Categoria: Opinioni

  • Toglietemi tutto…ma non il mio panorama

    Toglietemi tutto…ma non il mio panorama

    A Fujikawaguchiko, ridente cittadina alle pendici del Monte Fuji, simbolo del Giappone, le autorità cittadine hanno deciso di oscurarne la vista, divenuta insostenibilmente virale con strascico di liti quotidiane pedoni/vigili/automobilisti, a mezzo tendone. Ma poiché si sa che quando si tratta di scattare foto, ragione pressoché unica del suo allontanarsi da casa, l’Homo Turisticus diventa intrepidamente scaltro, starà sicuramente già pensando di aggirare l’ostacolo salendo sul tetto del sottostante minimarket Lawson – un sottostante in senso ovviamente compositivo -, con i vò cumprà locali che già fanno scorta di scale di corda avvolgibili.

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    Il tendone contro l’overturism a Fujikawaguchiko

    Per i più il paesino rischia però di essere irrimediabilmente cancellato dalle rotte turistiche: che cosa ci si va fare a Fujikawaguchiko (!) se non si può scattare l’ennesima foto-trofeo uguale a tutte le altre? E così, dopo la sciagurata cancellazione del fortunoso “volano dell’economia” (espressione divenuta virale anche qui fra gli assessori di provincia alla Palmiro Cangini, aka Paolo Cevoli), c’è sicuramente chi si starà già attivando per fondare il “movimento per la liberazione del panorama” con relativo hashtag, #FreedomInstaFujikawaguchiko, mentre il sindacato locale dei B&B si mobiliterà per azioni di sabotaggio notturne e festive contro il tendone della vergogna che rischia di avere effetti disastrosi sulla suddetta economia locale. Secondo la CGIA di Mestre, resasi prontamente disponibile ad una valutazione terza, si tratta di un view point che considerando l’indotto, e al netto della svalutazione galoppante, vale intorno al miliardo di Yen settimanale, nonché parecchissimi posti di lavoro.
    In tanto fermento, gli unici a gongolare sono gli sciami di turisti pre-tendone che hanno visto salire vertiginosamente le quotazioni delle proprie foto, con alcuni che hanno già costituito una cooperativa con relativo punto vendita proprio di fronte al tendone, con possibilità di inserire digitalmente fino a tre familiari per foto all inclusive; per nuclei familiari più numerosi è data la possibilità di contrattare un piccolo extra in loco.
    Ironie a parte, bisogna dire che in epoca di overtourism si tratta sicuramente di un atto che impone una riflessione sulla necessità di riappropriarsi degli spazi cittadini, ponendo allo stesso tempo un limite, se non uno stop, al processo di gentrificazione in corso in tutto quel mondo un tempo benedetto dal turismo.

    Attilio Lauria

  • Lo chiamavano Don Barthes

    Lo chiamavano Don Barthes

    Questione vecchia, che si trascina sin dalla nascita: la fotografia è o non è un testimone affidabile di verità? Per chi non l’avesse letta, una notizia di qualche giorno fa mette insieme fotografia e preti, uno vivo, l’altro non più: una coppia di promessi sposi va in parrocchia per richiedere il certificato di cresima necessario per il matrimonio, ma il nuovo parroco non trova traccia del documento nei registri. Anzi, scopre che si tratta di un problema comune addirittura a 15 anni di cresime, non registrate dal vecchio parroco.

    Ed è qui che entra in gioco la fotografia: il nuovo parroco, don Paolo Tomassetti, ha un’illuminazione, e per risolvere l’impasse propone di ricorrere alle fotografie della cerimonia come prova che dimostri l’avvenuto sacramento. Consapevole o meno di aderire alla scuola di pensiero barthesiana della fotografia come attestazione che “ciò che vedo nella foto è effettivamente stato”, per cui le foto sono sicuramente rappresentazioni di referenti, il parroco lancia dunque una caccia al tesoro collettiva in cerca delle foto della cerimonia della cresima.

