Categoria: Opinioni

  • Un 25 Aprile con la guerra alle porte

    Un 25 Aprile con la guerra alle porte

     

     

    di Walter Nocito, docente di diritto costituzionale e pubblico Unical (Dispes)

    In una recente iniziativa organizzata dall’Anpi, dalla Cgil e dallo Spi-Cgil Calabria abbiamo avuto modo di ‘ricordare’ (nel senso etimologico della lingua latina, di “richiamare al cuore”) l’importanza che quest’anno assume l’anniversario degli 80 anni dalla Liberazione dal Nazifascismo in Italia e in Europa.

    La Liberazione è donna. Il contributo delle partigiane fu determinante

    “Richiamare al cuore” il 25 Aprile

    Lo abbiamo fatto in uno spazio dell’Università, nel principale Ateno della regione Calabria, volendo dare un senso complessivo della condizione presente alla Festa del 25 Aprile 2025, e volendo incontrare i giovani e gli studenti che nelle Università si formano e si avviano alla vita lavorativa e all’esercizio della cittadinanza sociale e politica. Come è stato scritto dagli organizzatori dell’evento, l’iniziativa è servita a “capire il passato e vivere questo tempo pretendendo l’esigibilità dei diritti sanciti dalla Carta Costituzionale”, ma è servita anche a invitare i giovani, e i meno giovani, a “ribellarsi a quella forma di revisionismo storico e di ritorno della violenza e dell’ideologia fascista che vorrebbe che il Fascismo fosse un’opinione e non un crimine”.

    L’impegno per la difesa dello Stato pluralista e democratico

    Nella iniziativa ho avuto modo di prendere la parola come “giurista democratico” e la cosa oggi non è affatto neutra, o scontata, come poteva esserlo alcuni anni fa, anche nel ventennio berlusconiano che ci siamo lasciati alle spalle (gli anni tra il 1994 e il 2013 in cui i Governi Berlusconi 1, 2 e 3 hanno palesato un rapporto problematico sia con il 25 Aprile sia con la Costituzione nata dalla Liberazione). Essere un “giurista democratico” non può non significare oggi – ancor di più che non nel ventennio berlusconiano – sostenere con il massimo rigore possibile una lotta per il diritto che debba puntare alla difesa dello Stato sociale di diritto inteso come Stato pluralista- democratico (agli effetti degli artt. 1-2-3-4-5 della Costituzione Italiana) e alla difesa della Unione Europea come soggetto sovranazionale che persegue la Pace nel mondo (agli effetti degli artt. 10 e 11 della Costituzione).

    L’educazione all’antifascismo e ai valori della democrazia devono partire dalla scuola e dalle università

    Il ruolo di chi svolge una funzione formativa nella società

    Chi scrive questa nota sugli 80 anni dalla Liberazione dal nazi-fascismo interpreta la funzione formativa (anche nelle Università) in questo preciso senso culturale e scientifico, per come, in sede di iniziativa, ha detto anche la collega intervenuta (la prof.ssa Donatella Loprieno docente anch’essa di diritto costituzionale e pubblico). Ragionando da giuristi democratici ci sono oggi (aprile del 2025), alcuni rilievi che non possono non essere evidenziati per segnalare a chi abbia interesse lo “stato dell’arte” della democrazia costituzionale (italiana ed europea) dopo quasi 80 anni di esperienza repubblicana, avendo presente che tale lunga esperienza è nata – sotto il profilo costituzionale – con il Referendum del 2 giugno 1946 che è avvenuto in forza della Liberazione dell’aprile del 1945 ma anche in forza della fine della Seconda Guerra Mondiale che è fissato – sotto il profilo storico – nel 9 maggio dello stesso anno con la liberazione, ad opera della Armata Rossa, della Capitale del terzo Reich (occupata e poi divisa in due zone di influenza: Berlino est e Berlino ovest).

    Le crisi che assediano la Democrazia costituzionale

    Ragionando come giurista democratico, sono tre le situazioni di grave crisi che, al momento, debbo indicare a chi abbia interesse alla Democrazia Costituzionale intesa come parametro per agire con consapevolezza dei tempi e con senso della realtà (della “Costituzione materiale”): una prima crisi agisce al livello interno-costituzionale, una seconda sta agendo a livello sovranazionale-europeo, ed una terza agisce in forme sempre più pericolose ai livelli internazionali-globali. La prima è una crisi di natura propriamente costituzionale che sta producendo uno stress crescente rispetto alla tenuta dei principi fondamentali della costituzione come l’equilibrio dei poteri e la effettività delle garanzie delle libertà: la situazione probabilmente è ben nota a chi tra i lettori ama e difende in Italia – da anni – lo “Stato di diritto” (oggi sotto attacco), con i sui valori di libertà civile, di uguaglianza, di libertà collettive, di libertà politiche e di solidarietà costituzionale.

    Partigiani

    Le spinte disgregative e la fragilità dello stato dei diritti

    Sono epifenomeni della crisi costituzionale interna e del connesso stress: il conflitto tra esecutivo e magistratura, le spinte disgregative sottese alla autonomia regionale differenziata, le politiche per l’istruzione pubblica, i tagli al welfare, i condoni diffusi, le politiche deflattive sui salari, le scelte governative sul “Deep State”, le politiche della sicurezza oggi compendiate nel decreto legge “Piantedosi” per la sicurezza pubblica e la criminalizzazione del dissenso. Alla crisi costituzionale interna che tocca nei sui gangli vitali lo Stato italiano, in verità, da qualche anno si deve aggiungere una crisi di legittimazione e di operatività della UE (Unione europea a 27/28 Stati): una crisi del diritto europeo ma soprattutto della politica europea (e del relativo ceto politico di governo).

    L’inadeguatezza dell’Europa

    La UE e i suoi organi decisionali (Commissione e Consiglio, ma anche Parlamento), infatti, non stanno governando con adeguatezza, e mano ferma, le poli-crisi in corso, ed anzi stanno subendo con reazioni inerziali i cataclismi prodotti – in forme crescenti – dalla Internazionale nera trumpista sia all’interno dei paesi europei sia all’esterno della UE (negli Usa in particolare). Ne sono epifenomeni: il programma della Commissione Europea e la sua composizione (debole e ‘indecisa’), i rapporti UE-Nato irrisolti e certamente da rivedere con urgenza, il Modello sociale europeo e la Carta dei diritti fondamentali dei cittadini UE al momento in larga misura ineffettivi, le misure green new deal 2019-2021 e il loro ‘inceppamento’ tra Stati e Ue.

