Categoria: Opinioni

  • Gioia Tauro, un porto che serve a tutti tranne alla Calabria

    Gioia Tauro, un porto che serve a tutti tranne alla Calabria

    Il porto di Gioia Tauro nasce da una tragedia italiana, vale a dire dal fallimento abortivo nella costruzione del quinto centro siderurgico nazionale. Tutto cominciò con l’invettiva “boia chi molla” dei fascisti a Reggio Calabria. Serviva dare anche una risposta politica a quella rivolta. E la costruzione della grande fabbrica era esplicitamente presentata come una misura compensativa rispetto alla scelta di Catanzaro come capoluogo della Regione.

    L’affare del secolo

    Altre promesse mai mantenute erano contenuto nel cosiddetto “pacchetto Colombo”.
    Il giorno della memoria della Resistenza, il 25 aprile 1975, l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, pose la prima pietra di una fabbrica che non nascerà mai. Ma fu, in compenso, un affare del secolo per i mammasantissima, proprietari per gran parte di quei 300 ettari di terreni nella Piana, che lo Stato espropriò a valori stratosferici.
    Al servizio dello stabilimento siderurgico mai nato si costruirono cinque chilometri di banchine portuali. Poi non successe più nulla. Tutto rimase nell’abbandono più totale e desolante: sino al 1993 non attraccò neanche una nave. Edoardo Scarpetta avrebbe detto, parafrasando Gabriele D’Annunzio, neanche ’o vuttazziell ‘e zi Nunzio.

    L’ombra delle ‘ndrine

    Angelo Ravano, un brillante imprenditore marittimo genovese, comprese che quella risorsa infrastrutturale – rimasta senza alcuna utilizzazione – si adattava perfettamente alle dinamiche del traffico commerciale emergente, vale a dire i collegamenti navali transoceanici tra Asia ed Europa.
    Sin dall’inizio delle attività, il porto è stato tenuto sotto scacco dalle cosche Piromalli e Molè. La Commissione parlamentare antimafia – nel febbraio del 2008 – ha concluso che la ‘ndrangheta «controlla o influenza gran parte dell’attività economica interna al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale».

    Eppure, nonostante i pesanti condizionamenti della criminalità organizzata, Gioia Tauro, a cavallo tra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, si è conquistata un posto nelle rotte della globalizzazione. Poi, per una parentesi durata un decennio, anche il ruolo di snodo nelle grandi rotte delle navi portacontenitori è entrato in crisi. Il gestore del terminal container ha bloccato il piano di investimenti necessario per mantenere e rilanciare la competitività.

    I rischi di un’unica vocazione

    Questa paralisi di recente è stata superata, con il cambio nell’asseto proprietario della società che gestisce il terminal. E nel 2020, nonostante la crisi, il porto di Gioia Tauro è tornato a superare la soglia dei 3 milioni di teu. Va bene così? Siamo tornati su un corretto tracciato di sviluppo? La mia risposta è negativa, per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, il porto Gioia Tauro non ha mai superato la caratteristica monovocazionale, vale a dire la assoluta dipendenza dal solo traffico di transhipment dei contenitori. Si tratta di un posizionamento rischioso. Se cambiassero le convenienze del mercato, ci si mette un attimo a perdere tutto il traffico, come ha dimostrato l’esperienza recente del porto di Taranto.

    Hinterland e trasbordo

    Le navi impiegano nulla a virare la prua e andare dove si dovessero manifestare convenienze economiche maggiormente interessanti. Oltretutto parliamo di un posizionamento in un segmento di mercato a basso valore aggiunto per il porto che gestisce questa attività.
    Ma soprattutto il porto non parla al territorio della sua Regione. Arrivano le grandi navi portacontenitori, si effettuano le operazioni di riordino sulle banchine e partono le navi di minore dimensione per le destinazioni finali dei container. Nel gergo marittimo si distingue tra container “hinterland”, destinati o in origine dal territorio circostante al porto, e container di “trasbordo”, che non escono dalla cinta daziaria e vengono movimentati solo per il transito da una nave madre ad una nave figlia.

    I container “hinterland” per il porto di Gioia Tauro sono pari a zero, mentre tutto il traffico gestito riguarda i container di “trasbordo”. Il valore aggiunto per il territorio regionale è praticamente nullo, se si esclude l’attività all’interno del porto stesso, che consiste sostanzialmente nel riordino dei contenitori da una nave di dimensioni maggiori verso le navi “feeder”, che portano la merce alla destinazione finale.

    Nessuna ricaduta

    Qualche numero ci può aiutare meglio a comprendere il ragionamento sul destino di Gioia Tauro, sostanzialmente sganciato dalle dinamiche del territorio regionale calabrese. Se consideriamo il traffico commerciale nella sua interezza, prendendo in considerazione tutte le tipologie di merci movimentate, Gioia Tauro è completamente assente nei segmenti delle rinfuse liquide e solide, mentre concentra la sua attività nelle merci varie, esclusivamente per il traffico dei contenitori.
    Lo si legge nel Grafico 1: il porto di Gioia Tauro non esiste per nulla nelle rinfuse solide e liquide. Invece pesa nel 2020 per il 16,5% sul totale del traffico nazionale, espresso in tonnellate, nel segmento delle merci varie; Gioia Tauro incide per il 9% sulla movimentazione delle merci complessive dell’Italia.

    Grafico 1

    grafico1_porto_di_gioia_tauro

    La rilevanza dei numeri che sono movimentati dal porto di Gioia Tauro sul volume del traffico nazionale di merci non riflette però una ricaduta che si esprime nel radicamento del porto rispetto al territorio regionale. Si tratta di uno degli effetti della globalizzazione: si può essere snodo della rete globale senza essere snodo per il territorio in cui si è collocati.
    La chiave di interpretazione strategica è ancora più chiara quando facciamo riferimento nello specifico al traffico dei contenitori. Nel Grafico 2 si verifica che, in base ai dati 2020, sempre espressi in tonnellate. Mentre il traffico “hinterland” non esiste per nulla nel porto calabrese, Gioia Tauro pesa per il 78,4% nel traffico di trasbordo sul totale nazionale.

    Serve a tutti tranne alla Calabria

    Complessivamente, l’incidenza totale sul traffico contenitori nazionale è pari al 29,9% Insomma, Gioia Tauro serve al mondo, all’Italia, forse alla criminalità organizzata, ma non alla Calabria. Questo è il punto nodale sul quale occorre riflettere, per le implicazioni di politica regionale e meridionale. Ovviamente, non si tratta di perdere una caratteristica che costituisce un elemento di forza, ma di rendere questo aspetto non l’unico fattore sul quale puntare per il futuro del porto di Gioia Tauro.
    L’evoluzione strategica della portualità internazionale nel corso dell’ultimo decennio dimostra che i porti di “transhipment” si sono trasformati anche in porti “gateway”, capaci di dialogare con il territorio nel quale sono presenti. È accaduto ad Algesiras ed a Valencia, tanto per fare due esempi.

    Grafico 2

    grafico2_porto_di_gioia_tauro

    Un deserto industriale

    Perché si è determinato questo andamento? Innanzitutto perché la Calabria è un deserto industriale. Un porto non genera merce, ma trasporta ciò che il territorio è in grado di esprimere. Quindi il primo punto per determinare una svolta riguarda la necessità di inspessire una struttura produttiva gracile.
    Da questo punto di vista la zona economica speciale può costituire una opportunità da cogliere, se si è in grado di attrarre investimenti manifatturieri che possono capitalizzare la rete di collegamenti mondiali di cui il porto di Gioia Tauro è dotato.

    Poi, un secondo punto riguarda la rete delle altre infrastrutture di connessione, che costituisce un elemento di debolezza competitiva del porto calabrese. Per decenni si è parlato della necessità di migliorare la qualità della rete ferroviaria per il traffico merci, ma le chiacchiere stanno ancora quasi a zero. Solo a tale condizione si può allargare quella che si chiama la catchment area, vale a dire il territorio di influenza della infrastruttura portuale. Un intervento di tale natura consentirebbe non solo di consegnare per ferrovia una parte consistente dei container rivolti ai più rilevanti mercati italiani, ma anche di cominciare a lavorare i contenitori stessi, non solo per lo stoccaggio ma anche per operazioni a maggior valore aggiunto.

    Una trasformazione necessaria

    Trasformare il porto anche in una fabbrica logistica può mettere al riparo dalla fluttuazione dei traffici dei contenitori, che dipendono, quando si è specializzati solo nel segmento del trasbordo, esclusivamente dalle dinamiche della globalizzazione.
    Nella fase successiva alla pandemia certamente il modello di specializzazione internazionale del lavoro e di dislocazione delle fabbriche è destinato a cambiare. È presto per dire esattamente quali saranno queste dinamiche, ma è molto probabile che le grandi macroregioni del mondo tenderanno a scambiare merci più all’interno dei grandi blocchi, che non su scala globale.

    Qualche segno lo si comincia a cogliere, proprio a Gioia Tauro. Lo vediamo nel Grafico 3. Nel primo semestre del 2021, l’incidenza del porto calabrese sul totale dei contenitori movimentati a livello nazionale è scesa, rispetto dato annuale del 2020. Nel trasbordo si è passati dal 78,4% al 75,6%, mentre sul totale del traffico contenitori si è passati dal 29,9% al 26,1%.

    Grafico 3

    grafico3_porto_di_gioia_tauro

    Insomma, stare solo sul business del trasbordo dei contenitori non lascia nulla alla Calabria, e non costruisce un futuro solido per lo stesso porto di Gioia Tauro. Servono le opere di completamento delle infrastrutture ferroviarie. Serve un serio piano di industrializzazione regionale, assieme ad un disegno logistico per rendere più robusto il posizionamento competitivo dello scalo calabrese. In altri termini, va messa in campo una strategia, e la capacità di attuarla. La zona economica speciale e gli investimenti del PNRR possono essere le due gambe per mettere in campo una operazione di innovazione industriale, logistica e sociale.

