addirittura la precedeva.
Fedeli di San Giorgio Morgeto (foto Eugenio Grosso)
Gli alloggi gremiti dei pellegrini di Bagnara (foto Eugenio Grosso)
Il loro cuore a Maria (foto Eugenio Grosso)
La vara osannata (foto Eugenio Grosso)
Processione solenne del sabato (foto Eugenio Grosso)
L’Effige Sacra, autentico femminino sacro della Montagna, veniva ostesa a tutela dell’Aspromonte e del suo popolo dalle insidie dei luoghi e degli elementi naturali che ne avevano regolato vita e morte per secoli. La vara aveva poi circumnavigato il santuario e mi era sbucata davanti. Dall’alto, tra urli di giubilo, venivano lanciati coriandoli di omaggio. Una volta tornata in piazza, la Madonna era stata girata entrando in chiesa di spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’antro della Sibilla.
L’omelia femminista
Cominciava la messa solenne. Dagli alloggi il nostro sguardo dominava lo spazio dell’anfiteatro che ospitava l’altare. Le gradinate erano affollate di fedeli e sacchi a pelo. All’ascolto dell’omelia mi ero ringalluzzito: il vescovo Morrone aveva puntato dritto sulla centralità della figura mariana, nel suo agire di donna e madre al servizio del Bene. Aveva parlato di «donna che ha saputo rompere gli schemi, in un’epoca in cui dominava il maschio». Da lì, il salto per antonomasia al ruolo rivoluzionario delle donne nella Bibbia era stato veloce. Parlava alla platea, ma si rivolgeva alla coscienza delle donne di Polsi e quella dei loro figli, lanciando un messaggio di giustizia e pacificazione. Li aveva spronati a «prendere in mano il proprio futuro, e non delegare ad altri quello che compete ad ognuno di noi, perché soltanto così possiamo sperare di risollevare la nostra terra, e sconfiggere la cattiva politica».
La Madonna di spalle all’anfiteatro (foto Silvio Nocera)
Un’omelia, rivoluzionaria anch’essa, capace di incrociare i grandi temi che la Chiesa stava affrontando: le pari opportunità, una nuova dignità per il ruolo delle donne, il contrasto al crimine organizzato. Parole che avevano fatto eco al messaggio inviato dal cardinale Zuppi, presidente della CEI: «Il Santuario della Madonna di Polsi è stato profanato nel recente passato (…) per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. (…) Da Polsi nasca, invece, una consapevolezza nuova di cui ha bisogno tutto il nostro paese perché le mafie hanno tanta penetrazione al Nord e tante ramificazioni internazionali». Un movimento, quello della Chiesa, partito anni addietro, dopo l’apertura delle indagini su Don Pino Strangio: il vertice del Rettorato del Santuario era stato rinnovato ed erano state avviate una serie di azioni con cui il Vaticano intersecava quelle dell’Arma dei Carabinieri.
Una strada per Polsi
Al termine della cerimonia mi ero fermato a parlarne con don Tonino Saraco, Rettore dal 2017. «Oggi di Polsi si parla in modo diverso e noi stiamo facendo di tutto per riabilitare la sua reputazione. Che un passato fosco ci sia stato non è in dubbio. Ma abbiamo il compito di lavorare per cambiare, forti dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Il mio compito è non permettere che determinate cose riavvengano. Non solo qui c’è sempre una persona di mia fiducia, ma abbiamo cominciato con l’installare un sistema di videosorveglianza e trasmettere gli elenchi dei nostri ospiti alla Questura. Questo riguardo alla deterrenza. Stiamo poi lavorando su due progetti, uno in essere e un altro venturo: occupiamo nell’azienda agricola del Santuario ex detenuti cui presto affiancheremo un birrificio artigianale».
Don Tonino Saraco (foto Eugenio Grosso)
«I grandi temi da affrontare – aveva aggiunto don Saraco – non sono mai cambiati: il lavoro e le infrastrutture. Creare lavoro vuol dire togliere terreno alla malavita. Costruire strade permette a questo luogo di essere accessibile, vissuto, meglio controllato e governato. Ho dovuto rifiutare parecchie visite dalla Sicilia perché arrivare qui in pullman è impossibile. Un anno e mezzo fa Occhiuto ha annunciato 65 milioni di euro per la realizzazione di una nuova strada che colleghi quello che è il santuario mariano più frequentato del Meridione, con visite che toccano picchi di 50 mila presenze l’anno tra giugno e ottobre. Non mi ritrovo nelle argomentazioni che di chi vede in questa strada una minaccia all’autenticità e allo spirito del luogo. Questo progresso può trasformare Polsi in un importantissimo attrattore per il turismo religioso».
Il ritorno
La folla cominciava a defluire: i trekker ripartivano per la colazione lungo qualche sentiero, molti tornavano a tende e roulotte per il pranzo. Il generale ed io, dopo un giro al Museo degli ex voto, ci eravamo attovagliati coi carabinieri per un menu a base di capra. I rotori degli elicotteri di sorveglianza si erano smorzati e l’aria si era scaricata di quella tensione in cui eravamo rimasti immersi.
Dopo i saluti e un ultimo caffè col Rettore, avevamo recuperato Eugenio ed eravamo ripartiti tra cronache dei due giorni, ricordi di vecchie indagini e considerazioni sulla riconquista degli spazi sottratti alla ‘ndrangheta. Riemersi verso la costa, lo scenario del tramonto sullo Stretto placido di settembre ci aveva ammutoliti. Davanti al cielo rosso che degradava verso l’indaco, Stromboli sbuffava all’orizzonte.
Quando ormai tutto sembrava compiuto, sopra Melia, avevamo incrociato un principio di incendio. Battaglia aveva inchiodato: scesi dall’auto, avevamo iniziato a gettare terra sulle fiamme, E siccome non sarebbe bastata, eravamo partiti verso la prima fontana. Avevamo fatto bene perché, passata circa un’ora dalla prima chiamata dei soccorsi, i pompieri non si erano ancora presentati.
In questo mio vagare per la Montagna, mi sono chiesto più volte se ci fosse un modo corretto di raccontarla e, se sì, quale fosse. Dopo un anno di peregrinare, portato a volte dalla casualità, altre dal passaparola, altre ancora da contatti che avevo o che sono arrivati, mi sono accorto che il modo più giusto era quello dettato assieme da intuito, curiosità e flusso. E con flusso intendo la capacità di farsi trasportare verso un apparentemente noto in grado di farsi ignoto. Ripulendosi, in un certo senso, gli occhi e la bocca, per tutto quanto, pur guardandolo, non era stato visto. Pur udendolo, non era stato ascoltato. Pur contemplandolo, non era stato colto. Perché, crogiolandosi nella familiarità di schemi cognitivi confortevoli, che consentono di inferire sommariamente risparmiando energie, spesso ci si accomoda. Ma tale comodità ha un prezzo alto: lo stereotipo.
Chi invece si è battuto contro questa tendenza che spesso porta ad oscillare tra sciovinismo e manicheismo non è né un ritornato, né un restato. Ma un arrivato. Che poi, a modo suo, è diventato un ritornante e con il quale ho condiviso diversi momenti, più o meno lunghi, di confronto e riflessione: il generale Giuseppe Battaglia.
Storia e geografia
Oggi consulente presso la Commissione Europea, emiliano di origine, è un uomo di legge e di passioni. «Sono stato assegnato al Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria per un caso fortuito. La mia destinazione doveva essere Milano. Ho obbedito ai comandi e mi sono ritrovato in una terra inaspettata e sorprendente, dove ho avuto la fortuna di incontrare l’Aspromonte e i suoi sentieri. L’ho battuto palmo a palmo, vivendolo e respirandolo, ora per lavoro ora per diporto. Il primo alimentava il secondo e viceversa. Appena posso, vi torno sempre. Per quanto abbia girato, non ho mai scovato altrove ciò che ho trovato in Aspromonte: una terra primordiale, selvaggia, ancorata a un’antropologia, a tradizioni e a culture complesse che troppo facilmente sono state etichettate».
Grande appassionato di alpinismo, esploratore e viaggiatore, per il generale tutto ruota attorno un concetto semplice: «La geografia viene prima della storia, la plasma e l’ha sempre indirizzata. È così che l’Aspromonte deve essere osservato e analizzato». Col generale ho camminato, ho viaggiato e ho anche affrontato l’esperienza di Polsi che tratterò nella prossima puntata.