    Mutuando la teoria di Nelson Goodman (filosofo, prof universitario eccetera), per cui non è tanto il “cosa” è stato davanti all’obiettivo, ma il “quando” è possibile stabilire un funzionamento della fotografia in quel senso, si può dire che in questo caso ricorrono sicuramente le condizioni di affidabilità, per cui le foto della cresima funzionano come una sorta di mugshot. Quelle foto segnaletiche cioè che testimoniano un’identità non tanto di per sé, ma per la costruzione che fa sì che ne siano abilitate.
    Quanto alla dimenticanza del vecchio parroco, personalmente sono più propenso a credere alla trama di un film buonista, con un ultimo regalo alla sua comunità che la tiene unita con questo gioco di ricordi e riconoscimenti tra una casa e l’altra, fra cassetti e cantine che rafforza l’identità collettiva intorno alla propria parrocchia. Proprio come il famoso campanile di Marcellinara di Ernesto De Martino…

    Attilio Lauria

  • Primo Maggio, la festa del precario

    Primo Maggio, la festa del precario

    Il Primo Maggio è un rito stanco, cui il tempo, la modernità e diverse scelte politiche hanno sottratto senso. Semplicemente il lavoro, per come intere generazioni hanno imparato a concepirlo, non c’è più.
    Lo hanno sostituito forme di impiego precarie e sottoposte a forme di sfruttamento rapaci e del tutto legalizzate da una legislazione sedotta dal mito della flessibilità. In pratica, ci hanno raccontato che per avere lavoro occorreva stimolare la crescita, ma per avere la crescita dovevamo rassegnarci a rinunciare a qualche diritto.
    Oggi siamo rimasti senza diritti, la crescita c’è stata, ma il prezzo pagato è stato altissimo.

    Lavoro e flessibilità

    Del resto l’allarme era già giunto, quando Gorz avvisava che «Il sistema economico produce ricchezze sempre crescenti con una quantità decrescente di lavoro». In altre parole: oggi siamo capaci di produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri, ma con meno ore di lavoro e l’impegno di meno persone. Questa condizione, però, invece di liberarci dalla fatica ha aggiunto una sofferenza sociale diffusissima e straziante, perché all’idea di flessibilità lavorativa si è assommata la frustrazione della precarietà sociale: in una società in cui ci hanno insegnato che siamo quel che facciamo, essere disoccupati, non fare niente, corrisponde allo smarrimento del proprio status.

    Gli effetti della precarietà

    Ma non basta: la precarietà genera fragilità sociale e con essa la rassegnazione che viene dall’antipolitica, una forma di disinteresse che è tra le ragioni dell’astensionismo, vera minaccia per le democrazie liberali.
    La precarietà del lavoro non è solo fatica presente, ma anche minaccia futura. La società e le persone ne pagheranno il prezzo più tardi, quando dopo decenni di lavori a termine, sempre differenti, si scoprirà che avremo un numero grande di persone che non hanno potuto accumulare esperienze, competenze e saperi.

    Se il lavoro uccide

    Nell’immediato la precarietà si è trasformata spesso in tragedie sul lavoro, morti causate dalla necessità di massimizzare i profitti, dall’assenza di sicurezza e dalla vulnerabilità sociale dei lavoratori stessi.
    In alcuni casi i morti non erano nemmeno lavoratori, ma studenti macinati letteralmente nel meccanismo del perverso rapporto “Scuola–Lavoro”, ragazzi che invece di stare nelle aule erano in fabbrica a “imparare” la flessibilità, cioè ad essere sempre pronti a piegarsi ai tempi mutevoli della produzione.

    Reddito e lavoro

    Le responsabilità di tutto quanto non è solo della destra tradizionalmente neoliberista, ma pure delle forze riformiste. La seduzione ingannevole di una modernità veloce e luccicante le ha abbagliate e non hanno saputo immaginare una risposta diversa ai mutamenti che ci hanno travolto.
    Dentro questo discorso entra prepotente il tema del reddito separato dal lavoro, cui le forze politiche dovrebbero guardare senza moralismi. La redistribuzione della ricchezza in una società opulenta sarebbe una forma di giustizia sociale. Ma al di là di questo, molto più prosaicamente sarebbe uno strumento necessario per non fare appassire i consumi, altrimenti il giocattolo si rompe.
    Per il resto ci piace ancora pensare che la sola festa del lavoro sia quella del lavoro liberato.

  • Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Il fascismo non c’è più, parola dei fascisti

    Allarme siam fascisti! Perché quelli col fez e le camicie nere non ci sono più, è vero, ma hanno sembianze diverse e non per forza nuove, anzi continuano a puzzare di orrore.  Il Fascismo lo abbiamo inventato noi italiani e non ce ne siamo liberati mai. Un trauma culturale che non abbiamo affrontato, eluso con tenacia, raccontandoci le atrocità compiute dalle SS e tacendo quelle perpetrate dai repubblichini, ma ancora di più tacendo sui decenni durante i quali i diritti più semplici sono stati annichiliti da un regime crudele e assassino, funzionale a interessi complessi e noti.
    Oggi quella operazione di rimozione trova il suo culmine quando gli eredi di quel passato, sempre sentitisi estranei dentro una democrazia liberale, cercano l’affondo revisionista stando al governo e l’ipotesi di riforma sul premierato ne rappresenta l’ultimo sforzo in questo senso.

    Il fascismo eterno

    Il fascismo non c’è più, ma a dirlo sono solo i fascisti. Una specie di negazione di se stessi, di codardia fatta di equilibrismi linguistici: «Sono afascista», pare dicesse di sé Giuseppe Berto e da lì a scendere fino a Meloni, La Russa con il suo museo privato di reliquie del Ventennio, Lollobrigida, Sangiuliano e compagnia.
    Eppure le tentazioni autoritarie, repressive, censorie, perfino vendicative, restano palesi, quotidiane: studenti manganellati, presidi e docenti dissidenti intimiditi, pulsioni razziste liberate da ogni remora. Sì, il fascismo storico non c’è più, perché ogni cosa è cambiata, eppure sopravvive forte quello che Eco chiamava il “fascismo eterno”, fatto di sospetto verso la cultura, derisione rivolta agli atteggiamenti critici, populismo identitario come risposta all’insicurezza sociale generata dalle crisi.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Paura e capri espiatori

    L’orizzonte geopolitico di chi oggi governa il Paese è rappresentato dall’autoritarismo, che è sempre negazione dei diritti, come la libertà di espressione, dell’autodeterminazione delle donne, di una scuola e di una informazione libere. La destra cavalca il populismo, che ha assunto marcatamente caratteristiche di regressione democratica, perché reagisce alle crisi con risentimento, proponendo di arroccarsi come difesa dalla paura. E quest’ultima è sempre stata una condizione emotiva capace di mobilitare le masse attorno a leader carismatici e contro utili capri espiatori.

    Autorità e frustrazione

    La semplificazione delle questioni è ancora il motore dei fascismi e ha lo scopo di consumare la componente liberale delle democrazie. Su questo sono drammaticamente attuali le parole di Fromm, quando spiegava che nelle crisi prevalgono  la tentazione di identificarsi con figure autoritarie e la spinta a scaricare le proprie frustrazioni su gruppi minoritari.
    La cronaca di questi mesi ci restituisce proposte politiche contro l’aborto, contro i migranti, contro i diritti diffusi cui rinunciare in cambio di una effimera promessa identitaria.

    A scuola di Resistenza

    Il fascismo è ancora sempre questo: indifferenza verso le sofferenze sociali, veder annegare i migranti e sentirsi spiegare che era meglio se restavano a casa loro, incapacità di capire la complessità e risolvere il tutto individuando nemici. Il “me ne frego” delle camicie nere non è mai morto, per questo oggi è indispensabile non solo ricordare la Resistenza, ma fare Resistenza.
    I modi sono diversi, il più efficace resta quello che Gramsci suggeriva in una lettera destinata al figlio Delio, in cui parlava di scuola e della necessità di studiare la Storia. Serve per riconoscere e smascherare i mostri anche se certe volte sembrano sorridenti. Conoscere il fascismo in ogni sua forma.
    Buona Liberazione a tutti, non solo oggi.

  • E vissero tutti felici e contenti

    E vissero tutti felici e contenti

    Quello su Ponte Flaminio a Roma era sicuramente più acrobatico e d’impatto, ma il graffito sotto il ponte dell’autostrada a Rende (borderline con Cosenza, per i non autoctoni) ha dalla sua la resilienza, roba che non ci avrebbe scommesso nemmeno il fabbricante dello spray indelebile: come si fa a promettersi amore eterno e gravitazionale proprio con la materia dell’impermanenza?!? Ma come ogni effimero che in questo Paese si fa lentamente definitivo, qualche giorno fa il graffito amoroso ha festeggiato i (primi?) 20 anni, anniversario che ha messo fine anche all’enigma che ci attanagliava durante il lento procedere verso il noto ingorgo a croce uncinata della rotatoria (!) più avanti: chissà che ne sarà stato di Stellina e del suo temerario graffitaro… ebbene, la statistica può finalmente segnare un punto a favore dell’ammmore siderale, con la prima coppia, fra le migliaia che pronunciarono il fatidico io e te tre metri ecceteraeccetera, di cui si ha notizia essere giunta fino a noi. L’autodenuncia – non si sa quanto incauta o celebrabile da un qualche assessore in vena di carrambate -, arriva dal solito post di FB, commentato equamente da entusiasti, e altro a cui pensare. E mentre i protagonisti faranno a questo punto il tifo per “l’arte” che sopravvive al suo creatore, a noi non resta che aspettare il seguito della saga familiare per i prossimi ingorghi, c’è ancora un pezzo di ponte intonso…

