Accade con una certa frequenza che non conoscendo i propri limiti, ci si inoltri su sentieri piuttosto scivolosi. E lì, mancando il senso delle cose reali, si smarrisce pure quello del ridicolo.
È accaduto a tal Giuseppe Intrieri, guida del Parco della Sila, fotografo trasferitosi a Londra. Ad Intrieri non è piaciuto l’articolo Strade perdute. Sila: spiriti, filosofi e tamarri tra boschi infiniti, in cui il rigoroso Luca Irwin Fragale fornisce un racconto colto, raffinato e irriverente della Sila. Spiacevolmente vittima dell’effetto Dunning-Kruger, Intrieri non riesce a cogliere nemmeno la superficie del pezzo di Fragale e ritiene, sbagliando, che esso sia un attacco alla Sila.
In un vortice di equivoci, dà così vita a un video pieno di sgrammaticature. Non ci riferiamo, pur potendo, alla lingua madre, ma anche alle regole della buona educazione e della comunicazione. Quando un articolo non piace, come quello di Fragale, si chiede spazio al giornale per una replica: lo avremmo prontamente fornito.
Intrieri preferisce invece imbastire sui suoi canali social un processo in video piuttosto comico in cui vomita – termine a lui caro, parrebbe – una lunga quantità di malcelate offese. Parole fuori luogo che se per un verso caratterizzano l’autore restano comunque inaccettabili. Intrieri accompagna il filmato – che chiunque può visionare in questo stesso articolo – con un testo in cui invita gli amici a «costituirsi parte civile e denunciare questo signore e la sua testata per danno d’immagine».
L’ultima versione – ha modificato il testo come risulta dalla cronologia del post – del j’accuse di Giuseppe Intrieri
Diffamazione e lesa silanità
Vale la pena di avvisare l’istigatore di querele che nei codici del nostro Paese non figura al momento il reato di “lesa silanità”. A voler sottilizzare, sarebbero le parole di Intrieri e vari commentatori al suo seguito ad avere rilevanza penale essendo cariche di diffamazioni e offese. Ma non siamo avvezzi allo sporgere querele. Certo, nel caso ne ricevessimo una replicheremmo con una controdenuncia per lite temeraria, giusto per rivendicare il basilare diritto ad esprimere il nostro punto di vista.
Per il resto è una battaglia impari: da una parte l’eleganza della prosa di Fragale , dall’altra la rozzezza delle parole del suo denigratore, cui è sfuggito il significato reale dell’articolo. Il video del fotografo silano non pare essere stato nemmeno in grado di suscitare l’agognata shit storm: pochi commenti, spesso volgari quanto irrilevanti.
Si rassegnino il fotografo e la sua esigua pattuglia: continueremo a ridere del suo video e a scrivere quel che ci piace.
Così Giuseppe Intrieri preannunciava il suo video su Fb. Poi, però, ha cancellato il post
Una volta realizzato il Grande raccordo anulare, sorse, al suo interno, la città di Roma. E il Canale della Manica? Fu scavato sotto il mare, e dopo, dall’una parte e dall’altra, emersero dalle acque la Francia e l’Inghilterra. Secondo quanto affermato tempo fa dal ministro alle Infrastrutture Salvini, così vanno le cose: cosa se ne farebbero i siciliani di collegamenti decenti tra Messina e Palermo e tra Messina e Siracusa, se, arrivati sullo Stretto, si trovassero davanti a un imbuto, e cioè all’attraversamento via mare? Quindi, in attesa delle ferrovie e delle strade da costruire in Sicilia – e in Calabria – intanto facciamo il Ponte.
Il grande circo del Ponte sullo Stretto di Messina
Per l’ennesima volta siamo purtroppo qui a parlare della Piramide del Faraone di turno, l’Opera (la maiuscola è d’obbligo) che porterà lavoro, scaccerà via la mafia e la ‘ndrangheta, attirerà milioni di turisti da tutto il mondo per ammirare la settima (l’ottava, la nona) Meraviglia. Intanto è già ripartito lo show, è stata spianata l’arma di distrazione di massa. È ripartita, dopo dieci anni dalla sua messa in liquidazione mai attuata, pure la Stretto di Messina s.p.a., che in decenni ha grattato milioni e milioni di denaro pubblico per il ponte. Naturalmente, non è mancata l’approvazione, con tanto di ostensione del plastico del Ponte nella Camera extra del Parlamento italiano, la trasmissione di cinque minuti del cerimoniere ufficiale della destra italiana Bruno Vespa.
L’area che dovrebbe ospitare il ponte sullo Stretto
Regioni a favore, cittadini contro
Per fortuna, insieme a tutto il circo, sono ricominciate le iniziative per tentare di contrastare un progetto che, con l’adesione entusiastica delle Regioni Sicilia e Calabria, avrebbe come solo esito certo quello di devastare uno degli scenari più belli del pianeta Terra. Prima in Sicilia, a giugno e ad agosto, e ieri da quest’altra parte, al circolo Nuvola Rossa di Villa San Giovanni, dove si è tenuta, organizzata dal Movimento No Ponte Calabria, un’assemblea molto partecipata. Il comunicato diffuso dal Movimento riferisce di interventi che «hanno ben rappresentato le ragioni dell’opposizione a un progetto propagandistico e, quello sì, fortemente ideologico».
Villa San Giovanni: la città sotto il ponte
Il professore Alberto Ziparo, coordinatore del Comitato Tecnico-Scientifico che ha studiato gli impatti del Ponte sullo Stretto, non ha fatto ricorso a giri di parole. E ha denunciato che «allo stato attuale l’unica speranza per avere un progetto esecutivo del ponte non è rappresentata da svedesi o cinesi, ma da un miracolo dello Spirito Santo!».
WWF e Legambiente hanno focalizzato la loro attenzione sulla «necessità di salvaguardare un’area la cui immensa biodiversità è unica al mondo». Area che non ha certamente bisogno di interventi di così grande impatto, perché la sua «valorizzazione rappresenterebbe un elemento di richiamo ancora più attrattivo del ponte stesso».
La variante di Cannitello
La sindaca di Villa, Giusi Caminiti, ha ricordato «l’impatto della variante di Cannitello, imposta come opera propedeutica al Ponte, che ancora oggi rappresenta un ecomostro, con le “opere compensative” ferme al palo da anni». E ha rilevato che «nessuna opera può compensare gli impatti per quella che diverrebbe la “città sotto il ponte”».
Ogni lunedì contro il Ponte sullo Stretto di Messina
L’appuntamento di Villa è servito per rilanciare la mobilitazione e renderla continua e costante. Il prossimo è previsto per il 17 aprile, cui ne seguiranno altri ogni lunedì, sempre al Nuvola Rossa. Lo spazio villese, si ricorda nel comunicato, «è nato proprio sull’onda della mobilitazione No Ponte».
Un momento dell’assemblea dei No ponte a Villa San Giovanni
Lo hanno inaugurato in occasione del primo anniversario della morte di Franco Nisticò, ex sindaco di Badolato in prima fila in questa battaglia. Nisticò trovò la morte il 19 dicembre 2009 mentre stava intervenendo ad una manifestazione a Cannitello di Villa San Giovanni. Su quello stesso palco e quella stessa tragica sera avrebbe dovuto esibirsi, insieme ad altri artisti di fama nazionale, il rapper reggino Kento, il quale, ora, desidera fortemente «restituire a quello spazio colori, allegria, musica e idee».