Antonio Barca con la moglie Marie Therese Italiano
Siamo al rifugio Il Biancospino, gestito da altri due pezzi da novanta, Antonio Barca e la moglie Marie Therese Italiano: uno dei luoghi incantati della Montagna, nascosto tra i Piani di Carmelia nel territorio di Delianuova. Lo ha costruito a mano lo stesso Antonio, pezzo dopo pezzo. In occasione della presentazione del libro Guida all’Aspromonte misterioso – Sentieri e storie della montagna arcaica si è radunata una piccola folla di appassionati. Battaglia ne è l’autore insieme ad Alfonso Picone Chiodo, scrittore, fotografo, ricercatore, trekker, alpinista, agronomo. Restato di questa puntata, primo tra i primi camminatori degli anni Ottanta e tra i primi a intravedere le opportunità di questo territorio.
La copertina del libro scritto da Battaglia e Picone Chiodo
La Calabria brutta e cattiva
«Tornare qui a fare questa presentazione è una fortissima emozione. Si tratta del luogo in cui sono stato accolto come un pellegrino. Perché – inizia Battaglia – pellegrino lo sono stato davvero. La mia storia è cambiata nel 2017, l’anno della riunificazione del Corpo Forestale dello Stato coi Carabinieri. Durante la ricerca di alcune piantagioni alcuni operai forestali si persero in località Ferraina, piena zona A del Parco. Un caso molto imbarazzante per il Comando Generale a un mese dall’accorpamento. Anche perché si trattava del comune di Africo, stereotipo della Calabria brutta e cattiva. Durante un viaggio col Comandante Generale che stava assegnando le destinazioni dei provinciali (comandanti, ndr.), quegli si ricordò che sono un alpinista: da Milano mi dirottòa Reggio Calabria, dove c’era tutto un territorio da esplorare e servivagente esperta. A distanza di anni mi colpisce ancora che, dalle prime ricerche che effettuai per documentarmi su un territorio a me ignoto, emerse una narrazione nera. Negativa. Nemmeno il sito dell’Ente Parco conteneva informazioni aggiornate».
Il generale Giuseppe Battaglia
Drammatica bellezza
«Il mio primo giorno di incarico, il 5 ottobre, lo trascorsi a Polsi – prosegue Battaglia – dove c’era la chiusura dell’anno liturgico. Chi conosce i luoghi sa quanto lunghe e impervie siano le uniche due strade che arrivano al santuario. Fu un’epifania. Non facevo altro che fermarmi per potere scattare delle foto. Il mio primo contatto diretto con l’Aspromonte si consumò all’insegna di una drammatica bellezza. Iniziai poi un’attività di esplorazione sistematica di tutte le stazioni, dalle alture al mare, constatando che ogni vallata aveva una storia peculiare, diversa dall’altra. Avevo bisogno di battere quelle vaste aree palmo a palmo per potere operare. Mi resi conto di due cose: constatai quanto complesso e articolato fosse il territorio di Reggio ed ebbi la conferma che ogni cosa – nel bene e nel male – aveva una sua radice geografica. Se una certa famiglia aveva tenuto cinque sequestrati nel suo territorio, non era un caso: quel nucleo gestiva una determinata porzione di territorio ben noto che gli consentiva di latitare e di tenere sotto diretto controllo i rapiti».
La Guida ai sentieri dell’Aspromonte
È una giornata di metà autunno. Il tempo non si decide a volgere al meglio o al peggio e resta sospeso. Frescheggia nonostante sia l’ora di pranzo. Nell’ampio giardino del rifugio Teresa e Antonio hanno allestito un salottino con sedute rustiche e comode. Alla chetichella, alla presentazione arrivano invitati e avventori. Si presenta, in omaggio al generale, anche un manipolo di carabinieri.
Carabinieri al rifugio Il Biancospino per la presentazione del libro
«L’idea e la nascita di Guida all’Aspromonte Misterioso – Sentieri e Storie di una montagna arcaica – derivano dall’incontro mio e di Alfonso. Come Arma dei Carabinieri avevamo già avviato delle pubblicazioni storiche che racchiudevano quanto acquisito nei nostri archivi a livello provinciale e centrale sulle vicende che avevano coinvolto questi luoghi negli ultimi 60 anni. Con Alfonso abbiamo poi ragionato sulla possibilità di prendere questo materiale, isolare determinati episodi contenuti in quegli archivi e nei verbali e associarli a itinerari escursionistici. L’obiettivo era quello di liberare questa montagna da uno stereotipo negativo collegato a fatti storici criminali, senza tuttavia negarli. Ossia associare la parte escursionistica positiva, rappresentata da un pioniere come Alfonso, a una memoria, in modo che l’Aspromonte di oggi possa essere percorso, sia con la consapevolezza di ciò che è avvenuto, sia con la sicurezza e la libertà di un nuovo corso. Senza negare quanto accaduto né il sacrificio dei tanti carabinieri e civili vittime della criminalità, ma celebrando questa nuova vita nella bellezza», mi spiega Battaglia.
Il tavolo dei relatori alla presentazione del volume. Da sinistra: Alfonso Picone Chiodo, Francesco Bevilacqua, Michele Albanese, Giuseppe Battaglia e don Pino De Masi
Un modo di chiudere i conti con la storia e di operare una rifondazione che – continuano in coro gli autori – «fa soprattutto parte di una più ampia operazione di liberazione: agevolare e promuovere la frequentazione di questi luoghi, restituendoli alle persone per bene e sottraendoli ai simboli e al malaffare delle organizzazioni criminali».
Comprendere l’Aspromonte attraverso i sentieri
In effetti il volume è una guida per i camminatori e al tempo stesso deposito di memorie che segnano la storia della montagna dall’Ottocento fino ai nostri giorni: 17 itinerari e 124 fotografie suddivisi in cinque parti in cui gli autori compongono affascinanti percorsi escursionistici lungo i sentieri dell’Aspromonte, più o meno lunghi e complessi, sulla falsariga delle storie e degli uomini che li hanno attraversati o contraddistinti. Dal brigantaggio, sulle orme di Giuseppe Musolino, ai primi fenomeni di ‘ndrangheta ambientati tra Pentedattilo,Montalto e Casalnuovo, fino alla lotta dello Stato contro la criminalità e ai luoghi dellastagione dei sequestri. Tra boschi, asperità, pendici di origine alpina e vie di fuga. Un percorso per fare un viaggio tra storia, legalità e nuove opportunità relative al circuito di trekking, sport di quota, torrentismo, canoying e ospitalità.
Il brigante Musolino
«Era per noi essenziale legare l’ambiente ai fatti che vi sono avvenuti. Storie di successi e sconfitte per lo Stato, come nel caso di Musolino. Difficoltà. Quelle che oggi l’escursionista incontra sono le stesse che hanno affrontato i carabinieri nel cercare il fuggitivo e ancora le medesime che utilizzava il fuggitivo per nascondersi. E solo in questo gioco di specchi e immedesimazioni, solo recandosi, camminandoci sopra, si può comprendere cosa sia avvenuto in questo teatro remoto e brulicante, in termini di sentimenti, modo di operare, errori, fortune, successi di chi ci ha vissuto. Dove il Luogo ha determinato la dinamica di certi episodi. Questa è la chiave per comprendere l’Aspromonte nella sua integrità», spiegano Battaglia e Picone.
La Montagna liberata
«Abbiamo voluto coinvolgere anche Libera, cui andranno devoluti gli introiti dei diritti di autore e a cui abbiamo affidato la prefazione del volume, nella persona di Don Luigi Ciotti. Da antesignano escursionista sono testimone di come quell’atto del camminare in luoghi ritenuti pericolosi e malfamati a ridosso della stagione dei sequestri abbia contribuito a liberare questa montagna e a trasformarla in vera risorsa, anche a partire dall’istituzione del Parco Nazionale. Un progetto allora impensabile in cui in pochi credevamo ma che ci ha dato ragione, se oggi i sentieri dell’Aspromonte sono battuti da migliaia di escursionisti», continua Alfonso che è anche autore del notoblog L’Altro Aspromonte, una miniera di informazioni e ricerche sulla Montagna e fondatore della Coop Nuove frontiere, prima realtà eco-turistica nel meridione.
Alfonso Picone Chiodo, tra i principali esperti dei sentieri in Aspromonte
Anche lui ha trascorso un pezzo della sua vita a battersi contro gli stereotipi. È stato tra coloro che hanno creduto di poter riscattare un territorio coniugando legalità ed escursionismo. Insieme a Sisinio Zito – socialista con importanti ruoli di governo che creò le premesse legislative per la nascita dell’area protetta – e Guido Laganà, ex assessore regionale al Turismo, ha promosso la creazione del Parco Nazionale a partire dalla realizzazione di un pezzo del Sentiero Italia in Aspromonte, avviando, tra le altre cose, contatti con tour operator stranieri.
