Categoria: Opinioni

  • Non basta governare la Calabria, servono basi democratiche

    Non basta governare la Calabria, servono basi democratiche

    I segnali del dopo voto calabrese, non sono rassicuranti, con una campagna elettorale, da poco chiusa, durante la quale si sono manifestate poche nuove esperienze, scarsissime azioni elettorali innovative, al contrario abbiamo visto i soliti volti, soliti slogan, soliti simboli.

    Qualche guizzo, ma nessuna avventura collettiva

    Pochissimi quindi i segni di una di rinnovata passione politica, così che il dopo voto consegna allo scenario calabrese lo schema consolidato destra-sinistra con i due blocchi storici che alternano alla guida del territorio volti già noti.
    Qualche guizzo, ma nessuna nuova avventura collettiva da vivere come cambio di rotta, nella Calabria da cui fuggiamo e alla quale ritorniamo, che ogni volta ci abbraccia con affetto, oppure ci soffoca con forza, in cui, insieme, cerchiamo di intravedere un futuro-presente che spalanchi la via di un sogno, non già di altri incubi.

    Serve fantasia per immaginarsi presidente dei calabresi

    Seguendo con attenzione i segni delle prime elezioni post Covid, ciò che da subito ho pensato è che essere eletti presidente della giunta regionale della Calabria, o sindaco di Cosenza, con percentuali di votanti così scarse, deve essere sconsolante e deve porre molte domande. Insomma, ci vorrà un bel po’ di fantasia per immaginarsi presidente di tutti i calabresi -o il sindaco di tutti i cosentini-. Così come lo è assumere queste cariche dopo quasi due anni di pandemia, alle porte di una stagione di risorse che dovrebbero (ripeto dovrebbero!) cambiare gli equilibri tra Sud e Nord.

    Una Calabria peggiore dopo la pandemia

    Il Covid ha prodotto, nei fatti, una severa discontinuità, ancora poco visibile, ma che già lascia intravedere, in modo più che palese anche nell’aumento dell’astensionismo, un dover ripartire con una più incisiva azione politica dal basso, il ridare fiducia ai tanti delusi, azzerando schemi consolidati e rimettendo ancora di più in discussione i partiti e le loro decotte organizzazioni, approcciando la quotidianità delle azioni di “ricostruzione” del dopo Covid, attraverso un nuovo equilibrio di relazioni tra potere e cittadini.
    Non mi pare quindi che la vittoria consegni, oltre il giusto entusiasmo dei vincitori, la solita Calabria di due anni fa, ma una terra addirittura peggiore, incattivita, deteriorata ad ogni livello perché la debolezza strutturale cronica è stata vieppiù minata dalla pandemia.

    Ristabilire il rapporto di fiducia con i cittadini

    Una terra, in triste sintonia con tutto il Sud, che ha perso ormai milioni di giovani in fuga, e prosegue una desertificazione demografica di centri e città che pone seri dubbi sulle politiche nazionali e regionali, tutte -nessuna esclusa- fallimentari. Perciò mi chiedo se sia stato colto che, oltre i normali compiti istituzionali, e, tra le varie promesse, come quella più grande di rimettere in piedi la sanità, sarà invece importante, prima di ogni cosa, sforzarsi di ricostruire il frantumato rapporto di fiducia con i cittadini, mettendo in atto tentativi poderosi di ricostruire una coesione sociale, che soprattutto in Calabria, al Sud, è il male più grande per un riequilibrio demografico ed economico-sociale.

    A lezione di educazione civica

    Non basterà quindi ben governare, ammesso ve ne siano le capacità, ma sarà determinante rimettere in sesto le basi democratiche e strategiche della regione. Tutto questo anche con un nuovo percorso di “educazione civica”, assente del tutto, stante la necessità di ricucire i conflitti sociali generati della mancanza di lavoro e risorse. Altresì per prepararsi alle prossime imponenti sfide della riduzione dell’inquinamento, alla risoluzione del cronico degrado ambientale causa dei rifiuti urbani, del traffico e dell’inquinamento. È un regione dove ovunque, città o piccolo centro, per andare a prendere un caffè e percorrere pochi metri, si usa l’automobile e in cui il trasporto pubblico è fatto di meteore e pianeti disconnessi per territori satelliti, fuori da ogni logica di rete.
    Preparare con serietà un contributo calabrese alla transizione ecologica, e avviare azioni di rinnovamento profondo dei territori, non sarà pertanto cosa facile e spero di ciò ci si renda conto.