     

  • SPORTELLATE | Ori, “Pippo” Mulattieri, ds e Tour de Franz

    SPORTELLATE | Ori, “Pippo” Mulattieri, ds e Tour de Franz

    Come ogni settimana, è il momento di dare un voto ai fatti di sport, con il solito ingiusto occhio di riguardo verso il calcio. Prima di iniziare, però, bisogna complimentarsi con Daniele Lavia, schiacciatore titolare della Nazionale italiana di volley. Nato a Cariati 21 anni fa ma cresciuto a Rossano, ha conquistato l’oro da protagonista assoluto nella finale degli Europei contro la Slovenia. Dopo Domenico Berardi nel calcio, un altro grande traguardo per un atleta calabrese.

    Voto 10.

    Un breve cenno anche a Catanzaro e Rende che sono state nominate da ACES Città Europee dello Sport 2023. Nel 2018 lo stesso riconoscimento fu conferito a Cosenza per l’anno 2020. Determinante, per il giudizio finale degli ispettori, fu il progetto presentato dall’amministrazione Occhiuto di realizzazione del nuovo stadio cittadino con conseguente cittadella dello sport e rigenerazione delle aree più marginali. A distanza di tre anni, di quell’opera dal sapore elettorale si sono perse le tracce, mentre nel vecchio stadio “San Vito-Marulla” oggi si chiudono i settori per infiltrazioni d’acqua. Spero di sbagliarmi, ma ho la sensazione che certi attestati contino quanto un green pass a un’assemblea di Fratelli d’Italia.

    Voto 3 o 4 (ottobre).

    “Pippo” Mulattieri

    La scorsa settimana scrivevo che al Crotone, nonostante la presenza in organico del talentuoso Samuele Mulattieri, tra partenze (Messias e Simy) e latitanze (Rivière) di lusso, forse mancava qualcosina in attacco. Dopo quanto visto venerdì sera nel corso della partita degli “Squali” sul campo della capolista Brescia, mi rimangio tutto.
    Partito dalla panchina, il ventenne di Arcola provincia della Spezia, ha deciso di indossare gli abiti del Pippo Inzaghi di turno (suo idolo e mister, non a caso, delle “Rondinelle”). E in appena un quarto d’ora, con i suoi sotto di due reti, ha letteralmente mandato in tilt una delle migliori difese della cadetteria. Risultato finale: doppietta personale (già cinque i suoi centri in campionato) e un 2 a 2 da portarsi a casa come se fosse un trofeo.

    A impresa compiuta, sono andato a cercarmi un po’ di storia di questo piccolo grande bomber (per ora di provincia) e ho scoperto che fino a pochi mesi fa giocava nella seconda divisione olandese con la maglia del Volendam, in prestito dall’Inter, sua squadra del cuore. Perché era finito lì? Semplicemente non gli erano piaciute le offerte della B nostrana, giudicate poco coraggiose. Dell’Olanda, causa pandemia, ha visto poco, solo campi da calcio e il suo appartamento. Oltre a realizzare un mucchio di gol, a tempo perso e forse un po’ per noia, ha anche imparato a suonare il pianoforte e a parlare l’inglese.

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    Samuele Mulattieri con la maglia del Volendam

    Insomma, capacità più o meno grandi che in Italia, probabilmente, non avrebbe mai scoperto di possedere. Ma ciò che conta adesso è solo il fiuto per il gol. Il Crotone, che ha puntato quasi tutto su di lui (10 al ds Beppe Ursino), potrà goderselo per un annetto scarso, poi, Samuele, come tanti giovanotti di belle speranze, si prenderà il posto che non merita: in serie A con la sua Inter, come quarta o quinta scelta per l’attacco. Salvo sorprese, dovrebbe andare più o meno così.

    Voto 10 a chi crederà davvero nel suo talento e alla noia che insegna sempre qualcosa di buono.

    I nastrini di Taibi

    Dopo l’addio dell’esageratamente cosentino Giuseppe Mangiarano, i quasi pieni poteri concessi dal patron della Reggina, Luca Gallo, a Massimo Taibi (direttore sportivo, responsabile del settore giovanile e in futuro, chissà, magari anche direttore generale o tagliatore di teste aziendale) dimostrano quanto nell’ambiente amaranto, al momento, regni un clima di consenso totale. D’altronde, all’ex portierone di Milan e Manchester United va riconosciuto il merito di aver evitato alla società una dura crisi economica, sbarazzandosi di tutti quei calciatori sotto contratto (che lui stesso aveva ingaggiato) dallo stipendio alto ma dal rendimento scadente.

    I risultati, oggi, si vedono tutti: la squadra di Aglietti è forte, più leggera di testa e di gambe. La vittoria convincente al cospetto della forte Spal (2 a 1) firmata Hetemaj e Montalto, dice che il primo posto in classifica non è lontanissimo. La domanda, quindi, è d’obbligo: questo gruppo può arrivare in serie A? Per sapere cosa ne pensa il popolo reggino, si potrebbero commissionare un paio di sondaggi ad aziende di settore. Col serio pericolo, però, specie di questi tempi, di creare pericolosi entusiasmi e aspettative esagerate. Meglio, per ora, affidarsi solo alle certezze del presente e chi vivrà vedrà.
    Finale con nota triste e senza voto per la scomparsa del segretario della società amaranto Massimo Bandiera, giornalista e in passato dirigente anche di Siracusa e Cosenza calcio.

    La giornata particolare di Goretti

    Il giorno dell’addio amaro alla sua Perugia nell’estate 2020 fu sincero: «Retrocedere in C con questa squadra era un’impresa impossibile e noi ci siamo riusciti». A beneficio del Cosenza, bravo ad approfittare proprio del crollo inatteso dei grifoni per salvare una categoria che sembrava persa già a gennaio. Ma questa, ormai, è acqua passata. Oggi il direttore sportivo Roberto Goretti appartiene a un Cosenza nuovo di zecca, indicato dai bookmakers come la squadra materasso dell’anno. Insomma, un’altra impresa impossibile, di quelle però da capire come si deve prima che sia troppo tardi.

    Sabato i “Lupi”, al cospetto del neo promosso Perugia e nel giorno del 59esimo compleanno di Donato Bergamini, hanno sfoderato una nuova prova tutta grinta e personalità, con un paio di giocate di classe sopraffina e qualche ingenuità da evitare (vedi Sy: timido, e Palmiero: espulso). Ne è venuto fuori un 1 a 1 meritatissimo e sofferto, riagguantato con i denti grazie a una prodezza del croato di proprietà della Reggina SuperMario Šitum, che così porta a quattro i gol, tutti in prestito, messi a segno dal Cosenza in questo torneo.

    Roberto-Goretti-DS-Cosenza
    Roberto Goretti, direttore sportivo del Cosenza

    Per Goretti deve essere stata una giornata particolare, iniziata la notte prima dell’esame “Curi” quando è stato avvistato nel centro storico del capoluogo umbro insieme ai suoi amici di sempre. Un breve tuffo nel passato e poi il presente, lo stadio che conosce come le sue tasche e la soddisfazione, tenuta rigorosamente dentro, di aver messo in piedi dal nulla e con il nulla nel portafoglio, una squadretta da impresa possibile.

    Voto 8 all’eurogol del pareggio e 10 al ds senza portafoglio.

    Catanzaro e Vibonese in cerca d’autore

    Il Catanzaro non decolla, la Vibonese nemmeno, ma poteva andare peggio. Lo so, più banale di così si muore, ma non trovo un modo diverso per riassumere la giornata delle due calabresi di C. I giallorossi – lo dicono tutti gli esperti della materia, perché non credergli? – lotteranno fino alla fine per la serie B. Al momento, però, non vincono.

    Il pareggio 0 a 0 a Palermo (il terzo di fila che poteva essere una sconfitta se Brunori non avesse sbagliato un rigore) ha messo in mostra una squadra spuntata e poco cazzuta. Buona parte della tifoseria ce l’ha con il tecnico Calabro che, a sua volta, a un giornalista che gli ha chiesto se questo è il suo Catanzaro oppure no, ha risposto di no. Ad Andria, il suo collega della Vibonese D’Agostino ha salvato la panchina (1 a 1) all’89’ grazie a Sorrentino. Che farebbe anche rima, ma a guardare la classifica di poetico c’è poco.

    Voto 5 alla Vibonese di D’Agostino e al Catanzaro di nessuno.

    Schiaffi e donazione

    Poche settimane fa era stato preso a schiaffi pesantemente da alcune persone nei pressi di un locale molto noto a Lamezia Terme. Addirittura qualcuno aveva parlato di dramma sfiorato, esagerando un po’. Protagonista della vicenda Felice Saladini, giovane presidente della nuova squadra di calcio cittadina che milita nel campionato di serie D. Pare che a molti non fosse andato giù il suo progetto sportivo (per la cronaca, oggi nel lametino le squadre di calcio sono ben cinque). Da allora di Saladini si è parlato poco e niente. Fino a oggi pomeriggio, quando don Fabio Stanizzo, anche a nome del vescovo Giuseppe Schillaci, ha ringraziato pubblicamente l’imprenditore per la donazione di 2.150 euro alla Caritas diocesana, incasso della partita Fc Lamezia-Rende di una settimana fa. Un modo originale per riportare la pace?

    Voto 0 agli schiaffi, 10 alle donazioni intelligenti.

