Categoria: Opinioni

  • Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Una destra che avrebbe odiato il pretaccio di Barbiana

    Chissà questa destra di governo e di rigurgiti autoritari quanto avrebbe odiato quel pretaccio di Barbiana. Probabilmente parecchio. Probabilmente gli avrebbe riversato addosso tutto il fango mediatico di cui sarebbe stata capace, del resto uno che fa il prete ma non predica l’obbedienza è già uno strano, se poi si mette in testa che siamo tutti uguali e abbiamo diritto alle stesse opportunità, anzi chi sta indietro di più, allora va contro l’idea di scuola del merito fondato sul privilegio di classe e quindi, insomma, è uno pericoloso.

    Altro che Barbiana, a don Milani la destra di oggi avrebbe riservato un destino ben più crudele che un confino in montagna: schiacciato sui social e sui media addomesticati da quegli «scrittori salariati» che oggi si trovano a buon mercato.

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    Rivoluzionario. Un aggettivo per Don Milani

    Perfino la Fondazione Agnelli

    Don Lorenzo Milani nasceva cento anni fa e il suo agire politico – perché di questo si è trattato – avrebbe trovato il culmine nel maggio del ’67 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa, il manifesto sull’ingiustizia della scuola. È difficile trovare qualcuno che critichi apertamente la visione di don Milani, perfino la Fondazione Agnelli, che prospetta da sempre futuri neo liberisti e mercantili per l’istruzione, sul suo sito pubblica articoli positivi sull’esperienza della scuola di Barbiana. Il motivo è che è impopolare dire che la scuola deve fare la selezione, occorre far passare questo messaggio in modo obliquo, in maniera che sembri accettabile.

    Contro la scuola dei “migliori”

    Don Milani ha avuto molti discepoli, ma tra essi non la politica che della scuola ha fatto sempre la Cenerentola, (è di oggi la notizia che il governo Meloni annuncia il taglio di 79 mila posti negli asili) o peggio una trincea da conquistare. Ed ecco che torna la scuola che fa andare avanti i “migliori”, solo che questi, ieri come oggi, sono “i figli del dottore”, dei tempi di Milani, quelli che provengono da famiglie con massime risorse e per ciò stesso con ottime opportunità.
    Don Milani della scuola del merito e del logo grottesco che evocava fasci littori (poi ritirato dal ministero perché certe cose sono pessime pure per loro), non avrebbe riso, perché era pure piuttosto incazzoso, ma avrebbe spiegato che il merito è un inganno, una trappola classista per separare e fare differenze. Perché le disuguaglianze nella scuola ci sono ancora, anzi sono acuite, a più livelli.

    Una questione di lavagne Bosch

    Alcuni anni fa, nel corso di un convegno nazionale sulle esperienze dei licei economico-sociali presso un grande istituto milanese, emerse che uno dei partner di quella scuola era la Bosch, che i ragazzi facevano tirocini nell’azienda e ogni anno le classi avevano una Lim (lavagna interattiva multimediale) nuova e il mio pensiero andò a quei docenti calabresi che invece l’ingiustizia sociale e la fatica di fare uguaglianza devono affrontarla a mani nude. La Bosch non sana la inuguaglianza sociale, ma senza quelle risorse è più difficile, perché alla fine è una questione di soldi e di opportunità. Basti pensare al salto compiuto dalla Calabria nella sola vera rivoluzione compiuta da queste parti, cioè la nascita dell’Unical, grazie alla quale si è passati in un tempo ragionevolmente breve da una generazione di semi analfabeti a una di laureati.

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    Don Milani fa lezione in classe

    Le parole di Don Milani

    E dentro questo contesto che le parole d’ordine di Lorenzo Milani disvelano la loro potente attualità: il prendersi cura degli altri, come segno d’opposizione ai “mene frego” di ieri e riproposti oggi, la negazione dell’obbedienza come virtù e la rivendicazione del diritto a “non tacere”, che sarebbe stato più compiutamente rappresentato negli anni successivi da un altro prete eretico, Don Sardelli, l’antimilitarismo, il rifiuto di fare la differenza tra italiani e stranieri e infine l’idea mai tramontata di fare della scuola il luogo di riscatto, di emancipazione, di reale mobilità sociale, insomma il sapere come potere rivoluzionario di cambiamento personale e collettivo. Perché la scuola deve essere sovversiva e a spiegarcelo, tra gli altri, c’è stato pure un prete.

  • L’emendamento ad Gentilem che fa infuriare i Cinque stelle

    L’emendamento ad Gentilem che fa infuriare i Cinque stelle

    Hai perso la partita? Puoi sempre tentare di capovolgere il risultato cambiando le regole del gioco. È quello che potrebbe accadere martedì prossimo nella Giunta elettorale della Camera dei Deputati. In quell’occasione la maggioranza di destra, forte dei suoi numeri, quasi certamente riuscirà ad approvare un emendamento che cambierebbe i destini di alcuni candidati.

    Gentile vs Orrico

    Tutto nasce da un ricorso presentato da Andrea Gentile, erede fin qui mancato di una lunga storia politica, contro la pentastellata Anna Laura Orrico. Il successo della Orrico, di soli 482 voti, apparve al tempo come la classica e imprevista vittoria di Davide contro Golia. Il gigante in questo caso era la famiglia Gentile, che per decenni è stata rappresentata nelle stanze del potere, fino alla carica di sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Renzi ricoperta da Antonio Gentile, che di Andrea è il padre.poltrona-orrico-gentile-parlamento

    Il favor voti

    Anna Laura Orrico non va per il sottile e subito dichiara che la proposta della destra ha lo scopo di aprire le porte del parlamento allo sconfitto Gentile. «L’emendamento prevede che le schede dove l’elettore ha segnato due simboli invece che uno solo, e che per questo sono state annullate, risultino valide», spiega la parlamentare.
    Il criterio su cui la destra vorrebbe fondare questa proposta si basa sul favor voti. È l’idea secondo cui l’elettore, pur avendo sbagliato a votare, abbia comunque espresso chiaramente una intenzione di voto.