Trasporti via mare vs Ponte sullo Stretto
Un traghetto della Caronte&Tourist davanti al porto di Messina
Ed è di questo, io credo, che la nostra terra ha bisogno, oltre che delle infrastrutture di supporto per consentire a chiunque di raggiungerla in sicurezza e in tempi adeguati, dall’uno e dall’altro versante dello Stretto. Per attraversare il quale, senza deturparlo, è sufficiente un intervento, certamente meno costoso, di potenziamento del trasporto marittimo. Sono questi i problemi – e tanti altri, considerato che certamente non ve n’è penuria – sui quali si dovrebbe concentrare l’attenzione dei governanti locali e nazionali. Le Piramidi stanno bene in Egitto, e non ne servono altre dalle nostre parti.
Idee poche, ma confuse. E patriotticamente autarchiche. Dopo le contorsioni storiche del presidente del Senato, incapace di parlare di antifascismo e la proposta di legge – che sembra uno scherzo ma non lo è – che prevede multe da infliggere a chi osasse pronunciare parole anglofone, ecco spuntare i licei del “Made in Italy”, che con quel nome, se già esistesse, sarebbe a rischio di censura. Di cosa si tratti non è ancora chiaro. Né è da escludere che resti null’altro che una proposta propagandista tra le tante tirate fuori per distogliere l’attenzione dai molti inciampi del governo Meloni sul piano economico ed europeo.
Licei: made in Italy o Vinitaly?
Se restiamo alla spiegazione fornita da Carmela Bucalo, senatrice di FdI, dovrebbe essere una scuola in grado di rendere gli studenti «capaci di riconoscere le insidie dei mercati, i prodotti falsi provenienti dalla Cina, gli inganni del cibo sintetico». Praticamente un corso antisofisticazioni. Ma la rappresentante del popolo non sembra avere le idee chiare. Ed ecco che aggiunge: «Vorremmo stimolare i ragazzi del nuovo liceo a proseguire gli studi nelle università di settore o negli Istituti tecnici superiori». Qualche ghost writer spieghi alla povera donna che dopo il liceo, qualunque esso sia, iscriversi a un Istituto tecnico superiore non ha molto senso.
L’idea del nuovo indirizzo di studi è venuta nel corso di Vinitaly, la fiera del vino che si svolge a Verona e forse la cosa non è del tutto casuale.
Carmela Bucalo ha parlato a Verona degli ipotetici licei del Made in Italy
Il compagno Gentile
Di certo lo scopo dichiarato è quello di costruire un percorso didattico che esalti «una solida preparazione identitaria», ignorando la globalizzazione dei saperi che esige invece una flessibilità di pensiero e di conoscenze necessaria a governare complessità mai sperimentate prima.
Tuttavia se questo non bastasse a far sorridere, ecco il contorsionismo meloniano che ci spiega che «la sinistra ha distrutto gli istituti tecnici per favorire i licei», mentre gli Albergheri e gli istituti Agrari «sono i veri licei». Eppure questa perversa visione che ancora immagina la separazione tra scuole di serie A e di serie B affonda le sue radici nella “fascistissima” riforma dell’istruzione realizzata da Giovanni Gentile, ministro del regime poi ucciso dai partigiani dei Gap.
1932, Mussolini e Gentile all’inaugurazione dell’Istituto italiano di Studi germanici, presieduto dal secondo
Nel solco della tradizione
Era lui che aveva guardato con manifesta alterigia verso tutti i corsi di studio che non fossero i licei, i soli destinati a costruire le élite. E per questo aveva costruito una scuola classista, la cui eco ancora si ode distintamente nell’attuale impianto educativo. Oggi, a sentire i suoi maldestri eredi, sarebbe stata la sinistra radical chic ad avere ispirato corsi di studio pieni zeppi di Greco e Latino.
La nuova scuola sarà italianissima, gli Alberghieri saranno il baluardo contro sushi e kebab e negli istituti Agrari si imparerà ad usare l’aratro per tracciare il solco. Sperando che poi nessuno debba difenderlo con una baionetta.
Cesare Battisti, 69 anni, ex terrorista protagonista degli anni di piombo, condannato all’ergastolo per quattro omicidi ed altri gravi reati, catturato in Bolivia nel 2019 dopo una latitanza durata ben 37 anni, si è fatto risentire nei giorni scorsi. Aveva chiesto del vino da consumare in cella, negato. Poi alcuni agenti della polizia penitenziaria nel carcere di Parma, dove è detenuto, si sarebbero resi responsabili del «danneggiamento di alcuni suoi oggetti personali, tra cui il computer», il tutto «nel disegno di un’accanita persecuzione» nei suoi confronti: così reclama le sue ragioni il detenuto “politico” – definizione alla quale non rinuncia – Cesare Battisti: «Aggredito da agenti in carcere, hanno rotto il mio pc».
Cesare Battisti e il perdono agli ex terroristi
Il computer è diventato per lui una compagnia inseparabile. Battisti scrive, fa lo scrittore, mestiere appreso nella lunga latitanza trascorsa da fuggiasco; identità multiple e vita sotto copertura per decenni in giro per il mondo. «Un trauma» per lui che considera il computer «strumento di lavoro come scrittore ed editor di Artisti dentro», una rivista che documenta le attività dei detenuti impegnati in attività artistiche e creative nei luoghi detenzione. Ma il PC in carcere per Battisti è diventato anche «l’unico mezzo per mantenere un equilibrio psichico in circostanze tanto avverse». Responsabilità e fatti ai danni di un detenuto in un carcere della Repubblica che se accertate andrebbero sanzionate.
Marco Pannella manifesta per la liberalizzazione delle droghe leggere, 6 ottobre 1979
“Nessuno tocchi Caino”, come ci ha insegnato Marco Pannella, precetto sacrosanto di una giustizia giusta. In questi giorni il nome e il profilo di Battisti è tornato in ballo non solo per questo episodio. Si riparla di perdono agli ex terroristi. La storia, si dice da più parti, deve poter chiudere definitivamente i conti con un gruppetto di reduci della lotta armata, ormai vecchi, malati e male in arnese, anche se molti di loro circolano comunque liberi altrove e godono dello stato di rifugiati politici – certuni niente affatto pentiti – in Francia e in altri paesi che hanno offerto loro rifugio. Non è il caso di Cesare Battisti. Ormai assicurato dalla giustizia italiana alla sua pena, lunga e definitiva.
Un ragazzo di Calabria
Ma se per ipotesi Battisti dovesse ritornare in libertà e uscire per qualche motivo dalla galera, potrebbe benissimo passare un giorno o l’altro da queste parti, in Calabria, magari per scriverci sopra una delle sue storie noir. Potrebbero invitarlo a trascorrere qualche giorno di relax diplomatico sulle belle spiagge dello Ionio. Magari a Sant’Andrea Apostolo sullo Ionio, un comunello in provincia di Catanzaro che oggi conta non più di 2.161 abitanti.
Un posto che a parte il mare e le spiagge, gli ulivi e gli aranci piantati sulle colline di creta divorate del vento di scirocco, non ha altro da dichiarare al mondo oltre al fatto che dal 1931, quando faceva quasi 6.000 abitanti, ha visto sparire due terzi della sua popolazione nella diaspora infinita dell’emigrazione che ancora oggi continua a svuotare i paesi della Calabria. Oggi ci sono “androeolesi” emigrati sparsi in tutti i continenti e ai quattro angoli del mondo.
Forse Cesare Battisti a questo punto si chiederebbe il perché di quest’invito improvvido in un posto così strambo e fuori mano. Che pure di tempo ne è passato tanto. Ma il paesello di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio qualcosa a che fare con l’ex rivoluzionario (non proprio una sagoma di eroe della rivoluzione à la Che Guevara) ce l’ha. Una piccola cosa, un’emozione da poco nell’economia generale della Storia.
Qui era nato un ragazzo di Calabria, uno di quelli che per stare al mondo un giorno prendono il treno e vanno via da paesi sfiniti e inariditi come Sant’Andrea per andare a cercarsi “fortuna” dove se ne trova. Il lavoro, quello che tocca in sorte a chi emigra e ne trova uno, quello che è, qui di chiama ancora così, è “la fortuna”.