    Ma anche: la  politica energetica e quella commerciale europea in apnea, le misure di difesa comune e di finanziamento della sicurezza internazionale avanzate da parte della Presidente Von der Layen e sotto il profilo formale bocciate di recente dal Parlamento nelle sede della Commissione degli Affari Giuridici in riferimento alla procedura utilizzata dalla Von der Layen (che ha forzato l’art. 122 del Trattato Europeo del 2009).

    Ricordare la Liberazione in un mondo in guerra

    Alla crisi del diritto europeo e della politica europea, deve in terzo luogo aggiungersi un gravissimo evolversi della crisi del diritto internazionale e soprattutto della politica internazionale e dei rapporti tra gli Stati che sono le grandi e medie potenze tutte in fibrillazione (soprattutto nel versante asiatico, mediorientale e pacifico). I quadranti geopolitici internazionali sono, nel 2025, riguardati da profonde linee di conflitto (latente o manifesto che sia), che in oltre 50 focolai sono diventati veri e propri conflitti bellici (guerre civili, interstatali, di posizionamento.)

    Un gruppo di partigiani in azione

    Dal 1945 al 2025, in pratica, nei giorni della celebrazione degli 80 anni dalla liberazione dal Nazifascismo, la registrazione più urticante e più densa di problematiche concretamente (e prospetticamente) operative che dobbiamo fare, non può non riguardare che il diritto internazionale violato e depotenziato (il diritto bellico, umanitario, penale, commerciale, e ambientale) e soprattutto la politica internazionale e le sue sedi multilaterali di articolazione e di mediazione tra le volontà degli Stati (il sistema ONU in primis).

    Ne sono epifenomeni: la Corte Penale Internazionale (operativa in forza del Trattato di Roma) e la sua delegittimazione, lo scontro bellico tra Hamas e Israele nel quadrante mediorientale (con le reazione sproporzionata del “Israel Defense Forces-IDF”), le tensioni nel Mar della Cina, le vicende alterne dei protocolli di Kyoto in materia ambientale, il regime di conflitto bellico al confine tra Ucraina e Federazione Russa dal 2022 (melius dal 2014), la guerra dei dazi avviata dal governo americano nella primavera del 2025.

    Il colore rosso del fiore simboleggia da sempre il sangue versato e il coraggio dei partigiani che hanno combattuto per la libertà

    La Storia maestra dalla quale è necessario imparare

    Nella congiunzione tra storia, politica e diritto, celebrando il 25 Aprile 1945 e poi il 9 maggio 1945, credo – da giurista democratico – che tutti dobbiamo (in quanto cittadini, operatori delle istituzioni, dirigenti politici, lavoratori, giovani, studenti) aver ben presente i livelli dei problemi con i quali ci dobbiamo confrontare e ci dovremo confrontare, nel presente e nell’avvenire. La speranza che ci rimane è che non sia vera del tutto la citazione di Antonio Gramsci – celeberrima – con la quale si vuole chiedere questa nota: “L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari”.

  • La guerra perenne alle donne

    La guerra perenne alle donne

    Nelle ultime settimane sulla stampa ha fatto capolino qualche timido e sporadico accenno alle violenze su donne e bambini in zone dove si combattono guerre. L’Enunciazione, nazionale e internazionale, si presenta per lo più accusatoria, in relazione a questa o quella milizia, prescindendo dal riferimento alla tragedia collettiva che si consuma, da sempre, sul corpo delle donne. Il panorama divulgativo che si dispiega in questi termini è inesatto e fazioso, a ribadire un certo approccio informativo che di tutelante e/o esplicativo ha poco o niente, in continuità al paradigma dominante vocato all’odio e alla semplificazione estrema. Occupandomi di questioni di genere, nell’affrontare certi argomenti, sono esercitata a tenere conto di tutta una serie di variabili che il lettore medio non è tenuto a contemplare, pur essendo parte in causa di una comunicazione che rischia di ridursi ad una fattualità vuota, proprio perché, drammaticamente banalizzata e deplorevolmente enfatizzata.

    Opera senza titolo di Pamela Pucci – Pittrice, scultrice, Arte Terapeuta

    Le prime vittime delle guerre sono le donne

    Proviamo a definire i termini della questione in maniera meno scontata. Nel 2000 il Consiglio di sicurezza delle nazioni unite elabora la Risoluzione 1325 per esplicitare l’impatto maggiorato che le guerre hanno sulle donne. Alla luce dello scandalo afferente agli stupri etnici nei territori serbo-bosniaci – che ha visto i Caschi Blu rovesciare il ruolo delle cosiddette Missioni di Pace – gli attori internazionali hanno rivolto un’attenzione senza precedenti alle donne esplicitando il ruolo significativo che, proprio loro, hanno nella prevenzione dei conflitti. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché, proprio coloro che subiscono le guerre a livello più profondo, sono escluse dai negoziati di pace? Facciamo un passo indietro.

    Il riferimento ad una ricaduta impari delle dinamiche belliche a livello femminile passa, in primis, da una fisicità che, essendo preposta alla riproduzione, ha ispirato la declinazione dell’abuso in senso genetico. Se annientare il nemico significa debilitarlo in maniera quanto più profonda e irreversibile, qual è lo smacco identitario più profondo per chiunque? Cosa c’è di più temibile, per un popolo, della soppressione (sistematica) della propria discendenza?

    Da Gaza alla Siria, fino all’Ucraina, sono le donne a pagare il prezzo più alto durante le guerre

    I civili in mezzo ai conflitti

    Consideriamo poi che, in una retrospettiva basica, gli scontri bellici odierni si caratterizzano per le ricadute, quasi esclusive, sui civili, con quanto ne consegue. Domandiamoci ora: cosa fanno, gli attori coinvolti in guerra, per tutelare la popolazione da una violenza sessualizzata basata sul genere? Quanto ci è dato di apprendere dai canali news, lascerebbe pensare non ci siano contromisure di sorta rispetto ad uno dei tanti aspetti da considerare in contesto bellico.

    Privilegiando una prospettiva che si concentra sul presente, dichiaro subito che, a motivare questo moto argomentativo, è lo stupore personale rispetto alla non considerazione di un dettato sovrannazionale che, per una volta, si rivela estremamente adeguato all’analisi di un contesto che merita di essere concepito in tutte le sue specificità. Al netto della perplessità sull’assurdità di moti bellici odierni (che scarsa stima restituiscono ad un’umanità contemporanea, ahinoi, poco avvezza all’esercizio umanistico prima che umanitario) siamo tenuti ad una disamina onesta di quanto osserviamo, in relazione a quanto conosciamo in materia di diritti e tutele, in un panorama generale che pare riservare poco spazio alle vittime.