    Orrico: «Emendamento cucito apposta per Gentile»

    Senonché questa idea va contro ogni legge elettorale in uso finora. «Non è prevista nel Rosatellum, né lo era nel Porcellum o nel Mattarellum perché snaturerebbe il senso dell’uninominale. Renderebbe riconoscibile il voto ed è contro il vademecum scritto dal Viminale per le elezioni», continua la Orrico. A suo avviso l’emendamento avanzato sembra «cucito apposta per Gentile, essendo proposto esclusivamente per l’uninominale». Ossia dove il candidato di Forza Italia ha trovato la sconfitta.

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    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    Tra i due litiganti il terzo va fuori?

    A riguardo abbiamo ripetutamente cercato di metterci in contatto con Andrea Gentile, le cui dichiarazioni sarebbero ovviamente state assai utili per meglio comprendere gli accadimenti. Tuttavia non è stato possibile conversare con lui.
    Nello specifico martedì prossimo la destra si prepara a cambiare le regole di una partita già giocata per potere cambiare il risultato. Se alla luce delle nuove regole Gentile dovesse subentrare ad Anna Laura Orrico, questa manterrebbe comunque il seggio, risultando vincitrice nel plurinominale. Per l’effetto domino a uscire di scena sarebbe Elisa Scutellà.

  • Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    Più alberi, meno cemento: le città del futuro sono verdi, ma Reggio se n’è accorta?

    «Oggi gli spazi esterni sono troppo “minerali” (cementati, ndr). Le superfici costruite e coperte in calcestruzzo producono un’isola di calore attraverso l’assorbimento di energia solare. Questa situazione dovrebbe essere rovesciata togliendo il calcestruzzo e creando un’isola fresca grazie alle superfici alberate».
    A parlare è l’architetto paesaggistico belga Bas Smets in un’intervista apparsa su Pianeta 2030 del Corriere della Sera. Di recente il team che guida si è aggiudicato, insieme agli studi GRAU e Neufville-Gayet, il concorso indetto dalla Città di Parigi per riqualificare l’area circostante Notre Dame.

    Un giardino per Notre Dame

    Lo stesso Smets collabora, per la parte relativa al verde, con lo studio LAN che ha vinto il Concorso di idee per il Grande MAXXI a Roma. La giuria ha scelto il progetto per «il rapporto con il contesto urbano, la presenza di un giardino pensile generoso e accessibile e allo stesso tempo di forte valore architettonico». Per quanto concerne Notre Dame, nel progetto è previsto un piazzale-sagrato circondato da un bosco con cento alberi; un sistema di irrigazione che rinfrescherà la piazza con uno strato d’acqua di 5 millimetri. Una fontana orizzontale, utilizzando l’acqua piovana raccolta, ridurrà la temperatura di parecchi gradi. Insomma, una piccola oasi verde in grado di migliorare il microclima. Tutto ciò entro il 2027, per una spesa di 50 milioni.

    L’isola climatica al Grande MAXXI di Roma

    Passiamo al Grande MAXXI di Roma, il cui progetto esecutivo sarà completato entro quest’anno. La parte che qui interessa è quella che prevede la cosiddetta rinaturalizzazione dello spazio tutto attorno all’edificio – realizzato su progetto di Zaha Hadid – fino a coinvolgere il quartiere Flaminio. Bas Smets e il suo team hanno proposto una soluzione non solo e non tanto estetica; parchi e giardini e orti produttivi, certo, ma anche la realizzazione di un sistema in grado di «creare un’isola climatica che migliorerà le condizioni di vivibilità dell’area».

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    Il progetto dello studio italo-francese LAN, vincitore del concorso internazionale di idee per il Grande MAXXI a Roma

    Secondo Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, intervistato da Pianeta 2030 del Corriere della Sera, «Il MAXXI ha grandi superfici in cemento impermeabile completamente esposte a luce solare e nessuna ombra, frutto di una progettazione di un tempo in cui non si immaginava che il riscaldamento globale sarebbe arrivato a cambiare le nostre vite in un tempo così breve. Uno dei problemi fondamentali degli edifici con funzione sociale in città sarà di svilupparsi in un modo che ci aiuti a sfuggire alle ondate di calore».

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    Come cambierà l’interno del MAXXI

    E ancora: «Bas ha previsto un enorme numero di alberi in grado di ombreggiare e allo stesso tempo raffreddare una grande superficie non solo attraverso l’ombra: gli alberi assorbono acqua e la traspirano attraverso le foglie rinfrescando l’ambiente circostante, con un processo identico a quello dei condizionatori in casa. Con una progettazione adeguata e un uso studiato degli alberi in ambiente urbano si può pensare di ridurre la temperatura in città anche di 7-8 gradi centigradi».

    330 milioni di euro per 14 città metropolitane

    Perché tratto queste due progettazioni? Scrive la Commissione europea che «la promozione di ecosistemi integri, infrastrutture verdi e soluzioni basate sulla natura dovrebbe essere sistematicamente integrata nella pianificazione urbana, comprensiva di spazi pubblici e infrastrutture, così come nella progettazione degli edifici e delle loro pertinenze».
    Il PNRR, dal canto suo, prevede lo stanziamento di 330 milioni di euro per le 14 città metropolitane per «tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano, mediante lo sviluppo di boschi piantando 6 milioni e 600mila alberi».