Andrea Campagna e i poliziotti di Pasolini
Di quel ragazzo partito come tanti altri dal suo paese, oggi resta solo qualche foto sorridente, i baffi e l’espressione impettita. Una di quelle foto sta al cimitero, e ingiallisce al sole sopra la lapide della sua tomba. Si chiamava Andrea Campagna, emigrò a Milano con la famiglia, trovò un lavoro, e per sua sfortuna diventò poliziotto. Uno di quei ragazzi figli degli emigrati poveri del Sud ai quali Pier Paolo Pasolini dedicò la poesia che lo scrittore, dispiacendo molto a certa sinistra radicale, pubblico su L’Espresso il 16 giugno del 1968.
Andrea Campagna
Tra quei versi asciutti Pasolini dichiarava la sua distanza antropologica e sentimentale dalla rivolta degli studenti, rappresentanti della borghesia. Quella per lui non era una vera rivoluzione, non aveva a che fare con la vita dei poveri, con i figli della classe operaia e contadina. I poliziotti invece, quei ragazzini in divisa che parlavano un dialetto sporco, coscritti per fame, rappresentavano invece la classe operaia, quella che all’epoca manifestava contro la borghesia.
Una rivolta di facciata
Quelle erano manifestazioni alle quali anche gli studenti contestatori, diceva Pasolini, quasi tutti figli della borghesia urbana partecipavano sì, ma come figuranti. Per Pasolini la rivoluzione degli studenti era una rivolta di facciata, era falsa, ipocrita. Non era quella la vera rivoluzione che avrebbe realmente cambiato la società italiana: «Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati». Pasolini era già allora controcorrente, una voce dissonante in un periodo storico che sfociò poi apertamente in tensioni e violenze terroristiche, negli anni di piombo. Anche quel suo breve scritto, come il resto della sua vita e delle sue opere, fece scandalo. Ebbe effetti spiazzanti e creò talmente tanto scalpore da trascinare controcorrente l’attenzione critica del mondo culturale italiano di sinistra sui movimenti politici di quella fase storica.
1968, gli scontri a Valle Giulia
«Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità». È questo il gruppo di versi di quella poesia di Pasolini, che da allora è rimasto nella storia, di cui si continuò e si continuerà a parlare ancora per molti anni.
Con le labbra, non con il cuore
Poi successe che una mattina del 1979, la faccia di Andrea Campagna, ragazzo calabrese figlio di paese e di emigranti a Milano, partito al mondo come poliziotto, finì con una foto formato tessera sulle prime pagine dei giornali. Andrea era stato ucciso “in azione” da Cesare Battisti, a quel tempo militante dei PAC e oggi rubricato nella ricca biografia di Wikipedia come “ex terrorista e scrittore italiano”. Uno che, già, approfittando dell’omonimia fa ombra alla memoria di quell’altro Cesare Battisti, il patriota trentino che con ben altra fine fu eroe dell’indipendenza italiana.
Tra gli amici di gioventù di Andrea Campagna, originario anch’egli del paese di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, c’è Salvatore Mongiardo, da cui ho raccolto il racconto di questa storia. Nel 2009 Mongiardo, emigrato anche lui a Milano, torna a Sant’Andrea e incontra Antonietta, la madre di Andrea Campagna. «Fu più forte di me, e mi misi a parlare di Andrea, della sua uccisione, di come lei, la madre, lo venne a sapere».
Il perdono con le labbra, non con il cuore
«Antonietta ricordava con estrema lucidità quel giorno terribile, e concluse: “Dicono che bisogna perdonare, ma io potrei dirlo solo con le labbra, ma non con il cuore, con il cuore no, mai”, e alzò ripetutamente la testa per sottolineare il diniego. Quando torno al cimitero del paese, rivedo la tomba e quella foto di Andrea e penso che il mondo va male perché governato da quelli che affamano i miseri e proteggono pure i delinquenti. Un mondo così, prima finisce meglio è», conclude amaro Salvatore Mongiardo, oggi uomo di successo, filantropo e filosofo pacifista ispirato dal pensiero pitagorico. Un punto di vista sul mondo che uno che sparava e uccideva per la Rivoluzione comunista come Battisti magari farebbe ancora in tempo ad apprezzare.
Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ)
Caro Battisti se mai verrà un giorno da uomo libero a Sant’Andrea, in Calabria, stia certo che nessuno le rimprovererà nulla o le torcerà un capello. Potrà camminare tranquillo per le strade del paesino ionico spogliato dall’emigrazione. Magari le offriranno anche un bicchiere di vino di quelle campagne. E poi potrà andare a dare uno sguardo al piccolo cimitero del paese. Lì c’è la misera tomba di questo Andrea ammazzato da lei, Cesare Battisti, a 25 anni. Poi magari potrebbe passare anche da casa di sua madre, che se fosse viva, davanti a lei alzerà ancora una volta la testa, e ancora una volta, finché le resterà fiato, le chiederà perché, «perché, cosa ti aveva fatto mio figlio?», e le dirà ancora che per lei, dopo quello che le ha fatto, «perdonare è mai!».
Cinque colpi alle spalle
Altri lo hanno fatto, legittimamente, per dare pace e darsene, per chiudere finalmente quel capitolo della storia. Chi è morto però resta per sempre dalla parte dei vinti, dei sopraffatti dalla storia. Il perdono è un diritto, un dono, appunto, mai un dovere. Chissà che incontro sarebbe quello tra lei e quella vecchia donna che non ha mai sciolto il lutto del figlio morto ammazzato per le ragioni dei padroni e per una rivoluzione, la sua Battisti, che non c’è mai stata. Tra i vinti di questa terra disertata resta lui, Andrea, tornato qui da morto, ragazzo di Calabria che si era fatto poliziotto a Milano, ammazzato con 5 colpi di revolver dietro le spalle, a 25 anni.
L’agente Campagna, ricordano freddamente le cronache fu «ucciso al termine del suo turno di servizio, intorno alle 14 del 19 aprile 1979, in un agguato teso in via Modica, alla Barona», periferia operaia di Milano. Freddato «di fronte al portone dell’abitazione della sua fidanzata». Ad attenderlo c’era «un gruppo terroristico». A capeggiarlo era proprio Cesare Battisti, che eseguì personalmente la sentenza di morte.
Campagna «fu raggiunto e colpito alle spalle, mentre si accingeva ad entrare in auto, da cinque colpi di rivoltella» che la stampa riferì essere quelli «di una 357 Magnum calibro 38 corazzato». La successiva rivendicazione dell’omicidio fu siglata dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC), di cui Battisti era esponente di punta. Nella rivendicazione si parlò di Campagna come “torturatore di proletari”. In realtà il giovane agente calabrese svolgeva mansioni da autista presso la Digos di Milano.
Fantasmi
In questa storia dalla parte dei vinti, dei senza storia, resta lui Andrea Campagna. La stessa parte di quei padri e di quelle madri povere e diseredate di una Calabria contadina ormai estinta, costretta ma ancora dolente. La madre di Andrea, figura tragica piegata dal crepacuore, lei che sembra intravista, con intorno il suo piccolo mondo di affetti violato dalla sofferenza che si sconta da vivi, era già dentro quei versi di Pasolini del 1968: «la madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui, lottizzati».
