Categoria: Opinioni

  • Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Ero un bambino di undici anni nell’estate del 1980. Vivevo a Feruci, una frazione di Trenta, un piccolo paese incastonato tra le colline sopra Cosenza, dove il tempo scorreva lento, scandito dal sole cocente e dal chiacchiericcio dei compaesani.

    Era un pomeriggio come tanti, di quelli in cui il caldo ti spinge a cercare l’ombra. Giocavo con i miei amici – Francesco, Michele, Gianluca, Enzo – tra i vicoli stretti, con le nostre risate che rimbalzavano tra le case di pietra. Ogni tanto ci fermavamo a riprendere fiato, seduti sui gradini della chiesa vicino casa mia. Lì, sotto l’ombra del campanile, c’era Zu Franciscu, che tutti chiamavano, chissà perché, “Mappappu”. Seduto con le sue canne di vimini, le sue mani nodose intrecciavano panieri che sembravano opere d’arte.

    Ogni tanto alzava lo sguardo, borbottava qualcosa e tornava al suo lavoro, mentre noi lo osservavamo con una sorta di reverenza. Quel giorno, però, l’aria era diversa. Non era solo il caldo soffocante di giugno o il ronzio delle cicale. Le voci degli adulti erano più concitate, i toni più gravi. Sentivo frammenti di discorsi su un aereo caduto, un Mig libico, dicevano, precipitato a Castelsilano, non lontano da noi. La notizia arrivava dai telegiornali, quelli che i grandi guardavano la sera davanti ai vecchi televisori a tubo catodico. “Un aereo militare”, “i libici”, “la strage di Ustica”: parole che, per me, erano solo pezzi di un puzzle troppo complesso per un bambino di undici anni. Seduto sui gradini, con il rumore delle canne di Zu Franciscu in sottofondo, ascoltavo i grandi.

    Le autorità e i servizi controllano l’area dove è caduto l’aereo libico

    Quell’aereo caduto sulle montagne 

    Parlavano di quel MiG caduto sulle montagne, qualcuno lo collegava a un altro disastro, un aereo di linea scomparso nel mare vicino Ustica. Non capivo tutto, ma parole come “guerra”, “mistero”, “aereo abbattuto” accendevano la mia immaginazione. Nella mia mente di bambino, vedevo aerei sfrecciare nel cielo e scoppi improvvisi, ma tutto sembrava lontano, quasi irreale, anche se Castelsilano – appena oltre San Giovanni in Fiore, verso Crotone – non era poi così distante. Potevo quasi immaginarlo, quell’aereo, precipitare tra le colline del marchesato. Zu Franciscu, con il suo cappello di paglia sgualcito, scuoteva la testa. “Cose grosse, troppo grosse,” borbottava, senza smettere di intrecciare. Non so se capisse davvero, ma il suo tono tradiva inquietudine. I miei amici continuavano a giocare, ma ogni tanto si fermavano, incuriositi. “Ma che ci faceva un aereo libico qui?” chiese uno di loro. Nessuno seppe rispondere.

    Il pilota e l’ombra scura della guerra

    Io mi immaginavo un pilota straniero, con una divisa piena di medaglie, perso in un cielo che non era il suo. Quella sera, a casa, la televisione era accesa, e i miei genitori parlavano a bassa voce, come se non volessero farsi sentire. “Strage di Ustica“, “Il Mig di  Castelsilano”: parole che si mescolavano al profumo dei pomodori freschi, al suono delle posate, alla normalità di una serata estiva. Eppure, qualcosa era cambiato. Per la prima volta, il mondo dei grandi mi sembrava più complicato. Non era solo il gioco nei vicoli o i panieri di Zu Franciscu. C’era qualcosa di più grande, che non capivo ma che sentivo pesare. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, quel ricordo è ancora vivido. Non so se il MiG di Castelsilano fosse davvero legato alla strage di Ustica, come dicevano i grandi. So solo che per un bambino di undici anni, seduto sui gradini di una chiesa, con il suono delle canne di vimini e le voci preoccupate dei compaesani, quel giorno d’estate del 1980 fu il primo in cui il mondo sembrò improvvisamente più grande, più misterioso, e forse più spaventoso.

    Un frammento identificativo di quel che restava dell’aereo da guerra

    Il mistero custodito dalla Timpa delle Magare

    Il mistero della Timpa delle Magare, dove il MiG-23 libico precipitò, resta vivo. A Castelsilano alcuni testimoni raccontarono di aver visto un aereo volare basso, seguito da pennacchi di fumo, prima del silenzio e del bagliore delle fiamme.

    Accanto ai rottami, il corpo del pilota, Ezzedin Fadah El Khalil, in avanzato stato di decomposizione, suggeriva una morte risalente forse al 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, quando un DC-9 Itavia si inabissò nel mar Tirreno con 81 persone a bordo.

    La Timpa delle Magare non è solo un luogo fisico. Nel dialetto calabrese, “magare” significa “streghe”, e il nome evoca leggende di donne sapienti, spiriti della montagna, custodi di segreti antichi. Un aereo militare straniero che precipita in un posto così non è solo un evento: è un’interruzione, uno strappo nel tessuto della comunità. Le autorità parlarono di un malore del pilota, ma le incongruenze – il corpo decomposto, le testimonianze discordanti, i fori sulla fusoliera – alimentano teorie di complotti e battaglie aeree. Secondo il giudice Rosario Priore, che condusse un’inchiesta monumentale, il DC-9 Itavia fu abbattuto durante un’azione militare, forse per intercettare un aereo libico che si pensava trasportasse Gheddafi.

    Il giudice Rosario Priore

    Alcuni testimoni parlarono di due caccia che inseguivano un terzo velivolo, lungo una rotta che da Ustica portava a Castelsilano. Il MiG potrebbe essere stato abbattuto o essersi schiantato durante quell’azione, finendo tra i boschi della Sila. Per gli abitanti di Castelsilano, la Timpa delle Magare è diventata un luogo della memoria, ma anche del silenzio. Come in molte comunità rurali, hanno imparato a convivere con i segreti, a non fare troppe domande.

    Tutta la verità ancora manca, ma forse a saperla sono le “magare”

    Ripensando a quel bambino di undici anni, oggi gli occhi di adulto e la consapevolezza di come le cose non siano come appaiono, mi restituiscono l’impressione che la Timpa delle Magare non è sia solo un spazio geografico, ma un luogo simbolico. È un crocevia di narrazioni, dove la memoria collettiva si intreccia con il trauma di un evento inspiegabile. È un luogo liminale, sospeso tra realtà e mito, dove la verità sbiadisce e si sottrae allo sguardo degli uomini rifugiandosi tra le ombre delle “magare”

     

    Un frammento scelto dal film Il Muro di gomma, di Marco Risi: le scene dell’indagine del giornalista sull’altopiano silano, dove il Mig era precipitato.

  • La terra senza voto e senza candidati

    La terra senza voto e senza candidati

    Nella graduatoria, per regioni, dell’astensionismo agli ultimi referendum, la Calabria si colloca   al terzo posto, preceduta dalla Sicilia e dal Trentino. Non è certo una novità che siano in molti gli elettori calabresi che disertano le urne nelle occasioni elettorali. Il dato della scarsa partecipazione elettorale dei calabresi ai referendum, però, stride con l’altro dato sulla partecipazione che si era registrato nelle ultime comunali di soli 15 giorni prima. Nelle comunali del maggio 2025, infatti, i calabresi avevano votato (gli elettori erano stati il 60,9%, percentuale più alta della media nazionale che è stata del 56,3%) più che in altre regioni e più di un punto e mezzo superiore alle precedenti elezioni comunali degli stessi comuni al voto.