    Reggio Calabria, gli alberi e il cemento

    E veniamo alla città di Reggio Calabria. Partendo dalla centralissima Piazza De Nava, adiacente al Museo nazionale della Magna Grecia, proseguendo con il Waterfront, con il Museo del Mare, con l’area parcheggio posta accanto al Cimitero cittadino, con il taglio indiscriminato di alberi in spazi pubblici posti in via Pio XI e accanto all’Istituto d’Arte. Ebbene, in tutti questi casi, cosa ne è dell’impostazione oramai accettata e promossa in tante città europee (ad Arles, in Francia, l’ex area industriale è stata trasformata in un parco cittadino, introducendo 80.000 piante di 140 specie diverse) e della quale i due riportati sono gli esempi più eclatanti? Nulla!

    Tutto è figlio dell’improvvisazione, dell’assuefazione ad un modello vecchio. Dice ancora Mancuso: «(Le città) sono state costruite, immaginate, esclusivamente per essere il luogo degli uomini, dove essi vivono e abitano. Una cosa antica, che risale ai primi insediamenti umani, questo dividere, separare con mura e fossati il luogo di vita da una natura percepita come ostile».

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    Reggio Calabria, pini ancora sani abbattuti nei pressi del cimitero di Condera per far spazio al cemento (foto Italia Nostra)

    Noi continuiamo a costruire case e città alla stessa maniera, anche se oggi non è più la natura ad essere ostile nei nostri confronti, ma noi ad essa. «Dovremmo perciò immaginare città in cui la natura, gli alberi, entrino per permeazione nel tessuto urbano. Oggi la copertura arborea media di una città europea è intorno al 7 o all’8 per cento. Invece dovremmo puntare ad arrivare al 40% di superficie arborea. E non per motivi estetici ecologici ma di pura sopravvivenza; specialmente nelle città italiane che stanno nella cosiddetta area hot spot (si riscalda più in fretta). Se vogliamo continuare a vivere in queste città dovremo per forza di cose immaginare delle soluzioni vegetali».

    Alberi o ancora il dio calcestruzzo?

    Bisogna, insomma, eliminare l’hardscape (il paesaggio di infrastrutture e cemento) ed allargare il softscape «per aumentare la permeabilità dello strato di terra al fine di immagazzinare l’acqua piovana in loco. Anche il deflusso proveniente dalle piazze e dagli edifici potrebbe essere mantenuto in loco. Nuovi prati e alberi aiuteranno a riportare l’umidità nell’aria e a creare un microclima esterno più fresco».
    Gli effetti del cambiamento climatico nelle aree urbane56% della popolazione mondiale adesso, 70% entro il 2050 – li viviamo ormai quotidianamente. L’Istat ha rilevato che nel 2020 nei capoluoghi di regione la temperatura media annua è aumentata di 1,2 gradi rispetto al valore medio del periodo 1971-2000, arrivando a 15,8°.

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    Uno scatto da “Cemento amato”, progetto del fotografo Angelo Maggio sul non finito calabrese

    Davanti a queste evidenze, e alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai fondi disponibili, non è più rinviabile un cambiamento di paradigma. Tra l’altro, come possiamo pretendere la preservazione e la non entropizzazione per fini di coltivazione ed altro, ad esempio, della foresta amazzonica, se noi non facciamo la nostra parte?
    Non ci possiamo permettere di essere ancora e sempre governati dal dio calcestruzzo. È ormai acclarato che questo modello non regge, rende brutti i nostri centri urbani e ne peggiora la vivibilità. Prendiamone atto, una volta per tutte.

    Nino Mallamaci

  • Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    Buonanotte compagno Lenin: quando Terzani parlò del sole ingannatore

    «Il comunismo, con la sua sacrilega aspirazione a cambiare l’uomo, ha ucciso milioni di uomini e ha, come un moderno Gengis Khan, seminato vittime di ogni tipo lungo il percorso della sua conquista. Eppure è anche vero che là dove non era al potere, ma restava come un’alternativa d’opposizione nei paesi dell’Europa Occidentale, per esempio, il comunismo non è stato solo distruttivo, ma anzi ha contribuito al progresso sociale della gente. Come sistema di potere, fondato sull’intolleranza e sul terrore, il comunismo doveva finire. Ma come idea di sfida all’ordine costituito? Come grido di battaglia di una diversa moralità, di una maggiore giustizia sociale?».

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    Un giovane Tiziano Terzani inviato in Cina

    Appunti di un giornalista dal socialismo reale

    A scrivere è Tiziano Terzani, nelle pagine conclusive di Buonanotte, signor Lenin. Pubblicata nel 1992, l’opera di Terzani è il frutto di un viaggio di due mesi attraverso l’Unione sovietica, in dissoluzione proprio in quel periodo. Il fallito putsch contro Gorbaciov lo aveva colto nell’estremo oriente russo, lungo il fiume Amur, al confine con la Cina. Da qui, aveva deciso di muovere verso le Repubbliche dell’Asia centrale che, una dopo l’altra, si stavano liberando dal giogo imperiale, zarista prima e comunista dopo.

    Mi è venuto in mente il brano citato, scritto da un anticomunista, ascoltando in questi giorni le solite affermazioni della destra italiana, moltiplicatesi in prossimità della Festa della Liberazione e tutte tese a evitare di pronunciare la parola antifascismo. Nei ragionamenti dei post fascisti ricorre sempre l’equiparazione di tutti i totalitarismi, che andrebbero condannati in blocco, senza distinguo. Le parole di Terzani centrano il punto. La condanna del comunismo, del socialismo reale divenuto pratica di governo per settant’anni in Unione sovietica, è netta e senza appello. Come nette e senza appello sono state le prese di distanza da parte dei comunisti italiani da tantissimo tempo, dallo strappo di Berlinguer in poi. A continuare a vaneggiare di comunismo è rimasto qualche sparuto e insignificante gruppetto di nostalgici.