    Torromino

    In un periodo storico in cui i calciatori giocano ad alti livelli fino a 40 anni e i miei coetanei brizzolati con pancetta e parastinchi continuano a organizzare inguardabili partite di calcetto, c’è chi come Giuseppe Torromino (attaccante crotonese di 33 anni, promosso in serie B con la Ternana), nonostante un contratto di lavoro resistente, decide di svincolarsi e trasferirsi all’Us Livorno in Eccellenza. Che, per chi è poco pratico di categorie pallonare, è un po’ come se Amadeus lasciasse Raiuno per andare a condurre I soliti Ignoti su Teleuropa Network.

    Ora, tornando a Torromino, le cose sono due: o si è stancato del professionismo e delle sue dinamiche stressanti e poco umane, o il Livorno, sponsorizzato addirittura dall’Università telematica Niccolò Cusano (fondata, guarda caso, dal presidente livornese della Ternana Stefano Bandecchi), gli ha offerto una barca di soldi. D’istinto, propenderei per la seconda ipotesi.

    Voto 7- a Torromino per lo spirito aziendale, 10 a Bandecchi per quello ultrà.

    Tour de Franz

    Mi rendo conto che qui rischio di forzare un po’ la mano stravolgendo il senso di questa rubrica che è nata per parlare solo di sport. Ma quando ho visto l’ultimo progetto elettorale di Franz Caruso (candidato a sindaco di Cosenza in uno dei tanti schieramenti di sinistra, o pseudo tale, che dovrebbero sfidare la destra e invece la favoriscono), non ho resistito. Anzi, dopo lunga riflessione, mi sono addirittura convinto, probabilmente in malafede, che lo sport in questo discorso c’entra davvero qualcosa. Vabbè, vado al punto: l’avvocato cosentino ha lanciato a sorpresa il suo “Tour de Franz”.

    In sintesi, il capitano del team PD-PSI percorrerà in bici la città, dividendo il suo percorso a tappe. Qui, si spera affiancato da gregari, ammiraglia e sanitari, potrebbe incontrare, nell’ordine, i suoi tifosi, il traffico, le buche, l’immondizia, qualche topo e magari anche un paio di avversari, come ad esempio i sinistri Bianca Rende e Valerio Formisani, candidati come lui. E chissà che, in un epico momento di fatica in stile Coppa Cobram, con almeno uno di questi non si riesca a riproporre il celeberrimo scambio della borraccia tra Coppi e Bartali.

    Voto 6- allo spin doctor di Caruso, 10 alla borraccia (preferibilmente non avvelenata).

    Francesco Veltri

  • Zes al palo, ora servono oasi nel deserto industriale

    Zes al palo, ora servono oasi nel deserto industriale

    Nella definizione degli incentivi per le Zes (zone economiche speciali) si è perso un sacco di tempo. La legge aveva individuato subito il credito di imposta sugli investimenti come attrattore delle imprese. Ci sono poi voluti due anni per stabilire che il meccanismo per l’assegnazione del credito di imposta poteva funzionare in modo automatico, senza passaggi di approvazione preventiva.

    Qualche tempo in più è stato necessario per stabilire che anche le imprese di logistica erano destinatarie del credito di imposta, e quindi comprese nel perimetro dei soggetti che potevano beneficiare del pacchetto localizzativo delle ZES. Era una contraddizione in termini che da un lato si considerassero i porti e le aree logistiche come il cuore del sistema insediativo delle imprese, escludendo dall’altro il settore che doveva costituire la centralità dell’azione di politica industriale.

    Semplificazione all’italiana

    Sul nodo della semplificazione amministrativa, che costituisce in tutto il mondo uno degli assi fondamentali per la competitività delle ZES, sono stati spesi fiumi di inchiostro nel nostro Paese, senza riuscire a sfiorare per quasi quattro anni il tema in modo adeguato.

    Solo con il Governo Draghi, a quattro anni dalla legge, si è giunti alla approvazione della autorizzazione unica per l’insediamento di una impresa. Nelle formulazioni precedenti, l’autorizzazione ZES si sovrapponeva a tutti gli altri procedimenti amministrativi esistenti (trentaquattro!), divenendo sostanzialmente uno strato aggiuntivo di cipolla, con una logica tipicamente nazionale di semplificazione: fare l’opposto del significato della pratica che si intende perseguire.

    C’è la governance, non le azioni

    Sulla governance si è egualmente perso un tempo spendibile in attività più produttive. La legge stabiliva che l’organismo di governo per ciascuna zona economica speciale era il comitato di indirizzo, con a capo il presidente della Autorità di Sistema portuale di riferimento e composto da rappresentanti del presidente del Consiglio e del ministro dei Trasporti.

    Si erano appena insediati i comitati, quando la legge ha stabilito che ogni ZES avrebbe dovuto avere alla guida un commissario straordinario. Sinora solo la zona economica speciale calabrese si trova nella condizione di poter disporre di un assetto di governance completo.
    Ma, ovviamente, disporre di un meccanismo di governo completo, non vuol dire di per sé riuscire ad indirizzare fenomeni economici complessi.

    La legge istitutiva delle zone economiche speciali lascia alle Regioni la possibilità di emanare provvedimenti autonomi e specifici che siano in grado di rafforzare il pacchetto di attrazione per la localizzazione degli investimenti. Allo stato, non risulta alcuna azione messa in campo dalla regione calabrese.
    Nella implementazione dei processo di attuazione, infine, siamo a carissimo amico.

    Non solo economia

    L’esperienza internazionale testimonia che non basta solo chiarezza nel pacchetto localizzativo per poter attrarre le imprese sui territori. A caratterizzare le esperienze di successo è stata la capacità di articolare un sistema di meccanismi e di misure non solo di carattere normativo ed economico, che pure sono indispensabili.
    Serve una azione di marketing e di comunicazione capace di porre in evidenza tutte le qualità dei territori che non sono esplicite negli incentivi economici; la presenza di centri di ricerca all’avanguardia, le caratteristiche del capitale umano, la rete delle istituzioni con le quali si potrà collaborare.

    La fase di attuazione richiede un concerto tra le istituzioni nei diversi livelli di governo, la collaborazione del sistema bancario e finanziario, un tessuto di regole certe nella giustizia capace di affermare la legalità, la collaborazione costante tra imprese ed Università.
    Solo se si determina la convergenza degli strumenti di politica economica con lo strumento della zona economica speciale e se tutte le istituzioni lavorano in maniera coordinata, si possono allora conseguire risultati positivi. Altrimenti, avremo sprecato questa ennesima opportunità.

    Oasi nel deserto

    Per la Calabria, la zona economica speciale è ancora più cruciale che per il resto del Mezzogiorno. Il deserto industriale va popolato almeno con alcune oasi produttive che comincino ad essere fattori di inversione di tendenza, luoghi di sviluppo e di legalità, per dare opportunità ai giovani, per evitare lo spopolamento che prosegue da tempo, per alimentare la crescita del Porto di Gioia Tauro, che non può essere solo luogo di smistamento dei contenitori ma deve diventare anche una finestra logistica per il territorio calabrese.

    Per poter evitare di sprecare questa ennesima opportunità, si tratterà di mettere a sistema la zona economica speciale di Gioia Tauro con il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. Solo se gli investimenti pubblici del PNRR che saranno previsti per la Calabria si incroceranno con il pacchetto localizzativo per l’attrazione del capitale internazionale potranno costruirsi le condizioni per far arretrare il deserto industriale che oggi soffoca ogni opportunità di sviluppo. Per questo serve un patto tra istituzioni, imprenditori, forze sociali. Ma soprattutto serve che la cappa di immobilismo va sradicata da una forte volontà di cambiamento.

    LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’ANALISI

  • Zes a Gioia Tauro, tutto quello che non ha funzionato

    Zes a Gioia Tauro, tutto quello che non ha funzionato

    Da quattro anni è stata approvata in Italia la norma primaria che ha istituito le zone economiche speciali nelle regioni meridionali del nostro Paese. La Calabria ne è parte integrante, con la ZES di Gioia Tauro. Il momento è opportuno per tracciare un primo bilancio, per capire quello che non ha funzionato e per indirizzare lo strumento esistente, con gli opportuni correttivi, verso un miglior funzionamento.

    Le aspettative erano inizialmente molto elevate. Si introduceva in Italia uno strumento di politica economica che aveva determinato profondi processi di trasformazione in molte realtà economiche internazionali che, attraverso fiscalità di vantaggio e regole di semplificazione, avevano attratto consistenti investimenti manifatturieri tali da consentire a quei Paesi di entrare nelle catene globali del valore. Sono più di 5.500 le zone economiche speciali nel mondo. Questo numero dovrebbe farci comprendere che esiste una intensa competizione su scala globale tra territori per attrarre gli investimenti internazionali.

    La logistica fondamentale

    L’atteggiamento verso le zone economiche speciali in Italia è oscillato tra il messianismo e l’indifferenza. Per alcuni era una bacchetta magica capace di sovvertire l’arretratezza industriale, per altri non serviva assolutamente a nulla, erano solo chiacchiere di professori astratti.
    Entrambi gli approcci ovviamente non erano funzionali ad un efficace processo di azione amministrativa. Sappiamo bene ormai che le riforme richiedono un lavoro certosino nelle tre fasi che sono fondamentali per il successo di una azione di politica economica: l’analisi delle finalità, la definizione degli strumenti, l’implementazione dei processi di attuazione.

    Sulla definizione degli obiettivi, il legislatore aveva individuato una correlazione tra sviluppo industriale ed armatura logistica. In tutte le esperienze internazionali si era dimostrato che una delle ragioni di attrazione per gli investitori era stata la disponibilità di infrastrutture e servizi per la connettività di elevato livello qualitativo. La logistica, infatti, è diventata, nell’economia della globalizzazione, una delle chiavi fondamentali per la competitività dei territori.

    Per questa ragione i porti delle regioni meridionali, e Gioia Tauro tra questi, sono stati concepiti come l’asse centrale attorno al quale agglomerare gli insediamenti industriali da attrarre. Ovviamente, questo approccio implica di realizzare anche gli investimenti di miglioramento necessari per consolidare la competitività logistica degli scali meridionali, soprattutto in termini di connettività ferroviaria e stradale, assicurando anche una rete di collegamenti con gli interporti.