La trappola della legalità
La liberazione dei luoghi, la loro restituzione a quella parte di comunità sana, l’impegno a rigenerarli attraverso l’avvio di processi di rinascita, riscoperta o sviluppo è lo strumento per evitare quella che il generale Battaglia definisce «trappola della legalità»: un certo oltranzismo nell’applicazione pedissequa di regole e norme in assenza delle necessarie e commisurate risorse a garanzia della sostenibilità di una tale operazione. Solo per scaricarsi da certe responsabilità. Cadere preda di questa trappola castra il principio stesso di legalità, ponendo divieti senza potersi occupare di – o avere le condizioni per – effettuare i dovuti controlli. Inducendo così nelle popolazioni coinvolte la chiara consapevolezza che si tratti solo di divieti formali che possono essere violati allegramente, quando così non è. Comunità e luoghi da tutelare allora rischiano di diventare vittime vulnerabili, perché privati di opportunità di sviluppo e tutela realmente ed oggettivamente sostenibili.
L’antropologo Vito Teti
Sono quegli stessi luoghi – per dirla con le parole di Vito Teti – che non sono solo «articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente, organizzazione simbolica di tempo, memoria e oblio, luogo antropologico in senso lato in quanto abitato, umanizzato e riconosciuto, periodicamente rifondato dalle persone che se ne sentono parte e che, nell’essere parte di una storia che ha a che fare con noi stessi, ci interroga ancora tutti: restanti ritornanti e partiti».
Luoghi che, in quanto tali, sono il nucleo di vita, memoria, riconoscimento, speranza, visione, sperimentazione. Nonostante la propaganda che li ha umiliati, la dignità che è stata sottratta e lo stereotipo che li ha fagocitati.
Nel cuore della Piana di Gioia Tauro, ai piedi del versante più tropicale dell’Aspromonte, c’è un manipolo di quattro coraggiosi che, qualche anno fa, ha deciso di tornare sui passi della propria diaspora e rientrare.
Siamo a Taurianova, terra di agricoltura e antico insediamento dei Taureani, un tempo popolato dai Calcidiesi di Zancle e dai Bruzi della Colonia Tauriana, prima di soccombere a una delle più feroci incursioni saracene. Quella del X secolo d.C.
Per arrivarvi da Gioia bisogna passare tra distese di ulivi e agrumeti, rotonde, centri commerciali e sfacciati esempi della più bieca speculazione edilizia. Ogni volta che mi ci dirigo, mi pare di varcare un confine impalpabile oltre il quale si apre una terra avulsa, soggetta a proprie regole non scritte, che parla un dialetto diverso dal mio.
Da una parte il mare, col suo grande porto, dall’altra la montagna, con i suoi muraglioni verdi.
A volte ritornano
Federica Ferrazzo, Martino e Andrea Latella, Rocco Buonanno sono i proprietari di Osteria Zero e, assieme a Pasquale Polifroni, anche i ritornati di questa puntata.
«Siamo uno degli ormai tanti esempi di ritornati. Facciamo parte di quel gruppo di persone che ha deciso di rientrare con la speranza di potercela fare. Come molti, abbiamo alle spalle un passato di emigrazione. Siamo stati fuori, ci siamo formati, abbiamo costruito il nostro bagaglio culturale, fatto di competenze e sudore. Abbiamo lavorato. Ma non volevamo vivere fuori dalla nostra terra. Il nostro obiettivo era lavorare bene e farlo a casa nostra. Il progetto Osteria Zero (Osteria Zero – Taurianova) è nato così», attacca Martino con un gran sorriso e tanta voglia di raccontare.
Un’anteprima della Guida Espresso Ristoranti d’Italia 2024
Insieme a sua moglie Federica, suo fratello Andrea e l’amico Rocco hanno messo in piedi un progetto di ristorazione che lo scorso novembre a Milano è stato premiato con l’inserimento nella Guida de l’Espresso ai migliori 1000 ristoranti d’Italia 2024. «Un po’ come essere a Sanremo giovani», scherza Martino.
Ma andiamo con ordine. Torniamo al 2016. Federica, Rocco e Martino, anni nella ristorazione come dipendenti, fanno il salto indietro. Andrea, un passato in Francia come sommelier, imbocca la stessa strada. «Fino ad allora avevamo sempre lavorato per altri, pensando di poter arrivare ad ottenere soddisfazioni che in realtà non sono mai arrivate. Noi, però, avevamo un sogno», spiega Martino.
Il progetto Osteria Zero
«Osteria Zero nasce dalla volontà di rientrare in Calabria e proporre la nostra idea di ristorazione. Molti pensano che il nome del ristorante sia ispirato alla filosofia del “km 0”. Invece no. Il punto è che abbiamo deciso di ripartire da capo. Da zero. Con un nuovo percorso, un nuovo modo di guardare a noi stessi e alla Calabria. Un nuovo assetto mentale. Volevamo far capire alle persone che anche qui in Calabria è possibile fare impresa. Ci vuole coraggio e determinazione perché è una terra da cui parti svantaggiato. Ma, se ci credi, pian piano le difficoltà si possono superare e si può lavorare anche bene. Alla fine i calabresi apprezzano quando rientri e cerchi di fare qualcosa per la comunità e i suoi territori», mi dicono.
La luce di mezzogiorno entra obliqua dalle grandi finestre del locale. Di fronte alla telecamera accesa, i ragazzi iniziano a raccontare una storia di passione. I loro sguardi trasudano orgoglio, devozione e fiducia.
«Offriamo una cucina fondata sulla stagionalità dei prodotti della nostra terra. È una cucina semplice dove all’ingrediente buono del piccolo produttore applichiamo le tecniche che abbiamo appreso in giro, nei vari ristoranti dove abbiamo lavorato. Cerchiamo di rappresentare al meglio i produttori e di valorizzare ingredienti e materie prime. Col tempo, abbiamo dimostrato che si può mangiare in un determinato modo senza dover spendere una fortuna», spiega Rocco che, assieme a Martino, è il secondo cuoco dell’osteria.
La rete di piccoli produttori
«Il fulcro della nostra attività si basa sul rapporto diretto con i produttori. Il territorio offre prodotti straordinari, spesso poco conosciuti, che affondano le radici in una cultura contadina millenaria», continua Rocco.
Rocco, Martino e gli altri intrecciano fili, tracciano percorsi, riannodano sentieri che dalla montagna arrivano in pianura. Le loro vie del gusto partono dall’Aspromonte. «Per noi l’Aspromonte è una miniera di risorse: piante selvatiche, erbe aromatiche, grano, legumi, ortaggi cui attingiamo in abbondanza e proponiamo a una clientela disabituata a determinati sapori ed assuefatta a una certa massificazione culinaria. Noi puntiamo sui piccoli produttori: con loro collaboriamo e studiamo nuovi abbinamenti. Prendi il cavolo rosso locale. Dall’esigenza di smaltirne un grande esubero è nata l’idea di un gelato alla senape di accompagno. O il fagiolo di Canolo che andiamo ad acquistare direttamente in montagna. O il grano jermano. Abbinamenti moderni, a volte spericolati che però ci hanno premiato».
Andrea Latella, sommelier di Osteria Zero
In effetti, insieme a Osteria Zero è venuta emergendo una rete di produttori che parte da Zomaro, passa da Cittanova, dove esiste ancora un punto di macinatura a pietra, e arriva a Taurianova. Passando, come vedremo tra poco, anche dalla Locride.
«I fornitori che operano in montagna fanno un grande lavoro. Siamo ancora troppo pochi quelli che sanno di avere a disposizione una grande risorsa come l’Aspromonte che è valorizzata poco, forse al 10%, e che spesso è vissuta solo come spazio ricreativotemporaneo per le gite della Pasquetta o della domenica. La verità è che chi sta lassù, produce e crea impresa è un eroe. Come Antonello Stilo che a Canolo, dal nulla, ha creato una grande realtà in cui si lavorano i grani antichi, il latte, i formaggi, i salumi, tra cui spicca il conosciutissimo prosciutto di San Canolo. E come Antonello tanti altri che ci credono», aggiunge Martino.
Fiducia e divulgazione, per una nuova cultura culinaria
«Diamo loro una fiducia che ci viene pienamente restituita. Chi vede passione e impegno, ripaga in termini di adesione, affiancamento e supporto. Credo che sia il valore aggiunto e la diversità di fare impresa in Calabria, qualcosa che non sempre si può riscontrare quando gestisci un’attività altrove. Ci si aiuta. Questo è il bello. Qui da noi ci si aiuta», continua Rocco.
Le sue parole hanno un’eco antica. Riportano a un meridionalismo dove il mutuo soccorso incarnava la prima strategia di sopravvivenza: “i vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro”.