    Nelle comunali del 2025, la Calabria, insieme alla Liguria, “trainata” dalla città di Genova, sono state le due regioni dove la partecipazione è aumentata rispetto alla precedente elezione, segnando un evidente contrasto alla tendenza crescente dell’astensionismo in Italia in tutti i tipi di elezioni.

    La Calabria tra le regioni con la più bassa partecipazione elettorale

    In Calabria è forte il richiamo del voto personale

    Se per la Liguria era stata la scelta del sindaco del comune di Genova a suscitare interesse nei cittadini-elettori, in Calabria i tanti candidati consiglieri sono riusciti a mobilitare molte di quelle persone che solitamente non si recano a votare anche nelle elezioni più importanti. In Calabria il voto alla persona rimane, forse, il principale criterio della scelta elettorale.

    In questi referendum, come d’altra parte in quasi tutti gli altri referendum abrogativi che si sono svolti in Italia, l’astensione è diventata opzione strategica – messa in campo dai partiti contrari alla cancellazione degli articoli di legge sottoposti al vaglio della democrazia diretta – per far mancare il quorum e rendere nulla la consultazione popolare attraverso questa forma di democrazia diretta. Quindi la lettura dei dati sull’astensionismo deve tener conto di questa opzione che giustifica, però, solo in parte i bassi livelli di partecipazione.

    La separazione tra cittadini e partecipazione politica rappresenta un segnale preoccupante

    La bassa partecipazione indica la scarsa attenzione verso il funzionamento della democrazia

    I cittadini che si recano a votare, oltre a confermare l’importanza dei diritti politici, sono espressione di senso civico e di appartenenza ad una comunità politica. Bassi livelli di partecipazione a dei referendum che ponevano questioni importanti, anche se non di interesse generale, sono indicativi dello scarso interesse che i cittadini hanno verso la politica e al funzionamento della democrazia e delle istituzioni.

    Cosenza la provincia dove si è votato di più

    Analizzando più nel dettaglio il dato della partecipazione della Calabria, pur nella poca rilevanza delle percentuali, si registrano differenze di un certo rilievo fra le province. Cosenza è la provincia con la più alta percentuale di partecipanti con il 26,2%, segue Catanzaro con il 23,8% (dove ha influito il ballottaggio delle comunali di Lamezia, svoltosi in contemporanea ai referendum) mentre le restanti province spaziano dal 19,1% di Crotone al 20,1% di Reggio Calabria, con Vibo Valentia al 19,6%.

    A Lamezia e in altri comuni i candidati mobilitano gli elettori

    Più interessante è andare a vedere quali comuni occupano sia i primi posti che gli ultimi della graduatoria regionale della partecipazione. Ai primi posti troviamo, oltre a Lamezia, alcuni dei comuni più popolosi ma anche piccoli e piccolissimi comuni, dove, evidentemente, c’è stata una qualche mobilitazione – messa in atto dal sindaco, dal partito, dal sindacalista, ecc. – che, secondo la statistica, ha collocato questi comuni sopra la media della partecipazione regionale e nazionale.

    San Luca e Platì sono i paesi dove si è votato di meno e dove non si trovano candidati

    A San Luca e Platì il record di astensione

    In fondo alla graduatoria regionale, agli ultimi due posti, troviamo Platì con il 4,9% di votanti e San Luca, 5,7%. Questi due comuni della provincia di Reggio Calabria sono i comuni d’Italia con il maggiore astensionismo: solo un elettore su 20 è andato a votare! Si può leggere questo dato in diversi modi che, però, conducono tutti all’interpretazione ovvia di un evidente scollamento fra questi cittadini e le istituzioni. Non interessano i quesiti referendari a questi cittadini, magari alle prese con questioni ben più gravi, così come, da tempo, sembrano non essere interessati alle vicende del funzionamento istituzionale del comune, della regione, della nazione.

    È quello che possiamo affermare osservando i livelli della partecipazione al voto in questi due comuni e che, purtroppo, non sono gli unici a trovarsi in questa condizione della provincia di Reggio Calabria. A Platì, consiglio comunale sciolto ben tre volte per infiltrazione mafiosa, nell’ultima elezione comunale svoltasi ha partecipato il 33,1% degli elettori. Nelle regionali del 2021 i votanti sono stati il 28,7%; alla Camera, nel 2022, ha votato il 31,3% dei cittadini. Alle Europee dello scorso anno a Platì ha votato solo il 13,5% degli aventi diritto.

    La rassegnazione e la mancanza di candidati

    San Luca, anch’esso comune sciolto ben tre volte per infiltrazione mafiosa, è da tempo che non riesce ad avere un sindaco demoeletto. Non si trovano cittadini disposti a candidarsi al governo del comune probabilmente anche perché lo scioglimento per infiltrazione mafiosa sembra un evento inevitabile. L’ultimo commissariamento risale allo scorso marzo quando la guida del comune era stata affidata dal prefetto ad un commissario straordinario, a causa della mancata presentazione di liste nelle elezioni comunali. Nelle regionali del 2021 a San Luca aveva votato il 23,6% degli aventi diritto; alla Camera nel 2022 aveva votato il 21,5%; alle ultime Europee la percentuale si era abbassata al 21,5%.

    La mancata partecipazione dei cittadini è un pericolo per la qualità della democrazia

    Un deficit democratico cui sembra non si possa rimediare

    Se uno dei principali indicatori del funzionamento istituzionale della democrazia è il grado della partecipazione politica ed elettorale dei cittadini, questi dati su San Luca e Platì, i comuni più “astensionisti” d’Italia, rappresentano un serio allarme. In verità, questa situazione di deficit democratico si prolunga peggiorando nel tempo e sembrano non esserci, al momento, soluzioni che possano fermare questo declino. È di tutta evidenza che l’intervento dello Stato, soprattutto con l’insediamento dei vari commissari, organi straordinari sostitutivi della pubblica amministrazione, non ha prodotto risultati apprezzabili. L’attestazione di questo “fallimento” si può leggere proprio nei dati sulla partecipazione elettorale, in questa come in tutte le altre occasioni, nei quali si riscontra tutta la sfiducia e diffidenza dei cittadini nei confronti delle istituzioni democratiche.

    Roberto De Luca
    docente di Sociologia dei Fenomeni Politici

     

  • Una generazione cancellata dalla Calabria

    Una generazione cancellata dalla Calabria

    La piccola borghesia da cui provengo, che è quella che Brunori Sas ha ben descritto in una sua canzone, è la borghesia che non ce l’ha fatta. Non è riuscita a fare il salto di qualità che le aveva promesso la falsa ideologia di uno sviluppo infrangibile verso le praterie dell’abbaglio capitalista. È quella che ha edificato in centro, sì, ma appena fuori dal centro che conta. La borghesia che continua a fare della Calabria il regno dei “vorrei, ma non posso”, tradita ed orfana di certe velleità che ha comunque riversato, di generazione in generazione, sui figli come un imprinting.

    Quale Eldorado?

    La generazione di quelli come me, educati a questo inganno, è cresciuta nel velleitarismo di essere attesa dall’Eldorado vagheggiato dai propri genitori. Ma quell’Eldorado lo avremmo dovuto cercare ovunque tranne che in Calabria. Perché qui, dove oggi sono tornato, niente c’era e niente ci sarebbe stato.
    Avremmo dovuto emigrare al Nord in sella a destrieri di risentimento e disprezzo. Tutti figli di quel senso di vergogna ereditato e interiorizzato da genitori che si sono arresi – se non accomodati – al processo di abdicazione delle proprie radici e di quella cultura contadina da cui tutti proveniamo. Qualcosa che il Boom economico degli anni Sessanta era chiamato a spazzare via.