    Attilio Lauria

  • Il talento fotografico dei Mr Ripley

    Il talento fotografico dei Mr Ripley

    Ma insomma, mi rivolgo a chi l’ha vista, e a quellichenon rivolgo l’invito a vederla: sbaglio, o alla fine una serie così strepitosamente fotografica come Ripley, in cui ogni inquadratura è un titillamento per le papille oculari, si concede anche il gusto di fare il verso a noi (a qualcuno di noi) fotografanti?
    C’è una Leica che appare fra gli oggetti che Ripley posiziona in ogni stanza dove gli capita di alloggiare, quasi allestisse un set, e con la quale – in una scena lunga quanto il tempo di un click distratto alla finestra su otto puntate -, gli scappa addirittura di scattare una foto! Così come gli altri oggetti di design da esibire, anche la macchina fotografica nella trama ha una funzione d’uso del tutto relativa rispetto al suo fare status, ma un’altra interpretazione, più maliziosa, è possibile. Anzi, due: e se rimandasse alla credenza, diffusa anche tra i fotografanti, che il possesso conferisce il prestigio della credibilità autoriale? O a quell’altra credenza-corollario che la fotografia sia questione di attrezzo?
    Chissà… Certo è che alla protagonista femminile, Marge, flaneur che oggi scriverebbe un blog piuttosto che una guida in forma di libro su Atrani, viene riservata un’assai più modesta Kodak Brownie 127, una di quelle in bakelite dal design Deco, lente fissa e zero regolazioni che compare sempre abbastanza di sfuggita, ma evidentemente adatta allo scopo se l’americana in costiera arriva infine alla pubblicazione.

    Attilio Lauria

  • Fareste un selfie con quest’uomo?

    Fareste un selfie con quest’uomo?

    Al netto del “non le conosco”, e della “foto della trattativa PD-mafia” (La Verità dixit, Belpietro DOC annata 2024, filare marzo 25), versioni secondo copione dell’ennesima piece quotidiana imbastita stavolta intorno ad una immagine, la pratica political-piaciona del selfie a futura preferenza evidente paga, sebbene esponga al misunderstanding facile.

    Ciò che invece proprio non si capisce, da parte dei fiancheggiatori dei selfie intesi come coloro che in foto conquistano il fianco di, è tutta ‘sta voglia di farsi immortalare con coloro che normalmente, pontificando al Bar Sport fra ‘nu spritz e ‘na nocciolina, definiscono con tutti gli epiteti che sappiamo e anche oltre. Gente che pur sentendosi come Gesù nel tempio all’occorrenza non disprezza, proprio come per il famoso parroco, impaziente di piazzare l’ultimo trofeo sulla hall of fame del proprio Instagram.
    Evidentemente dopo 60 anni e una rivoluzione della fotografia ormai a portata di tasca, per quel famoso slogan delle presidenziali USA del 1960, quelle tra JF Kennedy e Richard Nixon che recitava “compreresti un’auto usata da quest’uomo?” è arrivata l’ora di andare in pensione: è già da un po’ che ci siamo consegnati, e pure sgomitando, ai venditori di promesse.

    Attilio Lauria

  • Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Il vittimismo di certa destra con o senza Hume

    Alla fine voleva essere galante, cioè superiore ma senza esagerare, come suggerisce Hume. Spartaco Pupo, docente Unical che oggi grida di essere vittima di un attacco alla propria libertà di dire cose bizzarre citando il suo amato filosofo scozzese, sta mettendo in atto la consueta pratica del vittimismo, in cui dopo averla sparata grossa, si piange addosso per le critiche ricevute.