Chissà, magari trovasse un giorno un modo, con la voglia e il coraggio di venire fin quaggiù ad affrontare, lei, Battisti, gli occhi o il fantasma di quella donna, madre di una vittima povera, dimenticata e senza giustizia. Andrea Campagna, uno che non ha avuto la sua stessa fortuna, Battisti, questo è certo. Ci provi. Magari anche solo col pensiero, anche da dove si trova adesso, in quella cella del carcere di Parma dove sconta i suoi ergastoli. Lei che è uno scrittore. Provi a scrivere una storia così. Per venire a vedere tra le pagine, fin qui, di persona, lei, Battisti, che oggi non è libero, ma è famoso e scrive noir di successo come Travestito da uomo, pubblicato da Gallimard, che ha amici influenti nel bel mondo come Bernard-Henri Lévy, Fred Vargas, Pennac e Carla Bruni.
Un perdono che non conta più
Provi a immaginare che faccia ha la vecchia mamma calabrese di Andrea Campagna, il ragazzo di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, emigrato per fare il poliziotto (un mestiere da “servo di quello Stato”, che da “comunista armato” lei voleva sovvertire, e ai cui codici e leggi adesso si appella a sua personale tutela), per morire un giorno ammazzato da lei. Tu Battisti, come quegli altri, «eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici». Furono pallottole e non fiori per Andrea, e gli occhi di quella madre continuano a piangerlo, per sempre. Quegli occhi velati da un dolore che non passa, le ricorderebbero Battisti che si vive o si muore sempre per un sì o per un no. E quel no per Andrea lo ha detto lei.
Lei, Battisti, credo, se la vedrebbe ogni giorno davanti agli occhi, quella vecchia madre, mentre alza la testa per negargli il perdono (che lei neanche le ha mai chiesto); con il cuore che diceva no per il poco di tempo che le restava da vivere, e quel no era tutto quello le restava da dire. E così anche dopo. Finché il silenzio non si porterà nel buio del tempo anche quel suo ultimo, inutile e irrimediato diniego di madre. Un perdono che tanto ormai, se pure ci fosse, non conta più niente.
Puntuale come l’allergia a primavera, è arrivato anche stavolta il richiamo alla magia del Mediterraneo. È stato subito un fiorire di sigle accattivanti: Hub Mediterraneo, Stati generali del Mediterraneo, Missione Mediterraneo e via dicendo.
Se analizziamo i programmi di governo dal 1980 in poi, parliamo quindi di oltre 40 anni, troviamo sempre un rinvio alla necessità del nostro Paese di puntare verso scelte di posizionamento culturale e commerciale capaci di privilegiare la nostra natura mediterranea piuttosto che inseguire la locomotiva tedesca e nord europea con i suoi numeri, per noi, irraggiungibili.
Soprattutto per il Sud, si diceva e si dice, il Mediterraneo deve diventare un’opportunità strategica, dato il nostro posizionamento geografico e la presenza di infrastrutture importanti quali il Porto di Gioia Tauro.
Tutto bene se non fosse per un unico piccolo dettaglio che non appare ben considerato nelle riflessioni sinora espresse dalle forze politiche, sociali ed imprenditoriali: di quale Mediterraneo parliamo?
Il porto di Gioia Tauro
Ma che cos’è questo Mediterraneo?
Usciamo dall’equivoco e dalla genericità. Non esiste il Mediterraneo. Esistono diversi Mediterranei che dovremmo avere il coraggio, politico, di valutare e, parallelamente, di scegliere. Ci riferiamo al Mediterraneo Occidentale? E cioè a Marocco, Algeria e Tunisia?
Ci riferiamo al Mediterraneo Centrale? E cioè a Libia ed Egitto?
Ci riferiamo al Mediterraneo Orientale? E cioè a Israele, Libano, Siria, Turchia?
E nel caso del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, quale dovrebbe essere il criterio di selezione geo-politico di queste tre aree?
Se è vero, da un lato, che la recente crisi energetica e migratoria ha finito per sdoganare relazioni culturali (di facciata) con paesi mediterranei in possesso di DNA democratici non proprio affini alla realtà europea (Algeria e Turchia in primis), siamo proprio sicuri che la creazione di nuove relazioni commerciali possa bastare a fare del Mediterraneo una prospettiva di sviluppo stabile e concreta per il Sud?
Paese che vai, problema che trovi
La mia impressione è che non basti. Intanto Tunisia, Marocco, Israele, e per tanti versi anche la Turchia, sono nostri diretti concorrenti, spesso anche vincenti in termini di leadership di prezzo, in molti segmenti dell’agroalimentare (olivicoltura e agrumicolo soprattutto) e del turismo di massa (Egitto e Turchia soprattutto).
Dromedari sulla spiaggia di Sharm El Sheikh
La Libia non ha governance politica certa. La Tunisia è vicina al default. L’Algeria e il Marocco sono sempre a un passo dal dichiararsi guerra per la questione del Sahara occidentale. Nel Libano secondo Save the Children il 37% della popolazione ha addirittura problemi di nutrizione. Di Siria è quasi pleonastico parlare.
Mediterraneo, Sud e Calabria
Allora signori, per piacere, facciamo uno sforzo di onestà intellettuale. Che significa diventare hub del Mediterraneo? Che significa puntare al Mediterraneo? Parliamo di internazionalizzazione attiva o passiva?
Mi spiego meglio: stiamo forse provando ad indossare, come italiani, l’abito di un neo-colonialismo strisciante travestito da solidarismo europeo? E l’Italia, oltre alle forniture di gas da ottenere da regimi dittatoriali, ha i mezzi e la finanza pubblica per interpretare questo ruolo senza sfiorare il ridicolo? E il Sud e la Calabria, alle prese con LEP che il ministro Calderoli intende assicurare stornando gli euro del Fondo Coesione non spesi (colpevolmente) dalle Regioni, che ruolo avranno? Venderemo le melanzane sott’olio ai tunisini o le settimane al mare, magari a Tropea, agli egiziani?
La Tropea da cartolina
Intanto la Cina…
Qual è la politica industriale che il Paese ha immaginato e per quale paese del Mediterraneo? Qualcuno si è accorto, ad esempio, che gli investimenti diretti cinesi nel Mediterraneo sono avvenuti in infrastrutture strategiche come i porti attraverso l’acquisizione di partecipazioni nelle relative società di gestione? Parliamo di Marsiglia, Ambarli, Valencia, Pireo, Port Said, Marsaxlokk, Cherchell, Haifa, Istanbul.
Certo, si dirà, questa non è una buona ragione per desistere ma, vivaddio, potremmo ragionare su singoli progetti e su singoli paesi e non ricorrere sempre alla formula salvifica di Mediterraneo che finisce per non significare nulla?
Obiettivi, non slogan
E allora perché non provare a costruire da subito un Master plan con indicazione di Paese, Settori, Progetti, Obiettivi e Sostenibilità finanziaria cercando di dare alla politica il senso del governo per obiettivi e non per slogan ormai quarantennali e davvero desueti?
Il Mediterraneo ringrazia per le risposte che la politica riuscirà, sicuramente, a dare.
La citazione è lunga, e la chiosa ne riporta una seconda davvero illuminante. Ma per il suo contenuto, il suo autore, l’anno in cui è stata partorita, vale la pena di leggerla fino in fondo.