    Radici nella plastica

    Un abbraccio mortale a pattern culturali, antropologici e sociali estranei che, in enclavi come Cardeto, o Pentedattilo o Roccaforte del Greco, avevano condotto alla sistematica sostituzione del rame e della terracotta con la plastica. Una nuova deificazione del benessere legato a un modernismo che solleticava i più sordidi istinti di invidia sociale. L’erba – o la plastica – del vicino era sempre più verde e sarebbe toccata anche a noi. Così mi ha raccontato un mastro zampognaro aspromontano descrivendo lo spasimo di sua madre verso i nuovi utensili sfoggiati dalla vicina modernista.

    Paesi e radici chiusi come reliquie nei musei

    Identità in estinzione

    Rame e terracotta, però, non erano simboli di un passato straccione da dimenticare. Erano elementi distintivi del nostro genoma di popolo che lentamente – e manco troppo – venivano relegati in teche da museo etnografico, col loro numero di serie da esemplare in estinzione. Fin quando turismo esperienziale e marketing territoriale li avevano elevati allo status di “marcatori identitari”, una sorta di olio crismale con cui consacrare miracolose strategie di sviluppo territoriale. Più supposte che reali, tanto per rimanere in tema di quote WWF.

    C’è una generazione, con competenze sofisticate, che ha lasciato la Calabria

    Calabria: una generazione non c’è più

    Eradicazioni, perdite, sostituzioni culturali unite a fenomeni come la carenza di lavoro, l’ineducazione alla sua cultura, deficit infrastrutturali tramutatisi in mutilazioni di competitività, narrazioni ideologizzate e criminalizzanti hanno provocato la perdita della mia generazione.
    Invece di origini e radici, ci hanno trasmesso un senso di colpa e arrendevolezza già appartenuto ai  nostri genitori: per loro si è manifestato con la violenza dello stigma; per noi si è annacquato nel grottesco, se non nel folkloristico, da ritrovare una o due volte l’anno. Il tempo dedicato al ritorno del fuorisede da su.

    Trenta e quarantenni in Calabria non ci sono più e, se ci sono, si tratta di appartenenti a due categorie: quelli che non sono potuti partire e i romantici che hanno fatto della vocazione al riscatto della propria terra una missione impossibile. Una vocazione al martirio.

    Eterna nostalgia e mezze verità

    Un fenomeno speculare a quello verificatosi nella Calabria greca, con esiti ancora più disastrosi, quando gli anziani, apostrofati come stupidi, parpatuli e paddhechi, di fronte al tramonto del greco di Calabria come lingua veicolare, decisero di smettere di parlarlo per dare una nuova chance di vita ai propri figli, che non sarebbero così stati condannati a un destino da caprari.

    Il biennio di insegnamento al liceo classico della mia città mi ha reso evidente questo sradicamento poi trasmesso alle generazioni successive. Davanti a me c’erano ragazzi privi di memoria e coscienza storica. Poco o nulla conoscevano del passato del proprio popolo o territorio, convinti anche loro di essere capitati per errore in una terra di mezzo che presto avrebbero abbandonato per sempre.
    Una terra da dimenticare, senza opportunità, per cui non vale la pena di combattere, ma per la quale tenere vivo un senso di eterna nostalgia, straziati tra il dover andare e l’eco del bisogno di tornare.
    In tutto questo nessuno si è reso conto che le mezze verità a furia di raccontarle, sostituiscono le vere verità.

  • Voto solo se posso scegliere

    Voto solo se posso scegliere

    La tornata delle ultime elezioni comunali in Calabria conferma, in fatto di partecipazione elettorale, una tendenza di notevole importanza politica. Nelle comunali in Calabria si vota più che nelle elezioni politiche e nelle altre elezioni, e si vota molto di più di gran parte dei comuni delle regioni del Centro e del Nord. Cioè i dati della partecipazione alle comunali in Calabria, e nelle altre regioni meridionali, rappresentano l’inversione di quanto succede nelle altre elezioni dove le percentuali di voto delle regioni del Centro-Nord sono storicamente molto più alte di quelle del Sud.

    Voto perché posso scegliere

    La principale motivazione che muove tanti cittadini meridionali a recarsi ai seggi solo nelle elezioni comunali è presto detto: nelle comunali l’elettore ha l’opportunità di scegliere i candidati da eleggere. Questo potrebbe essere un buon motivo per spingere i cittadini, ovunque risiedano, a votare, soprattutto in un periodo di grave crisi dei partiti politici che, a volte, “impongono” e fanno eleggere candidati non sempre graditi che formano, nel caso di Camera e Senato, un Parlamento definito di nominati anziché di eletti, nel senso di persone scelte da tutti i cittadini. La distinzione dell’approccio alle elezioni fra cittadini meridionali e cittadini centro-settentrionali ha radici soprattutto nella diversa cultura politica e in un comportamento del voto che predilige, il più delle volte, la persona, il candidato, al partito.

    Il meccanismo delle preferenze e il rischio del voto di scambio

    Il rischio di voto di scambio

    Al voto di preferenza spesso viene associato il voto di scambio nella formulazione patologica del clientelismo. Ma se il voto alla persona è così largamente diffuso diventa questa la modalità normale, il principale criterio nella scelta elettorale, pur inglobando in questa normalità quella parte distorsiva del clientelismo.

    Il voto di preferenza, quindi, disegna le differenze di partecipazione degli elettori fra i diversi territori. Ad alti tassi di preferenza (il rapporto fra voti di preferenza espressi e numero di preferenze esprimibili) corrispondono, solitamente, più alti tassi di partecipazione elettorale. Nelle regioni meridionali gli indici di preferenza, nelle elezioni dove è possibile esprimere questo tipo di voto, è storicamente molto più alto che nelle altre aree del Paese. E se la partecipazione è il criterio per stabilire la rilevanza di una elezione, potremmo affermare che nei comuni del Sud le comunali sono le più importanti elezioni. La controprova di questa affermazione la possiamo rilevare osservando i dati di partecipazione al secondo turno delle elezioni.

    Al secondo turno meno elettori

    Può succedere che nei comuni calabresi si verifichi un calo di partecipazione notevole al secondo turno. Ad esempio nella precedente elezione del comune di Lamezia, nel 2019, si è passati dal 55,0% di votanti al primo turno al 30,0% del turno di ballottaggio. Ciò a conferma che non essendoci più in campo i candidati consiglieri, viene meno l’interesse dell’elettore che, evidentemente, è poco attratto dal partecipare all’assegnazione della posta in gioco più importante, quella dell’elezione del sindaco, riservata a due sole persone.

    Una vignetta dei primi anni del Novecento che ironizza sull’astensione

    La rilevanza del voto di preferenza

    Per avere una misura di quanto incida il voto di preferenza sulla partecipazione, riportiamo alcuni dati dei comuni calabresi e di altre parti d’Italia nel raffronto fra le ultime comunali e le ultime elezioni della Camera, quelle del 2022.  A Rende, rispetto alle elezioni politiche del 2022, nelle comunali di maggio 2025 si sono recati ai seggi 4.299 elettori in più, pari al 14,5% di un maggior numero di votanti se consideriamo come base il numero di aventi diritto al voto per le elezioni della Camera, dato che il corpo elettorale per le elezioni comunali è gravato dagli elettori residenti all’estero che, di fatto, non partecipano alle votazioni. A Lamezia nelle comunali hanno partecipato in più rispetto alle politiche ben 10.693 cittadini, pari ad una maggiore partecipazione del 20,3%. A Cassano 2.995 elettori in più, pari a più 23,0%. A Isola Capo Rizzuto, gli elettori in più partecipanti alle comunali sono stati 3.920, pari ad una maggiorazione rispetto alle politiche del 32,0%; a Isola C.R. si è avuta la partecipazione più alta fra i comuni calabresi con il 71,0%, mentre alla Camera nel 2022 i votanti erano stati il 44,1%, una delle percentuali più basse della Calabria: potenza del voto di preferenza. Giusto per sottolineare le differenze fra i valori della partecipazione, riportiamo tre esempi di comuni del Nord.