    Spartaco Pupo, docente dell’Università della Calabria

    Critiche, sia chiaro, e non richiami formali o censure, perché l’avvocata Stella Ciarletta, “consigliera di fiducia” dell’ateneo, rispettosa del suo ruolo e delle sollecitazioni ricevute da studenti e movimenti, con una mail privata si è limitata a chiedere maggior rispetto e di riflettere riguardo all’opportunità del post pubblicato dal docente di storia, noto esponente della destra. Per chi se lo fosse perso, con il garbo che si conviene ad un gentiluomo, Pupo celebra l’Otto marzo con una lunga citazione del filosofo di Edinburgo, pre illuminista e indicato come il padre del liberalismo costituzionale degli stati moderni.

    La frase scelta parla di superiorità dell’uomo, che però deve mitigare tale supremazia «dimostrando autorità in modo più generoso, se non meno evidente, ossia con le buone maniere, la deferenza, la considerazione, in breve con la galanteria», ma anche con «l’altruismo e con una calcolata riverenza e comprensione per le tendenze e le opinioni di lei». Pensava di suscitare gratitudine e invece comprensibilmente qualcuno si è arrabbiato .
    A far diventare un caso quello che invece è un banale (letteralmente) post su Fb è il soccorso cameratesco, che alza il tiro e il polverone, mentendo su richiami istituzionali che non ci sono, né potevano esserci, e sovrapponendo l’opinione di Pupo con quella della professoressa De Cesare a seguito della scomparsa di Barbara Balzerani. La cortina fumogena della distorsione dei fatti è utile sempre per lamentarsi della sinistra che occupa le università e sotto sotto suggerire qualche epurazione, perché certi passati storici restano nel Dna.
    Riguardo a Hume, che oltre ad alcune magnifiche cose diceva pure che «propendo a ritenere i negri e in generale le altre specie di uomini inferiori ai bianchi» chi lo cita dovrebbe stare attento: se prendi il peggio di un filosofo di trecento anni fa e quelle cose ti piacciono, quel peggio ti appartiene.

  • Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    Benvenuta al Sud, Angela Finocchiaro, però…

    La Calabria ha un nuovo teatro comunale, “inaugurato” il 30 dicembre, proprio sul finire dell’anno nella città di Vibo Valentia e a dirigerlo sarà Angela Finocchiaro. Questa è la storia di uno spazio pubblico iniziata nel 1999 con un finanziamento da parte del Ministero della Cultura e che, inevitabilmente, è andata avanti in un continuo alternarsi di forze politiche per quasi un quarto di secolo.
    Il taglio del nastro è sempre qualcosa che piace molto alla politica, solitamente funziona come una medaglia da attaccare alla giacca per un risultato frutto della semina di altri.
    Maria Limardo, prima cittadina di Vibo, durante la conferenza stampa insieme alla vicepresidente della Regione Giusy Princi e all’ Assessore allo Sviluppo economico Rosario Varì ha comunque ribadito quanto questo risultato sia frutto del lavoro di tutte le amministrazioni alla guida della città in questi anni.

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    Giusy Princi intervistata durante la presentazione del teatro

    In attesa della prima, prevista per metà gennaio, alcune considerazioni su quella che Giusy Princi ha definito «una bella pagina della Calabria, rappresentazione di quando la cultura diventa espressione di civiltà, di un popolo, di una città, in questo caso di Vibo», bisogna farle, però.
    Magari cominciando proprio dalla nomina del direttore artistico e poi in merito ai primi appuntamenti in cartellone a Vibo.

    Angela Finocchiaro prima di Vibo

    La nomina di una donna alla direzione artistica di un teatro calabrese non si può trattare come una questione di genere, si rischierebbe di scadere nella faziosità riduttiva delle tifoserie maschi contro femmine. Angela Finocchiaro è sicuramente una grande artista che ha alle sue spalle una carriera di alto profilo e il suo volto è noto al grande pubblico. Il cinema e la televisione l’hanno resa famosa molto di più del suo impegno in campo teatrale. Questa non vuole essere una critica, ma una semplice constatazione. Che diventa un po’ più amara quando, a garanzia della sua professionalità, qualcuno ricorda che ha vinto due David di Donatello come attrice non protagonista nei film La bestia nel cuore Mio fratello è figlio unico.
    Bene! Anzi, benissimo! Però…

    Teatro, questo sconosciuto…

    Però forse sarebbe stato più appropriato se avesse vinto un Premio Ubu. O, più banalmente, forse più che le sue apparizioni sullo schermo – ricordiamo, tra le tante, La Tv delle ragazze e l’esilarante Benvenuti al Sud – a Vibo qualcuno avrebbe fatto meglio a ricordare l’impegno teatrale di Angela Finocchiaro negli anni ’70 con la compagnia sperimentale Quelli di Grock.
    Ma ancora una volta la politica calabrese che si vuole occupare di cultura fa confusione sui diversi livelli. Scambia il piano della spettacolarizzazione con quello della cultura, quasi come se stesse sponsorizzando un prodotto televisivo.
    Ecco in risalto le caratteristiche più commerciali e quelle conosciute dal pubblico più vasto. E il teatro? In qualche scantinato della cultura, come un reperto destinato all’oblio ed esposto alla mummificazione.