    Le guerre descritte come  “inevitabili”: Siria, Yemen, Ucraina e Gaza

    Dalla Siria allo Yemen, passando per l’Ucraina e senza dimenticare Gaza, come si dispiegano quelle azioni di confronto armato, che pure ci vengono presentate quali ineluttabili? Quali sono gli spazi discrezionali, in termini di riduzione del danno, all’interno dei quali, si sarebbe nella possibilità di agire, con ricadute non trascurabili a livello pragmatico e trasversale?

    Se come soggetti della società civile organizzata, preposti alla tutela di categorie portatrici di fragilità sociale, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo in termini dottrinali, come osservatori internazionali siamo consapevoli che, in una parentesi che si caratterizza per l’instabilità crescente dello scacchiere internazionale, la non importanza riservata ad alcune materie risulta preoccupante, oltre che peccaminosa.

    Le vittime abbandonate

    Nel denunciare l’imperdonabile disaffezione riservata alle donne, anche quando in evidente stato di oppressione generalizzata – quale è quella propria delle guerre – riteniamo importante fare un focus su una materia che ci vede attivi da molti anni, e che si ispira al perimetro della più importante tra le iniziative internazionali di genere. Raccontare la Women, Peace and Security Agenda ci permetterà di intervenire nel dibattito in maniera originale, ispirandoci ai valori che sono alla base del nostro impegno, primo tra tutti, la tutela dei diritti delle donne.

    Convinti come siamo che l’intera gamma dei diritti umani trovi la propria esaustività in una prospettiva di genere ancora sottodimensionata, ci impegniamo a dare visibilità ad un ambito, tanto di nicchia, quanto di interesse generale, per promuovere una causa la cui premessa maggiore sta proprio nello squilibrio argomentativo che la caratterizza.

    Le guerre non ridefiniscono solo i confini, ma perpetuano i soprusi, e donne e bambini sono coloro che ne subiscono di più

    La guerra è uno strumento per marcare i confini e perpetuare i soprusi

    La rubrica Donne, Pace e Sicurezza vuole esercitare il confronto tra quanti, convinti come noi che la guerra sia solo la modalità più (stolta e) rodata per perennare i soprusi e rimarcare i confini, non cedono allo sconforto, consapevoli che non arrendersi al presente vuol dire, prima di tutto, impegnarsi per cambiare le cose, partendo proprio da visioni marginalizzate, ma non superflue.

     

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

     

     

  • Appunti di una prof europeista e pacifista

    Appunti di una prof europeista e pacifista

    Non pensavo che saltando in groppa a Zeus finivo per trovarmi nel Parlamento Europeo di Bruxelles. Eppure è successo e ne sono orgogliosamente felice.
    Quando, da prof, decisi di occuparmi della storia dell’Unione Europea, pensai subito di iniziare dal mito della principessa Europa, la figlia del re di Tiro, che, ammaliata e rapita da Zeus – trasformato per l’occasione in un candido e mansueto toro – si ritrovò a rappresentare un ponte fra due mondi, l’Oriente e l’Occidente, e a dare il suo nome alle terre a nord del Mediterraneo, allo spazio geografico che secoli dopo Victor Hugo immaginava come Stati Uniti d’Europa messi di fronte agli Stati Uniti d’America, pronti a “tendersi la mano al di sopra dell’oceano, scambiare fra loro merci, prodotti, artisti, scienziati”.

    Ecco, questa è la mia idea di Europa: un confronto costante, un nutrimento reciproco fra civiltà, un arricchimento socio-politico-culturale per tutti. E questo è quello che ho scritto anche nel mio libro Sguardi sull’Unione Europea – Le slide raccontano edito dall’Associazione culturale Libraries Inside.
    Per dare maggiore forza al mio racconto, mi sono fatta aiutare anche da grandi della letteratura che mi fanno compagnia da sempre, e quindi, fra gli altri, Dante, che ci insegna ad abbassar lo sguardo – «adima il viso» – per porci a favore di altri punti di vista e capire ciò che ancora non ci è «discoverto»; Shakespeare, con la sua lezione di umanità che fa recitare accoratamente a Shylock; Cervantes, che ci propone di andare verso l’altro come forma di riscatto per ricercare sé stessi; Joyce, la cui intera produzione letteraria ci fa riflettere sul nazionalismo esasperato che porta solo distruzione e morte; Virginia Woolf, che si è impegnata tutta la vita per dare dignità alle donne; Marguerite Yourcenar che, attraverso il suo Memorie di Adriano, ci insegna a riflettere sul significato della riconciliazione tra passato, presente e futuro.

    Sguardi sull’Unione Europea, sperimentato in classe in più occasioni, attira l’attenzione degli alunni perché usa linguaggi diversi: oltre a quello storico-letterario, racconta il tema col linguaggio dell’arte, col linguaggio cinematografico e con quello musicale. Tutto ciò ha contribuito ad affermare la mia convinzione del perché essere europeisti, del perché l’Europa deve «diventare un sentimento», come sostiene Bono Vox degli U2, per vivere insieme nella nostra unica casa e annullare definitivamente la minaccia della guerra, ricordando Bob Dylan, se Dio è dalla nostra parte, fermerà la prossima guerra: è stato possibile per 80 anni, facciamo in modo che lo sia per sempre, insieme. D’altronde, come potremmo competere da singoli stati con giganti quali gli Stati Uniti, la Russia, la Cina? Riflettiamo sulle parole dei padri fondatori e delle madri fondatrici dell’Unione Europea e proviamo a non sprecare il nostro tempo, le nostre vite, a non considerarci numeri da sommare o da sottrarre nei bilanci della nostra quotidianità anonima: proviamo a sentirci persone e impariamo il rispetto reciproco. Agiamo come il capitano del film del 1983 E la nave va di Federico Fellini, quando deve spiegare ai ricchi viaggiatori della sua nave la presenza di altre persone a bordo: le loro zattere si stavano rovesciando. Raccogliere queste donne, questi bambini, queste famiglie disperate, era un dovere al quale non potevo sottrarmi.