    Soluzioni differenti per realtà disomogenee
    Nella definizione degli obiettivi è mancata la capacità di calibrare correttamente la lettura dei territori. Il Mezzogiorno non è, ormai da tempo, una realtà omogenea. Comprende regioni che hanno avviato percorsi di nuova industrializzazione, come la Campania e la Puglia, ma anche altre realtà, come la Calabria, che sono purtroppo ancora in una trappola di desertificazione produttiva. Strumenti omogenei di politica economica per realtà disomogenee non sono destinati a determinare la stessa efficacia nei territori più deboli.

    Per attrarre investimenti in Calabria occorre superare specifiche barriere all’entrata per il capitale nazionale ed internazionale. La qualità infrastrutturale del territorio, al di là del porto di Gioia Tauro, non è adeguata. Le interferenze ambientali della criminalità organizzata generano diffidenza e vischiosità che non sono certamente elementi attrattivi per gli investitori. Il tessuto dei servizi pubblici e privati non brilla certo per qualità. Occorre avere consapevolezza che non contano solo gli incentivi economici per entrare nella short list delle decisioni imprenditoriali. Occorre anche affrontare le debolezze strutturali che caratterizzano la realtà economica, sociale ed istituzionale della Calabria.

    Il ruolo delle multinazionali

    C’era anche un’altra questione che è rimasta in ombra nella analisi delle finalità delle zone economiche speciali. L’architettura del sistema industriale internazionale si era riorganizzata sulla base delle catena globali del valore, nella quali totalità dei casi guidate dalle grandi imprese multinazionali, che sono tornate ad occupare la scena centrale proprio per effetto della globalizzazione, ed anche grazie alle zone economiche speciali.
    Fare i conti con questa geografia del potere economico è assolutamente indispensabile se si vogliono generare effetti moltiplicativi nel processo di attrazione degli investimenti. Le esperienze internazionali dimostrano infatti che uno dei fattori di successo delle zone economiche speciali consente nell’attirare soggetti multinazionali, che poi sono in grado di generare altre capacità attrattive.

    Proprio per questa ragione diventa rilevante in modo decisivo il sistema delle regole amministrative e burocratiche con le quali si deve confrontare il mondo industriale. La semplificazione deve essere particolarmente efficace per poter generare effetti attrattivi per le imprese che devono realizzare investimenti significativi.
    Ovviamente, questi meccanismi non si attivano automaticamente, ma richiedono specifici strumenti. Più che incentivi generalizzati a tutti gli operatori, per poter attrarre grandi multinazionali apparirebbe più opportuna una personalizzazione del pacchetto localizzativo mediante lo strumento del contratto di programma, entro un perimetro di compatibilità che può essere stabilito dalla legge.

    LEGGI QUI LA SECONDA PARTE DELL’ANALISI

     

  • SPORTELLATE | Derby, morti, medaglie e il trionfo del Caso

    SPORTELLATE | Derby, morti, medaglie e il trionfo del Caso

    Comincia oggi la rubrica Sportellate. Più o meno ogni lunedì, a partire da oggi, daremo le pagelle a ciò che, calcisticamente e sportivamente parlando (che spesso sono due cose diverse), nella settimana appena trascorsa ci è sembrato degno di nota o giù di lì.
    Buona lettura.

    Il derby della Magna Grecia

    Prima e durante Crotone-Reggina (1 a 1) è successo di tutto. Un uomo, che aveva una agenzia di pompe funebri di fronte allo stadio “Ezio Scida”, è stato ucciso in un misterioso agguato; il maltempo, da allarme rosso sullo Jonio, come al solito ha tenuto tutti col fiato sospeso; intorno al 20’ minuto della partita tra “squali” rossoblù e amaranto, un tifoso reggino è precipitato rovinosamente da una balaustra ed è stato trasportato in ospedale in codice rosso (per fortuna niente di grave).

    E poi, sono arrivati i gol, di Galabinov per la squadra di Aglietti e di Benali per i ragazzi di Modesto. Una sfida sentita ma non eccezionale, giocata su un campo pesante e di fronte a poco più di duemila spettatori che si sarebbero aspettati di più. Soprattutto dal Crotone, che ha creato tanto e concretizzato quasi niente. Anche perché lì davanti, pur non sottovalutando affatto il talentuoso Mulattieri, si vede che manca qualcosa. Sono partiti Simy e Messias e chi, come Rivière, risulta in rosa tra gli attaccanti, non è ancora rientrato dalle vacanze. Altro mistero su cui, però, nessuno pare stia indagando.

    Forse, la cosa migliore della serata, è arrivata da Venezia dove, in contemporanea con la partita, si è svolta la cerimonia di premiazione della 78esima mostra del cinema. Lì, il regista Michelangelo Frammartino, nato a Milano da genitori di Caulonia, dopo essere salito sul palco per ritirare il premio speciale della giuria per il film “Il buco”, ha ricordato a tutti che la Calabria è la regione più bella d’Italia. Agguati mortali e cadute a terra rovinose escluse naturalmente.

    Voto 6 di stima alla Magna Grecia.

    Zaffaroni

    Fino a ieri pomeriggio, l’allenatore del Cosenza sembrava un po’ l’Amalia Bruni del calcio calabrese. Chiamato in causa fuori tempo massimo da Eugenio Guarascio (che la parte del Partito democratico è in grado di interpretarla alla perfezione, vedi amministrative di Lamezia del 2019), all’ex, per poco, Chievo Verona, proprio come accaduto alla candidata a governatore del PD alle elezioni regionali, il presidente ha affidato un’impresa impossibile: evitare l’ennesima débâcle del secolo.

    Dopo due sconfitte consecutive in campionato, contro il Vicenza, a sorpresa, i Lupi hanno dimostrato di avere voglia di lavorare, identità e idee. Roba da fare invidia persino al centrodestra di Roberto Occhiuto che, invece, vincerà e governerà tutte le prossime partite senza lasciare sul campo un goccio di sudore.
    Il ritorno da capitano di Palmiero (perché uno così non è in A?) è stato stratosferico, Gori ha fatto il Rivière rientrato dalle vacanze, mentre Caso (dal nome mai tanto in sintonia con una società da sempre improvvisata e legata al fato), ha sorpreso tutti con un assist e un gol da campione.

    A proposito di fato, se oggi il Cosenza gioca ancora tra i cadetti, deve ringraziare proprio il Vicenza sconfitto ieri (2 a 1). Ultima giornata dello scorso torneo, al 91’ Yallow punisce la Reggiana e regala ai rossoblù il quartultimo posto in classica, fondamentale per il successivo ripescaggio. Per non perdere il contatto con la realtà, è sempre bene ricordarlo.

    Quindi, voto 10 a Zaffaroni e al Caso. 

    Gigi Marulla e il candidato

    Nativo di Stilo, ma diventato a furor di popolo bandiera rossoblù, lunedì scorso all’ex bomber scomparso nel 2015, è stata finalmente conferita la cittadinanza onoraria di Cosenza. Alla cerimonia nel cimitero di colle Mussano erano presenti, tra gli altri, la famiglia di Gigi, l’ex presidente della squadra Giovanni Paolo Fabiano Pagliuso, naturalmente il sindaco Mario Occhiuto. Un po’ meno naturalmente, il vicesindaco Francesco Caruso, candidato a primo cittadino del centrodestra alle Amministrative d’inizio ottobre. Quest’ultimo, prima di mettersi in posa davanti a telecamere e flash dei fotografi, ha deposto una corona di fiori sulla lapide di Marulla. Chi meglio di lui avrebbe potuto farlo?

    Voto 9 all’efficacia della campagna elettorale e -9 allo stile. 

    Lo spot 

    Da qualche giorno, in occasione del GP d’Italia di Formula Uno che si è svolto ieri a Monza, sta girando sul web un bellissimo video spot che mette in mostra in modo affascinante e con uno stile narrativo originale, le bellezze di Palermo, dal mercato di Ballarò fino a Villa Bonanno, da corso Vittorio Emanuele al Foro Italico e al parco della Favorita, per concludere la sua “corsa” sulla spiaggia di Mondello. L’operazione si chiama “Ciao Palermo, Monza is calling” e a realizzarla, per omaggiare l’Italia, è stata la Red Bull Racing che ha voluto che a girare il cortometraggio fosse un regista palermitano, Carlo Loforti, coadiuvato dal suo concittadino Alessandro Albanese.

    La particolarità del video sta nel fatto che tutto lo splendore del capoluogo siciliano e della sua gente viene messo in luce, senza stereotipi e forzature, attraverso il percorso che Max Verstappen, pilota della scuderia austriaca di Formula Uno, compie a bordo della sua monoposto. Lo spot, patrocinato dal Comune di Palermo, ha provocato qualche polemica, specie per la cifra irrisoria di 182 euro sborsata da Red Bull per l’occupazione del suolo pubblico. La visione spettacolare del video, però, sembra aver cancellato in un colpo solo ogni malumore.

    «Riuscire a portare un progetto così importante a Palermo – ha detto Loforti – è, da palermitano, una gratificazione straordinaria». Il sindaco Leoluca Orlando, a sua volta, ha parlato di una «grande occasione di promozione internazionale della città». Insomma, il consiglio, per chi non lo avesse ancora fatto, è di ammirare questo spot il prima possibile. Con una sola avvertenza: se non volete avvelenarvi il fegato, evitate di fare paragoni con il corto milionario girato da Gabriele Muccino in Calabria.

    Voto 10 allo spot palermitano, -10 a coppola, bretelle e asinello calabresi made in Sicilia. 