«Se noi ce la facciamo, vincono anche i piccoli produttori con cui lavoriamo. Questo è il senso del nostro impegno per il territorio». Che non si misura solo in termini di crescita economica, ma anche di divulgazione di un nuova cultura culinaria capace di coniugare tradizione e modernità. «A chi viene in osteria e vede un ingrediente insolito proviamo a raccontare cosa è, da dove viene, che uso se ne può fare, qual è la sua storia e che percorso ha compiuto per arrivare nel piatto. La cultura e la storia del nostro territorio passano anche da qui. E questo e il modo a noi più consono di svelarlo».
Le peripezie di Osteria Zero con la Regione Calabria
Il percorso, però, non è stato semplice. A raccontarmelo è Federica: «Non avevamo un capitale a disposizione da investire per tirare su l’impresa, per cui ci siamo rivolti alla Regione Calabria.Abbiamo presentato il progetto e avuto accesso ai finanziamenti. Abbiamo firmato all’inizio del 2017. A distanza di quattro anni siamo stati costretti a chiudere i nostri rapporti con la Regione per chiedere il mutuo in banca con cui siamo riusciti a partire».
Domando maggiori dettagli. «Il fatto è che dal 2017 i soldi ci sono arrivati nel 2021, subito dopo la pandemia. Con tutte le difficoltà del caso. Ci risultava impossibile spendere i fondi secondo le regole e i tempi dettati dal progetto», chiarisce Federica. «Per evitare grane successive, abbiamo dovuto rinunciare e restituire la cifra con tanto di mora», rincara Martino.
«Nonostante avessimo effettuato tutte le operazioni di chiusura, restituendo quanto ci era stato dato, ci è mancato poco che la vicenda finisse sul penale. Questo perché alla Regione nessuno aveva mai letto la pec con cui comunicavamo l’avvenuta e comprovata restituzione dei fondi. Ad oggi, dopo il calvario vissuto, non riteniamo Regione Calabria un interlocutore credibile e affidabile. Abbiamo constatato che, al di là di tante belle parole, il supporto e l’affiancamento ai piccoli imprenditori che la Regione dovrebbe fornire è una chimera. Purtroppo la realtà è questa», conclude Federica. Cui fa eco Martino: «Un po’ ti scoraggi. Perché un ente che dovrebbe darti una mano alla fine ti crea soltanto problemi».
Come facevano gli antichi
Eppure, a dispetto dei molti ostacoli sulla strada, questa trama di relazioni, merci e persone che attraversa e oltrepassa picchi e vallate, si allarga dal Tirreno allo Jonio. Dalla piana di Gioia scavalco la montagna e giungo sul versante jonico, località Ciminà, già famosa per il suo caciocavallo dop. Mi aspetta Pasquale Polifroni, patron di Aspromonte Vini (Aspromonte Vini – Vini artigianali biologici di Calabria), una delle cantine di vini naturali sponsorizzate da Osteria Zero di cui mi aveva molto parlato Andrea Latella, sottolineandone la qualità, i metodi di produzione e quelli di conservazione.
Pasquale Polifroni
Arrivo in località Vignali, un toponimo legato all’antico passato vitivinicolo. «Anche io sono un ritornato. Dopo gli studi a Perugia, mi sono trasferito con un buon contratto di lavoro a Milano nel campo della concessioni pubblicitarie per i media. Ho condotto quella vita per qualche anno fino a rendermi conto che non la trovavo più soddisfacente. Mi sono licenziato e, con la buona uscita, mi sono preso un anno sabbatico alla fine del quale, dopo una serie di vicissitudini, ho deciso di rientrare. La mia attività di agricoltore è cominciata con i frutti di bosco: lamponi, more e i mirtilli, che ancora produco».
Il dettaglio che dai racconti dei ragazzi di Osteria Zero mi aveva colpito di Polifroni era l’utilizzo degli orci di creta per la conservazione dei suoi vini. Mentre ci rechiamo verso la vigna, Pasquale si ferma. «Devo mostrarti qualcosa». Lo seguo fino ad arrivare a quella che, immersa nel verde fitto dei campi, sembra un’antica vasca. «Per l’esattezza si tratta di un palmento romano di 2000 anni fa. Il manufatto è composto di due vasche di roccia arenaria costruite su livelli sfalsati e collegate da un piccolo scolo. La prima serviva da pigiatoio e filtro e riversava nell’altra il succo della spremitura che veniva raccolto in vasi di coccio e trasportato a maturare».Dirigendoci verso la viti, attraversiamo la fiumara dei Gelsi Bianchi sulle cui rive insisteva una fiorente produzione di gelso.
Palmento romano a Ciminà
I vitigni autoctoni
«L’amore per il vino l’ho sempre avuto. Ho cominciato a bere vini naturali – che oggi è la mia nicchia di mercato – e poi ho deciso di impiantare la mia prima vigna: 200 piante per provare a produrre 150 litri di vino. Fosse andata male, avrei registrato una perdita minima. Invece venne fuori un buon prodotto. La mia passione cresceva e mi incamminai su un percorso fatto di visite a fiere, studi dedicati, una formazione da sommelier».
Pasquale oggi è componente della prestigiosa associazione Vi.Te. che anche nel 2023 ha rappresentato il mondo dei vini naturali al Vinitaly. Mi racconta che è partito tutto così: «Ho iniziato a impiantare 3 ettari di vigna. Solo vitigni autoctoni calabresi: magliocco, mantonico e greco nero. Vitigni millenari, come il mantonico, che esiste da 2.500 anni, è stato importato dai greci ed è uno dei padri della viticultura italiana. Chi ne mastica un po’ sa che il mantonico è il papà del gaglioppo e del nerello mascarese. C’è stato tanto lavoro. I contributi pubblici mi hanno aiutato: i fondi del Programma di Sviluppo Rurale 2014/2020 della Regione sono serviti a impiantare la coltivazione di vite sul terreno che vedi, completamente vergine e fino ad allora adibito a pascolo, e a ristrutturare i locali della cantina».
La vigna di Aspromonte Vini
Dalla Calabria a Milano, ancora una volta
Sul crinale della montagna, completamente in pendenza, si apre di fronte a noi una distesa di viti non trattate con un’ottima esposizione al sole e alle correnti d’aria che trasportano fin qui la brezza marina. E senza potersi ispirare ad altri né una tradizione familiare alle spalle. Nella zona, ad oggi, Pasquale resta l’unico produttore.
«Ho chiesto qualche consulenza e ho iniziato una piccola produzione naturale che contempla il solo utilizzo di prodotti biologici: zero pesticidi, disserbanti e prodotti di sintesi, ma solo l’uso di componenti naturali, come lo zolfo e un uso moderato di solforosa. Alla fine ho mandato i vini a Milano a un buyer ebreo che, dopo qualche settimana, ha preso l’aereo e mi ha raggiunto tre giorni. Quando è ripartito, avevamo già chiuso un contratto di distribuzione in tutta Italia».
Le anfora di terracotta dove matura il vino
Da allora le cose sono andate in crescendo. «Oggi produco e poi faccio maturare nelle giare di terracotta, un po’ come si faceva nell’antichità. Come il legno, la creta consente una particolare micro-ossigenazione, ma a differenza del legno e come l’acciaio, non cede nulla, lasciando il vino in purezza. La creta però non fa trasformare l’aceto in vino. La differenza la fanno la qualità delle uve, l’esposizione e la posizione delle coltivazioni, il metodo per tirare su le viti e i procedimenti in cantina. Lavoriamo attraverso fermentazioni spontanee con lieviti indigeni. Il vino ottenuto non viene chiarificato né filtrato e i sedimenti che si possono trovare in bottiglia lo proteggono, conservandone le proprietà organolettiche».
E che non sia stato facile posso solo immaginarlo. «Il comparto enologico è estremamente concorrenziale e l’Italia è uno dei maggiori produttori ed esportatori mondali. Ho avuto dalla mia la passione, l’amore, la cocciutaggine. E un pizzico di fortuna», chiosa Pasquale.
Fare impresa in Calabria
Le storie dell’Osteria Zero di Martino, Rocco, Federica, Antonello o quella di Pasquale sono la testimonianza di come sia possibile fare impresa in Calabria dove, se la fatica è maggiore, le soddisfazioni dei traguardi sono più grandi. A difficoltà oggettive rispetto ad altre regioni italiane – pastoie burocratiche, carenze logistiche, scarsi servizi – imprenditori come loro rispondono con il mutuo soccorso, il coraggio, la determinazione dei sogni. Tra approcci diversi e fortune alterne dove si ha l’impressione che la Regione sia ora madre, ora matrigna.
Se a questi elementi si affiancassero politiche attive di formazione alla cultura di impresa, di incubazione e accompagnamento, di promozione e valorizzazione delle filiere, attente alla geografia e alle relazioni tra territori, l’energia sprigionata e i risultati che ne deriverebbero potrebbero contribuire sostanzialmente a mutare il volto di una terra dalle grandi risorse.