    Detto ciò, volere a tutti i costi e a ogni piè sospinto tirare in ballo il comunismo, quando l’argomento in discussione è la dittatura e i crimini perpetrati dal fascismo in Italia, rappresenta solo un esercizio strumentale, che non ha alcuna attinenza coi fatti e con la Storia. Il movimento comunista, come dice Terzani, ha contribuito in Italia al progresso sociale. E non solo.

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    Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

    La destra che attacca la Resistenza

    Qualche balzano ordine di scuderia è stato impartito ultimamente agli scudieri della destra, i quali spesso hanno tirato fuori, incensandolo, l’apporto degli Alleati nella lotta per sconfiggere il nazifascismo nel nostro Paese, con l’unico fine di sminuire quello della Resistenza e del movimento partigiano. La faziosità e la pretestuosità di tale posizione è francamente inaccettabile. Non perché si voglia mettere in discussione l’importanza decisiva dell’intervento alleato. Tutt’altro. Ma tale riconoscimento non può portare a depotenziare il concorso nella lotta di Liberazione delle Brigate partigiane. E tra queste, delle formazioni che idealmente e dal punto di vista organizzativo si richiamavano al Partito comunista. Così come non può essere negata, semplicemente in quanto generata dal travisamento dei fatti, la collaborazione decisiva dei comunisti nella edificazione della Repubblica e nella redazione della sua Carta fondamentale, fondata sull’antifascismo e su principi sociali ed economici innovativi e progressisti.
    Il presidente Mattarella, col suo intervento memorabile di Cuneo, ha tracciato chiaramente e definitivamente i tratti fondativi della nostra democrazia. La speranza è che essa possa diventare adulta nel rispetto della Verità, senza il quale essa rimarrà monca e precaria.

  • Agostinelli e Gioia Tauro: a chi non piace il presidente del porto?

    Agostinelli e Gioia Tauro: a chi non piace il presidente del porto?

    La tenuta democratica della nostra regione si misura anche da quello che succederà dopo l’aggressione al presidente del porto di Gioia Tauro Andrea Agostinelli. L’ammiraglio è stato apostrofato e poi stretto al collo da due signori, sul traghetto fra Messina e Villa San Giovanni, nel pomeriggio del 25 aprile. Agostinelli è andato in ospedale, e poi ha denunciato tutto ai carabinieri.

    Prima commissario e poi presidente, con responsabilità in altri porti della Calabria, Agostinelli è una persona che non le manda a dire e che ha dimostrato ancora una volta di avere coraggio. Poteva non denunciare, poteva stare zitto e chiudere con il solito “chiarimento”. Su quel traghetto credo si sia sentito solo.

    Il porto di Gioia Tauro e i risultati di Agostinelli

    E quindi il tessuto democratico – la politica, i cittadini, l’informazionedeve fare sentire la sua voce in questa storia. Anche per i risultati che Agostinelli ha portato: Gioia Tauro è il primo porto italiano per movimento container, e questo non fa piacere ad altri scali del Nord. Compete con Algeciras, Pireo, è all’ottavo posto in Europa.
    Con un migliore collegamento ferroviario – che Agostinelli ha chiesto per anni e solo recentemente ottenuto – Gioia sarebbe ancora più forte. Con una Zes vera – e cioè non capannoni vuoti, anni di truffe – sarebbe il volano economico per tutta la Calabria.

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    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Se il porto di Gioia Tauro non è più noto solo per i sequestri di droga, se non viene più definito il porto della cocaina, se il terminalista Mct ha deciso di investire in strutture e occupazione, questo si deve anche a lui. Le ultime tre gru sono arrivate in febbraio dalla Cina, ogni gru vale 150 posti di lavoro.

    Trent’anni indietro

    A chi non piace Agostinelli? C’è una questione legale in corso, legata a un tragico incidente sul lavoro. Accusato di comportamento omissivo, dovrà subire un processo. È stato rinviato a giudizio, si difenderà. Nel frattempo ha tolto la concessione alla ditta che stava effettuando quei lavori. È questo il motivo dell’aggressione? Non lo sappiamo. Ma sappiamo che senza Agostinelli si torna indietro di trent’anni, al deserto e al deficit.

  • Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Buon 25 aprile, un giorno per separare i giusti dagli ingiusti

    Attorno al 25 Aprile c’è una antica e proficua pratica del “chiagni e fotti”, esercitata con successo dai fascisti prima e dagli epigoni del Msi che oggi governano provvisoriamente il Paese. È la retorica “dei vinti e dei vincitori”. I primi dovrebbero essere i tiranni che avevano trascinato l’Italia nel baratro della dittatura e della guerra. I secondi, i partigiani che quella tirannia l’avevano sconfitta. Non ci sono dubbi che a vincere fu la democrazia. Ma immaginare i fascisti come vittime condannate all’oblio e alla marginalità sociale è quanto di più lontano dalla storia ci possa essere.

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    Palmiro Togliatti

    La paura dei comunisti

    Il 25 Aprile non è il giorno della liberazione d’Italia, ma la data scelta dal Cln per dare inizio all’insurrezione in tutto il territorio nazionale ancora occupato dai nazifascisti. Un momento di forte unità nazionale, quindi. Invece, ancora oggi appare come una data divisiva, più volte attaccata sul piano revisionistico e minacciata di cancellazione. Le cause di tanta avversione affondano le loro radici nell’anticomunismo potente che attraversò l’Italia nel primissimo Dopoguerra e a lungo negli anni successivi, malgrado il Pci di Togliatti avesse formalmente scelto una strada tutt’altro che insurrezionale, impegnandosi a sostenere la comune causa antifascista senza volerla egemonizzare, pur potendolo fare, considerata la massiccia presenza di partigiani comunisti. Anche sul piano culturale, non solo propriamente politico e strategico, le azioni dei partigiani nella narrazione del Pci erano gesti legati alla liberazione dal tiranno, non finalizzati alla lotta di classe.