    Tutto questo ho avuto il piacere di raccontarlo anche in un’aula del Parlamento Europeo di Bruxelles il 18 marzo scorso, sostenuta e incoraggiata da cinque miei alunni, ragazzi dell’Europa, anche loro con gli occhi e il cuore pieni di passione per la conoscenza e per il bello. Nonostante la stanchezza di una giornata intensa, l’aula del Parlamento Europeo a noi destinata, gremita soprattutto di giovani delle scuole del meridione d’Italia, era comunque attenta e desiderosa di ascoltare: il mio discorso si è rivolto soprattutto a loro, come sempre nel mio percorso di insegnante ormai da decenni, un discorso che vuole avere il sapore della speranza, dell’unione tra forze che insieme possono. Il racconto si è posato anche sul Manifesto di Ventotene, un esempio di progetto di costruzione in un periodo di assoluta distruzione; ho ricordato anche la fondazione della casa editrice Einaudi, nata proprio nel momento in cui la censura offendeva il pensiero libero dei giovani che vissero nel periodo fascista, e ho rievocato il recupero di alcune delle opere d’arte confiscate dalla furia ossessiva di Hitler grazie alla conoscenza della lingua tedesca da parte di una impiegata francese che sente e annota sul suo diario quanto basta per dire “anch’io ho fatto la mia parte”.

    E, a proposito della conoscenza delle lingue e della sua importanza, che bello poter assistere a come si lavora nel Parlamento Europeo con 24 lingue diverse! Un esempio concreto di diversità come ricchezza, non certo come ostacolo, input da lingue di partenza che si trasformano in output di nuova derivazione linguistica, un lavoro eccezionale oggi reso più semplice grazie alle tecnologie di ultima generazione le quali comunque, non dimentichiamolo, sono sempre affiancate dalle competenze straordinarie di traduttori professionisti, ognuno dei quali conosce perfettamente dalle quattro alle otto lingue almeno.
    Facciamo quindi in modo che, nei luoghi della democrazia per eccellenza, negli spazi che danno alla parola (da qui Parlamento) il suo giusto ruolo di protagonista, si avviino discorsi di costruzione fra le parti all’insegna di una identità comunitaria propositiva che vuole continuare a vivere in pace e vuole impegnarsi a risolvere quelle mancanze, quelle incompiutezze che ancora oggi oppongono resistenza al sogno di un’unione europea libera, democratica, sicura.
    L’Unione Europea, oggi più che mai, è come il pugile in difficoltà nel quadro Taking the Count di Thomas Eakins: ognuno nella propria parte deve aiutarlo ad alzarsi e, con dignità, deve portarlo alla vittoria.

    Fabiola Salerno

    Docente liceale di Lingua e letteratura inglese 

  • San Luca, il paese al quale si vuole levare ogni forma di redenzione

    San Luca, il paese al quale si vuole levare ogni forma di redenzione

    Non c’è due senza tre. È di queste ore la notizia del provvedimento di scioglimento del Consiglio Comunale di San Luca per infiltrazioni mafiose. Un atto che si va ad aggiungere al commissariamento preventivo della Fondazione Corrado Alvaro attuato dalla Commissione di Controllo della Prefettura di Reggio Calabria e, ancora prima, a quello assunto dopo che alle scorse elezioni amministrative determinate dalle dimissioni dell’ex sindaco Bartolo, nessuno aveva presentato candidature per guidare il comune aspromontano.

    San Luca, il paese condannato a essere ‘ndrangheta

    A San Luca pare tutto essere ‘ndrangheta, mala gestione, omertà, terrore. È ‘ndrangheta il Consiglio Comunale intriso di infiltrazioni malavitose. È mala gestione la Fondazione Corrado Alvaro accusata di ipotesi di default da imputarsi a costanti perdite di esercizio, a iniziative culturali episodiche e circoscritte, a limitate garanzie di onorabilità e indipendenza dei suoi consiglieri di amministrazione. È omertà e terrore l’assenza di candidati sindaco alle ultime elezioni. San Luca sarebbe lo specchio di quella peggiore Calabria che Corrado Augias ha definito “terra perduta”.

    Corrado Alvaro. La Fondazione che curava il suo patrimonio culturale è stata commissariata.

    Oppure si fa di tutto per appioppargli un marchio di infamia per antonomasia che, alla luce delle cronache di oggi, è direttamente proporzionale al fallimento dello Stato. Lo ha detto chiaramente Bartolo ai microfoni dell’Ansa: «Non ha avuto seguito, in sostanza, la promessa fatta dall’allora prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, secondo la quale lo Stato ci sarebbe stato vicino, invitando a candidarci. Ma così non é stato».

    La Fondazione Alvaro commissariata

    Lo indicano diversamente le controdeduzioni presentate alla Prefettura di Reggio Calabria dalla Fondazione Corrado Alvaro che dimostrano un’incessante attività scientifica e di ricerca svolta in anni in cui non un solo euro di fondi pubblici è stato sovvenzionato ad un ente che ha rappresentato un presidio culturale e di legalità universalmente riconosciuto.

    La Casa di Corrado Alvaro a San Luca

    Germogli di fiducia decapitati

    Spesso provvedimenti prefettizi e vie giudiziarie (ben vengano quando c’è di mezzo la lotta vera alle ‘ndrine) producono macerie. E queste macerie sono territori e comunità dove lo Stato decapita germogli di fiducia, presidi di cultura, tentativi di rinascita. Succede in Aspromonte e in  tutta la Calabria. Si ha allora la percezione che lo Stato a volte agisca in nome di logiche sommarie: da una parte omettendo le buone prassi di una necessaria mediazione dei conflitti; dall’altra puntando sul legalitarismo: un certo cieco oltranzismo nell’applicazione di procedure di bandiera cui non segue una commisurata prossimità umana, sociale e culturale delle istituzioni.

    Una punizione senza margine di redenzione. E l’impressione che l’onta di certe parentele e di una pur remota consanguineità con ambienti malavitosi vada lavata sacrificando quei territori e quelle comunità. La storia continua a ripetersi, in un remake sempre uguale, troppo spesso basato su ipotesi. Come nell’impianto accusatorio del provvedimento di scioglimento preventivo della Fondazione Alvaro. Un passo oltre c’è il crollo di ogni forma di patto sociale.

    Il Parco nato come una opportunità

    Quando l’Aspromonte uscì dalla stagione dei sequestri camminatori, amministratori e forze dell’ordine, procedendo insieme diedero vita al Parco Nazionale, oggi conosciuto in tutto il mondo per le risorse naturalistiche e culturali che contiene e per l’accoglienza che riserva a un numero sempre maggiore di trekker e biker che vengono a visitarlo.

    Il punto di forza delle azioni legate alle attività e all’offerta del Parco e all’acquisizione del riconoscimento Geosito Unesco fu questo: non negare un passato drammatico o condizioni complesse, ma trasformare quei punti di debolezza in punti di forza. Un consiglio e un monito per scongiurare ordalie rigide, cieche e deterministiche.