    L’astensione diminuisce quando si possono scegliere i candidati cui dare il voto

    Nel meridione si vota di più

    A Genova nelle ultime comunali hanno votato 31.874 elettori in meno (-7,2%) rispetto alle elezioni della Camera nel 2022. A Ravenna gli elettori in meno alle comunali sono stati 22.078, pari a meno 18,5% rispetto alle politiche. A Rozzano (MI) gli elettori in meno alle comunali sono stati 4.678, pari al 15,3%. Questo effetto della maggiore partecipazione per l’elezione del sindaco e dei consigli nei comuni del meridione si può rilevare nei dati complessivi della partecipazione per regioni, anche se tali dati possono essere inficiati da un campione poco rappresentativo dato che a questa tornata comunale sono stati interessati pochissimi comuni.

    In Calabria l’affluenza più alta

    In Calabria ha partecipato alle ultime comunali il 60,9% degli aventi diritto, valore più alto della media nazionale del 56,3%. E così in tutte le altre regioni meridionali il valore della partecipazione è superiore alla media nazionale, mentre nelle regioni settentrionali, tranne nel Piemonte dove si è votato solo in 9 piccolissimi comuni, la percentuale di partecipanti risulta più bassa della media complessiva nazionale.

    Alle amministrative l’affluenza è sempre maggiore

     

    L’equivoco delle liste civiche

    Un’ulteriore conferma del comportamento elettorale dei calabresi è riferibile al successo delle liste non partitiche che – erroneamente – vengono riportate come liste civiche. Le liste effettivamente civiche sono espressione di movimenti, associazioni, gruppi che operano nella società civile, mentre le liste non partitiche sono tutte quelle formazioni che mettono insieme nell’occorrenza della presentazione delle liste – a volte, anche in maniera abbastanza “disordinata” – dei candidati, portatori di consensi, che aspirano ad essere eletti nel consiglio comunale. Tali liste spesso ottengono percentuali di voto più alte dei partiti nazionali, proprio a conferma che gli elettori esprimono il proprio consenso più ai candidati che alla proposta politica della lista.

    Referendum a rischio

    Ci sia consentita, in conclusione, una battuta sulle prossime elezioni dell’8 e 9 giugno, che riguarderanno tutti gli italiani, e cioè il voto sui quesiti referendari. In una elezione dove sarà fondamentale la partecipazione per il raggiungimento del quorum e la validità del referendum, in Calabria dobbiamo aspettarci che molti elettori resteranno a casa perché…non avranno da scegliere dei candidati.

    Roberto De Luca
    docente di Sociologia dei Fenomeni politici

     

     

  • Incandidabilità ed elezioni amministrative

    Incandidabilità ed elezioni amministrative

    È peculiare trovarsi di fronte, nel corso di ogni campagna elettorale, ad una annosa questione, che dovrebbe ricevere l’attenzione del legislatore statale, il quale, invece, appare “preferire” affidare il controverso tema della incandidabilità ad ogni momento storico o, preferibilmente, alle autorevoli voci delle Corti. Il caso calabrese appare, probabilmente, il più emblematico, poiché è in questa terra che si concentra il maggior numero di comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e, di conseguenza, è teatro di dibattiti circa l’incandidabilità. In particolare, ci si riferisce alle consultazioni elettorali che riguardano il Comune di Rende.

    La decisione della Commissione antimafia e le polemiche

    La Commissione Antimafia ha stilato una lista di incandidabili, che, come prevedibile, ha suscitato polemiche e prese di posizione. Nel Comune Rende gli impresentabili sono, tra gli altri, Elisa Sorrentino, Domenico Ziccarelli, e Fabrizio Totera, i cui nomi compaiono nella lista della Commissione Antimafia, poiché, nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, in cui ora si svolgeranno le elezioni, rivestivano delle cariche o erano componenti della Giunta, al momento del decreto di scioglimento. Dunque, colpevoli per definizione. Cerchiamo, dunque di capirne le ragioni. È da qui che emerge un dibattito, se vogliamo, giuridico- legislativo, ma con opprimenti ricadute sulla vita politica. Tuttavia e per ragioni di brevità, la problematica da esaminare riguarderà soltanto un aspetto dell’art. 143 del Testo unico sugli enti locali (Decreto Legislativo 18 agosto 2000,  n. 267) e, in particolare, il suo comma undicesimo, secondo il quale, “Fatta salva ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento di cui al presente articolo non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo. Ai fini della dichiarazione di incandidabilità il Ministro dell’Interno invia senza ritardo la proposta di scioglimento di cui al comma 4 al tribunale competente per territorio, che valuta la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 con riferimento agli amministratori indicati nella proposta stessa. Si applicano, in quanto compatibili, le procedure di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del Codice di procedura civile”. Una norma di forte impatto, quanto problematica, poiché la locuzione lapidaria “gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento (…) non possono essere candidati alle elezioni (…) in relazione ai due turni elettorali successivi (…) qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo” pare eccessiva nonché porsi in contrasto con i principi generali dell’ordinamento.

    In primo luogo, sembra confliggere con il principio di innocenza, pilastro fondamentale del diritto penale, sancito dall’articolo 27, comma 2, della Costituzione, secondo cui l’imputato non è considerato colpevole finché la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata e non sia stata emessa una sentenza di condanna definitiva. Nella norma in questione, se il reo è individuabile, è il reato a non esserlo, ovvero potrebbe individuarsi nel mero esser stato componente di una giunta sciolta? Il comma 11 dell’art. 143 del TUEL, così come modificato dai decreti-legge 41/2022 e 44/2023, pare prendere le mosse da una “presunzione di colpevolezza”, poiché colpisce coloro i quali sono stati membri di una Giunta comunale colpita dallo scioglimento a prescindere dalle singole condotte.

    La Commissione antimafia ha escluso dalle elezioni di Rende alcuni candidati

    La legge e il rischio di vittime innocenti

    Tuttavia, appare paradossale supporre che un intero organo, soprattutto nei Comuni più popolosi, ogni singolo soggetto sia stato parte attiva del pactum sceleris, intrattenuto con la criminalità organizzata; non si dovrebbe, pertanto, lasciare che tale normativa continui a vigere indisturbata, mietendo vittime, quando nell’ordinamento italiano, come è noto, è già in vigore la c.d. “Legge Severino”, n. 90/2012, circa le incandidabilità. Per giungere al cuore della questione, pare che il legislatore abbia supinamente applicato il criterio
    della successione delle leggi nel tempo, lex posterior derogat priori, non preoccupandosi minimamente di princìpi incontrovertibili. Se anche volessimo lasciare da parte il principio del favor rei, verrebbe in rilievo che l’utilizzo del criterio cronologico, atto a dirimere antinomie normative, appare piuttosto debole quanto ad argomentazione. Anche per i non addetti ai lavori, pare maggiormente plausibile che a prevalere sia la legge speciale, la legge Severino, rispetto alla norma del TUEL.