    Enza Petrilli e Anna Barbaro

    Sono le prime atlete calabresi della storia ad aver conquistato due medaglie (d’argento) alle recenti Paralimpiadi di Tokyo, rispettivamente nel tiro con l’arco e nel triathlon classe PTVI.

    Enza, taurianovese, dopo un grave incidente d’auto, è stata costretta a salire su una sedia a rotelle, mentre Anna, nata a Reggio Calabria, a causa di un brutto virus ha perso la vista. Due giovani vite stravolte improvvisamente, ma che hanno saputo rialzarsi proprio grazie allo sport. Bene anche Raffaella Battaglia, arrivata sesta con le altre azzurre nel torneo di Sitting Volley.

    Da queste parti, e non solo, se n’è parlato poco o non abbastanza. Perché, si sa – in fondo lo facciamo anche noi per pigrizia e convenienza – il calcio (maschile) di ogni livello, anche quando non ha niente da dire e da dare, mette in ombra tutto quello che non gli appartiene, persino le stelle più luminose.

    Di conseguenza, voto 10 alle stelle cadenti e 0 a tutti noi che le guardiamo senza esprimere mai desideri veramente rivoluzionari.

    Francesco Veltri

  • Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Appunti di un viaggiatore nella Calabria dei chiaroscuri

    Ho viaggiato nell’estate grecanica con la voglia di capire e scoprire. Un viaggio di incontri, sorprese, amicizie e sconforti. Vacanze esaltanti e memorabili. Ho ancora negli occhi i bagliori dei fuochi e il cielo dantesco oltre il crinale dei colli che accompagnano al mare la fiumara dell’Amendolea, in una notte di mezzo agosto. Ma ho negli occhi anche le scogliere di Capo Vaticano e il profondo blu di Praia di Fuoco o i ruderi viventi di Roghudi. Bellezze paesistiche e opere dell’uomo si mimetizzano nelle infinite sfumature di verde di una terra che amo fin da quando ero studente.

    Rarità potenti, violentate dal triste spettacolo che a tratti, secondo una logica apparentemente gratuita si affaccia, dietro una curva fra gli ulivi, sotto forma di sacchi di plastica sventrati, esplosi in una sequenza horror. Come se la spazzatura segnasse il territorio. Inneschi, mimetizzati da pattume, pronti agli scopi dei fuochi criminali. Così, bellezza e degrado, cultura e incuria, luci e ombre sono stati il leitmotiv del tempo sospeso e meraviglioso delle mie vacanze nella Calabria Ulteriore. Tempo assolato e affascinante, tempo di letture del paesaggio, di meditazioni e di parole leggere, improvvise, ma capaci di arrivare al punto. Tempo di discorsi intorno a un tavolo tra persone appena conosciute.

    Il paradiso perduto

    La Calabria ci ricorda che l’Eden delle foreste incontaminate, delle acque limpide, delle spiagge aperte ai “naviganti”, il reame incantato dei borghi che ancora conservano il tepore domestico dei modi meridionali dell’abitare e le vestigia di una civiltà che affonda le proprie radici nel tempo immemorabile degli ancestrali, è a rischio. Un rischio grave, concreto, palpabile.

    Questo paradiso dello sguardo, che unisce in un inestricabile connubio la natura e la cultura si può trasformare improvvisamente nell’inferno dei boschi carbonizzati. Un’ecatombe arborea di cui porteremo il peso sulla coscienza per anni. Nella desolazione consumistica delle discariche estemporanee. Nel disordine urbanistico si annida un male antico, il male di vivere dell’indifferenza. È come se l’ignavia si fosse impadronita di un territorio lasciato a sé stesso, senza una guida degna di questo nome.

    Sventolano i panni stesi dell’abusivismo

    La qualità eccelsa del saper costruire nei borghi di Stilo, Badolato, Gerace, Ardore, e in moltissimi altri paesi si scontra con la miseria delle scatole di cemento spuntate non si sa come nelle periferie delle città o lungo i binari della ferrovia. Dove c’erano le pinete a protezione delle colture di bergamotti e di gelsomini adesso sventolano i panni stesi dell’abusivismo.

    La cura tenace, assidua degli uliveti e la geometrica perfezione dei giardini di Condufuri e delle vigne di Palizzi si contrappone al caos edilizio degli scali ferroviari lungo il mare, dove la pietra è stata sostituita dal fallimentare sodalizio tra i forati in laterizio e tondino. Tronchi di ferri e mattoni che arpionano l’orizzonte marino facendo sembrare le case relitti di una guerra fra poveri. Scempio che, per la verità, interessa non solo la Calabria, ma che lì fa più male perché il contesto ambientale è invece bellissimo.

    Qui non c’è, per così dire, l’attenuante delle periferie delle megalopoli. Lo scenario è mosso, vario, sempre diverso fra poggi e falesie, fiumare e castelli. Mentre nel regno vegetale prevale un ordine antico e sapiente, nei quartieri della speculazione domina l’arbitrio, l’improvvisazione e la prepotenza. L’elenco dei punti in cui le contraddizioni in Calabria sono plateale rischia tuttavia di rispolverare vecchi stereotipi, lamentele sapute e risapute, tic linguistici che coprono, con una coltre di trite doglianze, la ragione profonda di questi sintomi.

    Il lume antico e la barbarie

    In Calabria, nello stesso luogo, convivono il lume antico di civiltà millenarie e l’ombra della barbarie. Basta parlare con le persone per capire che il tessuto civile è contaminato da qualcosa che non si vede, non appare, ma si percepisce. Una mano invisibile che comanda, ma non si fa stringere, conduce il gioco protetta dal non detto. Dello Stato si parla come di un’entità metafisica, lontana e ostile, forse inesistente. La stessa Unità d’Italia e l’impresa dei Mille – per la verità non senza ragioni storiche – sono oggetto di critiche e sarcasmi.

    L’ombra del potere

    In ogni dove si aggira lo spettro dell’abbandono e del tradimento. Le istituzioni pare che abbiano lasciato mano libera a un potere invisibile, ma solerte e determinato. Un potere grigio le cui sfumature vanno dal tenue e sfumato clientelismo, fino al grigio piombo della malavita organizzata. Un potere silente, ma onnipresente che condiziona la vita dei cittadini e dunque i loro comportamenti, così il morale si piega allo sconforto. Un’entità sfuggevole, che potremmo chiamare, con un eufemismo, “l’ombra del potere”, oscura i cieli limpidi di questa catena di montagne piantate in mezzo al Mediterraneo.

    Un ponte di civiltà verso il sud, al quale la politica dovrebbe prestare estrema attenzione. Ma si sa che la politica politicante cerca il consenso facile. E così il serpente si morde la coda. I voti facili, basati sullo scambio avvelenano la politica. Un corto circuito suicida al quale i politici non badano, presi come sono da logiche di spartizione e di volontà di potenza. Le cronache e le inchieste su questi temi del malaffare di stampo politico sono alla portata di chiunque voglia informarsi.

    La guerra delle persone in carne ed ossa

    Basta parlare con un imprenditore per venire a sapere che ogni giorno deve scegliere il campo di battaglia: se combattere per l’acqua indispensabile alle colture e deviata per ragioni legate al consenso, oppure difendere la propria azienda da attacchi illegali. Basta parlare con il custode del museo per scoprire che i pochi addetti in servizio sono costretti a turni impossibili, mentre il clientelismo premia l’assenteismo e i musei restano chiusi. Basta guardare il viso di un negoziante in Aspromonte per capire che il rispetto per il cliente che ha di fronte va oltre ben lo zelo commerciale. Basta parlare con un abitante per scoprire che c’è del metodo della seminagione dei rifiuti.

    Però poi basta chiedere un’informazione a un passante per scoprire di essere un interlocutore gradito al quale si risponde con un sorriso e una serie di precisazioni e approfondimenti che fanno le veci del più convenzionale e spicciativo “Benvenuto!”. Gentilezza e garbo accompagnano il viaggiatore che, anche nelle località più affollate, non ha mai l’impressione di essere preso all’amo. Se parli con chi ti ospita scopri che l’arte dell’arrangiarsi è teorizzata con enfasi come l’unico modo che l’individuo ha per salvarsi dall’indigenza o dal servaggio.

    Una luce nel buio

    Che fare dunque? A nulla valgono le lamentazioni, le recriminazioni storiche, le pie illusioni. Per dissipare le ombre di un potere oscuro che uniforma tutto e tutto ammanta con una coltre infida di sospetti, dubbi e rinunce l’unica arma è la verità dei fatti. La denuncia permanente delle malefatte, spiegata ai quattro venti e minuziosamente descritta con dovizia di particolari. Molti alzeranno le spalle, qualcuno si volterà dall’altra parte, altri negheranno l’evidenza, ma i fatti messi nero su bianco resteranno a futura memoria.

    Basta luoghi comuni sulla Calabria

    Bisogna raccontare la verità non solo ai calabresi, ma anche a tutti gli italiani che troppo spesso parlano della Calabria come figlia di un dio minore. Va raccontata la verità e non la storiella stucchevole e ammiccante dello spot al bergamotto e al peperoncino come armi di seduzione turistica. È profondamente ingiusto blandire o stigmatizzare utilizzando luoghi comuni, bisogna invece scoperchiare i sepolcri imbiancati di chi lucra sulle macerie della convivenza civile. Purtroppo, contro le tenebre non esiste altro rimedio che la luce.

    Basta il lume di una candela tenuta accesa da un’intelligenza vigile per metter in crisi l’ombra del potere che si nutre di non detto, di parole a mezza voce, di sguardi sfuggenti e di agguati. Certo ci vuole coraggio e anche astuzia per gridare al mondo che il re è nudo anche qui alle falde dell’Aspromonte che nell’etimo grecanico significa Monte Bianco per nulla aspro o impervio. Non impraticabile dunque ma bianco come le crete che finiscono a mare tra Bova e Palizzi dove i greci attingevano la materia prima per i celebri vasi attici. Parliamo di cultura, di ambiente, di paesaggio per dire che questa terra non è solo una spiaggia, ma un enorme deposito di storia e bellezza tutta da scoprire.