    L’utopia dell’ascolto contro i burocrati

    Scendere dal piedistallo, dunque, uscire dagli stantii uffici dei burocrati regionali e locali, per stare tra la gente di Calabria, sentire i bisogni veri della regione, dei comuni, condividere le nuove scelte con i cittadini, farli partecipare tutti all’azione di governo e crescere su un progetto comune di sviluppo sostenibile. E poi il pianificar facendo, ovvero tracciando una necessaria visione dei territori al futuro, non più fintamente moderna, ma contemporanea, con tutte le sue potenzialità latenti: costruendo il nuovo e guardando al futuro con significative, diffuse, azioni mirate al cuore dei problemi principali, con tempi certi.

    Preparare gli amministratori

    Occorre infine preparare i sindaci, tra tutti, poi i cittadini e le imprese, alla stagione di attrazione di nuovi finanziamenti del Pnrr e dei Fondi nazionali e comunitari, senza seguire nell’improvvisare, bensì con un percorso che dia spazio ad un’adeguata, necessaria progettazione di alto profilo, non solo di impronta tecnica, ma di originalità, qualità, inventiva, capace di rispondere alla soluzione delle vere esigenze delle comunità locali così come nel disegnare una nuova Calabria.

    Basta logiche da ex Cassa del Mezzogiorno

    Solo in tal modo potremmo risparmiare la solita pioggia di denaro stile ex “Cassa del Mezzogiorno” e regalie per consolidare potentati, al contrario mirare ad una adeguata elaborazione per il territorio, l’insieme dei centri e delle città, per riprendere un più grande e annoso tema calabrese, quello del decoro urbano, capace di opporsi al degrado inarrestabile che ha assunto dimensioni imbarazzanti per chi, con occhi attenti, attraversa la regione in lungo e largo.

    Stop ai vecchi progetti nei cassetti

    Bisogna dismettere il solito metodo di recuperare dai cassetti progetti già fatti e mai stati buoni per nessuna delle stagioni, ma adeguando le proposte ai traguardi comunitari: l’abbattimento degli inquinanti nel 2050, non con qualche incentivo per auto elettriche, né con i pochi bonus energetici per edifici che ben altro richiedono in Calabria, gli adeguamenti sismici, di decoro, sanitari, ambientali, non potendo seguire vivendo ad alta intensità energetica, cambiando le nostre pessime abitudini di consumatori. E ancora avviare una lunga stagione di riciclo dei rifiuti, tornare al cibo di prossimità, ripensare il bello al posto del brutto (a partire dalle case che sempre più saranno il “guscio” accogliente), definire un’intelligente mobilità che si faccia carico di definire una rete sostenibile di collegamenti, e al contempo abbattere la vasta impronta ecologica dei calabresi, tra rifiuti e traffico veicolare, elevatissima e per nulla percepita come problema.

    Sarebbe bello, nei prossimi mesi, essere stupiti, smentiti, sorprendersi per una stagione di qualità, un manifesto di diffusa bellezza, una ripresa di cultura dei luoghi e nei luoghi. O ancora sorprendersi per una riaffermazione del sapere sull’arroganza e ignoranza, una diffusione capillare nella regione della ricerca e dell’innovazione con vere reti internazionali. E poi dimenticare vuoti slogan, promesse, illusioni attraverso concrete azioni di una politica visionaria e al contempo vicina alla soluzione dei problemi, che ridia fiducia ad un popolo stanco e senza speranze.