Le parole di Joseph Roth
«Se fossi papa, vivrei ad Avignone. Sarei felice di vedere ciò che è riuscito a realizzare il cattolicesimo europeo, quale grandiosa mescolanza di razze, quale miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali. Sarei felice di constatare che nonostante questo rimescolio il risultato non è una tediosa uniformità. Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti. Ognuno capisce tutti gli altri, e la comunità è libera, non costringe nessuno a comportarsi in un determinato modo. Ecco qual è il grado più alto di assimilazione: ognuno resti com’è, diverso dagli altri, straniero rispetto ad essi, se qui vuole sentirsi a casa propria. Un giorno il mondo avrà l’aspetto di Avignone? Che timore ridicolo hanno le nazioni, e perfino le nazioni in cui si vanta una mentalità europea, se credono che questa o quella “peculiarità” possa andar perduta e che dalla colorita varietà degli esseri umani possa scaturire una poltiglia grigiastra! Gli uomini infatti non sono dei colori, e il mondo non è una tavolozza! Quanto più numerosi sono gli incroci, tanto più nette resteranno le peculiarità! Io non riuscirò a vedere quel mondo meraviglioso in cui ogni singolo rappresenterà l’intero, ma già oggi intuisco un simile futuro quando siedo nella piazza dell’Orologio di Avignone e vedo rifulgere tutte le razze della terra nel viso di un poliziotto, di un mendicante, di un cameriere. È questo il grado più alto di quella che viene chiamata “umanità”. E l’umanità è l’essenza della cultura provenzale: il grande poeta Mistral, alla domanda di un dotto che gli chiedeva quali razze vivessero in questa parte del paese, rispose stupito: “Razze? Ma se di sole ce n’è uno solo!“.
Questo brano è tratto dal libro Le città bianche di Joseph Roth. Nel 1925, il grande scrittore mittleuropeo fu inviato dal Frankfurter Zeitung nelle località della Provenza – tra le altre, Avignone, Lione, Marsiglia, Vienna, Tarascona – caratterizzate, appunto, dal loro colore dominante.
Lo scrittore Joseph Roth
Cinema al Circolo Zavattini
Queste magnifiche corrispondenze si trovano in un libro che ho letto nello stesso periodo in cui il Circolo Zavattini di Reggio propone una rassegna che comprende alcuni film francesi, l’ultimo dei quali è stato L’anno che verrà, del 2019, per la regia di Mehdi Idir e Grand Corps Malade. La storia narra di una scuola media in cui dai primi anni si concentrano in classi di sostegno gli allievi che non esprimono opzioni su materie come il latino, lingue straniere o musica. La vice preside appena arrivata, Samia, francese di seconda generazione, prende a cuore le sorti di alcuni alunni di origine maghrebina e sub sahariana, con un contesto familiare segnato da difficoltà di vario genere. Al di là della bella trama dell’opera, m’interessa prendere in considerazione un altro aspetto, legato a quanto esplicitato da Joseph Roth.
Il regista francese Mehdi Idir
Il cinema d’Oltralpe, in questa e in tante altre occasioni, ha tratto enorme vantaggio dalle “linfe vitali” delle quali scrive Roth. È l’ennesima dimostrazione, nota a chi sa leggere l’evoluzione umana senza pregiudizi e preconcetti ideologici, del contributo fondamentale che può venire a ogni Paese dall’iniezione nel suo corpo sociale, economico, politico, di forze fresche, di idee e punti di vista e conoscenze e culture differenti.
Nello scritto di Roth vi sono altre riflessioni. Quello che oggi chiameremmo melting pot sarebbe il frutto dell’azione del cattolicesimo europeo, che ha realizzato una «grandiosa mescolanza di razze, (un) miscuglio colorito delle più disparate linfe vitali». Inoltre, il “rimescolio” non produce “una tediosa uniformità”, ma persone che portano in sé le proprie caratteristiche (di razza: allora il termine era di uso corrente) perché nessuno è “costretto a comportarsi in un determinato modo”.
Il mondo che immagina Joseph Roth
Nel mondo futuro che Roth immagina, consapevole che non avrà il tempo per ammirarlo, dalla commistione scaturisce non una “poltiglia grigiastra”, ma una società nella quale ognuno manterrà la propria identità, nel rispetto di quella altrui.
Una vera lezione, quella di Joseph Roth, che dovrebberoe mandare a memoria soprattutto i governanti e i cittadini di quelle nazioni affette dal “timore ridicolo” di subire chissà quali stravolgimenti, chissà quali “sostituzioni etniche”, addirittura programmate da menti diaboliche.
Capita abbastanza spesso di rilevare in qualche grande del passato un pensiero attuale, perfettamente adattabile alla realtà dei nostri giorni. Credo che questo sia un caso emblematico di pensiero eterno, di analisi e conclusioni sempre valide, dai tempi dei cacciatori – raccoglitori fino ai nostri giorni. Un dubbio, tuttavia, rimane, instillato nella nostra mente dalla stretta attualità: se il mondo vaticinato da Joseph Roth lo vedremo noi o i nostri posteri, o nessuno mai.
Nelle sue ultime uscite Roberto Occhiuto si è sbilanciato sulla sua visione del futuro. In particolare, su quello che prevede la sua agenda per il lavoro.
Occhiuto snobba il salario minimo
Durante una recente intervista televisiva ha dichiarato che l’emigrazione intellettuale in Calabria «non si contrasta con il salario minimo», perché le persone laureate hanno l’obiettivo di «lavorare in un contesto che gli offra delle opportunità».
Il salario minimo è percepito quindi come uno strumento quasi controproducente per il mercato del lavoro calabrese. Una posizione di comodo, che non richiede alcuna iniziativa a breve termine e rimanda le eventuali soluzioni ad un futuro prossimo ipotetico. Quando cioè, sempre secondo Occhiuto, grazie alla sua azione rinnovatrice la Calabria diventerà «una Regione normale».
Fabbrichette ed ecomostri
Un concetto di normalizzazione che si iscrive a pieno titolo nella solita narrativa del Sud che aspira a diventare Nord, replicare modelli che si presume funzionino altrove. Lo stesso atteggiamento che alla fine del secolo scorso ha portato alla proliferazione di zone industriali in ogni fazzoletto di pianura calabra, in un’epoca storica dove la produzione industriale era stata già delocalizzata in Cina. Come eredità oggi restano gli ecomostri, prefabbricati in disuso, che occupano suolo naturalmente prospero e vocato all’agricoltura spontanea.
Il valore del lavoro a Nord e Sud
Malgrado il pensiero anticonformista espresso da Occhiuto, il decadimento del valore del lavoro è un problema a Nord, come a Sud. Qualsiasi indicatore statistico si consulti, appare evidente quanto gli stipendi in Italia siano inadeguati. Particolarmente frustrante la condizione di coloro che pur lavorando non riescono ad uscire dalla povertà, fasce di popolazione per le quali il salario minimo rappresenterebbe di certo una misura di contrasto strutturale alle ingiustizie sociali.
In Calabria, i salari sono tra i più bassi d’Italia, condizione che indebolisce e fragilizza la classe lavoratrice dipendente. Perdere il lavoro, in Calabria più che altrove, rappresenta un salto nel vuoto, verso condizioni economiche potenzialmente peggiori o verso il baratro della disoccupazione. Ciò rende i lavoratori ricattabili, dunque funzionali a chi detiene il potere politico-economico. La fragilità del lavoro lascia gli individui in preda alla solitudine e porta alla rinuncia a qualsiasi tipo di lotta per affermare le rivendicazioni collettive.
Eppure il presidente della Regione marginalizza la questione del salario minimo, quasi un vezzo che riguarderebbe esclusivamente il “mito” del rientro dei cervelli – per il quale invece servirebbero politiche attive specifiche – ignorando l’impatto reale sui suoi conterranei che vivono e lavorano in Calabria.
Occhiuto e il valore del salario minimo in Calabria
Basterebbe portare occhi e orecchie nei luoghi di lavoro per scoprire la realtà. Qui si incontrerebbero persone sovraqualificate che vivono di contratti a tempo determinato, di contratti atipici, di partite IVA, con stipendi che raggiungono difficilmente i mille euro. Precari nelle pubbliche amministrazioni come nei call center. Calabresi disposti a restare, che accettano compromessi al ribasso. E che forse, in fondo, sono gli unici a non credere che partire sia una scelta obbligata. Storie di cui dovrebbe farsi carico prima di sbilanciarsi in prese di posizioni tanto ortodosse quanto inconsistenti.