    Giuliano Corti
    Scrittore e autore di testi per opere multimediali

  • Pnrr ultimo treno di una regione disconnessa

    Pnrr ultimo treno di una regione disconnessa

    Viviamo tempi radicalmente differenti rispetto alle caratteristiche sociali ed economiche che hanno segnato il ventesimo secolo. Eravamo abituati a considerare fondamentali per lo sviluppo le questioni legate all’intervento pubblico per l’avvio della industrializzazione. Ne abbiamo conosciuto la parabola, soprattutto nelle regioni meridionali: dalla stagione della crescita produttiva nelle industrie di base (chimica e siderurgia) sino alla drammatica crisi che ha chiuso quella fase negli ultimi decenni del secolo passato.

    Con la globalizzazione il quadro si è profondamente trasformato. È cominciata una competizione tra territori per attrarre gli investimenti produttivi. Si sono affacciati sulla scena nuovi attori economici, che hanno generato uno scenario radicalmente differente.
    Oggi, come ha efficacemente spiegato il politologo Parag Khanna, la gerarchia della competitività è data dalla rete di connessioni che i diversi territori sono in grado di offrire alla comunità dei cittadini e delle imprese.

    Parag Khanna, politologo e collaboratore della CNN
    Calabria e Mezzogiorno in ritardo

    Le infrastrutture per la mobilità non sono più tanto rilevanti per gli effetti occupazionali immediati durante la fase di costruzione, quanto per la qualità dei servizi connettivi che sono in grado di generare in quella di funzionamento operativo. La lunga stagione keynesiana degli investimenti pubblici anticiclici nelle infrastrutture per rilanciare il motore dell’economia volge al termine. Eppure spesso capita ancora che le scelte vengano effettuate sulla base di criteri ormai non più attuali.
    Oggi sono i territori connessi, fisicamente e telematicamente, a determinare gli esiti della concorrenza internazionale. La Calabria, come del resto l’intero Mezzogiorno, si trova a fronteggiare questa discontinuità di scenario senza essersi per tempo preparata a questa trasformazione.

    Italia a due velocità

    Contano nell’attuale gioco competitivo parametri radicalmente differenti: visione globale delle reti, rapidità di esecuzione degli investimenti, capacità di cucire collegamenti internazionali con reti locali. Cominciamo con la celerità di attuazione dei programmi. Ci sono voluti più di 54 anni, dalla prima progettazione all completamento, per costruire la Salerno-Reggio Calabria. Mentre in otto anni veniva completata l’Autostrada del Sole, si è impiegato quasi sette volte tanto per completare l’asse stradale fondamentale per connettere la Calabria con l’Italia. Sono tempi incompatibili con qualsiasi ragionevolezza infrastrutturale. In più di mezzo secolo, cambia completamente la storia e la geografia dei territori.

    Recuperare il tempo perduto

    Ora lo stesso rischio si corre per la costruzione del nuovo collegamento ferroviario tra Salerno e Reggio Calabria, previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non c’è dubbio che tale investimento sia necessario, ma è anche urgente. Come è accaduto per la rete autostradale, anche per il sistema ferroviario ad alta velocità si sono realizzati i collegamenti prima nel centro nord del Paese. Ora bisogna recuperare il tempo perduto senza scegliere strade che determinino uno spostamento alle calende greche del completamento dell’opera. Qualche segnale preoccupante invece c’è nel progetto predisposto da Rete Ferroviaria Italiana, almeno per due ragioni.

    Quale alta velocità serve?

    Da un lato si vagheggia la possibilità di realizzare anche nel Sud una rete ad alta capacità, vale a dire in grado di far correre anche i treni merci. L’investimento realizzato al Centro-Nord testimonia che questa scelta è inutile e dannosa. I treni merci non sono in grado di pagare il pedaggio di accesso ad una rete con queste caratteristiche. E difatti nessun treno merci transita oggi sulla rete ad alta capacità. I costi per realizzare una infrastruttura con queste caratteristiche, poi, superano di un terzo quelli di una rete AV dedicata solo ai treni passeggeri.

    Dall’altro lato viene individuato un tracciato interno al territorio calabrese, che richiede la realizzazione di 85 km di gallerie. Non ci vuole un indovino per immaginare che in questo modo, otre ad incrementare di molto i costi, si allunghino di moltissimo i tempi di completamento dell’investimento.
    Varrebbe la pena di ragionare con grande attenzione su questi due punti, se vogliamo che l’investimento nel potenziamento della rete ferroviaria meridionale non sia l’ennesima occasione perduta.

    Il porto di Gioia Tauro

    E veniamo al secondo punto fondamentale, vale a dire la visione globale necessaria per disegnare la rete dei collegamenti capace di posizionare un tessuto economico e sociale nel contesto nazionale ed internazionale.
    Il caso del porto di Gioia Tauro è emblematico in questa direzione. Nasce, come è noto, nell’ambito del fallimentare progetto per costruire il quinto centro siderurgico, e per decenni resta una cattedrale nel deserto. L’intuizione di un imprenditore dotato di visione internazionale, Angelo Ravano, determina una rivitalizzazione del porto, grazie alla sensibilità del primo Governo Prodi.

    Navi cariche di container nel porto di Gioia Tauro

    Lo scalo di Gioia Tauro si inserisce nella rivoluzione delle rotte marittime internazionali, diventando uno dei porti di transhipment capaci di ospitare le grandi navi portacontenitori tra l’Oriente e l’Europa. Poi, dall’inizio del ventunesimo secolo conosce una stagione di rallentamento e di crisi, perché la governance del terminal container attraversa una fase di stagnazione strategica, fino alla ripresa recente con un rilancio della competitività determinato dalla strategia dell’attuale gestore, la seconda compagnia mondiale per traffico di container.

    Quello che manca, perché Gioia Tauro possa giocare un ruolo strutturalmente positivo – per la Calabria e per l’Italia – è un disegno strategico di Paese sulla costruzione di una rete di scali marittimi complementari e competitivi. Più che aver determinato la generazione di un sistema portuale nazionale forte ed unitario, la scelta è stata quella di aver messo in competizione tra loro gli scali italiani, quando invece era piuttosto necessario elevare la scala della competizione su un orizzonte globale.

    Sono mancati a Gioia Tauro quegli investimenti complementari di connessione alla rete ferroviaria e stradale che erano indispensabili per non svolgere soltanto la funzione di transhipment, attività a basso valore aggiunto e basso impatto sul territorio. Senza generare attività logistiche la funzione del porto di Gioia Tauro resterà meno centrale di quanto non possa essere.

    La concorrenza distruttiva tra aeroporti

    Anche per quanto riguarda la rete degli aeroporti non si sono effettuate scelte strategiche e si sono messi in competizione scali limitrofi, all’interno dello stesso territorio regionale calabrese, con l’effetto di dar vita a una concorrenza distruttiva che non ha consentito di generare quella massa critica indispensabile per attirare investitori e compagnie aeree. Tra Lamezia e Reggio Calabria si è assistito nell’arco dei decenni ad una danza di spostamenti di rotte, come accadeva alla sfilate di Mussolini che intendevano mostrare una potenza non vera. L’effetto è stato un depotenziamento ed una marginalizzazione delle connessioni aeree, anch’esse strategiche sia per il turismo sia per il business.

    Per la Calabria, con il PNRR, si apre ora una stagione decisiva per recuperare competitività. Serve puntare sulle reti di connessione per mettere in sintonia il territorio e l’economia con il sistema nazionale ed internazionale. Da un lato, però, occore una analisi strategica degli investimenti necessari, anche nelle caratteristiche tecniche dei progetti. Dall’altro, serve la capacità di realizzarli in tempi che siano compatibili con la ripresa effettiva di competitività.
    Sulla mobilità si gioca la partita decisiva per il futuro della Calabria e del Mezzogiorno. Non si presenterà un’altra occasione come quella che abbiamo di fronte nel prossimo quinquennio.

  • La bellezza salverà il mondo, ma la politica non lo sa

    La bellezza salverà il mondo, ma la politica non lo sa

    Qualche giorno fa su questo stesso giornale, Sergio Pelaia ha scritto un illuminante articolo sul non finito e sul consumo di suolo che erode paesaggi e luoghi naturali, coste e colline di questa terra martoriata. Al cemento, in questa torrida estate si è aggiunto il fuoco che ci sta portando via alberi, animali, paesaggi e risorse. Abbiamo perso, e seguiamo perdendo, le tracce della antica civiltà magnogreca, fondata su proporzione e stile, in una parola sulla bellezza. Al modello delle città antiche, in tutto il sud, circondate di bellezza, abbiamo sostituito il precario, l’ordinario, il degradato, in una caotica, brutta, distorta modernità.

    Oggi, dopo i danni della pandemia, del clima impazzito, della terra ferita, riscoprire massicce dosi di bellezza quotidiana, come la tazzina del caffè di tutti i giorni, dunque come virtù civile, vuol dire rieducarci alla cultura e al gusto del bello, proprio perché nelle condizioni che stiamo vivendo, le città, i luoghi, le piazze, i paesaggi dell’anima e dello sguardo, le case, devono essere il rifugio di una nuova, necessaria meraviglia delle piccole e grandi cose, degli sguardi e della mente.

    La bellezza come necessità

    Sembra, questa necessità, questa urgenza di bello, il vezzo di un inguaribile esteta, ma si tratta in Calabria, una terra piena di ferite dell’orrore sotto ogni forma, di una necessità impellente, di un ritrovare una rotta che dietro la parola bellezza trascini armonia, ovvero quella qualità di noi esseri umani di appagare l’animo attraverso i sensi, ritrovando il gusto di una meritata, significativa contemplazione.