    I fascisti riprendono i loro posti

    Tutto questo non bastò. E il nuovo Stato, che pure il Pci aveva grandemente contribuito a far nascere con il coraggio e il sacrificio di moltissimi, conservava nelle sue viscere proprio quei fascisti che con banale trasformismo avevano ripreso i loro posti nella polizia e nella magistratura. Va da sé infatti che la persecuzione a carico dei capi partigiani all’indomani della fine della guerra non può essere separata dalla composizione della classe egemone di allora. La stessa che spesso aveva orrendi scheletri da far dimenticare, anche grazie ad apparati dello Stato che erano colpevolmente scampati a una adeguata e necessaria epurazione. Del resto dopo l’amnistia togliattiana i carnefici – e perfino i loro capi – erano tornati a casa e spesso avevano riavuto il loro posto nella gerarchia sociale.

    Fu in questo clima che i carnefici che avevano torturato e stuprato furono rilasciati con sentenze assai blande. Chi aveva con le armi liberato il Paese, invece, fu perseguitato con stupefacente accanimento. Questo sin dalla primavera del ’45, quando i tribunali militari alleati perseguirono i capi delle formazioni garibaldine del nord Italia per fatti avvenuti nel corso della guerra, ma ritenuti illegittimi.

    I processi ai partigiani

    Per dare la misura della persecuzione vale la pena di citare I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana, di Michela Ponzani. L’autrice parla di «308 partigiani fermati, 142 arrestati, 46 denunciati a piede libero, 34 condannati alla pena complessiva di 614 anni e 10 mesi di reclusione, di cui 55 assolti dopo aver scontato 35 anni complessivi di carcere preventivo e 54 amnistiati dopo aver scontato 10 anni e 8 mesi di carcere preventivo. A queste cifre devono aggiungersi quelle relative al solo 1950 che indicavano il numero di 131 partigiani processati per fatti inerenti la guerra di Liberazione, dei quali 27 condannati a una pena complessiva di 460 anni e 10 mesi di carcere e 52 amnistiati dopo aver scontato complessivamente 128 mesi di carcere preventivo».

    Non furono pochi i partigiani che subirono processi dopo la guerra

    Lo stigma sociale 

    Ma non c’era solo il carcere, c’era lo stigma sociale dell’essere stato partigiano. E c’erano la fatica di trovare un lavoro, il marchio della militanza politica (come successo a Cesare Curcio a Pedace) e la scomunica della Chiesa. Fino ad arrivare a giorni più prossimi ai nostri tempi, perché la Festa della Liberazione pur essendo antica, non ha trovato che di recente cittadinanza sui giornali e nelle aule di scuola, uscendo da un dimenticatoio ben organizzato e resistendo fin qui ad attacchi improvvisati e maldestri, ma le cui origini sono antiche.

    È guardando indietro che capiamo chi sono davvero i vinti e chi i vincitori. E capiamo che il 25 Aprile è divisivo giacché separa i giusti dagli ingiusti. E se oggi La Russa – che quasi non riesce a pronunciare la parola antifascismo – è presidente del Senato, è perché quelle aule non sono un bivacco di manipoli, come chi è raffigurato nei busti che tiene in casa avrebbe voluto.

  • Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Immigrazione e quota 41: meglio l’IA o il governo?

    Si parla tanto dell’intelligenza artificiale, forse troppo poco della stupidità umana. Già, perché si può edulcorare il concetto o ingentilirlo, definirlo cecità o mancanza di lungimiranza, ma la sostanza è quella. In questo caso, mi riferisco alla stupidità–cecità-mancanza di lungimiranza dei razzisti in generale. In particolare, di quelli al governo in Italia.
    Per dimostrare il teorema mettiamo insieme una serie di informazioni e di dati. Come nelle scienze esatte, dobbiamo prendere in considerazione solo quelli oggettivi.
    La Lega fa una battaglia per “quota 41”, cioè la possibilità di accedere alla pensione dopo 41 anni di contributi. Un vessillo alzato in campagna elettorale e repentinamente calato davanti alle difficoltà di bilancio soprattutto in prospettiva, dato che la crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione certamente non aiutano a far quadrare i conti.

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    Quota 41 e l’Italia che invecchia

    Secondo l’Istat, nel 2070 in Italia ci saranno 47,2 milioni di abitanti, 12 milioni in meno rispetto ad oggi. La popolazione italiana, se proseguirà il trend attuale, e quindi senza interventi correttivi di cui allo stato non si vede traccia, fino al 2040 calerà annualmente del 0,2-0,3%; tra il 2040 e il 2050 tra lo 0,3 e lo 0,5%; fino al 2070 più dello 0,6%.
    Nel 2020, l’età media italiana era di 46,2 anni, nel 2021 di 45,9 anni. Meno di vent’anni fa era di 41,9 anni. I dati indicano che nel 1950, in Italia, i bambini e ragazzi tra gli 0 e i 19 anni rappresentavano il 35,4% della popolazione; oggi il 17,5.
    Il forte calo è avvenuto tra il 1980 e il 1995, quando gli under 19 sono passati dal 30 al 21%. Le persone tra i 20 e i 30 anni sono invece scese dal 35 al 21%, con un più rapido calo dal 1995. La fascia tra i 40 e i 59 anni era il 22% nel 1950, ora è il 31. I residenti di età compresa tra i 60 e i 79 anni erano meno del 23% nel 1950, ora il 31, con un aumento continuo nel tempo. Lo stesso per gli over 80, che nel 1950 erano l’1% della popolazione e ora sono il 7,5.