A molti calabresi basta semplicemente un lavoro, anche mal pagato, per convincersi a non lasciare la propria terra, perché ci sono sentimenti, ragioni e legami che contano molto di più delle “opportunità”. Chi rappresenta la massima istituzione regionale dovrebbe pensare prioritariamente a loro quando dibatte di salario minimo, a come restituire nell’immediato la dignità del lavoro a chi per scelta – o per necessità – resta in Calabria.
Calabria saudita
Nella stessa intervista sul salario minimo, Occhiuto definisce i flussi di migranti come un’opportunità da cogliere, «un modo per dare quella manodopera alle imprese che in alcune mansioni non riescono più a reperire». Concetto ribadito ed amplificato agli Stati generali del Mediterraneo a Gizzeria, dove indica ancora più chiaramente la via da perseguire: «Faccio un esempio: MSC, che è il più grande terminalista che opera presso il porto di Gioia Tauro, si appresta a realizzare la più grande fabbrica di container in India, perché lì il costo del lavoro è decisamente più basso, e quel Paese gli fornisce operai specializzati che in Italia non ci sono. Ecco perché un piano di attrazione degli investimenti deve tenere conto dell’incrocio fra domanda e offerta di lavoro, che si apra anche ad accogliere i lavoratori di altre realtà.” Insomma, il futuro mercato del lavoro in Calabria sembrerà più al modello Qatar che a quello scandinavo.
Il porto di Gioia Tauro
Ecco spiegate le contraddizioni e le motivazioni della netta presa di posizione contro il salario minimo. La Calabria che l’Italia non si aspetta (cit.) per crescere, competere ed attrarre investimenti avrà bisogno di lavoratori sottopagati. In mancanza degli schizzinosi italiani, ci sarà sempre un disperato che arriva dal mare.
Nulla di nuovo, la solita ricetta positiva neoliberista interpretata da un uomo bianco di mezza età.
Anche se si continua a definirle “del PD”, le primarie svoltesi quasi due settimane addietro sono state, per fortuna e per scelta lungimirante e azzeccata, “del Centrosinistra”. Senza trattino.
Per chi ha a cuore le sorti della parte progressista dello schieramento politico italiano, e non i propri interessi personali o della “ditta”, tale modalità di partecipazione all’elezione del vertice del PD è l’unica capace di assicurare il più ampio coinvolgimento del popolo della Sinistra, con vantaggi immediati e di prospettiva per essa e per la democrazia italiana. Per la democrazia italiana per una ragione oggettiva, certificata dai numeri.
La Sinistra degli enunciati
Tante le ipotesi in questi anni per spiegare l’astensione crescente che ha caratterizzato le elezioni nel nostro Paese. Tra queste, la disillusione degli elettori di Sinistra, allontanatisi legittimamente dalle urne perché orfani politici di un soggetto che portasse avanti le battaglie ideali del progressismo, schiava com’è del neo liberismo figlio dei vari Blair, Clinton, D’Alema, e via dicendo.
Tony Blair, Fernando Cardoso, Massimo D’Alema, Bill Clinton, Lionel Jospin e Gerhard Schroeder
Ampliamento dei diritti civili e sociali; contrasto alle diseguaglianze; tutela dei titolari di nuove forme di lavoro, e non solo di occupati nei settori tradizionali; redistribuzione della ricchezza prodotta; lotta alla disoccupazione; garanzie sulla qualità e l’estensione dei servizi pubblici. Su questi temi, e su tanti altri, i progressisti (sulla carta) si sono limitati agli enunciati. O, peggio ancora, hanno agito in continuità con le forze conservatrici e liberiste.
Per la prima categoria possiamo citare, ad esempio, la questione dello Ius soli: nel momento decisivo, abbiamo assistito ad una ritirata indecorosa ed incomprensibile. Per la seconda l’infausta decisione sull’articolo 18. E va bene che a compierla fu il partito di Renzi, ma altrettanto vero è che non si registrò quella sommossa che sarebbe stato lecito attendersi, se non da parte di alcuni.
La sorpresa Schlein
Le primarie aperte, e il fatto che si siano mosse verso i seggi un milione e centomila persone, sono gli elementi che hanno generato il benefico stravolgimento dell’elezione di Elly Schlein. Importante in sé, per la piattaforma schiettamente di Sinistra sulla quale ella ha basato la sua campagna, ma non solo. La sua vittoria, se Schlein manterrà il profilo che l’ha sempre contraddistinta, riporterà a casa e alle urne gli orfani politici di cui sopra.
Elly Schlein festeggia la vittoria alle primarie
Lo dimostrano i sondaggi e, ancora di più, l’impennata di iscritti al PD, determinata dalla speranza che esso trovi una sua precisa identità e intraprenda un cammino che sia in sintonia con un soggetto di centrosinistra alternativo rispetto alle politiche liberiste. Sono trascorse appena due settimane dall’exploit di Schlein, e perciò non è certo tempo di bilanci. Tuttavia, i segnali positivi non sono mancati. Sia quelli indirizzati all’interno dello schieramento progressista, sia quelli con destinatario il Governo.
La destra fa la destra (italiana)
A proposito del Governo, una considerazione è necessaria. Esso è un esecutivo di destra, che si muove e agisce come un esecutivo di destra. E di una destra con una precisa identità e una matrice ben identificabile. Non è la CDU tedesca, e Meloni non è Merkel. Storie personali e politiche diverse; riferimenti culturali e politici sideralmente distanti: radici nella destra fascista italiana per Meloni; nel centrodestra tedesco, che ha fattoda quasi 80 anni i conti col passato della Germania e non è mai sceso a patti con l’estrema destra, per la Merkel.
Mi stupisce lo stupore – ipocrita e finto in certi casi – col quale vengono accolti scelte, posture, atteggiamenti della destra al governo. Non esclusivi di Meloni, beninteso; gli altri partiti della maggioranza non hanno nulla di diverso dai fratelli e dalle sorelle d’Italia. Anzi, forse sono gli esponenti del partito di maggioranza relativa e la loro condottiera a sforzarsi, con scarsi risultati, nel non apparire eredi diretti di una dottrina che ha sconquassato l’Italia, l’Europa, l’intero pianeta.
Le prime mosse? Niente questione morale
Ma torniamo a Schlein e al nuovo corso del Partito democratico. La segretaria del PD ha preso posizione sui più importanti temi sul tappeto, compreso quello scottante, decisivo e divisivo della guerra in Ucraina. Ella ha evitato la prassi di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Rifuggendo meritevolmente il vago, si è detta favorevole a proseguire con l’appoggio al Paese aggredito, coerentemente col suo voto in Parlamento. D’altro canto, ha tenuto a segnalare la necessità di uno sforzo diplomatico dell’Unione europea per trovare una via d’uscita a un conflitto che rischia di sfociare in un’escalation micidiale e globale.
Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria
Ma la nuova segretaria del PD non ha toccato un tema che ci riporta alle vicende calabresi e reggine in particolare. Si tratta della questione morale, sulla quale vi è a mio avviso l’esigenza di un forte segnale di discontinuità. Il Comune di Reggio versa da tempo in una condizione di minorità dal punto di vista amministrativo e politico, con il sindaco – del Comune e della Città metropolitana – e diversi esponenti della Giunta e della maggioranza sospesi in applicazione della legge Severino. In più, un consigliere, ex capogruppo del PD, è il principale accusato perché avrebbe imbastito un sistema di brogli nelle elezioni comunali nelle quali è stato eletto lo stesso sindaco Giuseppe Falcomatà.