    La legge Severino

    La Legge Severino, il cui art. 10 circoscrive l’incandidabilità alle elezioni comunali all’esistenza di una sentenza definitiva di condanna per reati quali quello di associazione a delinquere di stampo mafioso, non si limita a punire “condotte” generiche (quali?) che hanno causato lo scioglimento dell’organo elettivo, indicando invece lo specifico reato che deve sussistere affinché il soggetto non sia candidabile. Quello delineato appare, dunque, un quadro caratterizzato da forte incertezza, poiché esistono, al contempo, norme che dispongono diversamente circa la medesima fattispecie, determinando il rischio
    di trattare in maniera uguale situazioni dissimili. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, tuttavia, cercato di giungere a conclusioni maggiormente garantiste per il singolo, parlando di una sorta di “alterazione ambientale” della funzione amministrativa a cui il singolo amministratore partecipa a prescindere dalla propria volontà, e cioè per il solo fatto di essere inserito in una trama sociale non avente di per sé alcun carattere di illiceità. La riforma del 2009, pur specificando che gli elementi sui quali si basa il potere di scioglimento devono essere “concreti, univoci e rilevanti”, ha seguito la medesima strada, ma, in assenza di ulteriori (e necessari) interventi del legislatore, permane l’incertezza normativa.

    Tiziana Salvino
    Borsista di Ricerca, Dispes Unical

  • Il lavoro senza festa

    Il lavoro senza festa

    Il primo giorno di maggio, per secoli, è stata la festa in cui si celebrava la bella stagione, il Calendimaggio. Il Primo Maggio come lo conosciamo noi nasce insieme ai partiti che difendono i lavoratori. A fine ‘800, con l’Internazionale Socialista, di ispirazione marxista, si decide di dedicare un giorno alla rivendicazione universale delle 8 ore. Incredibile ma vero, l’intuizione arriva dall’America, che a inizio ‘900 era tra le patrie del movimento operaio, avendo un grande ruolo in tema di Diritti del lavoro e sindacalismo. Spunto propositivo, il triste epilogo di una grande manifestazione iniziata a Chicago proprio il 1° maggio del 1886. La manifestazione vide un’adesione incredibile tanto da meritare di essere ripetuta fino ai giorni nostri.

    La Festa dei lavoratori nasce dunque in relazione alla richiesta di tutele crescenti in capo ai poveri, quella classe operaia che ha ispirato battaglie sociali e conseguito diritti civili che ci è dato di fruire ad Aeternum, o quasi. In tempi non sospetti mi domandavo perché i protagonisti di quella festa fossero solo persone umili: mi incuriosiva intimamente il fatto che, a essere considerati lavoratori non fossero pure quelli che facevano un lavoro non manuale, quelli con la cravatta li chiamavo! A casa non mi si aizzava contro I padroni, provando piuttosto a ridimensionare la mia critica sociale prematura. Crescendo però, mi sono interessata sempre più alle questioni di matrice sociale, forse proprio perché non mi bastavano le risposte a domande pur lecite, questioni che credo vadano conosciute quanto più dall’interno, approfondite, a livello dottrinale e teorico e, all’occorrenza, denunciate in quanto non accettabili.

    Una festa ritualizzata che rischia di perdere senso

    Aldilà delle celebrazioni infatti, temo ci sia ben poco da esser contenti. Al pari di molte date emblematiche ahinoi, la Festa dei Lavoratori è stata ridotta a formalità pacchiana, se non ipocrita, tant’è che, di anno in anno, sono sempre più convinta del messaggio subliminale insito in quel “Primo maggio su coraggio …” di tozziana memoria, che mi restituisce insospettabile stima nel cantautore torinese! Quest’anno, per l’occasione, nelle parole della presidente del Consiglio possiamo scorgere, con uno slancio di ottimismo e poca critica, un anelito speranzoso: la situazione ci sovviene come ottimale, con un’occupazione senza precedenti che pure non risolve i problemi di chi non arriva a fine mese.

    Checché ne dica Giorgia Meloni la situazione nostrana a livello lavorativo è avvilente. Gli anni che viviamo hanno visto il susseguirsi di prassi e norme tese a svuotare qualsivoglia conquista pregressa in tema di diritto del lavoro: ad oggi il lavoro duro lo continuano a fare quelli che hanno meno tutele e i figli della classe lavoratrice faticano a posizionarsi in ruoli più elevati rispetto a quelli di chi, con grandi sacrifici, ha permesso loro di studiare per elevarsi a condizioni meno disagianti.

    Una manifestazione in occasione del Primo maggio

    Il lavoro sempre più povero

    Oggi lo so, come so che è difficile spiegare a una creatura di una decina d’anni che probabilmente sarà sfruttata! Come si fa a consegnargli l’ipotesi di dover sbattersi il doppio per guadagnare la metà di quelli che la dirigeranno al netto di competenze inferiori alle sue in ambiti che potremmo definire “sensibili” se non li avessimo svelati a noi stessi come “sommersi”? Oltre al danno c’è da considerare la beffa, nella misura in cui, a favorire lo sfruttamento, sono proprio quelli che sarebbero preposti all’advocacy dei lavoratori, primi tra tutti i settori che, proponendosi di supportare le categorie fragili, sfruttano e debilitano le risorse umane a propria disposizione, quale è l’ambito sociale.

    Ho sempre lavorato per organizzazioni non-profit, nessuna di destra, vedendomi riconoscere pochi diritti, economici e fiscali, misurando quanta poca tutela sia riservata al mio settore in questo Paese. Vero è che la destra al potere sta palesando la disaffezione ai non benestanti nel modo peggiore, andando a braccetto coi potenti che, ritenendo di comprare tutto, svendono chiunque non sia funzionale ad una capitalizzazione bieca.

    Le responsabilità della sinistra

    Nella medesima ottica critico le sinistre che lasciano che sia, divenendo complici delle destre quando si tratta di prendere decisioni impopolari. Nonostante la fisionomia sovranista, europea e non, abbia i tratti delle destre al potere, infatti, l’agire politico della controparte, non ha alcun tratto distintivo che favorisca una qualche indulgenza da parte mia, e mi riferisco alle leggi contro gli immigrati, alle tasse non proporzionali al reddito, alle battaglie civili sposate a voce bassa, in un piglio che volendo accontentare tutti, scontenta i più fragili. Per questo, “Odio gli indifferenti” oggi lo interpreto nel significato meno scontato, in riferimento non solo alla complicità, ma anche alla non differenziazione.

    L’egemonia dell’omologazione

    L’omologazione della classe dirigente, come l’omologazione degli individui, è il morbo contemporaneo di matrice capitalistica. L’odierna uguaglianza interclassista non è una conquista, ma un regalo del potere totalizzante dell’edonismo merceologico che le sinistre non hanno scongiurato allineandosi, nel dire e nel fare, a quelli che però, si riservano di additare come fascisti, come si trattasse di una sorta di innatismo che li assolve, perché mai potrà interessarli, un po’ nella falsariga della questioni che si chiamavano “di classe”.

    Pasolini lo denunciava parlando “un potere ancora senza volto”, falsamente tollerante, ma impositivo. “Un nuovo potere ancora non rappresentato da nessuno”, scriveva nel 1974, che palesa la mutazione completa (all’epoca in corso) della classe dominante che tende a omologare, attaccando ogni minoranza in un anelito di standardizzazione funzionale alla gestione della collettività silente. Questo nuovo potere genera e sviluppa nella società del capitale, una forma totalizzante, fascista, che consegue l’omologazione più repressiva. Pasolini parla poi dei codici culturali e addita la sovrapposizione dei comportamentiin capo a schieramenti, ufficialmente, contrapposti. Perché è pericolosa questo allineamento? Perché tende ad escludere ogni differenza, espellendo dal sistema chi non assomiglia allo standard funzionale all’esercizio del potere.