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    Crisi demografica e forza lavoro

    Andiamo adesso a esaminare altri dati, altrettanto significativi e importanti per la riflessione che stiamo facendo.
    In Italia (sempre dati Istat), nel 2019, quasi il 30% delle abitazioni censite, 10,7 su 36 milioni, non era occupato. Il loro numero proseguirà l’ascesa nei prossimi anni anche a causa della crisi demografica. Sud e Isole guidano questa classifica, con quasi il 36% delle abitazioni vuote.
 Nel Centro il dato scende al 24,8%, con 1,7 milioni di case inabitate su 6,8; nel Nord-Est è del 25,6% su 6,7 milioni di abitazioni. Nel Nord-Ovest è del 28,2% su circa 10 milioni di case.
    Nelle province calabresi, abbiamo Reggio al 42,3%, Vibo al 49,3, Catanzaro al 45,2, Crotone al 44,9 e Cosenza al 44,6.

    Altro dato oggettivo: gli imprenditori e i sindacati italiani, singolarmente e tramite le loro organizzazioni di categoria, da tempo reclamano un aumento consistente dei flussi di lavoratori da inserire nel tessuto produttivo nei settori primario, secondario e terziario. L’ultimo decreto prevede alcune centinaia di migliaia di ingressi, reputati assolutamente insufficienti. Ai confini del nostro Paese, nel contempo, premono per entrare altre centinaia di migliaia di persone, spinte a lasciare i Paesi d’origine per sfuggire alle guerre, alle discriminazioni razziali e di genere, alla povertà, alla siccità.

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    Controcorrente

    A questo punto, abbiamo una serie di elementi (o dati e metadati, se vogliamo utilizzare un linguaggio al passo coi tempi):

    • il desiderio, e la necessità, di abbassare l’età pensionistica;
    • la difficoltà a reperire le risorse necessarie;
    • la crisi demografica, data dalla diminuzione in termini assoluti della popolazione e dall’invecchiamento della stessa;
    • un patrimonio abitativo di gran lunga superiore alle necessità dei residenti;
    • milioni di esseri umani, in età da lavoro, in cerca di uno sbocco di vita dignitoso e stabile, tale da accrescere in maniera esponenziale i contributi per il fondo pensionistico.

    Se inserissimo tutte queste informazioni in un apposito programma di intelligenza artificiale, certamente avremmo la soluzione a portata di mano. Al contrario, le stesse informazioni date in mano al Governo in carica (a tutto il Governo, e non solo alla Lega, che secondo la vulgata corrente è la forza politica che spinge in questa direzione) partoriscono l’ennesima stretta all’immigrazione, sotto forma della cancellazione della protezione speciale – incentiverebbe l’immigrazione – e della dichiarazione dello stato d’emergenza.

    Quota 41 vs la difesa della patria

    E qui entrano in gioco la stupidità, l’irrazionalità, il ragionamento di pancia. Il razzismo, perché di questo, alla fine, si tratta. Il razzismo che fa comportare questi signori come il marito che per fare dispetto alla moglie si evira. Voglio quota 41, o 40, o quello che sia. Ma siccome dare corpo a questa solenne promessa elettorale porterebbe alla sostituzione etnica – è già successo in America Latina, diciamo noi, dove la popolazione di alcuni Stati è composta per il 30-40% di italiani immigrati e non di nativi – vi rinuncio, con conseguenze disastrose per la Patria della quale “difendo i confini” dai barchini affollati di poveracci armati solo della loro disperazione.
    Questo è il paradosso tragico. Una situazione da win–win (mi scuso per il “forestierismo”, e meno male che ancora non ci sono le multe) si trasforma in una lose–lose (mi scuso ancora) nella quale tutti perdono a causa della stupidità umana. O del razzismo, nient’altro che un sinonimo di quella.

  • Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Franco Costabile e la Calabria che non cambia mai

    Via del Casale Giuliani è una strada di Roma tutta in salita e la prima volta che ci andai fu quasi un pellegrinaggio laico. Volevo vedere la via dove abitava Franco Costabile e dove aveva deciso che la vita era una cosa tropo faticosa per essere affrontata.
    Restai lì a guardare i palazzoni tutti uguali, cercando di indovinare quale fosse la casa del poeta calabrese i cui versi non si insegnano nelle scuole, anzi sono proprio dimenticati, pur se ad amarli quei versi furono Ungaretti e Caproni che a Costabile dedicarono parole cariche d’amore.

     

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    I versi che Giuseppe Ungaretti dedicò a Franco Costabile dopo la sua morte sulla lapide del poeta calabrese

     

    Oggi ricorre l’anniversario della sua morte e con tutta evidenza ogni cosa è cambiata.
    Il quartiere romano dove Costabile abitava si è trasformato negli anni da triste periferia in una zona residenziale abitata da una borghesia benestante. E la Calabria che lui raccontava nelle sue poesie non c’è più, trascinata da una modernità che non l’ha emancipata dalle sue disgrazie, ma solo imbruttita.

    La Calabria di Franco Costabile

    Eppure sembra restare intatta una potente attualità in quei versi, nella descrizione di una terra senza redenzione, che pare condannata alla rinuncia. Diversa e nonostante tutto ancora drammaticamente uguale la dinamica del consenso elettorale, come nella poesia in cui Costabile elenca ripetutamente i nomi dei notabili della vecchia Dc che durante lo spoglio elettorale si ripetevano senza fine: “Cassiani, Cassiani, Antoniozzi, Antoniozzi, i nomi segnati e pronunciati per trentasei ore”.