     

  • Carchidi e quel pomeriggio di un giorno da cani

    Carchidi e quel pomeriggio di un giorno da cani

    Un pomeriggio di un giorno da cani a Cosenza. Non è il titolo del bel film di Lumet, ma davvero non sapremmo come definire quanto avvenuto a un cittadino, Gabriele Carchidi, che, senza manifestare alcun atteggiamento minaccioso, è stato trascinato a terra e ammanettato da quattro poliziotti in via degli Stadi.
    La scena è stata ripresa da un balcone e il video è diventato, come accade in questi casi, virale.
    La sequenza genera indignazione e, pur nelle abissali differenze, somiglia a certe scene viste negli Stati Uniti che hanno innescato il movimento Black Lives Matter.

    Trascinati su quel marciapiede c’erano i diritti di tutti

    Gabriele Carchidi è  giornalista e direttore di Iacchitè. E vederlo a terra con la schiena scoperta e bloccato come un criminale non è stato uno spettacolo edificante. Cosenza è stata attraversata sin da subito da un moto diffuso di indignazione.
    La scena restituita dal video è inquietante e non mostra solo un corpo trascinato per terra. Lì non c’era solo una persona, c’erano i diritti che ci illudevamo riconosciuti e rispettati. L’uso della forza è parso subito spropositato e particolarmente sgradevole. Un trattamento di solito riservato a chi commette reati di una certa gravità.

    Gabriele Carchidi

    I fatti, i dubbi e il rispetto della dignità delle persone 

    Dal punto di vista della banalità dei fatti, pare che Gabriele Carchidi si fosse rifiutato di fornire i documenti. Su quale sia stata davvero la dinamica della storiaccia resta però qualche dubbio. Intanto Cosenza (e non solo, visto che il caso è ormai nazionale) si aspetta una spiegazione, perché indossare una divisa significa rispettare la dignità di ogni cittadino. Bisognerebbe leggere qualche paginetta del buon vecchio John Locke, per il quale lo Stato non elimina la libertà, né se ne impossessa, ma la difende. Più o meno come dice la nostra Costituzione.

  • Carchidi, chi era costui?

    Carchidi, chi era costui?

    Carchidi, chi era costui? Viene da scomodare Manzoni nel tentativo di analizzare il fermo del direttore di Iacchitè da parte della polizia cittadina e le relative immagini, passate in poche ore dalle chat su Whatsapp alla ribalta delle testate nazionali (molto meno di quelle locali). Siamo a Cosenza in via degli Stadi, Gabriele Carchidi è a terra, quattro agenti su di lui. Lo bloccano con modalità che a qualcuno hanno ricordato quelle fatali per George Floyd. La causa? Avrebbe rifiutato di farsi identificare, rendendo necessario secondo i poliziotti portarlo in questura – con le buone o con le cattive – per chiarire davvero chi fosse.
    Stando alle cronache, lo accusano di resistenza a pubblico ufficiale; a sua volta promette denunce per il trattamento ricevuto. La Procura ha aperto un fascicolo, Avs preannuncia un’interrogazione parlamentare.

    Ma chi è Carchidi? Difficile che a Cosenza qualcuno non lo sappia o non abbia un’opinione su di lui. Il ventaglio dei pareri è piuttosto ampio, come dimostrano i commenti che a centinaia hanno accompagnato la notizia sui social network. In estrema sintesi: si va dal bugiardo alla bocca della verità, dal diffamatore seriale all’eroico baluardo della libera informazione. Sono rare le mezze misure nel valutare ciò che appare sul sito che ha fondato, il più letto di nascosto della città (e non solo).
    Ancor più rare quelle utilizzate nei suoi scritti, che pure alla Questura – ubicata a pochi metri dalla sede di Iacchitè – hanno dedicato ampio e non sempre lusinghiero spazio. Senza dubbio più frequenti, invece, i suoi contatti con la polizia cittadina, non fosse altro che per la montagna di querele notificate in redazione dalle forze dell’ordine.

    Carchidi chi?

    Ed è qui che dovrebbe stare il punto fondamentale della vicenda, non nel proprio gradimento rispetto ai contenuti di Iacchitè. È più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che qualcuno che lavora in Questura a Cosenza non conosca (e riconosca) Carchidi. Potrebbe forse capitare a qualche agente in città da pochi giorni, magari ai due «giovani» di cui si legge nella ricostruzione dell’Agi. Ma che quattro di loro (finanche uno coi capelli bianchi) abbiano bisogno di documenti – o delle semplici generalità, sufficienti a qualsiasi cittadino in situazioni normali – per appurare che chi hanno davanti sia davvero lui a molti è apparso meno probabile di una promozione del derelitto Cosenza in Serie A a fine stagione. E suscita domande.

    Perché trascinarlo a terra? Perché ammanettarlo? Accantonando ogni dietrologia, giornalista o meno, Carchidi era un semplice cittadino a passeggio. La necessità di risalire alla sua identità con la forza lascia più di un dubbio che chi di dovere farebbe bene a chiarire prima possibile.
    E se domani dimenticassi i documenti a casa e succedesse anche a te?

  • La realtà manipolata nell’era del Deepfake

    La realtà manipolata nell’era del Deepfake

    Il concetto di realtà è qualcosa di molto più sfumato di quanto non ci piaccia credere: i nostri sensi ci ingannano, la nostra memoria riscrive e riorganizza i ricordi e, talvolta, ci induce a rimuovere episodi traumatici. La nostra percezione degli eventi varia in base alla nostra prospettiva. Potremmo dire che il  nostro rapporto con il reale è mediato dalla nostra esperienza del mondo o da quella che ci viene trasmessa in varie forme e attraverso vari mezzi. Esiste, però, una netta differenza tra ricostruzioni soggettive del reale e falsificazione della realtà.
    La prima è un processo inevitabilmente legato alla fallacia umana, la seconda è un’arma di influenza sociale e politica. E i deepfake ne sono un esempio evidente.

    Bugie, algoritmi e manipolazione della realtà

    La manipolazione della realtà non è un fenomeno nuovo né esclusivo della nostra epoca storica: basti pensare alla falsificazione di documenti e reperti storici, alla propaganda politica dei regimi novecenteschi o al fenomeno delle fake news sui social media attraverso cui si manipola l’opinione pubblica. Ciò che cambia oggi è la portata della manipolazione e la velocità con cui essa può essere diffusa.
    Una delle espressioni più sofisticate di questa tendenza è rappresentata, appunto, dai deepfake.
    Essi nascono dall’unione del deep learning e della generazione di contenuti falsi: algoritmi come le Generative Adversarial Networks (GAN) apprendono dai dati visivi e vocali per creare immagini, video e audio di altissimo realismo, sovrapponendo voci e volti reali su foto o video mai scattati o ripresi.