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    Finocchiaro sul palco del Teatro Cilea di Reggio Calabria qualche anno fa con lo spettacolo Ho perso il filo (foto Aldo Fiorenza)

    Tv o palcoscenico?

    A conferma di questo orientamento consumistico troviamo i primi appuntamenti del cartellone della stagione teatrale: niente di più che spettacoli cabarettistici.
    Nessuno si perderà nulla, chi non riuscirà ad occupare la platea potrà tranquillamente sintonizzarsi sulle reti Mediaset.
    Niente contro Paolo Ruffini, Ale & Franz o il truccatore Diego Dalla Palma, ci mancherebbe. Ma lo capiamo immediatamente che non stiamo parlando di teatro, quanto di spettacoli che cambiano location: dagli studi televisivi alle tavole di un palcoscenico.
    Non si tratta di dire cosa sia meglio o peggio,  è che una stagione di un teatro pubblico appena inaugurato non dovrebbe esordire con degli spettacoli televisivi.

    Vibo: Angela Finocchiaro e Parioli sì, Calabria no

    Possiamo chiederci perché nessuno abbia pensato di inserire delle produzioni di compagnie calabresi. Oppure perché non si inauguri la stagione con il sei volte Premio Ubu Saverio La Ruina, soprattutto in virtù dell’ultimo riconoscimento ricevuto solo qualche settimana fa. Potremmo anche chiederci perché non si è pensato di coinvolgere il fondatore della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio, tornato a vivere in Calabria dopo molti anni di direzione artistica del Teatro Studio di Scandicci e un’esperienza in campo teatrale tale da farlo annoverare tra i maestri delle avanguardie del ‘900.

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    Saverio La Ruina in scena con il suo Via del popolo (foto Angelo Maggio)

    Forse si potevano invitare Francesco Colella o Marcello Fonte, giusto compromesso tra popolarità ed esperienza in campo teatrale. Infine mi viene in mente Manolo Muoio, la sua collaborazione con Julia Varley e con Eugenio Barba.
    Chissà se a Vibo o Germaneto ne hanno mai sentito parlare.
    Non è finita: per l’allestimento della prima stagione c’è un accordo con il Teatro Parioli di Roma. Come se in Calabria nessuno sapesse allestire una stagione teatrale. Come se il nome Parioli potesse bastare a garantire un buon successo di pubblico.

    Cultura e globalizzazione

    Non è una questione di campanilismo, quanto una rivendicazione di un’identità culturale ripetutamente calpestata da parte di una politica proiettata costantemente verso l’erba del vicino, cieca verso un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.
    Nell’epoca della globalizzazione a qualcuno potrà sembrare riduttiva una critica verso la scelta di affidare la direzione artistica a una professionista del Nord. Ma c’è un aspetto da non sottovalutare: le diseguaglianze culturali all’interno di una società, proprio a causa della globalizzazione, sono suscettibili a maggiori accentuazioni. La situazione è chiara a livello economico per quanto riguarda i paesi industrializzati e i Sud del mondo. E lo stesso concetto si può applicare a livello culturale tra Nord e Sud. O, meglio, tra Nord e Calabria.

    2024, fuga dalla Calabria

    Sì, proprio la Calabria, perché le altre regioni del Sud hanno solo da insegnarci in materia di gestione delle politiche culturali. In una terra come la nostra, in cui nessuno investe in cultura, trovarsi nella situazione di essere “colonizzati” da professionisti provenienti da altre regioni, senza nessuna possibilità di fare rete oltre il nostro territorio, significa rimanere schiacciati sul piano culturale, continuare ad assistere inermi alla fuga di cervelli e di maestranze artistiche.
    Alla fine sul nostro territorio non rimarrà nulla, perché l’identità culturale di un luogo può essere costruita, recuperata e valorizzata solo da chi in quel territorio c’è nato o da chi ha deciso di viverci.