    G. Pino Scaglione
    professore di Progettazione Urbana (Università di Trento)

  • Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Calabria, dove il bello appare brutto e viceversa

    Qualche anno fa, lungo la strada che conduce a Belsito, piccolo centro del cosentino, sono rimasto sorpreso nel vedere che i bellissimi cipressi posti davanti al cimitero erano stati mozzati a mezza altezza. Molti paesani, recatisi a commemorare i defunti, mi hanno detto che approvavano il taglio delle piante perché sembrava più pulito, gli alberi non nascondevano l’entrata e somigliavano a siepi. Una donna mi ha confessato che avrebbe volentieri sradicato anche i cipressi all’interno del cimitero: in fondo non erano che piante inutili, malate, maleodoranti e tristi.

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    Il Vallone di Rovito

    Sconcertato da queste affermazioni, ho pensato che la mia indignazione fosse legata all’amore che mi lega ai cipressi. Da ragazzo amavo andare al Vallone di Rovito per vedere e respirare il profumo degli alti cipressi che ancora oggi ricordano i patrioti fucilati nel 1844. Mi piacevano quegli alberi e mi aveva colpito la storia di Ciparisso, il bellissimo principe che, dopo aver ucciso per errore il cervo d’oro, aveva chiesto ad Apollo che le sue lacrime scorressero per sempre. Il dio lo trasformò allora, in cipresso, la cui resina scende in gocce simili a lacrime.

    Il bello e il brutto

    I cipressi di Belsito mi hanno fatto pensare che lo studioso deve essere cauto nei giudizi e mettere in discussione la sua concezione del bello e del brutto. Nei gruppi umani, le strutture del pensiero che organizzano saperi, valori morali e senso estetico sono diverse. Il concetto di bello è presente in tutte le culture, ma cambiano i criteri di valutazione. La bellezza non è nella qualità di ciò che si vede, bensì nella mente che la contempla ed ogni uomo ne percepisce una diversa. Lo studioso deve rispettare le differenze culturali, evitare di cadere nella trappola dell’etnocentrismo che alimenta l’orgoglio per le sue categorie mentali disprezzando quelle degli altri.

    Alcaro afferma che la cultura dei calabresi e dei meridionali, a differenza di quella dei settentrionali, ha sempre considerato la natura come oggetto di contemplazione e non come cosa da trasformare. A riprova di ciò, cita l’attenzione nei confronti della natura da parte di studiosi come Campanella e Telesio. Non sono in grado di dire se i calabresi in passato amassero la natura come i due filosofi, sebbene nelle inchieste ministeriali e nei diari dei viaggiatori sullo stato dell’ambiente si legga che avevano disprezzo per il decoro e le bellezze naturali.

    La Calabria nei racconti dei viaggiatori

    Wey scriveva che la natura aveva donato alla Calabria un territorio salubre e dolce che l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche l’avevano trasformato in una cloaca infetta, un ambiente malato che condizionava la moralità degli abitanti facendoli diventare «infidi serpenti». Bartels, dal canto suo, annotava che guardando la Calabria si aveva l’impressione che la furia della natura avesse fatto a gara con l’incuria dell’uomo per far precipitare l’infelice paese in una condizione di profonda miseria e abbandono.

    Gli stranieri annotavano che i calabresi non avevano il senso della bellezza considerando che avevano distrutto, disperso e svenduto uno dei patrimoni archeologici più grandi del mondo. Avevano smantellato i resti delle grandi polis greche per impiegarne i materiali in nuove costruzioni. Delle quarantaquattro colonne del tempio di Hera Lacinia, edificato all’estrema punta dell’omonimo capo, ne rimaneva una solitaria che sembrava piangere la rovina del sontuoso edificio di cui un tempo faceva parte. Quel tempio, dove le donne di Crotone consacravano ad Hera le loro chiome, era stato demolito al principio del XVI secolo dal vescovo Antonio Lucifero che ne fece riutilizzare i pregiati marmi per la realizzazione di alcuni fabbricati e, soprattutto, del palazzo episcopale della città.