Per noi “spettatori” diventa tedioso e abbastanza confusionario ascoltare un’ora e quaranta minuti di lettura del dispositivo che in primo grado condanna o assolve i 338 imputati di Rinascita-Scott. Immaginiamoci cosa deve essere per quegli stessi imputati che attendono il loro nome – chi con la A, chi con la Z – con rassegnazione o speranza, intrecciando gli sguardi con gli avvocati perché non sempre si capisce cosa effettivamente dica il dispositivo in questione.
I numeri di Rinascita-Scott
Questa più o meno la situazione dentro e fuori dall’Aula Bunker di Lamezia Terme, con gli occhi della stampa estera ma anche di quella italiana che vuole fare i conti e li vuole fare facilmente. Quanti sono i condannati? Quanti gli assolti? Cosa significa oltre 2000 anni di carcere o 4000? Poi, come spesso accade (soprattutto nei maxi-processi), si comprende che non tutti i condannati sono uguali e non tutti gli assolti sono uguali. D’altra parte, è uno dei motivi di confusione di Rinascita-Scott, soprattutto all’estero: quanto è significativo il processo dipende da chi – non dal quanto – si porta a giudizio.
Ed in processi così grandi la differenziazione è complessa.
L’aula bunker di Lamezia Terme che ha ospitato il processo Rinascita-Scott
Nei grandi numeri di Rinascita-Scott ci sono certamente delle condanne importanti e le condanne sono la maggioranza. La cosa non sorprende, se si considera l’apparato accusatorio che mira a guardare l’insieme. Riportano i notiziari che 207 sono le condanne emesse nei confronti di capi e gregari delle ‘ndrine vibonesi. Tra questi sicuramente spiccano le condanne a trent’anni di carcere – sostanzialmente l’ergastolo – emesse nei confronti di Francesco Barbieri, Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Li si considera i capi-mafia, membri apicali della provincia ‘ndranghetista del vibonese, tra quelli rimasti a processo in questa sede. Ma sono comunque non pochi, 134, i capi di imputazione che vengono meno fra assoluzioni e prescrizioni.
Nomi vecchi e nomi nuovi
Regge dunque l’impianto accusatorio per, diciamo, due terzi. Si mirava, ricordiamolo, a inquadrare come vecchi e nuovi clan di ‘ndrangheta della provincia di Vibo fossero arrivati a riconoscersi e riconoscere una provincia vibonese, sostanzialmente autonoma dal “Crimine” di Polsi. Al centro il paese di Limbadi dove risiede quella parte della famiglia Mancuso, capitanata per lungo corso da Luigi Mancuso, che spadroneggia sul territorio e fa da “mamma”, come si dice in gergo ‘ndranghetista. Significa dunque che a subire le condanne sono stati – con tutti i caveatdi quelle in primo grado e importanti diminuzioni delle pene richieste dalla procura – coloro che ci si aspettava le subissero. Individui, cioè, che in misura più o meno incisiva risultano affiliati ai vari clan della città e della provincia di Vibo.
Se ci si aspettava più o meno il successo dell’impianto accusatorio per quel che riguarda la mafia vibonese in senso stretto – d’altronde c’era già stata la pronuncia del processo abbreviato, che in appello ha confermato condanne per oltre 60 individui – quello che poteva incuriosire era il “trattamento” processuale dei cosiddetti imputati eccellenti, i colletti bianchi, protagonisti del processo forse più di tanti altri presunti mafiosi. Ed ecco che proprio qui arrivano delle sorprese.
Gianluca Callipo
Sicuramente alcune sorprese positive per imputati come l’ex sindaco di Pizzo, Gianluca Callipo e l’ex assessore regionale Luigi Incarnato, entrambi assolti. Così come per l’ex consigliere regionale Pietro Giamborino, condannato ad 1 anno e sei mesi a fronte di una richiesta di condanna a 20 anni di reclusione per reato associativo mirato al voto di scambio.
Non avendo ancora le motivazioni per questo verdetto odierno è difficile immaginare cosa la Corte abbia escluso come indizio di colpevolezza in questi casi. Nel caso di Giamborino la Corte di Cassazione già nel 2020 aveva chiesto al tribunale di merito in ambito cautelare di colmare alcune lacune motivazionali riguardanti «la probabilità di colpevolezza, la sussistenza del vincolo sinallagmatico tra il Giamborino ed il sodalizio criminale nell’interesse del quale egli avrebbe agito, in cui si sostanzia il patto politico-mafioso, sorto con riferimento ad una specifica tornata elettorale».
Il caso Giamborino
Infatti i vari eventi riferiti non sembravano confermare la «serietà» e la «concretezza» dello scambio e anzi essere caratterizzati da «genericità». Questo, si badi bene, nonostante i gravi indizi di colpevolezza che facevano risultare «non peregrino ipotizzare che il Giamborino abbia goduto dell’appoggio del locale di Piscopio nella competizione elettorale del 2002». Si legge nel dispositivo che Giamborino è stato condannato per il reato all’art. 346 bis (traffico di influenze illecite) ma per altri reati contestatigli gli viene riconosciuta la formula assolutoria «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste». E ci si chiede se, dunque, quest’altra Corte di merito non abbia accolto quel consiglio della Corte di legittimità a essere più specifica del rapporto sinallagmatico e non ci sia infine riuscita in modo soddisfacente da provarlo oltre ogni ragionevole dubbio.
L’ex consigliere regionale Pietro Giamborino
Inoltre, sebbene sia pacifica la sua definizione giurisprudenziale, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – così come quello di voto di scambio – rimane particolarmente ostico. E, pertanto, soggetto a grandi divergenze nella sua applicazione pratica. Risulta particolarmente complesso raccordare le varie condotte del colletto bianco, non affiliato, e ricondurle a un contributo volontario, specifico e consapevole al gruppo mafioso. E risulta ancora più complesso gestire in sede di merito quelle che sono doglianze di legittimità. Coordinarsi nel giudizio di merito come quello attuale con giudizi della Corte di Cassazione, che spesso intercettano questioni polivalenti nel tentativo di valutare situazioni a latere, per esempio legate alle custodie cautelari, è notoriamente materia complessa.
Rinascita-Scott e gli undici anni per Pittelli
Tra le notizie negative per gli imputati, sebbene con pene in parte ridotte rispetto alle richieste dei Pm, alcune dimostrano plasticamente la complessità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra queste spicca la condanna del colletto bianco per antonomasia di Rinascita-Scott, Giancarlo Pittelli. Ex senatore e politico, avvocato e uomo molto conosciuto nei suoi ambienti, Pittelli ha fatto parte in vari momenti anche delle logge massoniche locali, appartenenza che potrebbe aver amplificato la risonanza delle sue condotte.
Giancarlo Pittelli si è visto infliggere una condanna a 11 anni di reclusione
L’avvocato-politico è stato condannato a11 anni di carcere, a fronte dei 17 chiesti dalla procura. Ma questo sarà arrivato con non poca sorpresa a lui e ai suoi avvocati che da anni sono impegnati in ricorsi – ovviamente non solo loro – davanti alla Corte di Cassazione e al Tribunale del Riesame per chiarire la posizione dell’imputato, soprattutto per quanto riguarda la sua detenzione. Qui emerge la complessità di raccordare giudizi di merito con giudizi di legittimità che solitamente seguono.
Millanteria o no?
Già un anno fa, per esempio, la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dei legali di Pittelli contro una decisione del Tribunale del Riesame, aveva confermato la rilevanza ai fini cautelari di alcune condotte dell’avvocato-politico imputato ma non di altri indicatori di grave colpevolezza. Ribadiva, in sostanza, che per il concorso esterno in associazione mafiosa serve più della millantata o reale “messa a disposizione” del professionista.
La Corte di Cassazione
Il Tribunale di Catanzaro, a cui la Cassazione aveva dunque rinviato il giudizio, nel gennaio del 2023 ha poi chiarito che la condotta dell’imputato di “messa a disposizione” fosse qualificabile come una millanteria del Pittelli. Ed ha altresì escluso che l’imputato abbia «usufruito o tentato di sfruttare particolari entrature, in ragione del suo ruolo, per agevolare la consorteria».
Anche qui, in attesa delle motivazioni del verdetto, è difficile valutare cosa il Tribunale abbia considerato grave indizio di colpevolezza in questo caso da giustificare invece gli 11 anni di condanna. Rimarrà certamente argomento del contendere in appello.