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    Il nuovo teatro di Vibo vuoto

    Benvenuta a Vibo, Angela Finocchiaro

    Di certo non abbiamo bisogno di esperti a tempo determinato e neanche di “missionari evangelizzatori”. Abbiamo un patrimonio e promesse culturali per poterci porre sul piano della sinergia con altre regioni e non di certo su quello dell’occupazione intellettuale.

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    Leonida Repaci

    Il teatro comunale di Vibo Valentia non è stato ancora intitolato a nessuno. Allora vorrei ricordare che il calabrese Leonida Repaci, oltre che scrittore e critico teatrale, è stato anche drammaturgo, i suoi drammi li ha rappresentati tutti a Milano tra il 1925 e il 1930.
    Nella speranza di un giusto riconoscimento al nostro teatro, quello di ieri e quello di oggi, ad Angela Finocchiaro auguro buon lavoro a Vibo: benvenuta al Sud.

  • Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    Propaganda e poca ricerca: se lo Stretto sembra il bis del Vajont

    «Il ponte tra Calabria e Sicilia sarà il ponte sospeso più lungo al mondo, una eccellenza dell’ingegneria italiana»

    Con questo slogan il Ministero per le Infrastrutture e Trasporti presentava, per l’ennesima volta, il progetto del ponte sullo Stretto di Messina, una vecchia idea che affonda le radici nel 1840. Progetto che è risultato divisivo sin dalle sue origini e oggetto di proteste da parte della popolazione locale e parte della comunità scientifica, sia per il suo impatto ambientale su uno dei panorami più belli d’Italia che per i rischi relativi alla geologia dell’area.
    Infatti, dal 28 dicembre 1908, quando un terremoto di magnitudo 7.1 e relativo tsunami distrussero le città di Reggio Calabria e Messina provocando la morte di circa 120.000 persone, lo Stretto di Messina è considerato da un punto di vista sismico una delle aree a maggior rischio dell’intera regione mediterranea.

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    Il sismogramma del terremoto del 1908

    Ponte sullo Stretto di Messina e geologia

    Popolazione e comunità scientifica hanno sollevato alcuni dubbi legati a

    • il potenziale impatto di un terremoto di simile o maggiore magnitudo di quanto registrato nel 1908 sul ponte, Reggio Calabria e Messina
    • la mancanza nell’area di dati recenti acquisiti con tecnologie avanzate per meglio comprendere la geometria, attività ed evoluzione di un assetto tettonico molto complesso, e l’organizzazione stratigrafica e proprietà meccanica delle rocce.

    Le risposte dei sostenitori dell’opera alla possibilità del verificarsi nell’area di un terremoto (impossibile da predire ma statisticamente possibile) sono

    • il progetto del ponte considera questo aspetto
    • il ponte sarà capace di resistere a terremoti con magnitudo maggiore di quanto registrato nel 1908.

    Gli stessi dimenticano però di riportare che ad oggi i materiali necessari per la costruzione del ponte come previsto dal progetto preliminare, e che resista agli stress normali ed eccezionali richiesti da un ponte di tale portata, non esistono ancora.

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    Il lungomare di Messina dopo il terremoto del 1908

    Inoltre, a seguito del terremoto del 1908, le città di Reggio Calabria e Messina furono ricostruite senza particolare attenzione nel seguire procedure antisismiche. Questo significa che anche se gli ingegneri riuscissero a costruire un ponte capace di resistere a forti terremoti, il risultato sarebbe di avere una bellissima struttura ingegneristica che collegherebbe due aree completamente distrutte.

    Tanta propaganda, pochi fondi per la ricerca

    Allo stesso tempo, non è chiaro quali e quante strutture a supporto del ponte sono state pensate e quale possa essere l’impatto delle stesse sul territorio e sulle comunità che ci vivono.
    Dove e quanto cemento sarebbe previsto?
    Quale l’impatto su un precario assetto idrogeologico già caratterizzato da fenomeni franosi?
    Molto si parla in modo propagandistico del ponte sensu stricto. Poco o niente si dice del suo impatto sulle comunità locali che nelle aree interessate dal ponte vivono.