    Oggi che conosciamo il volto di quel potere, perché non corriamo alle contromisure? Perché imbambolati da piccole, false conquiste che ci illudono convenga stare buoni aspettando il miracolo ad personam! Si perché, nel frattempo, ci siamo lasciati convincere che è tutto un magna magna, che non conviene sposare alcuna causa che, prima o poi, si rivelerà ispirata ad un qualche interesse particolare: questo è il danno che ha fatto chi doveva tutelare i lavoratori per mandato, alias, favorire il radicarsi dell’idea che quelli che fanno politica sono tutti uguali e che, a questo punto, convenga votare chi è più spregiudicato e fottipopolo!

    La sinistra ha responsabilità nel non aver c contrastato il precariato

    Lo sfruttamento “bipartisan”

    Lo sfruttamento dei lavoratori in capo ad organizzazione di sinistra, non è forse la forma peggiore di fascismo? L’approccio patriarcale, il mobbing, l’abuso non sono appannaggio della destra: in cosa si distinguono i cittadini e le organizzazioni di destra da quelli di sinistra in questo buffo Paese? Non certo nelle tutele in capo ai lavoratori! Vogliamo ancora credere ad una superiorità di qualche tipo di uno schieramento che si rivolge (solo) ufficialmente alle classi popolari, o riteniamo sia giunto il momento di guardarci in faccia?

    A sfruttare i moti migratori sono state le organizzazioni di sinistra, a propinare i cosiddetti CO.CO.CO. CO.CO.PRO. e altre forme contrattuali ufficialmente illegittime, ma ancora in essere chez nous, sono organizzazioni di sinistra che hanno la gestione pressoché totale del settore: denunciare vuol dire non essere complici, ma viene considerato tradimento, esattamente come avveniva tra camerati, come vogliamo regolarci? Io ritengo non si possa più rimandare quel cambiamento che chiamano Rivoluzione e credo che a promuoverlo debba essere la mia generazione, terra di mezzo di troppi paradigmi subiti e poche conquiste conseguite, come le donne, che guideranno il cambiamento.

    Giovani e precariato

    Le principali frange sociali cui guardare alla ricerca di alleanze necessarie sono le Seconde Generazioni e i Precari, equivalente contemporaneo di Studenti e Operai. La Borghesia tende a ridurre tutto a se stessa, per questo le viene consegnata la gestione del potere. I gruppi sociali che identifico come portatori di cambiamento migliorativo, di contro, sono sfaccettati, accomunati solo dalla necessità di tutele che nessuno non interessato in prima persona gli consegnerà mai.

    La festa del lavoro nel titolo dell’Unità di molti anni fa

    In attesa di una nuova sinistra   

    Che le nuove alleanze siano vocate ad una parità di condizioni che ispiri la comune emancipazione. E che la nuova rappresentanza condivida i tratti, sociali e civici, delle minoranze che sono state sempre e solo funzionali alla propaganda di destra come di sinistra. Che la nuova sinistra si riappropri di valori sviliti, ma fondanti, decidendosi a concedere l’accesso alla rappresentanza, anche alla classe dei lavoratori, non gli attuali sindacalisti che oltre alla causa si sono venduti anche il cervello!

    E il Primo Maggio 2025 sia l’ultimo a vederci scontenti, figlie di un Dio minore, artefici del proprio riscatto, erroneamente delegato, per noia o per rassegnazione, alla classe politica più cialtrona e machista di sempre!

    Manuela Vena
    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo  di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale
    su donne,
    pace e sicurezza    

  • Il nuovo Papa che vorrei

    Il nuovo Papa che vorrei

    di Tommaso Scicchitano

    Nell’aria vibra un’attesa, un desiderio profondo che sorge dalle crepe di un mondo assetato di senso, dalle polarizzazioni che lacerano il tessuto umano, dalla distanza che separa l’istituzione sacra dal pulsare della vita quotidiana. Non cerchiamo più solo un nome nuovo da iscrivere negli annali della storia papale. Cerchiamo un volto nuovo per la fede, un respiro nuovo per la cristianità intera. Un papa che non sia solo un uomo, ma l’incarnazione di un’alba diversa.

    Le ombre del passato che ancora incombono

    L’ombra del passato proietta ancora la figura del monarca distante, del gestore del sacro, del vertice solitario di una piramide. Ma il Vangelo sussurra un’altra melodia, quella del Buon Pastore che ha l’odore delle pecore, che cammina nel fango per ritrovare chi si è perso, le cui mani non stringono scettri ma sollevano i caduti. Il primato che cerchiamo non è dominio, ma servizio radicale (“diakonía”); il potere non è amministrazione dello status quo, ma immersione nelle ferite della storia, in una Chiesa “ospedale da campo”.

    Dopo la chiusura della porta del Conclave si attende la fumata bianca che annuncia l’elezione del nuovo Pontefice

    Un uomo capace di disturbare i sonni dei potenti

    Immaginiamo un pastore che sia profeta del Regno, la cui voce, intrisa di Vangelo, disturbi i sonni dei potenti e accenda la speranza nei cuori dei piccoli. Un uomo di comunione, capace di tessere legami, di abbracciare la pluralità come ricchezza, non come minaccia. Un testimone di gioia evangelica, vissuta con libertà, tenerezza, vicinanza. Un servitore umile, che non cerca la porpora del prestigio ma l’autenticità nuda del messaggio di Cristo. Un animatore dello Spirito, che confida più nel soffio che anima la comunità che nelle mura delle strutture.

    Il Vangelo da vivere in modo radicale

    Questa figura non è un solista su un palco isolato, ma parte integrante di una sinfonia dove ogni strumento, ogni voce del popolo di Dio, contribuisce all’armonia del cammino comune. Il suo compito non è decidere tutto dall’alto, ma garantire che tutti possano camminare insieme, ascoltando i segni dello Spirito nel mormorio della storia. In questa visione, lo stesso ministero petrino si apre a una rilettura, forse anche in chiave ecumenica: non più il sovrano di una porzione di cristianità, ma un fratello maggiore che, come interprete autentico del Vangelo, diventa punto di riferimento per tutti i cristiani e, potenzialmente, per ogni essere umano. Perché il Vangelo, vissuto nella sua radicalità servizievole, tocca le corde più profonde dell’umanità, offrendo una prospettiva alta da cui scorgere il nostro comune destino.

    Chi può incarnare questo volto? Forse nomi come Zuppi, Tagle, Hollerich, Czerny, o l’inaspettato Battaglia, figure che paiono vibrare a questa nuova frequenza pastorale. Ma la vera domanda non è chi, ma come. Perché il “papa nuovo” che desideriamo non è un salvatore solitario, un superuomo che risolva ogni crisi.

    In attesa di una autentica novità

    La vera trasformazione, l’autentica novità, non risiede nell’elezione di un uomo, per quanto illuminato, ma nel risveglio di una comunità cristiana nuova. Una Chiesa che riscopre la mistica dell’incontro, che abbatte i muri del clericalismo, che vive la sinodalità non come procedura ma come stile di vita. Il “papa che vogliamo” è il riflesso di un popolo di Dio che ha ritrovato il coraggio di camminare insieme, guidato non dal potere, ma dallo Spirito, con la tenerezza umile di chi serve e la speranza indomita del Vangelo vivo. È in questa conversione collettiva, in questa fede rinnovata che si incarna davvero il pastore che desideriamo.

  • Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Nietzsche e le scarpe di Bergoglio

    Per un Papa – il primo -, che ha scelto di chiamarsi Francesco, quella di essere sepolto con le scarpe ortopediche, sformate e consunte che era solito usare quotidianamente, è una volontà che non dovrebbe stupire più di tanto, considerata l’irritualità del suo papato e la coerenza di azione con il messaggio annunciato da quel nome, sinonimo di avversione al potere temporale e alle sue espressioni ad alto tasso scenografico, tipo funerale del Papa.
    Ma l’abbattimento dei simboli fa sempre notizia, e questo, in particolare, è il dettaglio finale del ‘santino’ che stiamo confezionando, persino con il contributo di circostanza di quanti lo ritenevano un abusivo sul soglio di Pietro, fatta eccezione per quel capo della giustizia minorile, Antonio Pappalardo, prontamente rimosso per improvvidità delle esternazioni.
    Eppure, anche per noi che ci diciamo agnostici per aver coltivato nel tempo la distanza, quelle scarpe non sono indifferenti, possibile metafora dell’uomo nietzschiano che, come Bergoglio, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante. Quei calzari, irrinunciabili come l’andare, sono diventati il cammino, e pertanto, simbolo alternativo che si fa eredità.
    Altri, con altre profondità, sapranno spiegare; a me piace pensare all’ennesimo guizzo d’ironia di Papa Francesco, di colui che lancia un ultimo messaggio perché quell’eredità non vada dispersa. Un Bergoglio che a dirla con l’antica espressione attestata da Gian Luigi Beccaria nel suo “Italiano antico e nuovo”, non intende farsi “fare le scarpe”. E che intanto se la ride per quelle boccucce porpora sussurranti d’imbarazzo: ossignùr, pure le scarpe vecchie!

  • La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    La Liberazione che divide e il pontefice rivoluzionario

    Sostantivo femminile che fa riferimento alla restituzione o alla riconquista della libertà.
    Aldilà del vocabolario, per noi italiani il termine Liberazione evoca l’evento fondante quel Sistema Paese che, al netto di limiti, sviamenti e storpiature, da ottant’anni a questa parte ci contiene. Perché uso il termine contenere? Per sottolineare la stasi che ci ammorba, come cittadini e come collettività, pure scontenti, per quanto si dispiega sotto sguardi sempre meno partecipi, specie in occasioni di festività che, per aberrazione dei tempi, sono divenute divisive.

    Perché la Liberazione divide?

    Il 25 aprile 1945 è un giorno fondamentale nella storia del nostro Paese, perché si proclama la fine della guerra e la liberazione dal nazifascismo. Una data simbolo, da concepirsi quale culmine di un percorso sofferto e battagliero, ma soprattutto condiviso, svilita per un gioco dei ruoli tristemente interpretato da una classe dirigente che pratica sempre meno la credibilità e il rigore. Sta di fatto che, i sei lunghi anni di orrori e sofferenze indicibili per l’umanità, per noi italiani trovano una sintesi (virtuosa) in quel 25 aprile da ormai 80 anni.

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    Meloni osserva Mattarella durante le celebrazioni del 25 aprile

    Ogni anno, in questo periodo, ho modo di confrontarmi con chi, di contro, non gli riconosce importanza alcuna. Dato che il numero dei detrattori del 25 aprile aumenta col passare degli anni, risulta riduttivo addebitare questa posizione (evidentemente ideologica) alla mera ignoranza. Più che riduttivo, ingenuo. C’è qualcosa che ha a che fare con la narrazione temo, e con una faziosità fine a se stessa che non ha nulla a che vedere con un confronto costruttivo.

    Liberazione e rivoluzione

    Nel tentativo di comprendere la contronarrazione, volta a svilire le gesta storiche patrimonio di tutti gli italiani, quest’anno mi concedo una riflessione suggeritami dalla Pasqua Alta. Credo di poter dire, senza offendere nessuno, che Pasqua è la Liberazione dei Cristiani. In entrambi i casi si tratta di eventi che hanno a che fare con il concetto di rivoluzione, come mutamento, non automatico, dell’ordine costituito.

    Le rivoluzioni si fanno per cambiare ciò che scontenta agendo una trasformazione percepita come necessaria e migliorativa, giusto? Le fanno le collettività, le quali, hanno sempre dei leader che se ne fanno interpreti, divenendone icone nei casi più fortunati. Le rivoluzioni richiedono (anche) fede, a prescindere dalla quale non si avrebbe il coraggio e l’energia per opporsi allo status quo. La fiducia nel buon esito della Rivoluzione è deposta nei leader che la proclamano, e dipende, non poco, proprio dal modo in cui questa viene annunciata.

    Il Cristo di Faber

    Nel 1968 in tutto il mondo andava in scena il malcontento generale per uno stato di cose che vedeva scontenta la massa della gente comune, e si credeva di poter volgere al meglio. In quegli anni, oltre ai moti di piazza, furono non pochi i moti intellettuali, cioè, i moti di pensiero che ne suggellarono l’humus, motivandolo nel suo dispiegarsi.
    Negli stessi anni, esattamente nel 1970, Fabrizio De Andrè pubblicava il suo album più rivoluzionario, più che per i contenuti, per la tempistica. La buona novella ha ad oggetto gli episodi della vita di Cristo in una visione che pone l’enfasi su un’umanità che le sacre scritture ufficiali hanno sacrificato a vantaggio della venerazione.

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    La copertina dell’album di Faber

    L’atto rivoluzionario di De Andrè consiste nel cambio di prospettiva funzionale ad una nuova narrazione. De Andrè coglie nel messaggio di Cristo qualcosa di assai rivoluzionario, in linea con le istanze di inclusione sociale e pari opportunità che si affermavano in quegli anni. Non di meno in una scelta argomentale che denota il non allineamento ai paradigmi dell’epoca, che è un elogio senza precedenti al libero arbitrio, misura e paradigma della Rivoluzione Cristiana.
    Come i sessantottini – che lo criticarono malamente – Fabrizio De Andrè è animato dalla voglia di favorire un’evoluzione dello stato delle cose, cui sa essere propedeutico un approccio nuovo, un cambio di mentalità, simile a quello che caratterizza il Nuovo Testamento.

    Cambiare le regole

    In beffa al potere, che opprime gli ultimi, Cristo professa il perdono e la misericordia, ponendosi ad esempio per quelli che, in ogni tempo, vogliano conseguire medesimi cambiamenti di rotta sociale. Da occhio per occhio a porgi l’altra guancia il passo non è breve, l’intellettuale genovese lo sa, come sa che c’è bisogno di tempo affinché chi pretende di cambiare il mondo lo comprenda.

    Domandiamoci ora qual è l’elemento rivoluzionario nell’enunciazione di Cristo, se non l’aver elevato gli ultimi a primi, la povertà a virtù e l’umiltà ad arma di difesa contro l‘arroganza del potere? Forse capiremo che per incidere sul presente dobbiamo cambiare le regole, non subire quelle prestabilite da chi ha tutto l’interesse a praticare esercizi di rievocazione gattopardiana!
    La politica, come la religione, ha bisogno di seguaci e di consenso.