In carcere a lungo, poi l’assoluzione
Da ultimo, giova ricordare che mentre si aspettano le motivazioni della sentenza passerà ulteriore tempo. Ci sono persone assolte in questo processo, per cui la procura aveva chiesto 18 anni di carcere per reati associativi – ad esempio il nipote acquisito che faceva da autista allo zio, boss, per capirci – che stanno in carcere dal dicembre 2019. Per quanto valgano scuse e monete di risarcimento, resteranno private di 4 anni di vita e probabilmente anche della propria reputazione. Questo processo, complesso, lungo, titanico per ragioni che sono certamente comprensibili da un punto di vista dell’impianto accusatorio, porta a una serie di storture di difficile gestione da un punto di vista del rispetto dei diritti umani e della necessità – internazionale, europea, italiana – di gestire i processi in tempi brevi e soprattutto non punitivi.
Il procuratore Falvo
Si rimanda qui alle parole del procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, che nota come, nonostante la scelta dei maxi-processi possa sembrare discutibile, a volte viene giustificata dalle dimensioni del collegio giudicante. Ovviamente riconoscendo quanto ciò porti ad ulteriori problematiche su altri processi e pronunce future.
Realtà giudiziaria e storica
Ed ecco dunque che mentre aspettiamo le motivazioni – e mentre qualcuno forse mosso dalla voglia inesorabile di più “punitività”, si lamenterà di quelle oltre 100 posizioni di assoluzione e prescrizione – invito a ricordare che delle condanne dei processi c’è da gioire solo fino a un certo punto. E che secondo il principio costituzionale di non colpevolezza fino a prova contraria, ciò che tutti noi possiamo fare fino al passaggio in giudicato di questioni così complesse come la mafia, è analizzare criticamente la realtà, giudiziaria quanto storica, di ciò che i processi e poi le sentenze effettivamente dicono.
Visitare la Bovesìa, con i suoi centri spopolati, è come fare un salto nel tempo. Tra l’alternarsi dei gialli, dei verdi, di quei marroni sovrastati dal bagliore delle rocce bianche della fiumara Amendolea, ogni metro percorso racconta pezzi di una storia spezzata. Pezzi di comunità sparite che si sono lasciate alle spalle un passato di compattezza ed unità che non c’è più.
La piazzetta di Gallicianò
Arrivando nella piazzetta di Gallicianò, comune di Condofuri, alveo di una delle tante varianti linguistiche del grecanico, una bandiera greca sventola solitaria.
Gallicianò è un paese ormai per lo più vuoto. Eppure è ancora teatro di manifestazioni culturali come quella cui sono venuto a partecipare: la presentazione del progetto europeo Coling,un percorso di ricerca e di studio internazionale per la valorizzazione, il rafforzamento e la rivitalizzazione del greco di Calabria come lingua minoritaria. La mia visita segue quella di qualche mese fa a To Ddomàdi Grèko, la settimana di formazione linguistica intensiva che da alcuni anni si svolge a Bova Marina e in cui si sono formati molti dei collaboratori di Coling.
To Ddomàdi Grèko
«Negli ultimi 50 anni la nostra associazione si è battuta per la tutela, la promozione e la valorizzazione della grecità calabra. Da nove anni, ogni agosto, realizziamo a Bova un corso di grecanico che è in realtà percorso formativo full immersion di una settimana. Partiti in 15, oggi siamo in 70, l’interesse va via via crescendo ed ospitiamo giovani e adulti di Reggio, provenienti da altre regioni di Italia e stranieri. Abbiamo creato un’iniziativa che combina la pura formazione linguistica alla riscoperta di tradizioni, cultura e territorio. La lingua è il collante che ci fa incontrare, confrontarci, dialogare».
Danilo Brancati firma gli attestati di partecipazione alla Settimana Greca di Bova
Danilo Brancati è il presidente di Jalò tu Vua, una delle più longeve associazioni culturali che, dagli anni Settanta, si occupa di quest’ambito. La sua associazione è l’ideatrice di quest’iniziativa che trasporta la formazione classica in uno spazio totale di apprendimento collaborativo. E promuove l’incontro tra gli ultimi nativi parlanti ed i neofiti.
Grazie a questo impegno, la Bovesìa ha fatto scuola. Me lo racconta Gian Lorenzo Vacca, attivista salentino e ricercatore del progetto Coling: «La Calabria Greca per me è un pezzo di cuore perché è dove ho capito qual era la mia strada. Guardando il lavoro dei ragazzi di Jalò tu Vua, ho capito che il modello funzionava e poteva essere replicabile. Ho formato un gruppo di appassionati, abbiamo rilevato l’associazione Grika Milume, siamo venuti a partecipare ai lavori di To Ddomàdi Grèko e, nel giro di un anno, nel 2021, abbiamo organizzato la prima edizione della Settimana Greco-salentina, I Ddomàda Grika. Senza questa esperienza calabrese non saremmo stati qui a parlarne adesso».
Una lingua deve vivere
«Per noi era importante insegnare una lingua che sta scomparendo, ma non volevamo che avvenisse in un contesto accademico. La lingua non vive – non solo – attraverso lo studio di regole grammaticali. Vive se viene usata. In un confronto costante con i pochi parlanti nativi ancora in vita. Perché consente di entrare in contatto con quel sistema culturale, valoriale, di saperi giunto fino a noi. Che esisterà fin quando ci sarà anche un solo parlante. Di parlanti oggi ne abbiamo persi parecchi. Per questo è importante trasmettere questo patrimonio».
Danilo Brancati
Il problema per Danilo non è (solo) legato al numero di parlanti effettivi, ma all’approccio con cui una lingua e la sua cultura di riferimento vengono vissute. A prescindere dal numero. «Quest’anno abbiamo ampliato l’offerta formativa ed esperienziale che Jalò tu Vua propone. Alle classi standard – principianti, livello intermedio, avanzato – e a quelle per bambini che prevedono forme di apprendimento giocoso, si è aggiunta quella rivolta agli insegnanti di latino e greco. Vogliamo favorire connessioni culturali tra il sapere autoctono e quello che si studia ad esempio nei Licei classici».
Studenti dialogano con i grecanici anziani
Il progetto Coling
To Ddomàdi Grèko si è rivelata un laboratorio di ricerca e applicazione didattico-linguistici anche nel progetto “Coling – Lingue minoritarie, maggiori opportunità. Ricerca collaborativa, coinvolgimento della comunità e strumenti didattici innovativi”, il primo del genere a mettere in contatto la comunità dei Greci di Calabria con l’accademia. Coordinato dall’Università di Varsavia, con il contributo di Università e centri di ricerca europei e del Gruppo di Azione Locale Area Grecanica, il progetto ha svolto una ricerca collaborativa assieme alla comunità dei parlanti greco-calabri, elaborando metodologie e strumenti didattici nuovi per un insegnamento a 360 gradi del grecanico fin dalla più tenera età.
Un momento della presentazione del progetto Coling
Cofinanziato con oltre 1 milione di euro e partito nel 2014, si è chiuso a fine settembre a Gallicianò con la presentazione di risultati: un manuale grammaticale, un corso on line di lingua grecanica., un videogioco, due giochi da tavolo educativi, schede di apprendimento linguistico per l’infanzia. Oltre all’elaborazione di un sistema di standardizzazione ortografica delle varianti linguistiche greco-calabre.
Una comunità di parlanti in agonia
A chiarirmi la complessità della situazione è Salvino Nucera, intellettuale, poeta, autore grecanico di Chorio di Roghudi e antesignano della battaglia per la tutela della minoranza greco-calabra. «Oggi i grecanici sono circa un migliaio, di cui parlanti 300 scarsi». Uno stillicidio che nei secoli ha degradato il greco di Calabria da lingua predominante di tradizione orale in tutto l’Aspromonte a macchia culturale resistente.
Un processo lungo, durato secoli, in cui la compattezza della grecità culturale e linguistica entra in crisi: il declino politico e culturale di Bisanzio, la diffusione del rito latino nella liturgia e nella predicazione della Chiesa, il tramonto del monachesimo basiliano e, più recentemente, le ragioni unitarie, la propaganda fascista, l’emigrazione, la delocalizzazione, il pubblico ludibrio e il senso di inferiorità culturale percepito assestano un colpo quasi mortale a questo “spazio” culturale. Oggi i grecanici sono una comunità sfilacciata, a volte sparsa, quasi frutto di una diaspora e preda di un inesorabile disfacimento.
Salvino Nucera
Salvino Nucera, il poeta greco-calabro
«Sono contento che una nuova generazione volenterosa e curiosa stia proseguendo sulle nostre orme, perché per me si è trattato di un impegno e di una passione per la vita». Salvino Nucera non è solo colui che, assieme ad Alessandro Serra, fondatore di Teatropersona, sta traducendo le tragedie di Euripide in greco di Calabria. È anche l’antesignano che, tra gli anni Settanta e Ottanta, assieme agli allora ragazzi dell’associazione Jonica si batte per la tutela della minoranza greca. Ed è tra coloro che hanno riaperto la stagione della produzione scritta in grecanico.