    Arte e porno

    Questi strumenti trovano interessanti applicazioni nella sfera della produzione artistica, ricostruendo volti storici o permettendo di girare film ringiovanendo o invecchiando gli attori. Allo stesso tempo possono essere usati come strumenti di potere.
    Il fenomeno non è trascurabile: dalle analisi realizzate da Security Hero emerge un aumento del 550% dei deepfake online tra il 2019 e il 2023, anno in cui sono stati diffusi 95.820 video di questo tipo. Ma qual è lo scopo principale per cui sono realizzati? Campagne di disinformazione politica? Intrattenimento? No. Il 98% dei video deepfake online è di natura pornografica e il 99% dei soggetti usati per la realizzazione di questi video sono donne.

    Deepfake in Calabria: il caso di Acri

    Ci scandalizziamo per la pornografia? No, ma ciò che deve allarmarci è l’assenza di consenso esplicito per la creazione di tali contenuti. Un caso emblematico si è verificato alla fine di febbraio 2025 ad Acri, nel cosentino.
    Un’inchiesta della Procura di Cosenza, avviata grazie alle denunce di alcuni genitori, ha portato alla luce un grave fenomeno di manipolazione digitale: più di 1.200 foto di adolescenti, principalmente ragazze, sono state alterate tramite intelligenza artificiale per creare contenuti a sfondo sessuale, poi diffusi su Telegram.
    Le foto originali erano foto quotidiane, non diverse da quelle che molte e molti di noi postano sui social o inviano su gruppi di compagni di scuola o colleghi. L’indagine ha coinvolto oltre 200 minori e ha avviato perquisizioni informatiche per identificare i responsabili. Le accuse che potrebbero includere la diffusione di materiale pedopornografico.

    Una veduta di Acri

    Uso dell’immagine e social

    Il problema dei deepfake si radica profondamente nella violazione del consenso, sollevando interrogativi cruciali: chi ha il diritto di decidere come e in quali contesti la propria immagine venga utilizzata?
    Il deepfake rappresenta una forma di violenza simbolica, che si avvicina per impatto e dinamiche, al reato di stupro. In entrambi i casi si tratta di un esercizio di potere, esercitato ai danni di chi subisce questo abuso, e la mancanza di consenso priva l’individuo del controllo sulla propria identità, sia essa fisica o digitale, e nega la possibilità di scegliere rispetto al proprio corpo.

    Inoltre, la diffusione non consensuale di materiale intimo assume una nuova dimensione con i deepfake: non è più necessario che esistano immagini intime reali per compromettere la reputazione di una persona, è sufficiente creare contenuti falsi ma credibili. La creazione di contenuti pornografici non consensuali, che sfruttano il volto delle donne, è una manifestazione di violenza di genere che perpetua la cultura dello stupro. Come l’invasione fisica del corpo, il deepfake manipola l’immagine personale trasformandola in un oggetto e negando alla vittima il diritto fondamentale all’autodeterminazione. Questo fenomeno non è solo una questione tecnica, ma un attacco diretto all’identità e alla soggettività delle donne e può essere visto come una manifestazione digitale della violenza sessuale.

    Vittime dei deepfake senza tutele

    Ma quali tutele ci sono per le vittime? La natura stessa dei deepfake rende complessa la loro regolamentazione. In Italia non esiste una legislazione specifica che affronti direttamente il fenomeno dei deepfake. In assenza di una normativa ad hoc, si fa riferimento a leggi esistenti, come quelle sulla diffamazione e sulla violazione della privacy, per perseguire legalmente gli autori di deepfake dannosi.
    A livello europeo la situazione non differisce molto: sebbene si riconosca l’esigenza di regolamentazioni specifiche, che tutelino l’integrità degli individui rendendo l’uso di questi strumenti più trasparente e responsabile, la rapida evoluzione dei deepfake richiede un approccio legislativo flessibile. L’intervento dei governi, tuttavia, rischia di non essere sufficiente senza la collaborazione delle piattaforme su cui i deepfake sono diffusi.

    Francesca Pignataro

  • Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla.
    Da quando me ne ricordo, senza scomodare storiografie che mi sciorinerebbero come da sempre funzioni così, la musica è identitaria, una bandiera tribale. Noi giovani vs genitori e umarell vari, innanzitutto, che all’epoca non avevano etichette stile zeta o millennial, divisi semmai fra quelli che avevano fatto la prima o la seconda guerra, e tutti aspettavano Canzonissima del sabato sera. E poi sorcini, baglionisti e quelli dei Pooh. Canzoni spesso dedicate con tanto amore sulle radio libere da una qualche stella di periferia ad un Marco, anche lui di periferia.

    Roba da disimpegnati un po’ coatti per quelli che noi solo cantautori, ma non tutti, perché Battisti è di destra, salvo ascoltarlo di nascosto. Canticchiandolo pure, ma a voce bassa, per placare quel senso di colpa che tutto vede e tutto sa. Per non parlare del dissing antesignano fra Venditti e De Gregori, con relative tifoserie, e tanto di “scusa Francesco” per un lieto fine da amici antichi. Poi, come canta proprio quello di Rimmel, “elleppì” anche lui ormai cinquantino, a un certo punto ti volti a guardarli, quei tuoi anni. E non li trovi più.

    Brunori: Sanremo 2025 o Frittole?

    Nel frattempo, senza neanche accorgertene, hai perso il contatto, fino allo smarrimento di chi si ritrova catapultato alla Benigni & Troisi nella Frittole del Sanremo 2025. Un mondo dove gli umani, per noi che i Jalisse erano già un’eversione, ma di quelle innocue da sorriso «per pazzi sprasolati e un poco scemi», hanno nomi da esercizio di fantasia un tempo riservato ai pet: Rkomi, Irama, Shablo, e via a chi la spara più sorprendente, fino al Tormento.

    So bene, in qualità di sessantenne a rischio ‘signora mia dove andremo a finire’ di dovermi stoppare qui, risparmiandomi tutta la manfrina sulla fenomenologia di costume, ma…
    Sarà pur vero che ogni epoca ha le sue liturgie, e che con gli anni capita sempre più spesso che ti frulli per la testa quel ritornello dei Rem che fa «it’s the end of the world as we know it», ma il vizio antico di sentirsi parte di qualcosa non muore mai.