    Mentre assistiamo al dispiegarsi di tutta una serie di crisi, tra cui, quella della Rappresentanza, interroghiamoci sulla relazione tra questa e la (perdita di) fiducia. La popolarità resta uno degli attributi imprescindibili della leadership, ma che tipo di popolarità? I poveri cristi di oggi potrebbero pur credere a chi gli promette il paradiso, ammesso che qualcuno sia ancora capace di mostrare loro il volto più umano della politica, quello cioè che condivide la medesima natura dei suoi sostenitori. Una natura profondamente umana, che sappia interpretare la reciprocità.

    Il messaggio di Bergoglio

    Le Rivoluzioni hanno dunque a che fare con le narrazioni che, funzionano solo se autentiche. Lo ha dimostrato un ottantenne passato a miglior vita a cavallo tra la Pasqua e la Liberazione.
    Papa Bergoglio ha rinnovato l’immagine della Chiesa perché ha cambiato parole e sguardo sul mondo e si è messo dalla parte degli ultimi sin dalla scelta di darsi il nome del Poverello d’Assisi.

    Papa Francesco celebra la messa durante la sua visita a Cassano, nel 2014

    In questo frangente storico, costellato da conflitti e divisioni fratricide, facciamo nostro il messaggio di chi ha saputo concentrare l’attenzione sugli oppressi, tra cui le donne di ogni tempo, e saremo certi di non sbagliare nel nostro percorso di liberazione, che passa per la mediazione, ad ogni livello, specie in quello geopolitico che oggi manca di visioni umanisticamente propositive.

    Dialogo, non scontro

    Risulterà forse pretenzioso questo punto di vista, ma assistendo al teatrino indegno dei potenti della terra che si litigano la scena, incuranti della sorte dei popoli, veri destinatari di conflitti mal gestiti, oltre che anacronistici, l’attenzione che si è deciso di riservare all’Area più controversa del globo – qual è la sponda Sud del Mediterraneo – e al gruppo sociale più sottomesso di sempre – quali le donne – restituisce un’inattesa fierezza, quella conseguente le scelte non convenzionali, emulative di chi ha anteposto le ragioni del dialogo, a quelle dello scontro, non arrendendosi all’odio risultando, 2000 anni fa come oggi, rivoluzionario, consapevole dello spirito del tempo che pure si prende la briga di criticare.

    Come in questo lucido monito che, attraverso un linguaggio che non lascia spazio a troppe interpretazioni, chiede di elevare a norma morale la resistenza a strutture sociali alienanti: «L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più standard di quanto potremmo pensare. Sono facilmente prevedibili e manipolabili. Non così il cuore». (Enciclica Dilexit Nos – 24 ottobre 2024)

    Manuela Vena

    Presidente Associazione Culturale Fidem
    Membro del tavolo di aggiornamento sul Piano d’Azione Nazionale su donne, pace e sicurezza

  • Francesco, il Papa

    Francesco, il Papa

    Nel corso del suo pontificato, Francesco il Papa, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha lasciato un’impronta profonda in molti luoghi del mondo, e la Calabria, terra di fede e di contrasti, non ha fatto eccezione. Il suo rapporto con questa regione del Sud si è manifestato attraverso gesti concreti, parole di speranza e un’attenzione particolare alle sue ferite sociali, come la povertà, la criminalità organizzata e l’emarginazione. Sebbene la sua visita nella nostra terra non sia stata un evento isolato, il suo impatto è stato duraturo, e il suo messaggio ha continuato a risuonare tra i calabresi.

    La folla in attesa di Bergoglio nello stadio della cittadina ionica nello stadio

    Il Papa a Cassano

    Il momento culminante del legame tra Bergoglio e la Calabria fu la sua visita pastorale del 21 giugno 2014, quando si recò a Cassano Ionio. Questo viaggio, uno dei primi del suo pontificato in una regione del Sud, non fu casuale. La Calabria, con le sue bellezze naturali e le sue difficoltà, rappresentava per Francesco un microcosmo delle sfide globali che ha sempre affrontato: l’ingiustizia sociale, la disoccupazione giovanile e l’oppressione della ‘Ndrangheta, una delle mafie più potenti al mondo.
    A Cassano, Francesco il Papa celebrò una messa all’aperto davanti a decine di migliaia di visitatori, giunti da ogni angolo della regione. Nel suo discorso, pronunciato con la semplicità e la schiettezza che lo hanno contraddistinto, esortò i calabresi a non cedere alla rassegnazione.

    L’arrivo dell’elicottero con a bordo il pontefice

    Il cuore senza speranza della Calabria

    “La Calabria ha un cuore grande, ma ha bisogno di speranza”, disse, sottolineando l’importanza di costruire una comunità basata sulla giustizia e sulla solidarietà. Rivolgendosi ai giovani, li incoraggiò a essere protagonisti del cambiamento, a non emigrare in cerca di un futuro migliore, ma a restare per trasformare la loro terra.
    Uno dei momenti più significativi della visita fu il suo incontro con i detenuti del carcere di Castrovillari. Bergoglio, che ha sempre posto l’attenzione sugli ultimi, parlò con loro come un padre, ascoltando le loro storie e offrendo parole di conforto. “Nessuno è escluso dalla misericordia di Dio”, dichiarò, invitandoli a non perdere la dignità nonostante gli errori commessi. Questo gesto toccò profondamente la comunità locale, mostrando un Papa vicino a chi vive ai margini.

    Un gruppo di Papa Boys

    La scomunica della ‘ndrangheta

    Ma il messaggio più forte di quella giornata fu la sua condanna senza mezzi termini della ‘Ndrangheta. Durante l’omelia, Francesco il Papa, non esitò a definire la mafia “un’adorazione del male” e scomunicò simbolicamente i suoi membri, un atto senza precedenti nella storia della Chiesa. “Chi segue la via del male, come fanno i mafiosi, non è in comunione con Dio”, tuonò, suscitando un’eco che si propagò ben oltre i confini calabresi. Questo discorso fu un richiamo alla responsabilità collettiva, un invito alla Chiesa e alla società civile a combattere la criminalità organizzata non solo con la repressione, ma con l’educazione, il lavoro e la fede.

    Il legame con la Calabria

    Oltre alla visita del 2014, Bergoglio mantenne un rapporto indiretto ma costante con la Calabria attraverso i suoi appelli e le sue nomine. Sostenne, ad esempio, l’opera di vescovi come Monsignor Francesco Savino, che portarono avanti la sua visione di una Chiesa “in uscita”, impegnata nelle periferie e contro le ingiustizie. Inoltre, in diverse occasioni, Francesco fece riferimento alla Calabria come esempio di resilienza, lodando la devozione popolare e il ruolo delle tradizioni religiose, come il culto della Madonna di Polsi, pur invitando a purificarle da ogni infiltrazione mafiosa.

    Il calore con cui i cittadini di Cassano allo Jonio accolsero il Papa

    La festa dei calabresi per la sua visita

    La Calabria, da parte sua, accolse Francesco con un calore straordinario. Le strade di Cassano furono addobbate a festa, e le famiglie si riunirono per accoglierlo, vedendo in lui non solo il Papa, ma un uomo capace di comprendere le loro difficoltà. Ancora oggi, nelle chiese e nelle piazze calabresi, si ricorda quel 21 giugno come un giorno di luce in una regione spesso segnata dall’ombra.
    In conclusione, il rapporto Francesco il Papa e la Calabria fu caratterizzato da un dialogo intenso, fatto di gesti simbolici e parole che hanno scosso le coscienze. La sua visita a Cassano Ionio non fu solo un evento, ma un seme piantato in una terra assetata di speranza. Anche se il tempo è passato, il suo invito a costruire una Calabria più giusta e solidale rimane un faro per chi crede nel riscatto di questa regione.