    È come se si fossero inceppati più di un meccanismo nelle nostre menti, così da rimanere impigliati e incapaci di uscirne, non sapere più capire cosa selezionare per estasiarci e contemplare, e al nostro sguardo perduto dietro sequenze di non finito, di coste martoriate, di terre bruciate, di degrado a perdita d’occhio, si aggiunge quello miope della cronica incapacità della politica di oggi di confrontarsi con la bellezza e saperla offrire e diffondere nelle comunità.

    Un’arma contro la rassegnazione

    La politica calabrese – italiana – non lo sa il significato di bello, non pratica la bellezza, non è un “ingrediente” delle attività volte a rendere tutto migliore perché nel brutto trova alimento alle proprie aspirazioni di potere elettorale, creando bisogni piuttosto che soluzioni. Un dato preoccupante, un tratto civile che un protagonista delle ribellioni alla mafia, alla malavita, al malcostume imperante, già negli anni Settanta, come Peppino Impastato – ucciso nel 1978 – aveva ben descritto.

    «Se si insegnasse la Bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla Bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».

    Un’idea condivisa

    Bellezza, Impastato lo scriveva con la maiuscola, non a caso, e nel suo significato militante, il bello aveva un preciso senso: non estetica aristocratica, ma riconoscimento di ciò che è buono, della qualità, prima che della quantità.
    Ma Impastato non è stato il solo a proporci questa visione delle cose. Papa Francesco ne ha parlato nella sua bellissima enciclica “Laudato sii”, e non so quanto, proprio i cattolici ne abbiano seguito l’insegnamento. E ancora prima del Papa, quella figura straordinaria del cardinal Martini, scriveva «Quale Bellezza salverà il mondo? Il mondo moderno, essendosela presa contro il grande albero dell’essere, ha spezzato il ramo del vero e il ramo della bontà. Solo rimane il ramo della Bellezza, ed è questo ramo che ora dovrà assumere tutta la forza della linfa e del tronco», riferendosi ad un brano dello scrittore russo Solženicyn sull’unità di queste virtù.

    Il divario tra cittadini e politica

    La bellezza, dunque, può ancora salvarci? Citando una frase abusata, ma che in momenti difficili come questo appare come una vera ancora di salvataggio, forse sì. Però occorre fare in modo che – soprattutto per le nuove generazioni che vivono oggi la pandemia come un monito – sia ancora realizzabile il sogno di educare la gente alla bellezza, per mantenere vivi curiosità e stupore. E questo può avvenire solo coltivandola la bellezza, dalle scuole alla società, con le Arti, la Natura, la Cultura, soprattutto, armi civili potenti che agiscano contro tutte le inciviltà, l’arroganza, la negligenza, la rinuncia e rassegnazione, atteggiamenti cronici che al sud hanno finito -oggi- per aumentare il divario enorme tra cittadini e politica.

  • Calabria a fuoco, cronaca di una apocalisse annunciata

    Calabria a fuoco, cronaca di una apocalisse annunciata

    Sono le 23 di sera, di un normale martedì di agosto, fa ancora molto caldo e le povere cicale, stordite dai nuovi cicli termici, ancora esplodono tutto il loro canto rauco verso la notte. Mi affaccio sul terrazzo di casa ad Acri, dove vivo la stagione estiva cercando refrigerio dal gran caldo delle città dense di asfalto, traffico, smog e dunque altro calore. Ma anche qui, da alcuni anni, quel maglioncino da indossare per il fresco serale, quasi silano, resta nel cassetto: a queste latitudini il cambiamento climatico si fa sentire pesantemente, come altrove. Così, in vedetta, in una sorta di allerta estiva permanente, non impiego molto tempo ad avvertire un forte odore di fumo. Tempo di scorgermi dal terrazzino, e intravedo i bagliori di un incendio che noto da subito furibondo, sulla cresta del “Colle di Dogna” uno dei luoghi alti a confine con l’area presilana, molto vicino alla casa di campagna urbanizzata (da altri) che abito.

    L’apocalisse di fuoco

    Acri, località dal paesaggio un tempo ameno, è una piccola, estesa città senza soluzione di continuità, oggi densamente urbanizzata, circondata da boschi inselvatichiti e terreni agricoli incolti, che ogni estate, da oltre un decennio, si conferma funestata da furiosi incendi che sottraggono piante e coltivazioni alla natura e ne alterano i paesaggi.
    Il violento rossore intravisto, sarà solo l’inizio di quella che diventerà un’apocalisse di tre giorni micidiali, in cui gli assassini della natura si sono accaniti come mai su ettari di boschi a ridosso delle aree abitate di Acri e verso la Sila.

    Il contadino antico

    Proprio per questa ormai cronica, violenta attività incendiaria, da anni seguo la vasta letteratura che su di essa si addensa. Cerco di capire non tanto le ragioni antropologiche e sociali di un fenomeno che investe soprattutto il Mediterraneo, ma immaginare come esso nasce e come oggi non riusciamo a venirne fuori. Nei giorni successivi, durante i quali gli assassini da ergastolo proseguono la forsennata opera distruttrice, appiccando più inneschi e spostando il fuoco in più punti, cancellando intere estensioni di piante anche centenarie, la prima cosa che mi sovviene è che in questo stesso luogo di campagna che oggi abito, Gigi, il contadino antico, che aiutava mio nonno nel coltivare il vigneto e il piccolo uliveto, da solo teneva in perfetta pulizia, con la zappa, circa due ettari e mezzo di superfice, persino scoscesa.

    E il contadino moderno

    Quindi deduco che la sola tecnologia, i mezzi meccanici, non riescono a sostituire ancora il lavoro dell’uomo, che per esempio riusciva a pulire anche le parti più impervie, e che quella autentica, necessaria attività di manutenzione di fossi, scoli, boschetti, radure, balze che manteneva un magnifico equilibrio ecologico e geologico, oggi non c’è più. Non c’è più la costanza, la cura, la sicurezza che tutto questo garantiva, e malgrado ogni anno il potente trattore di Salvatore, contadino moderno, passi a rendere “non infiammabile” la terra, sono ormai alcuni decenni, a fasi alterne, che mi ritrovo nel fuoco, perdendo giovani piante d’ulivo, frutta e storiche viti, in una sorte che accomuna me a tanti!

    Tante scartoffie, nessun fatto

    Mi sono dato alcune semplici spiegazioni, di questa prevedibile, ed evitabile, apocalisse, che valgono ovunque, oltre ad interessi mirati, di natura economica, di nuovi poteri dei farabutti piromani, gruppi organizzati di nuova mafia che in diversi modi lucrano su queste tragedie. I terreni confinanti, pure con tutte le ordinanze sindacali, restano completamente in balia del fuoco perché invasi da sterpaglie che già da giugno ardono come fiammiferi.

    Nessun sindaco mi risulta abbia redatto un catasto dei suoli bruciati. Nessuno di loro fa rispettare le ordinanze. Però esistono giungle di provvedimenti legislativi regionali, di una genericità imbarazzante. Così come per l’urbanistica, che avrebbe dovuto garantire città belle e accoglienti con i suoi tanti – troppi – regolamenti, la giungla di norme per la prevenzione incendi, produce da anni solo burocrazia, scartoffie, nessun piano operativo, ma un’apocalisse di boschi distrutti.

    Lo Stato paga i Canadair, non i pompieri

    Lo Stato è assente, se non con un esborso ingente di costi dei Canadair che l’Italia noleggia da società private, piuttosto che attrezzare i vigili del fuoco, i quali sono i soli in questa lotta ad essere davvero capaci di misurarsi con il fuoco, ma sono mal pagati e con turni massacranti. Il resto delle persone, qui come altrove, sono squadre di volontari, protezione civile e di Calabria Verde, assolutamente scoordinati, malissimo attrezzati e che si formano sul campo, spesso a scapito delle situazioni in cui vengono impiegati, dove le decisioni devono essere lucide, rapide e chiare perché il nemico è velocissimo! Come è stato in questi giorni, sostenuto da un vento che è arrivato a spirare fino a 38 nodi orari, il più grande alleato, suo malgrado, degli assassini della natura.

    Serve cambiare cultura

    Così mi faccio persuaso che non ci sarà alcun rimedio a questa battaglia senza fine e senza quartiere se non ci sarà una nuova cultura ambientale, ecologica, la stessa che eviterebbe le spiagge luride di spazzatura. Se non si abbatte la giungla di responsabilità burocratiche. Se non si crea una sola autorità statale, e poi regionale, con un coordinamento tra regioni più colpite, e non si torna a formare contadini antichi come Gigi, dotati di mezzi moderni, ma soprattutto di buon senso. Se non smette l’omertà con cui troppe volte si coprono tutte le responsabilità di chi sa e non dice, e di chi avrebbe dovuto agire e non ha agito. Anche di magistrati, che presi da altri interessi mettono da parte le inchieste sui roghi e le lasciano marcire in qualche cassetto, mentre potrebbero infliggere eclatanti pene.

    Acri, la Calabria, il Sud, che pagano molto di più il disastro di quanto non sarebbe costata la buona prevenzione, piuttosto che leccarsi le ferite devono agire già da ora, senza attendere la prossima, drammatica apocalisse incendiaria, prevenendo con lungimiranza e coinvolgendo tutti, le scuole, i cittadini, forze dell’ordine, pubbliche amministrazioni.

  • Porti, Sud e PNRR: dov’è la visione strategica?

    Porti, Sud e PNRR: dov’è la visione strategica?