    Uno normale

    È il bisogno di identità, bellezza, direbbe qualcuno. Già, l’identità, quella cosa che ti fa sentire protetto, al sicuro delle tue certezze quando diventa faticoso inseguire il mondo, e decidi che “sì, io mi fermo qui”.
    Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla. «Cazzo, uno “normale”!», ho pensato nel vederlo cantare su quel palco in giacca elegante quanto basta e chitarra! Venghino signori, venghino, non c’è trucco e non c’è inganno!

    Anche qui, so bene che nel dizionario, peraltro molto a rischio, woke il termine normale è fastidiosamente avvertito come sinonimo di una qualche forma di conservatorismo, e che necessita pertanto di una dichiarazione di accezione. Ebbene, nel mio personalissimo, quanto insindacabile dizionario, normale sta per privo di orpelli ed eccessi, in sintonia con la propria natura, che si esprime senza cedimenti al mainstream. Il che non vuol dire che in quanto artista l’uomo non promuova se stesso, ma in maniera percepita come espressione di un autentico sé. Comunque, roba rara, qui a Frittole.

    Tutto ciò confermerà probabilmente da quale parte della storia mi trovi, un vecchio grumpy insensibile all’edonismo griffato a tanto ad apparizione del Sanremo System, con un certo fastidio per gli epigoni a cascata. L’indizio da terzo posto è comunque quello di essere in tanti, non solo televotanti, e certo, mi fa anche molto piacere, come un friccico ner core, l’illusione di essere calabrese come lui.

    Attilio Lauria

  • Grande città, grande bottino

    Grande città, grande bottino

    Ci avviamo rapidamente verso il referendum più farlocco della storia dei referendum, costruito apposta da chi vuole che prevalga il Sì disinnescando ogni remota possibilità che le cose vadano diversamente dai loro desideri. Senza il quorum, levato per eliminare le conseguenze di una scarsa adesione al voto, che comunque è solo consultivo quindi privo di un autentico potere decisionale, ci chiamano a decidere se unire il capoluogo a Rende e Castrolibero dando vita alla grande Cosenza. I cosentini, dentro questa visione sbagliata, potrebbero dare sfogo al loro ancestrale campanilismo e cedere alla tentazione  di scrivere Sì, mentre i cittadini di Rende e Castrolibero sembrano comprensibilmente piuttosto resistenti a questa idea di allargamento che sa di conquista. A vincere alla fine sarà solo quella casta che vuole famelicamente allagare il territorio da controllare. Si tratta di un grumo di potere trasversale e da parecchio egemone in città e nella Regione, responsabile, in maniera diretta o indiretta, di alcune delle maggiori sciagure toccate in sorte ai Calabresi, dallo sfacelo della Sanità, al dissesto del Comune di Cosenza, all’impoverimento materiale e immateriale della popolazione.

    I miti della modernità e del progresso

    Le facce e i nomi sono lì da un tempo così lungo che potrebbe dare l’illusione dell’eternità. Attorno a loro ci sono vecchi vassalli e nuovi sacerdoti chiamati a magnificare le gesta e le idee di chi sta al comando. Nemmeno le parole d’ordine da usare contro chi prova a spiegare le ragioni del No sono particolarmente innovative, infatti il processo di unificazione viene maldestramente annunciato come un ineludibile passo verso la modernità, una tappa dell’urgente progresso che condurrebbe nella direzione della buona amministrazione dei territori. Concetti espressi da chi ha governato e governa da tempo e che fanno accapponare la pelle. Eppure le idee di città “grande”, di metropoli, come luoghi ottimi dell’abitare sono declinate da tempo, lasciando lo spazio alla salvaguardia del “piccolo”, della città maggiormente a dimensione di cittadini, con servizi rapidamente fruibili  e spazi goduti. I cosentini che non vedono l’ora di votare Sì commetterebbero un errore a immaginare un potenziamento della loro città. Cosenza a seguito della unificazione dei comuni rischia di essere destinata a una marginalità tale da condannarla a un ruolo infimo.

     Cosenza  e il rischio di diventare periferia

    A causa della necessità di rendere maggiormente baricentrica la nuova creatura urbana, Cosenza potrebbe perdere molti dei servizi fondamentali e anche le residue realtà economiche migrerebbero verso territori maggiormente attraenti e vantaggiosi, accelerando lo spopolamento del capoluogo. Non c’è chi non veda come Rende appaia da subito il luogo dove si concentreranno le attenzioni della speculazione edilizia, anche se già adesso sono numerosissime le abitazioni vuote. Dietro la potente volontà del Sì manca tuttavia una rigorosa programmazione, dentro le 481 pagine dello studio di fattibilità – leggerle tutte è una sfida titanica – ci sono solo buone intenzioni senza il sostegno di dati reali, tanto che al confronto la Città del Sole di Campanella sembra meno utopica e comunque sarebbe più bella. E nemmeno i conti degli ipotetici vantaggi economici sembrano avere concretezza reale, ma piuttosto l’evanescenza del desiderio. La percezione dominante è che andranno a votare in pochi e che di misura prevarrà il Sì.

    Una nuova città fatta per i cittadini, non per la speculazione.

    A questo punto sarà necessario che si avvii un ragionamento su come i cittadini possano davvero esercitare una qualche forma reale di potere, oltre quello mistificatorio e privo di valore del referendum. Costruire una città nuova, fatta da persone e non solo palazzi, magari prendendo in prestito l’idea di diverse municipalità, non esattamente forme di decentramento, ma di governo diretto di aree più piccole dentro un macro territorio.  Le città o sono lo spazio dei cittadini, oppure sono il luogo del mercato. Nel primo caso vincono le persone, nel secondo vince il saccheggio.

  • Elezioni europee: la marea nera che non c’è stata

    Elezioni europee: la marea nera che non c’è stata

    Nelle elezioni europee delle scorse settimane si è indubbiamente registrato, in diversi paesi, un successo delle formazioni di destra, ma siamo anche sicuri che l’8 e il 9 giugno scorsi si sia realizzata in Italia una grande avanzata delle destre e che, di conseguenza, il governo Meloni nel suo insieme, cioè nella somma dei voti dei partiti che lo compongono, abbia conquistato maggiori consensi rispetto alle elezioni precedenti? La risposta a questa domanda è di capitale importanza in questo particolare momento della vita democratica, in quanto è proprio sul presupposto di un trionfale consenso ricevuto a sostegno delle proprie strategie che poggia l’offensiva, da parte delle forze di governo, a sostegno di due importantissime leggi di riforma (quella sul premierato e quella sull’autonomia differenziata), attualmente in via di approvazione.