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    Stretto di Messina, una delle opere accessorie nel progetto del ponte

    Non molta diversa la storia rispetto alla mancanza di fondi destinati alla ricerca per la comprensione della geologia a terra, dove il ponte dovrebbe essere ancorato, ed a mare.
    Ad oggi, con l’Italia che destina solo l’1.35% del suo PIL alla ricerca scientifica (circa la metà della media degli altri stati europei) non deve sorprendere se gli eccellenti studi di ricerca pubblicati nell’area si basino su dati limitati che lasciano importanti domande ancora aperte.
    Per esempio, non c’è ancora consenso nella comunità scientifica su quale faglia sia stata responsabile del terremoto del 1908.

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    Foto aerea dello Stretto di Messina con rappresentazione di alcune delle faglie che controllano la sua evoluzione Credit: Dorsey et al., 2023

    Una foglia di fico?

    Per un progetto così ambizioso, prima di prendere qualsiasi tipo di impegno verso la costruzione del ponte e spendere soldi che si potrebbero investire diversamente (si stima che ad oggi la spesa ammonti già a circa 300 milioni di Euro, per un costo totale dell’opera di 14,6 miliardi di Euro), ci si aspetterebbe quindi un grosso investimento di risorse e fondi per finanziare progetti di ricerca e l’acquisizione di dati utili a comprendere il contesto geologico e ambientale dentro il quale si voglia costruire l’opera.

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    Matteo Salvini e i presidenti di Calabria e Sicilia, Roberto Occhiuto e Renato Schifani, di fronte a un plastico del ponte

    Il recente annuncio dell’inizio dei lavori relativo alla realizzazione del foglio Villa San Giovanni come parte del progetto nazionale CARG è sicuramente una notizia positiva che contribuirà ad aumentare le conoscenze dell’area. L’uso di quello che dovrebbe essere un aggiornamento regolare delle conoscenze geologiche del territorio atteso da decenni e sempre posticipato, però, potrebbe rappresentare una foglia di fico per distrarre l’attenzione dalla mancanza di studi specifici.
    Inoltre, la recente notizia che Sicilia e Calabria dovranno aumentare il loro contributo finanziario per la costruzione del ponte, senza che lo stesso sia stato discusso e approvato dalle regioni, solleva qualche dubbio sulla sostenibilità finanziaria dell’opera.

    Stretto di Messina e Vajont: il ponte come la diga?

    Se guardiamo al recente passato, l’Italia ha già intrapreso un simile ambizioso progetto con la costruzione della diga del Vajont. Considerato come si è drammaticamente concluso per la popolazione locale e il suo territorio, le similitudini tra i due progetti non sono confortanti.
    Il progetto della diga del Vajont risale al 1920. La costruirono tra il 1957 e il 1960 per realizzare una riserva di acqua da usare per supportare la produzione di elettricità.
    Il 9 ottobre 1963 una mega frana causò uno tsunami che produsse grosse inondazioni e distruzione dei paesi di Erto e Casso posizionati sulle rive del lago e di Longarone e altri paesi lungo la valle del Piave. Morirono circa 2.000 persone. La diga rimase intatta.

    La si può osservare ancora oggi, a testimonianza che da un punto di vista ingegneristico il lavoro fu progettato ed eseguito correttamente. La ferita inferta al territorio e alla popolazione locale, però, ne azzerano il presunto valore.
    Indagini post disastro hanno evidenziato come gli indicatori geologici per prevedere l’instabilità del fianco della montagna erano già presenti prima della frana.
    La mancanza di studi specifici nelle fasi preliminari e la mancanza di coinvolgimento dei geologi durante la realizzazione del progetto, con tutte le decisioni chiave lasciate in mano agli ingegneri, crearono le perfette condizioni per il disastro.

    vajont
    Il dolore dopo il disastro del Vajont

    Bene, bravi… bis?

    Ora guardiamo a come le autorità nazionali presentarono il progetto della Diga del Vajont nel 1943: La più alta diga ad arco al mondo. Il biglietto da visita per il lavoro italiano all’estero. Per il ponte sullo Stretto di Messina assistiamo alla riesumazione dello stesso tipo di propaganda che usarono per convincere la popolazione 80 anni fa ad accettare un’opera faraonica.
    Antonio Gramsci diceva che «la Storia insegna, ma non ha scolari». Speriamo che questa citazione non sia valida per il ponte sullo Stretto di Messina. E che questo progetto non si concluda con un bellissimo e intatto ponte che collega due città fantasma.

    disegno chiarella
    Disegno originale raffigurante il ponte sullo Stretto di Messina che collega due aree metropolitane non provviste delle necessarie infrastrutture per supportare l’eventuale traffico veicolare prodotto dal ponte