    La questione marittima, quindi dei porti, può costituire una delle opportunità da cogliere per riportare l’economia meridionale in una linea di galleggiamento, dopo i recenti decenni che hanno aumentato il divario rispetto al centro-nord. In un Paese con oltre 8.000 chilometri di coste, la cerniera tra territorio e mondo costituita dai porti è uno degli elementi fondamentali per interpretare il ruolo dell’Italia nell’economia internazionale.
    Eppure, nonostante l’evidente natura strategica della questione, tale tema stenta a trovare il posto di rilievo che dovrebbe avere nella discussione pubblica sulle prospettive dell’Italia. Me ne sono occupato in un recente libro, pubblicato da Guida editore: “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”.

    I porti meridionali sullo sfondo del PNRR

    Anche nel Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) non emergono novità particolarmente significative nella visione del sistema portuale italiano. Prosegue una concezione delle infrastrutture che si disarticola per le diverse modalità, senza un disegno unitario del sistema logistico. Non emerge una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali, logistiche e turistiche su scala internazionale.

    Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est.vIntanto tutto lo scenario si è radicalmente modificato, e noi non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nell’era delle catene globali del valore, e nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme.

    Il treno della rivoluzione tecnologia è passato

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata dal treno della rivoluzione tecnologica, restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economia di costo. È mancata una visione strategica ed ora se ne vedono le conseguenze, dopo una lunga stasi della produttività totale dei fattori.

    Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo nazionale. Non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del Mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha intercettato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai 24.000 contenitori per le unità più grandi.

    I monopolisti del settore

    Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato. Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers.

    MSC è il secondo armatore al mondo, subito dopo Maersk: tra le due aziende si è formata una alleanza che assieme ad altri due raggruppamenti governa quasi il 90% del traffico containers. La stessa MSC sta raggiungendo un dominio particolarmente esteso nei terminal portuali italiani del Mar Tirreno, con il governo dei terminal containers a Gioia Tauro, Napoli, Civitavecchia, Genova.
    Gioia Tauro, che aveva conosciuto nella seconda metà degli anni Novanta ed all’inizio del nuovo millennio una crescita particolarmente robusta, sta tornando in questi mesi ai livelli di traffico precedenti. Proprio l’acquisizione del terminal da parte di MSC, che prima era azionista al 50%, ha determinato un rilancio delle quantità di contenitori concentrate nel porto calabrese.

    Nel disegno della portualita’ italiana che viene tracciato dal PNRR torna di attualità la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare.
    Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualità (3,3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro.

    Il ruolo delle ZES

    La novità più significativa, aggiunta nella fase conclusiva della redazione del PNRR, riguarda il rilancio delle zone economiche speciali (Zes). Il Governo di Mario Draghi, per iniziativa del ministro Mara Carfagna, ha assunto, nell’ambito del Decreto Semplificazioni, l’opportuna iniziativa di varare l’autorizzazione unica per insediare nelle Zes nuovo stabilimenti industriali e logistici: rispetto alle 34 autorizzazioni precedentemente necessarie si tratta di un rilevante passo in avanti per attrarre investimenti e rilanciare lo sviluppo. Questo provvedimento si affianca ai 630 milioni di euro previsti per rafforzare l’armatura infrastrutturale delle Zes, portando a circa 4 miliardi il totale delle risorse stanziate per il sistema portuale italiano nel PNRR.

    Lo strumento delle zone economiche speciali, che sono oggi più di 5.000 nel mondo, costituisce una nuova chiave di politica industriale che ha rappresentato la formula di successo dei porti di Tanger Med in Marocco o Shenzhen in Cina. Anche qui, però, non si può pensare che le zone economiche speciali abbiamo successo se il Paese non sarà in grado di intercettare le catene globali del valore con le quali si articola l’economia mondiale. Un solo dato potrebbe aiutare a riflettere: negli anni settanta del secolo passato operavano circa 7.000 grandi aziende multinazionali. Ora questo munero è arrivato a superare quota 140.000: l’Italia, invece, continua ad essere caratterizzata da medie e piccole imprese, se si esclude qualche caso di aziende che però definiamo “multinazionali tascabili”.

    La Cina è vicina

    La danza del cambiamento è guidata dalla grande dimensione, e gli altri soggetti economici sono sostanzialmente vassalli nella struttura delle catene globali del valore. Senza un riposizionamento economico del tessuto produttivo, nazionale e meridionale, sarà davvero molto difficile tornare a contare nel disegno della geopolitica internazionale, composta da poteri economici che strutturano i mercati, determinando una gerarchia concorrenziale.

    Alla base di un disegno strategico così lacunoso sul sistema portuale italiano esiste una carenza di visione geopolitica e geoeconomica. Per l’intera Unione Europea la partita dei prossimi due decenni si giocherà nel Mediterraneo: un quarto dei traffici marittimi mondiali transitano nel Mare Nostrum, all’interno del quale la Cina ha posizionato le due pedine strategiche di posizionamento nel porto del Pireo e nei porti del Nord-Africa. Dal punto di vista militare la Russia e la Turchia stanno progressivamente incrementando la propria sfera di influenza mediante il ricorso ad una presenza militare sempre più visibile, dalla Siria alla Libia.

    L’Ue e il Mediterraneo

    L’Unione Europea non potrà mai aspirare ad un ruolo nel confronto tra le grandi potenze se non sarà in grado di imporre il proprio punto di vista in casa sua, vale a dire nel sistema mediterraneo. L’Italia potrebbe e dovrebbe svolgere questo ruolo, assieme a Francia, Spagna, Grecia. Il Next Generation EU prevedeva non soltanto azioni nazionali dei singoli membri, ma anche interventi trasversali di diverse Nazioni su temi strategici di interesse comune. Che a nessuno sia venuto in mente di costruire un disegno di consolidamento e di sviluppo per il Southern Range mediterraneo è sintomo di una grave debolezza strategica del pensiero comunitario.

    Nulla si dice sulla necessità strategica di potenziare le autostrade del mare tra la sponda nord e quella Sud del Mediterraneo, così come è stato fatto nel Nord Europa, dove questi collegamenti sono finanziati con risorse comunitarie. Sarebbe nell’interesse comunitario intessere una rete fitta di collegamenti marittimi nello spazio mediterraneo per contrastare l’egemonia cinese.

    Le connessioni, oltre alle infrastrutture, giocano un ruolo di assoluto primo piano nella politica commerciale internazionale, perché determinano opportunità di scambio che possono modificare anche la mappa delle relazioni internazionali dalla quale dipende il confronto concorrenziale tra i grandi blocchi economici.
    Si rischia di perdere una grande occasione che riguarda non solo l’Italia, ma l’intera Europa. Nello spazio economico mediterraneo si gioca una delle partite decisive per il posizionamento geostrategico in un mondo che sarà caratterizzato da una globalizzazione sempre più di natura regionale.

    La principale innovazione contenuta nella ultima versione del PNRR riguarda lo stretto legame che si costruisce tra piano degli investimenti e riforme per la modernizzazione. Sin dall’inizio questo principio costituiva un pilastro nelle linee guida del Next Generation EU.
    Anche per l’organizzazione futura dei porti il disegno riformatore sarà un elemento centrale. Sono previsti una serie di interventi importanti per superare gli immobilismi che hanno rallentato la competitività del sistema italiano. Innanzitutto, la semplificazione normativa dovrebbe consentire tempi di attraversamento minori per la realizzazione degli investimenti.

    Poi sarà definito finalmente un regolamento sulle concessioni che si attende dalla legge 84/94, con la definizione dei criteri in base ai quali saranno assegnate ai privati le concessioni delle attività economiche nei porti.
    Si vedrà come saranno superare le resistenze che si preannunziano già per le concessioni turistico ricreative, per le quali oggi esiste una legge nazionale, in ampio e chiaro contrasto con la normativa comunitaria, che prevede una proroga di queste concessioni al 2033.

    Riforme con una visione

    Proprio sul fronte delle riforme si potrà misurare l’efficacia delle azioni previste dal PNRR. Superare l’ingessamento burocratico – che ha sinora impedito una risposta competitiva dei porti italiani rispetto alla evoluzione dei mercati – sarà la sfida fondamentale per consentire al sistema portuale italiano di supportare il tessuto industriale mediante una adeguata organizzazione logistica.
    Resta però la necessità di allargare la vista, e di considerare il futuro della portualità italiana all’interno di un orizzonte più vasto, connettendola al rilancio industriale, alla logistica, al ridisegno delle relazioni internazionali. Non si tratta solo di costruire infrastrutture. È necessario avere una visione.

    E non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’economia nazionale continua ad essere caratterizzata da una componente di produzione sommersa ed illegale. I porti rispecchiano anche queste antiche distorsioni del nostro Paese, anche e soprattutto nel Mezzogiorno. Ed i porti italiani, anche quelli meridionali, si caratterizzano per tutta una serie di traffici illegali: dal traffico di armi a quello della droga, dalle esportazioni di rifiuti pericolosi alla importazioni di prodotti contraffatti.

    Stroncare l’illegalità è un requisito indispensabile per rilanciare la portualità nazionale nello scenario dell’economia globalizzata dei nostri tempi. Oggi invece siamo stretti nella doppia gabbia di un modello economico entrato in crisi irreversibile, e di un sistema che spesso funziona andando oltre la soglia della legalità.

    Il sistema a un bivio

    Il combinato disposto di questi due mali conduce alla marginalizzazione dell’Italia e del suo Mezzogiorno. Le ingenti risorse che l’Unione Europea ha deciso di investire in Italia servono proprio a riscrivere i meccanismi di funzionamento del sistema. I prossimi passi sulle riforme saranno davvero decisivi. I primi tre pilastri che stiamo affrontando riguardano la riforma della giustizia, la legge sulla concorrenza, la riforma delle concessioni. Si vedrà dall’esito finale delle votazioni parlamentari se ne usciremo con adattamenti gattopardeschi oppure se, una volta tanto, decideremo davvero di imboccare la strada, difficile ma necessaria, del cambiamento e della trasformazione.