«L’ultimo precedente è databile alla fine del Seicento: un testo scritto da un sindaco bovese pro-tempore. Nel 1981 Giovanni Andrea Crupi pubblica La Glossa di Bova, traduzione di cento favole esopiche in greco di Calabria. Nel 1986 esce il mio primo libro. All’inizio pensavo in dialetto, scrivevo in grecanico e ritraducevo in italiano. Poi ho capito che avrei dovuto partire pensando direttamente in greco».
Dal nucleo originario di Jonica si staccarono una serie di cellule. E andarono a costituire organizzazioni diverse: Apodiafazzi, Comelca – Comunità greca di Calabria -, Jalo to Vua, per citarne qualcuna. Ma qualcosa secondo Salvino non ha funzionato.
I fondi della legge 482
«C’è stata poca sinergia. I fondi stanziati dalla Provincia di Reggio Calabria attraverso la legge 482 per le minoranze linguistiche hanno scatenato gelosie e sono stati male utilizzati. L’impatto di quanto finanziato è stato limitato. Ha prevalso lo spirito greco della divisione. Faccio un esempio: i corsi di lingua grecanica promossi dalla Provincia come specializzazione per la Pubblica Amministrazione venivano pagati profumatamente. Spesso però i partecipanti non figuravano e il controllo era scarso. Successivamente con quei fondi il GAL Area Grecanica realizzò alcune pubblicazioni. Una la feci anche io con Rubbettino. Poi poco altro». Tuttavia, dopo la recente presentazione del piano regionale di dimensionamento scolastico, appellandosi alla 482, i sindaci dell’area Grecanica sono riusciti a scongiurare la chiusura di alcune scuole. Infatti il piano prevede agevolazioni per le aree delle minoranze linguistiche, fissando a 600 anziché a 1000 studenti la soglia sotto cui attuare il ridimensionamento.
Diversa la situazione della comunità arbëreshe che, con i suoi oltre 50mila membri (fonte Wikepedia) e con impegno e peso politico ben diversi, ha raggiunto importanti obiettivi. Uno su tutti: il nuovo contratto di servizio RAI 2023 -2028 garantirà produzione e distribuzione di trasmissioni e contenuti in arbëreshë. Anche il presidente Occhiuto ha ritenuto l’Arbëria di tale importanza da assegnare a Pasqualina Straface la delega ai rapporti tra il Consiglio Regionale e le comunità arbëreshë. Con buona pace di Danilo, i numeri contano, eccome!
Oggi intanto presso la Corte dei Conti pende un esposto contro l’avviso pubblicato lo scorso febbraio dalla Città Metropolitana di Reggio. Poco meno di 100mila euro per associazioni e organizzazioni senza scopo di lucro impegnate nella tutela del greco di Calabria. Il bando prevede l’attivazione di 10 sportelli linguistici con interprete/traduttore per le sedi dei comuni di Bagaladi, Bova, Bova Marina, Cardeto, Condofuri, Melito Porto Salvo, Reggio Calabria, Roccaforte del Greco, Roghudi e Staiti.
Peccato che lo faccia incaricando enti terzi cui verrebbe delegata la verifica dei requisiti di idoneità. Tra questi anche la “qualifica di interprete e traduttore di lingua greco-calabra”.
Lo stesso Danilo Brancati, raccontandomi l’attività di Jalò tu Vua nelle scuole, aveva sollevato tutte le criticità del caso. A cominciare dall’assenza di un sistema di certificazione della conoscenza di una lingua tramandata oralmente. L’avviso, anche secondo il Movimento Federativo delle Minoranze Linguistiche, rischierebbe di «alimentare pratiche clientelari sotto le mentite spoglie della promozione e della valorizzazione della lingua greco-calabra».
Daniele Castrizio
La ricetta di Castrizio
Nel frattempo chi può e sa, fa sui territori. E chi non le manda a dire è il professor Daniele Castrizio, storico, archeologo, docente di numismatica all’Università di Messina e neo-direttore del Museo della Lingua Greca di Bova Gherard Rohlfs: «Siamo ormai all’anno zero. Non c’è visione, né progettualità. Io ho tutta l’intenzione di riorganizzare il Museo di Bova. Per cui mi chiedo e chiedo: quale progetto abbiamo per la lingua e l’universo grecanico? Ritengo la questione della lingua parlata una battaglia ormai persa».
Che fare allora? «Riconosco e apprezzo l’impegno di Jalò tu Vua che sta effettuando un’attività di rivitalizzazione eccezionale, ma adesso dobbiamo puntare sulla valorizzazione di questa nostra grecità: filoxenia, enogastronomia, archeologia, monumenti, territorio. Dobbiamo spiegare che cosa vuol dire essere grecanici, costruendo una narrazione del territorio che non viene praticata da nessuno e che, spesso, quando c’è stata, ha prodotto dei falsi storici. Pensa che nella versione cattolica i greci di Calabria sarebbero piccole comunità insediatesi nel Settecento, quando invece un filone di studi ha dimostrato come la presenza greca in Calabria sia millenaria».
Piccoli alunni della Settimana Greca a Bova
DNA greco-calabro
Castrizio porta diversi esempi: «Prendi i risultati della mappatura del DNA della Bovesìa condotte da Giovanni Romeo dell’Università di Bologna: un DNA talmente antico da essere privo di elementi italici, slavi, dori o joni e simile a quello degli abitanti di Creta. Prendi le fonti storiche – in ultimo Dionigi di Alicarnasso – che attestano che 14 generazioni prima della guerra di Troia gli Arcadi si mossero verso il Sud Italia. Oppure prendi gli studi di John Robb che dimostrano la presenza dei grecanici prima del periodo miceneo. O, ancora, prendi anche solo un mero dato linguistico: ci sono parole di greco-calabro che si trovano nei poemi omerici e addirittura nella Lineare B. Quanti sanno che la produzione di seta del Reggino, protetto da 11 fortificazioni, rappresentava il cuore economico dell’impero Romano? Quando Reggio cadde in mano ai normanni la moneta si deprezzò del 30%».
Il nuovo ruolo del Museo Rohlfs
«Sono cose che andrebbero raccontate, così come andrebbe raccontato che le comunità dell’Arbëria sono originariamente greche, tanto che adottano il rito religioso greco. Bisogna abbandonare il particolare delle singole narrazioni con un’operazione di verità e trasparenza che restituisca la memoria e la dignità necessarie per decodificare, valorizzare e raccontare il territorio».
Castrizio ha tutta l’intenzione di dare nuovo impulso all’azione del Museo della Lingua Greca: «Voglio fare diventare il museo di Bova un museo Storico. Sto organizzando una prima mostra, suddivisa in tre aree: storia e archeologia, linguistica e territorio. Nel frattempo stiamo programmando una serie di attività educative con le scuole. E puntiamo ad aprire il Museo al territorio, per trasformarlo in un centro di produzione culturale».
Premere di più sugli attrattori culturali
L’idea di Castrizio sembra fare il paio con le linee della nuova programmazione regionale che puntano sugli attrattori culturali: meno opere murarie e maggiori investimenti culturali. In un contesto in cui i parlanti sono ormai sparuti e i numeri delle nascite tracciano un orizzonte grigio, la rivitalizzazione linguistica rischia di rivelarsi un tentativo per ritardare una morte annunciata. I (pochi) nuovi parlanti, sempre meno autoctoni, avulsi da un contesto che incoraggia un uso quotidiano e indefesso del grecanico, trasmetteranno ai propri figli quanto appreso o lo terranno per sé? Combinare invece l’apprendimento linguistico con un’azione più incisiva nelle scuole e una strategia più ampia di narrazione e valorizzazione della grecità calabrese potrebbe migliorare la situazione.
Il 25 ottobre 2023, a Milano, sono state arrestate 11 persone. A quanto pare le richieste d’arresto riguardavano 153 indagati. Una problematica lettura da parte del GIP sulla situazione mafiosa (anche quella giudizialmente accertata) in Lombardia, che ha subito portato la procura a un ricorso al tribunale del riesame.
I soggetti sotto indagine sono presunti affiliati a doppio laccio con organizzazioni di stampo mafioso calabresi, siciliane, romane e campane. Tutte “unificate” in un sistema di tipo confederativo tipico della città di Milano.
Si tratta di un’indagine di quasi tre anni. La Dda di Milano, che l’ha istruita, le ha dato il nome di “Hydra”, evocando quello del mostro mitologico a più teste. Ad occuparsene è la pm Alessandra Cerreti, con il coordinamento della procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e del procuratore Marcello Viola.
Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano, durante un incontro pubblico
Milano, Varese e le tante teste dell’Hydra
L’indagine, come spesso accade, aveva preso le mosse dall’osservazione degli assetti criminali dopo una precedente azione investigativa. Si trattava di osservare il locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo (VA) in seguito al blitz del 2019 “Krimisa” e alla collaborazione intrapresa da alcuni affiliati del clan, siciliani.