    La Costituzione modificata

    Queste due riforme modificano in profondità la Costituzione scritta (con riferimento ai poteri del Presidente del Consiglio e, di conseguenza, all’intero sistema di equilibrio tra i poteri che i Padri Costituenti hanno posto a caposaldo della nostra democrazia) e la Costituzione materiale (nella parte che, richiamando la Costituzione scritta, garantisce attraverso le leggi normali la redistribuzione delle risorse tra le aree più sviluppate e quelle meno sviluppate dell’Italia e, di conseguenza, in nome del diritto alla salute, la parità di trattamento per ogni cittadino italiano, veneto o calabrese, nell’essenziale settore dei servizi socio-sanitari). La risposta corretta alla domanda posta ha a che fare con la legittimità sostanziale che deriva (o meno) a un governo e a un progetto di riforma di rilievo costituzionale dal consenso popolare fornito dagli elettori, cioè dal popolo sovrano. Riguarda quindi la lettura completa e corretta, anziché parziale, incompleta e in definitiva fuorviante, dei risultati elettorali.

    I dati elettorali interpretati male

    La distorsione nella lettura del dato elettorale, nel caso di queste elezioni, riguarda: a) la correlazione evidente, eppure omessa o sottovalutata, tra il partito del non voto (che nel 2024 ha superato il 51% dell’elettorato complessivo) ed il voto espresso a favore dei partiti di maggioranza e di opposizione; b) la comparazione con i risultati delle elezioni precedenti. In entrambi i casi, possiamo facilmente constatare che i commenti hanno ignorato il quadro complessivo, che risulta dal confronto tra voto e non voto e tra elezioni successive, supponendo erroneamente il trionfo elettorale di Meloni & C in queste elezioni, mentre le cose sono andate in maniera completamente differente, in quanto queste forze hanno subito un evidente arretramento. Punto a): gli astensionisti, quando superano un certo numero (o, come oggi, diventano addirittura maggioranza assoluta) decidono indirettamente chi vince e chi perde, perché modificano di fatto le regole abituali del gioco elettorale. Infatti, diamo solitamente per scontato che, in una democrazia, i vincitori e gli sconfitti in una competizione elettorale siano l’espressione del popolo sovrano che, a larga maggioranza, esprime le sue scelte tra le liste in competizione.

    Se a votare ci va un minoranza

    Cosa accade, viceversa, quando a votare è soltanto una minoranza degli aventi diritto? Facciamo un esempio per intenderci: può accadere che, pur con una percentuale di consensi assai bassa (magari uguale al 10-12% dell’intero elettorato), un leader che sappia compattare al suo fianco alcune altre liste capaci di ottenere nel loro insieme più o meno la stessa percentuale di consensi (diciamo un 10-12% all’incirca, così da raggiungere insieme un 20-24% sul totale del corpo elettorale), abbia comunque più consensi di una opposizione divisa (non si dimentichi il peso derivante dalla capacità di saper utilizzare al meglio le tecniche di calcolo elettorale nella formazione delle liste, come pure il peso delle schede bianche e nulle), raggiunga così la maggioranza relativa, conquisti in tal modo la forza per governare lecitamente, pur rappresentando nei fatti, con la sua intera coalizione, la miseria di 1 cittadino su 5 o poco più. Guarda caso, l’insieme delle formazioni riconducibili all’attuale governo (FdI, FI, Lega) ha raggiunto pochi giorni fa solo il 22% dei consensi dell’elettorato italiano, che è composto da 51 milioni di cittadini. Rappresenta, pertanto, 11 dei 51 milioni di italiani chiamati alle urne. Si obietterà: ma l’8 e il 9 giugno si è votato per l’Europa, che c’entra con il governo? C’entra moltissimo, perché la Premier ha personalizzato e “nazionalizzato” tantissimo la campagna elettorale, appunto sottolineando che era a caccia dei consensi necessari per portare a compimento le sue riforme. E cosa ci dice la comparazione tra il recente voto europeo con i risultati dei partiti di centro-destra nelle elezioni politiche del 2022 e in quelle europee del 2019? Si tratta di elezioni molto differenti tra di loro per vari motivi, quindi la comparazione ha un valore solo indicativo, ma è comunque assai utile.

    I dati a confronto

    Veniamo ai dati: nelle europee del 2019 i partiti italiani di centro destra (CD) ottennero, nel loro insieme, 13 milioni e 225 mila suffragi (votò il 54,5% dell’elettorato; il CD ottenne il 49,4% dei votanti effettivi e quasi il 25% dell’elettorato completo; si registrò l’exploit di Salvini e della Lega, che superò il 34,2% dei consensi, mentre FdI ottenne il 6,4%). Nelle politiche del 2022 la stessa coalizione ottenne nel complesso 12 milioni e 300 mila suffragi (votò il 63,9% degli aventi diritto; il CD ottenne il consenso del 44% dei votanti, pari al 27% dell’elettorato totale, si realizzò l’exploit di Fratelli d’Italia, che raggiunse il 26%, e il flop della Lega, con l’8,8%). Nelle europee del 2024 le stesse forze politiche, complessivamente, hanno ottenuto 11 milioni di voti (1 milione e 300 mila voti in meno rispetto al 2022, oltre 2 milioni di consensi in meno rispetto al 2019), pari al 47% dei votanti e al 22,7% dell’elettorato totale; FdI è risultato il partito più votato, con il 28,8% dei consensi espressi, pari al 13% dell’elettorato intero. Questi sono i numeri reali: altro che avanzata! Nel trionfo dell’astensionismo, il centro destra contiene le perdite restando unito e redistribuendo i voti in diminuzione soprattutto al suo interno; il centro sinistra, viceversa, perde voti e si divide autolesionisticamente. Il popolo rinuncia in maggioranza ad esercitare il suo potere sovrano, l’elettorato latita, la democrazia si dimezza.

    Legittimità a governare e legittimità a cambiare le regole della democrazia

    In conclusione: il governo Meloni ha pieni e legittimi titoli per governare e proporre riforme, in questa grave crisi della democrazia? Senza dubbio, sì. Gode di un consenso elettorale così ampio da fornirle la legittimità popolare necessaria per cambiare le regole costituzionali? Senza dubbio, no. Anzi, si intravede una pericolosa distorsione del principio democratico: la legittimità popolare scarseggia ed a questo problema radicale, invece che con il buongoverno e con il recupero del popolo sovrano alla partecipazione, si vuole rispondere rendendo il potere politico più autoreferenziale, lontano, verticistico.

    Antonio Costabile

    Università della Calabria