Falcomatà e il caso Miramare
Tornando a quest’ultimo, qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della sentenza d’appello che ha riformato quella di primo grado portando la condanna da un anno e quattro mesi a un anno per il processo “Miramare”. Sono stati condannati invece a sei mesi gli assessori, la segretaria comunale, la dirigente del settore interessato e l’imprenditore. Nelle motivazioni, Falcomatà è individuato come «vero regista della vicenda». I giudici lo evincono dai messaggi Whatsapp scambiati tra i membri di Giunta in prossimità della seduta dell’esecutivo: essi documentano in modo pregnante il suo interesse personale all’esito della pratica, percepito dagli assessori come “un suo desiderio” da assecondare.
Il collegio giudicante ha rilevato che questi e altri contatti «documentano senza possibilità di equivoci le tensioni e le accese discussioni che hanno accompagnato e seguito la trattazione della pratica Miramare prima ancora della riformulazione del testo definitivo, evidente frutto di una soluzione di compromesso nell’intento di tutti di assecondare i desiderata del sindaco. Le richiamate emergenze concorrono senz’altro a dimostrare l’interesse personale perseguito dal Falcomatà con la delibera in oggetto, che ciascun imputato, ognuno nel proprio ruolo, ha concorso a realizzare».
Giuseppe Falcomatà
Secondo i giudici d’appello, alla fine, si configura la commissione del reato d’abuso d’ufficio per «l’affidamento in via diretta dell’uso dei locali di un prestigioso immobile comunale, per svolgere eventi finalizzati a valorizzare le risorse culturali, territoriali e turistiche della città ad un’associazione del tutto sconosciuta nel panorama degli enti no profit cittadini, senza la benché minima valutazione comparativa di proposte progettuali di altri soggetti interessati, omettendo il necessario vaglio di congruità tecnico ed economica dell’unica istanza considerata, violando le norme sulle competenze attribuite dall’art. 42 Tuel al Consiglio comunale». Questo, in sintesi, il quadro comportamentale criminoso cristallizzato dal collegio giudicante nelle motivazioni alla sentenza.
Sciogliere il Consiglio a Reggio Calabria?
Veniamo al dato politico – amministrativo e, direi, etico e morale. Il Comune di Reggio e la Città metropolitana sono retti da quasi due anni da due supplenti, e da un esponente della destra è venuta la richiesta di scioglimento del Consiglio in applicazione dell’art. 141 del Testo unico sugli Enti locali. A mio avviso, rilevare nella situazione del Comune di Reggio la sussistenza degli elementi contenuti nella norma in questione potrebbe essere solo il frutto di una forzatura, anche in considerazione della gravità della sanzione che ne scaturirebbe. Tuttavia, il ragionamento non si può chiudere a questo punto. Bisogna senz’altro sottolineare la pretestuosità della posizione favorevole allo scioglimento del Consiglio dettata da situazioni passate, determinate dalla destra, ben più gravi di quella che ci occupa.
La sede della Corte di Cassazione a Roma
Il ragionamento deve però proseguire passando dal piano giuridico a quello politico, etico e morale. Nel quale entra in scena Elly Schlein e l’auspicato nuovo corso del Partito democratico sotto la sua guida. Dopo le puntuali, precise, gravi motivazioni dei giudici di secondo grado, è possibile ancora fare finta di niente? Anche considerando la vischiosità del reato di cui parliamo, e del dibattito aperto sulla sua consistenza giuridica (soprattutto dalla destra, in verità), reato che comporterebbe, ad avviso dei sostenitori della sua abrogazione, la quasi paralisi dell’attività amministrativa per il cosiddetto “terrore della firma”? È ammissibile puntare sulla presunzione di innocenza fino alla pronuncia della Cassazione dopo una simile condanna per fatti giuridicamente acclarati, posto che il giudizio della Suprema Corte non investe i profili fattuali ma quelli di legittimità?
Il primato (e gli strumenti) della politica
Ci si lamenta spesso del ruolo di supplenza assunto dall’apparato giurisdizionale rispetto alla politica. Esso si manifesta, tuttavia, proprio quando la politica non interviene con gli strumenti a sua disposizione, anche in presenza di fatti e atti gravi, che contribuiscono ad accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni. Che è poi una delle cause della disaffezione e della diserzione dalla politica attiva e dalla sua manifestazione più importante: il voto.
Per tutti questi motivi, sarebbe opportuno, urgente, un intervento della nuova segretaria del Partito democratico. Per porre fine ad una vicenda che si trascina da troppo tempo e che non ha senso alcuno procrastinare. Per dare un segnale forte di cesura rispetto al passato. Per costruire una proposta politica credibile, per la città di Reggio, in grado di mettere almeno in discussione uno sbocco favorevole alla destra che, alle condizioni attuali, appare ai più scontato.
Il 26 febbraio un’imbarcazione di migranti si è spezzata in mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, in Calabria. Sono 72 i morti accertati, tra loro donne e bambini, e il bilancio non è ancora definitivo. Il numero di naufraghi dispersi è imprecisato. Alcuni scafisti sono stati arrestati e sono in corso le indagini per accertare la verità su quanto è accaduto. Soprattutto si cerca di appurare cosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Il 2 marzo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato alla camera ardente per commemorare le vittime e all’ospedale per confortare alcuni superstiti.
Steccato di Cutro e l’opinione pubblica
La tragedia di Steccato di Cutro ha generato un’ondata di emozioni collettive contrastanti. Le accese discussioni sull’insuccesso dei soccorsi, le polemiche per le esternazioni del Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e, per converso, la generosità degli abitanti del posto intervenuti in aiuto dei superstiti, hanno attirato l’attenzione di testate giornalistiche, dei social media e delle televisioni nazionali e internazionali. La commozione per la sequenza di piccole bare bianche, a ricordare la morte di bambini e bambine innocenti, continua ad alimentare la sofferenza e l’indignazione nell’opinione pubblica italiana, moltiplicando le domande e gli interrogativi sulle eventuali responsabilità giudiziarie.
La bara di una delle bambine morte
Affinché queste tragedie non si ripetano è necessario comprendere che il fenomeno migratorio non riguarda una massa indistinta di flussi, ma persone in carne ed ossa, con le loro storie, sofferenze, paure, con i loro progetti di vita, le loro aspirazioni per una condizione di vita migliore. Serve cioè uno sguardo capace di comprendere la complessità sociologica della migrazione, dove le storie personali si intrecciano a vari livelli con i grandi fenomeni storici.
Gli studi sulle migrazioni
L’AIS come associazione scientifica di sociologi e sociologhe crede che solo uno studio rigoroso e scientifico del fenomeno possa aiutare la sua gestione e il suo governo. Molti colleghi e colleghe sociologhe studiano da decenni questi movimenti di popolazione e sono nella condizione di mettere a disposizione del nostro paese e dei suoi cittadini le competenze tratte dallo studio scientifico dei problemi interni ed internazionali collegati ai fenomeni migratori, presenti non solo nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo.
Molti hanno, ad esempio, indagato sul cammino doloroso che precede gli sbarchi (contrassegnato da una lunga odissea fatta di viaggi, privazioni, sfruttamento, violenze di ogni genere, a partire da quelle subite dai mercanti di esseri umani). Altri hanno studiato i meccanismi dell’accoglienza, i loro elementi positivi ed i loro limiti; altri ancora, su scala più vasta, hanno analizzato le politiche di integrazione sociale, politica e lavorativa dei migranti, documentando più volte le tante discriminazioni a cui essi vanno incontro, unitamente ai pregiudizi culturali o razziali che spesso tendono a stigmatizzare la loro presenza.