Dall’osservazione degli assetti di ‘ndrangheta a Lonate Pozzolo tra il clan Farao-Marincola di Cirò, la ‘ndrina Iamonte legata al locale di Desio e a Melito Porto Salvo, e il clan Romeo-Staccu, di San Luca, l’indagine ha poi fotografato una serie di interazioni, ripetute e sistemiche, molto oltre la ‘ndrangheta. Di fatto comprendevano gruppi a composizione diversa: alcuni legati a cosche siciliane, da Palermo a Castelvetrano, altre a gruppi campano-romani. Il tutto riunito in quello che appare un consorzio, un sistema federato lombardo.
Tutti sullo stesso livello
Si legge nelle carte d’accusa di come si sia in presenza di «una imponente e capillarmente strutturata associazione mafiosa, operante prevalentemente nel territorio lombardo, in particolare, tra la città di Milano e la sua provincia, la città di Varese e la sua provincia, costituita da appartenenti alle tre diverse organizzazioni di stampo mafioso Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, avente struttura confederativa orizzontale, nell’ambito della quale, i vertici di ciascuna delle tre componenti mafiose operano sullo stesso livello, contribuendo alla realizzazione di un sistema mafioso lombardo».
Le ramificazioni delle società finite nell’indagine Hydra
Gli inquirenti hanno monitorato riunioni cui partecipavano rappresentanti di ogni gruppo. Gli obiettivi erano di vario livello: estorsione, truffa, riciclaggio, detenzioni di armi, traffico e distribuzione di stupefacenti, ma anche gestione di società di capitali per l’importazione di acciaio e ferro, o gasolio, investimenti per lucrare sull’Ecobonus, sui contratti durante il Covid (per Dpi e sanificazioni), sull’Ortomercato, su parcheggi di ospedali e varie altre attività inclusa la prossimità politica con parlamentari, sindaci ed altri esponenti regionali dei vari partiti.
Una delle riunioni monitorate dagli inquirenti
I soldi “lombardi” restano in Lombardia
Il sistema è ben oliato, come dice Gioacchino Amico durante una “riunione” a Dairago nel gennaio 2021, sottoposta a intercettazione ambientale: «Noi abbiamo in cassa a maggio… cash… per questo dobbiamo spendere (…) acquisteremo tutte le cose che ci va a costare, asse non asse… costruiremo tutto… sempre dove con i proventi di Milano, Milano… con i proventi di Roma, Roma… con i proventi di Calabria, Calabria… con i proventi di Sicilia, Sicilia…certo così noi sul territorio non abbiamo discordanze…(…) Non hai discordanze… è giusto è corretto non è che tu puoi prendere i soldi da Milano e te ne vai in Sicilia… (…) questi qua li devono pagare a me… abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzare tutto da Milano…passando dalla Calabria da Napoli ovunque…»
Milano dagli anni ’80 a Hydra
Il “sistema Milano” di Hydra, pertanto, è presentato come autonomo per quanto partecipato. Questo non è certo motivo di sorpresa né di novità nel contesto lombardo, anzi. Da anni ormai non solo esiste “mafia” in Lombardia, ma questa mafia, che sia di matrice siciliana o calabrese, è altamente intimidatoria e soprattutto altamente specializzata. Lo dovremmo ricordare dai tempi di Antonio Papalia, capobastone aspromontano trapiantato a Nord, a capo della cosiddetta camera di controllo lombarda. Era un organismo decisionale che andava oltre la ‘ndrangheta a Milano e provincia, già a metà degli anni Ottanta, decenni prima di Hydra.
Il duomo di Milano, capitale degli affari della ‘ndrangheta
Oltre alla geografia delle riunioni mafiose e alle attività dei singoli gruppi, la novità di Hydra sta nell’impianto giudiziario, che vede – forse per la prima volta – fotografata non solo la collaborazione tra i gruppi, ma la divisione di risorse e responsabilità tra cosche siciliani, calabresi, campane e romane a Milano e dintorni.
Insomma, appare chiaro che il pubblico ministero voglia guardare al fenomeno dall’alto, con una cosiddetta helycopter view – una visione dall’elicottero – che vada oltre l’analisi della collaborazione, ma si concentri sulla sistematicità dei rapporti e sugli elementi di novità che questa sistematicità implica.
Le implicazioni dell’indagine
Ed eccoci quindi già a soppesare le implicazioni di questa indagine, nonostante sia ancora molto presto per definire i contorni delle responsabilità penali dei singoli individui. Implicazioni prettamente analitiche non seguono infatti lo stesso corso delle implicazioni giuridiche.
Appare acclarato da indagini pregresse e da una storia (non solo giudiziaria) ormai di mezzo secolo che le organizzazioni criminali in Lombardia collaborino. E che lo facciano come organizzazioni prettamente mafiose, cioè per interessi sia di profitto che di potere.
Esiste sostanzialmente un gruppo ibrido e misto. Però – ed è questa la novità paventata da Hydra – assume forme terze, autonome, sicuramente legate alle case madri ma di fatto con connotati diversi. Si costituisce quindi una morfologia mafiosa tutta locale.
Questo non dovrebbe sorprendere in un paese in cui ogni mafia assomiglia al suo territorio, socialmente quanto culturalmente. Questo poi è esattamente quello che succede altrove, incluso l’estero: le organizzazioni criminali sono tenute insieme da affinità e contesto e non da patti aprioristici e di fatto non sempre convenienti.
Il tribunale di Milano
Sembra avventato sostenere che il gruppo ibrido e misto – il sistema mafia lombardo – non possa disporre di un suo apporto intimidatorio proprio, come il GIP avrebbe sostenuto. Infatti, laddove sembra confermarsi l’esistenza dei singoli gruppi – raggruppati per “mafia” d’origine e come tali giudicati – e dunque la loro capacità intimidatoria, si potrebbe sostenere che queste capacità intimidatorie distinte si cumulino per un processo narrativo e costituiscano la forza intimidatoria del sistema mafioso in generale. E dunque, la riconoscibilità e la reputazione dei singoli affiliati come appartenenti a un sistema mafioso unico seguirebbe all’affermazione della loro capacità intimidatoria.
In questo senso l’esistenza di una cassa comune di supporto ai carcerati, caratteristica tipica dell’associazione mafiosa, rappresenta altro tassello di tale riconoscimento esterno quanto interno.
Detenuti a Milano
Dirà un presunto sodale che i pagamenti ai carcerati vengono prima dei pagamenti ai sodali, siano essi calabresi, siciliani o napoletani.
«I soldi servono per i carcerati (…) Stoppiamo tutti i pagamenti! per tutti! – Mandiamo un pensiero per i carcerati! Quello che tu riesci a fare, dopo qui! è la cosa principale, i carcerati…! – i carcerati devono essere i primi a fare. Poi che siamo ad attaccarci i calabresi, o i napoletani o i siciliani, i carcerati vanno mantenuti prima di ogni altra cosa a questo mondo!».
Il punto forse più interessante di questa storia è proprio il modo in cui si parla delle organizzazioni mafiose “siciliane”, “calabresi”, “campane” o “napoletane”.
Qui il caso Milano e Hydra – come d’altronde è avvenuto anche in passato – sono forieri di preziosi spunti per gli studi sulla mobilità mafiosa. Ciò che vediamo della criminalità organizzata (mafiosa) a Milano finiamo poi, storicamente, per vederlo altrove in Italia e all’estero.
Una scritta contro i meridionali nel Nord Italia
Il passaggio non è indifferente: dire i calabresi o i siciliani o i campani per indicare gli ‘ndranghetisti, i mafiosi o i camorristi è un modo di dire a cui siamo abituati ormai, soprattutto quando a parlare sono persone interne al sistema criminale. Però è un modo di parlare scorretto e pericoloso perché normalizza lo stigma “etnico” su certi popoli del sud, come se gli ‘ndranghetisti e i calabresi fossero di base la stessa cosa, o comunque ci fosse una componente “etnica” (l’essere calabrese) negli ‘ndranghetisti che li renda riconoscibili a priori. E siccome stiamo parlando di ‘ndranghetisti in trasferta, che calabresi a volte nemmeno lo sono più, questo è paradossale.
Collaborazione mafiosa e pregiudizi etnici
All’estero questa giustapposizione di termini sfocerà nel cosiddetto “pregiudizio etnico”, alimentato dal mondo criminale ma che trasmigra tra autorità e comunità. Prestiamoci attenzione, dunque, ché se l’etnicizzazione è parte del futuro della collaborazione mafiosa anche in Italia, come all’estero, abbiamo di che stare attenti.
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