    Erano le famiglie che decidevano il destino della Calabria, il cui voto era suggerito dalla Chiesa influente e vicina al potere. Adesso sono cambiati i nomi, ma non troppo. Basti pensare che ancora oggi un Antoniozzi è arrivato in parlamento con i voti dei calabresi. E se in passato “L’onorevole tornava calabrese” in occasione di “processioni ed elezioni”, adesso non deve nemmeno fare questa fatica, i voti se li prende e basta.

    Ma se volete la misura di come Costabile e i suoi versi siano attuali, leggetevi la poesia Il taccuino dell’onorevole, perché è impressionante per come quelle parole sembrino uscite dalla bocca di un qualunque politico attuale.

    Il taccuino dell’onorevole

    L’Occidente,
    Pensarci su

    Insistere
    sul termine
    salvezza ecc.

    Ricordarsi
    l’enciclica.

    Statistiche
    Molte scarpe nel sud
    molti cucchiai

    Avvolgere col tricolore
    dieci minatori morti

    Calcolare
    50” di applausi

    Qualcosa
    sull’uomo

    Tornare
    all’enciclica

    La polizia
    le piazze calme
    Cura del paesaggio
    molta alberatura verde

    Per il contadino
    dire anche 2 foglie

    Bontà delle suore.

    Bambini a scuola
    con molte medaglie

    Undici arcate
    I Cavalieri del lavoro

    Citare
    il cammello
    e la cruna dell’ago

    L’area democratica
    citare più volte

    Diverse e paradossalmente ancora uguali le dinamiche economiche rivolte alla nostra regione. Una volta c’era la Cassa per il Mezzogiorno, oggi i mille provvedimenti per il sud, fino al Pnrr. Ma come scriveva Costabile nella raccolta di poesie La rosa nel bicchiere, “l’occhio del mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita”, perché magari la ‘ndrangheta di oggi spara di meno rispetto al passato, ma è pervasivamente dentro gli affari di qualunque progetto di ricostruzione. Ora come allora vale la supplica di Costabile rivolta ai governanti: Non venite a bussare con cinque anni di pesante menzogna.

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    Una poesia di Franco Costabile su un muro del centro storico di Sambiase

    Perché studiare Franco Costabile

    Né nei versi di Costabile manca la consapevolezza delle opportunità perdute, della distorsione culturale che per anni ci ha portati a “chiamare onore una coltellata e disgrazia non avere un padrone, troppo tempo a stare zitti quando bisognava parlare”. Restano uguali gli stereotipi che vogliono la Calabria un paradiso, una terra meravigliosa, fatta “Di limoni e salti di pescespada”. Oggi quell’inganno si è trasformato nei cortometraggi pagati a milioni e che hanno fatto ridere il mondo.
    Franco Costabile andrebbe letto nelle aule dei licei perché, a saperli leggere, si colgono i mutamenti e l’immobilismo della Calabria più nelle sue poesie che negli aridi report dell’Istat.

  • I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    I ragazzini terribili del Crai: una rivoluzione tra via Bernini 5 e la villetta di via Modigliani

    Già da diverso tempo l’Università della Calabria figura nelle posizioni di vertice della graduatoria mondiale della computer science e dell’intelligenza artificiale.
    Un risultato straordinario. Ancora di più se si pensi, solo per un attimo, che in Calabria per avere un’Università abbiamo dovuto attendere sino al 1970. Giusto per avere un’idea: ben 9 secoli di ritardo rispetto a Bologna (1088), più di 7 secoli rispetto a Napoli (1224), più di 5 secoli rispetto a Catania (1434).
    Un’eternità sul piano dello sviluppo sociale ed economico.

    Un record inaspettato

    La domanda è intrigante: com’è stato possibile scalare in soli 50 anni la classifica mondiale in settori così strutturati e trasversali come la computer science e l’intelligenza artificiale?
    A dispetto della sempiterna narrazione della Calabria miserabile e dei soldi pubblici sprecati in opere e attività inutili, l’eccellenza calabrese nella computer science e nell’intelligenza artificiale ha invece una storia bellissima di visione strategica e di creazione di capitale umano in aree fortemente svantaggiate.

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    Intelligenza artificiale e Computer science: i due primati dell’Unical

    Sergio De Julio: un pioniere a via Bernini

    Tutto iniziò in un luminoso appartamento di via Bernini 5, a Rende. Lì uno scienziato visionario e certamente un po’ folle, date le condizioni di partenza e l’assoluta inconsistenza del tessuto formativo, il prof Sergio De Julio, decise di creare il Crai (Consorzio per la Ricerca e le Applicazioni in Informatica), insieme a partner istituzionali e privati altrettanto visionari.
    Fu uno dei primi casi di virtuosa collaborazione pubblico-privato sostenuta da finanziamento pubblico (il famigerato intervento straordinario) che investì sulla formazione di qualità (oggi si dice d’eccellenza, ma la sostanza non cambia) nell’informatica, che stava mostrando già allora i segni della sua implacabile trasversalità nel futuro delle tecnologie di produzione e in quelle della società nella sua più ampia accezione. De Julio ha avuto il merito di intuire 50 anni fa questa transizione digitale (altro che Pnrr) e di investire sulla formazione di giovani calabresi.

    Un miracolo calabrese

    Io, che ho avuto la fortuna di frequentare (in verità per pochi mesi, prima di partire per gli Stati Uniti) via Bernini e poi la villetta di via Modigliani, sono stato testimone di questo miracolo calabrese.
    Se provo oggi con la mente a ripercorrere quegli ambienti e quel clima di serietà, di rigore scientifico ma anche di straordinaria amicizia e umanità, rivedo in quelle stanze piene di computer tanti giovanissimi ricercatori dalle barbe incolte e dagli occhi pieni di entusiasmo e di lucida follia. Tanti ricercatori esteri.
    Chi partiva per la California, chi tornava da Vienna, chi pianificava il suo Phd a Berkley: insomma. era un ambiente esplosivo, assolutamente inedito per una Calabria abituata alle sonnolente domeniche in tv con Pippo Baudo e la guantiera di dolci da portare a casa della fidanzata. Ben altri ritmi e rituali.