Diversi sociologhe e sociologi hanno messo in luce le difficoltà che non pochi migranti incontrano a livello etico e politico-culturale, per la fatica del cambiamento richiesto dall’accettazione e condivisione delle regole e dei modelli di vita e di relazione propri di una democrazia, cioè da un contesto di vita e di relazione tanto lontano dalle loro precedenti esperienze socio-politiche. O ancora, hanno dedicato la loro attenzione all’analisi dei costi economici e dei vantaggi che l’arrivo e l’integrazione dei migranti comportano per paesi di accoglienza, il loro impatto sulle relazioni tra paesi di provenienza e di arrivo, così come tra i paesi dell’UE: in breve, si può dire che una gestione appropriata, non ideologica, ma attenta alle specificità del fenomeno migratorio riguarda il nostro futuro prossimo, insieme alla qualità della democrazia in Italia e in Europa.
Steccato di Cutro e il momento della responsabilità
Da tutte queste ricerche un altro aspetto appare evidente: la questione migratoria è così estesa da dover essere necessariamente affrontata in una prospettiva europea, superando la logica dell’emergenza e mostrando capacità di ascolto, memoria storica e lungimiranza culturale e politica. La solidarietà a favore di chi versa in condizioni di estremo bisogno, sebbene non disgiunta dalla fermezza verso ogni forma di illegalità o devianza, non può essere in nessuno caso un elemento di divisione interna dell’Italia.
Viceversa, c’è bisogno, da parte di tutti e in primo luogo da parte delle classi dirigenti, di un’autentica e realistica assunzione di responsabilità, senza cedere alla paura o all’illusione di trovare soluzioni facili quanto ingannevoli.
Emigrati alla stazione di Milano
Per fortuna, ad alleviare la fatica necessaria per affrontare questo fenomeno epocale, ci viene in soccorso la consapevolezza della nostra storia, visto che noi italiani siamo, fin dall’antichità, un paese di immigrati (come i greci o gli arabi nelle regioni meridionali) e di emigranti (come i veneti, i calabresi e i siciliani, che nel Novecento sono partiti verso tutto il mondo, affrontando tragedie e sacrifici enormi, analoghi a quelli dei migranti odierni). Quindi sappiamo che la grandezza dell’Italia è assai debitrice verso questa storia di migrazioni, una storia che ci ricorda che i migranti siamo stati e siamo tuttora (pensando ai giovani italiani che oggi vanno a cercare lavoro nel mondo) noi stessi, al pari di ogni essere vivente in cerca di accoglienza e soccorso nel bisogno, in una reciprocità senza fine che deve tradursi in scelte politiche conseguenti, se vogliamo davvero onorare la nostra identità.
Muri e blocchi non funzionano
Non possiamo nascondere l’evidenza: siamo in presenza di un fenomeno di portata globale che richiede cooperazione internazionale e che ci riguarda direttamente, in quanto la direzione dei flussi migratori provenienti da Est (Oriente) e da Sud (Africa), vista la collocazione geografia dell’Italia, rende il nostro paese un punto di attrazione privilegiato, oggi e negli anni a venire, per tanti disperati che fuggono da guerre, dittature, miseria, impoverimento e desertificazioni causate dal cambiamento climatico, o che cercano solo una vita più dignitosa per sé e i propri cari.
Bloccare queste persone, impedendogli con la forza di partire, respingerli, rimpatriarli, è, prima ancora che una strada che si scontra con i valori fondativi della nostra convivenza civile e democratica, una soluzione irrealistica per il semplice fatto che nega la realtà: i processi storici globali non si possono fermare con i muri, bisogna lavorare per provare a regolarli, evitando che la ricerca di soluzioni velleitarie contribuisca ad avviare una catena di comportamenti che provochi altre vittime.
Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)
Peraltro, lo spopolamento in atto nel nostro paese, la cui drammatica gravità ogni giorno che passa viene ricordata dagli istituti di ricerca (denatalità, squilibrio demografico e invecchiamento diffuso, problemi a catena nel mondo del lavoro e in quello pensionistico come pure nelle aule scolastiche, svuotamento di paesi, aree e intere zone dell’interno, con un trend in netto peggioramento) rende urgente l’elaborazione di adeguate e realistiche politiche di integrazione regolata.
Una nuova politica europea dopo Steccato di Cutro
Non possiamo accogliere tutti, alcuni vanno respinti per motivi di sicurezza, altri vanno redistribuiti in Europa (dove molti di loro vogliono andare, guardandoci solo come paese di primo transito). Altri, tanti, abbiamo il dovere e l’interesse di accogliere. In questo quadro le politiche amichevoli verso l’immigrazione, concordate in chiave europea, costituiscono l’unica via d’uscita ed è auspicabile che il Parlamento sia concorde in tale prospettiva. Nell’attesa della piena attuazione di queste innovative politiche di accoglienza e integrazione, è necessario respingere non i migranti ma le scelte perniciose che rendono più difficili, incerte e pericolose le operazioni di salvataggio in mare.
La nostra storia, la nostra identità, la nostra democrazia, i sentimenti del nostro popolo e i risultati delle ricerche sociologiche ce lo chiedono ad alta voce.
Il Presidente e il Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia
A vedere le bare e incontrare le famiglie dei sommersi non c’è andata. Partiamo da questo, che alla fine è il solo dato che vale la pena di affrontare. Giorgia Meloni ha portato il suo governo in Calabria, a Cutro, per fare una passerella mal riuscita.
Giorgia Meloni a Cutro: niente bare e qualche annuncio
Davanti ai cronisti ha difeso il suo ministro dalle dichiarazioni disumane. Ha spiegato che non è vero che non si è voluto fare qualcosa per salvare quei disgraziati, che dunque sono morti per colpa loro. Del resto la linea è quella: fermarli lì dove si imbarcano, con ogni mezzo. Per esempio, la Meloni ha pensato di fare un poco di buona comunicazione presso quei luoghi infernali da dove partono i migranti per spiegare loro che venire qui potrebbe essere mortale. Si potrebbe andare in Siria, o in Afganistan e dire a quella gente che prendere barconi semi galleggianti è pericoloso, meglio un aereo. Magari come deterrente si potrebbe diffondere un video con quelle bare che lei non ha voluto vedere. Le stesse che volevano d’urgenza spostare per levarle l’imbarazzo di quelle tragiche presenze.
Le novità dal Consiglio dei ministri
Qualcosa di nuovo tuttavia c’è stato. Per esempio è stato annunciato che ci sarà una restrizione nel rilasciare i permessi di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di permessi rilasciati a quei migranti per i quali si afferma che il loro rimpatrio rappresenterebbe un pericolo per la vita, pur senza aver riconosciuto loro lo status di rifugiato politico o religioso. Fin qui non sono stati pochi i migranti che fuggendo da luoghi di guerra o tirannie, hanno potuto fruire di questa possibilità. In futuro a quanto pare non sarà più così. Però il CdM in trasferta calabrese ha detto anche che potrebbero aumentare le quote dei migranti che possiamo ospitare e questo risultato è stato sbandierato come un gesto di straordinaria generosità. Nei giorni in cui si contano i morti che ancora il mare restituisce alla pietà dei soccorritori, mettere sul piatto della bilancia un aumento del numero dei vivi che possono entrare è sembrato un gioco col pallottoliere.
Giorgia Meloni e la sceneggiata di Salvini a Cutro
Solo sulla spinta delle fastidiose insistenze dei cronisti presenti, il presidente del Consiglio ha detto che incontrerà i sopravvissuti alla tragedia e i familiari delle vittime, ma non subito. Più avanti magari, insomma poi vediamo, perché certe volte quelli che sono rimasti vivi fanno più impressione dei morti. E mentre Giorgia Meloni cercava di rintuzzare, rispondere, indignarsi, spiegare, il suo collega Matteo Salvini camminava tenendo in bella vista una cartellina che illustrava il progetto del ponte sullo Stretto e lo faceva in quella parte della Calabria più arretrata, dove non atterra un aereo, non arriva un treno e dove la strada è la più pericolosa d’Italia. Della serie: come vi sfotto io nessuno.
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