    L’area di ingegneria dell’Unical

    I ragazzini terribili di Sergio De Julio

    Erano loro, i ragazzini terribili di Sergio De Julio, quelli che avrebbero segnato indelebilmente il successo mondiale dell’Unical nei settori dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.
    Provate a leggere i curricula di autorità scientifiche mondiali del calibro di Nicola Leone (attuale rettore dell’Università della Calabria), Manlio Gaudioso, Domenico Saccà, Domenico Talia, Pasquale Rullo, Sergio Greco, Giuseppe Paletta e chiedo scusa ai tantissimi altri che, colpevolmente, dimentico in questa sede.
    Troverete orgogliosamente citate, nelle righe dei loro esordi professionali, le esperienze maturate nel Crai insieme al professor De Julio, lucido e folle visionario.
    Un primato da difendere

    Perché quest’amarcord, vi chiederete. Domanda legittima. Perché è bene che le nuove generazioni di studenti che affollano le aule di informatica dell’Unical conoscano e apprezzino il capolavoro che è stato realizzato in Calabria. Che difendano il Dna di questo miracolo calabrese. Perché non ci si abitui al titolo di campioni del mondo e che continuino ad onorare la storia di questi, ormai ex, ragazzini terribili che hanno fatto la differenza in un’unità di tempo assolutamente breve e incredibile.
    Nella speranza, magari, di creare un nuovo nucleo di ragazzini terribili pronti a cogliere, affrontare e vincere le sfide del prossimo secolo.
    In Calabria, sissignore. Proprio dall’Università della Calabria. La nostra Università.

  • La Via Crucis dei giovani tra le macerie

    La Via Crucis dei giovani tra le macerie

    È la via dei fallimenti, delle speranze interrotte, delle strade ritrovate. Parlano le ragazze e i ragazzi, i giovani intrappolati in dinamiche più grandi di loro. Un calvario sociale e personale.
    Intrecci di storie nella Storia, quella del nostro Tempo.
    La prima Via Crucis cittadina itinerante dopo la pandemia coincide anche con l’inizio del mandato di monsignor Giovanni Checchinato.

    La Via Crucis può aiutarci

    Un chiaro indirizzo e sguardo rivolto ai giovani del nostro territorio. Gli adulti sembrano in disparte ma in realtà sono i protagonisti e gli artefici di un modello sociale capace solo di generare frustrazioni, incomunicabilità, repressione.
    Rappresentano società in cui le ragazze e i ragazzi ci comunicano di non rispecchiarsi. Questa non è una novità: non serve una Via Crucis, ma forse può aiutarci. Ascoltare quei brandelli di solitudini, vite spezzate, atterrite, incastrarli tra i condomini e i rivoli della nostra città ci restituisce un puzzle amaro. Dove siamo noi adulti, cosa abbiamo costruito, cosa abbiamo ricercato nella costruzione della felicità (apparente)? Cosa offriamo a chi cerca oggi lavoro appena uscito dall’università o dalla scuola? È una Croce che si fa strada tra le macerie di una società, di una città tra le città che giorno dopo giorno ha perso il senso di comunità.

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    Monsignor Giovanni Checchinato, l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano

    Gioventù spezzate

    Ci sono le storie di chi non riesce a concludere gli esami all’università, di chi non si sente all’altezza delle altrui aspettative, di chi si chiude in sé, di chi non riesce a farcela. Le storie di chi non vede riconosciuto il proprio orientamento sessuale dai genitori. Ci riscopriamo Cirenei o forse dovremmo iniziare a sentirci tali. Interpellati come Simone, chiamati a portare la Croce, a non girarci dall’altra parte. Con l’umiltà di chi arriva da una giornata di lavoro e si ritrova catapultato nella Storia.
    Cirenei del nostro Tempo, capaci “di agire”, chinare il capo e lavorare per cambiare rotta. Di osservare.
    Il cambio di rotta passa per quella croce con i drammi del nostro tempo. Simone ne è cosciente, forse più di noi. Comprende che sta entrando nella Storia che va al di là di ogni credo. È la Storia degli ultimi, degli oppressi, degli emarginati, degli sconfitti, degli umiliati, dei respinti ai mari e ai confini, dei giovani che non sappiamo ascoltare o che abbiamo smesso di ascoltare.

    Un Occidente senza senso

    Quei giovani, quelle ragazze e ragazzi ieri ci hanno sbattuto in faccia a noi adulti il senso di un mondo occidentale senza senso.
    I suicidi, le molte forme di bullismo, l’incomunicabilità tra generazioni e tra pari. Sono, tutti, problemi che non possiamo schivare.
    Le nostre classi, le nostre scuole, le nostre università sono comunità prima ancora che luoghi dove giudicare, mettere voti. Peggio ancora, come pensa qualcuno, infliggere mortificazioni e umiliazioni. Sono luoghi dove accogliere, crescere insieme, fortificare amicizie, superare prevaricazioni, soprusi. Imparare a non restare in silenzio.
    Forse si storce il naso a sentirsi colpevolizzati come adulti in quelle riflessioni, forti sicuramente, insistenti a volte. Forse come ieri sera qualche schiaffo dobbiamo tenercelo per ripartire e capire, ricostruire ritrovando la bussola. Cirenei del nostro Tempo per una strada di riscatto.

    Andrea Bevacqua