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    L’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia a Crotone

    Wey scriveva addolorato che, della repubblica di Locri, patria di poeti, filosofi e legislatori, restava solo qualche rudere: uomini insensibili all’arte, al bello e alla storia avevano utilizzato le colonne per costruire chiese e ville. Gli oggetti rinvenuti dai contadini o dai tombaroli erano acquistati da antiquari e, senza certificato di provenienza, finivano nel mare magnum delle collezioni private o nelle botteghe dei mercanti. A volte gli oggetti d’oro o di piombo venivano fusi.

    Tesori perduti

    Saint-Non ci informa che i frati cappuccini di un convento avevano liquefatto una medaglia d’oro di oltre un pollice di diametro per acquistare una nuova campana. Nel 1828, a Bollita, nelle vicinanze del castello appartenente al duca Crivelli, annotava Lenormant, un colono aveva trovato in una tomba lamine di piombo con lunghe iscrizioni in caratteri greci che, senza neanche copiarne il testo, furono fuse per fare pallottole da schioppo. L’8 aprile 1865, nel territorio di Santa Eufemia, furono rinvenute un gran numero di monete e magnifici gioielli d’oro di età greca, adorni di figure a sbalzo e ornamenti in filigrana di estrema eleganza e finissima esecuzione di cui si perse ogni traccia.

    Nella primavera del 1879, alcune donne che lavavano panni sulla sponda dell’Esaro, a seguito di una frana presso il ponte della strada rotabile, trovarono tra i detriti alcune monete. I mariti, accorsi con le zappe, scavarono e portarono alla luce centinaia di monete d’oro greche contenute in un vaso di terracotta. Anche questo tesoro fu disperso.

    Amore del passato e scempi del presente

    Gli elementi a nostra disposizione non sono sufficienti per affermare se i calabresi in passato amassero e rispettassero la natura, ma lo scempio recente delle coste, il degrado dei centri storici, il disordine edilizio delle nuove città e l’incuria nei confronti dell’ambiente è sotto gli occhi di tutti. Politici e storici giustificano questo stato di cose come conseguenza del boom economico, dello spopolamento delle campagne, dell’emigrazione verso terre lontane e della dissennata speculazione edilizia.

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    Una veduta di San Giovanni in Fiore

    Il problema non è stabilire le cause di questo disastro, ma capire se esso appare tale alle persone che lo hanno prodotto. Molti abitanti di San Giovanni in Fiore sono orgogliosi dei palazzi incompiuti costruiti a ridosso dell’antico borgo medievale: gli appartamenti sono moderni e ben riscaldati, con bagni e stanze per ogni membro della famiglia. Le nuove strade consentono di arrivare agevolmente in auto davanti al portone di casa ed accedere ai magazzini utilizzati per fare vino, salame e provviste: appare chiaro che a guidare la scelta di quei fabbricati è stato il desiderio di vivere in ambienti spaziosi e comodi.

    L’abusivismo ha ucciso il bello

    Un giornalista s’indispettì quando gli facemmo notare che il paese era stato sfregiato dallo scempio edilizio e c’invitò a rileggere la descrizione delle case fatta da Douglas agli inizi del Novecento: stamberghe sporche, annerite dal fumo che usciva dalle finestre per la preistorica usanza di cucinare sul pavimento!
    Non rimpiangere una triste condizione è giusto, ma quei palazzi anonimi mal si conciliano col paesaggio, sono costruiti su spuntoni dove non si dovrebbe neanche piantare una tenda, hanno finestre murate perché gli edifici non sono mai stati completati.

    Quell’impressionante numero di palazzi è stato innalzato violando le leggi dello Stato, senza un piano regolatore e con la complicità di ingegneri, geometri, sindaci, assessori, consiglieri, deputati, soprintendenti e magistrati. Amministratori e politici che si sono avvicendati alla guida del paese hanno sempre sostenuto che è stato un abusivismo di necessità, ma quelle case sono disabitate perché gli emigranti non possono o non vogliono più ritornare. È evidente che l’idea del bello nel paese si è manifestata attraverso il cemento e i mattoni, che l’ostentazione di quei grandi palazzi è più importante del loro valore d’uso!

  • Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Imprese e Calabria, le ragioni della crisi di competitività

    Il censimento industriale 2019  condotto dall’Istat in tutte le Regioni d’Italia mette a disposizione degli osservatori e dei decisori una radiografia produttiva dei territori prima della pandemia. Attraverso questi dati, possono essere messi in evidenza punti di forza e punti di debolezza dell’economia industriale nel nostro Paese.

    Prevalenza delle microimprese, deindustrializzazione, terziarizzazione commerciale, assetto proprietario e gestionale di carattere marcatamente familiare, scarsa attenzione alla internazionalizzazione e sottocapitalizzazione delle aziende costituiscono gli elementi dominanti che emergono dalla lettura dei dati espressi dal censimento industriale in Calabria al 2018.

    Troppo piccole per sfidare il mercato

    La distribuzione dimensionale delle imprese registra in Calabria una più marcata presenza delle micro e piccole imprese rispetto all’Italia. Circa l’87% delle aziende rientrano nella categoria delle microimprese (con 3-9 addetti). Le piccole (10-49 addetti) rappresentano il 12,2% del totale regionale.
    Le medie (50- 249 addetti) e le grandi imprese (250 e più addetti) sono costituite complessivamente solo da 255 unità, ossia circa l’1,2% del totale regionale. Il peso delle medie e grandi imprese a livello nazionale è pari al doppio rispetto alla Calabria, vale a dire il 2,3%.

    Micro_imprese

    Le caratteristiche della competizione internazionale si sono orientate verso la formazione delle catene globali del valore. Queste mettono le microimprese nella condizione di essere meno adeguate alla logica di sviluppo dei mercati, guidati dalle multinazionali capaci di innovare e di guidare il processo di accumulazione della ricchezza.

    La presenza di una struttura industriale fortemente frammentata è ancora più evidente se leggiamo le informazioni sul mercato del lavoro. Oltre il 50% degli addetti regionali calabresi lavorano in microimprese (a livello nazionale lo fa il 29,5%) e oltre il 28% nelle piccole imprese. Medie e grandi aziende impiegano quasi il 22% degli addetti complessivi regionali. La corrispondente quota a livello nazionale supera il 44%, un valore più che doppio.

    Prevalgono le imprese di servizi

    La struttura produttiva calabrese è sempre più caratterizzata da una forte prevalenza delle imprese di servizi rispetto a quelle industriali. Sono attive nel settore industriale più del 25% delle aziende, contro il circa 30% misurato a livello a nazionale. Il processo di terziarizzazione appare uniformemente avanzato in tutte le province del territorio regionale. La percentuale di imprese di servizi varia dal 73,8% di Cosenza e Catanzaro al 76,8% di Reggio Calabria.

    Le imprese di servizi sono circa 15.500 e rappresentano quasi i due terzi del totale regionale. Circa il 44% è costituito da aziende attive nel commercio all’ingrosso e al dettaglio. Il restante 56% è rappresentato da imprese che offrono servizi non commerciali. Le imprese attive nell’offerta di servizi di alloggio e ristorazione rappresentano oltre un quinto delle aziende di servizi.

    La crisi delle costruzioni e il crollo degli addetti

    Rispetto al 2011 la numerosità delle imprese calabresi è pressoché rimasta invariata, con una lievissima diminuzione dello 0,6%. Tale riduzione, inferiore a quella registrata complessivamente in Italia (-1,3%), è dovuta ad una compensazione tra una forte contrazione del comparto industriale (-23,6% nel complesso, e in particolare 32,2% nel settore delle costruzioni) rispetto ad un incremento osservato nel numero di imprese operanti nel terziario (+10,7%), dovuto ad un consistente aumento (+21,0%) delle aziende che offrono servizi non commerciali.

     

    imprese_costruzioni

    Parallelamente alla riduzione del numero di aziende, il periodo 2011-2018 ha registrato una perdita ben più robusta di oltre 12 mila addetti (il 7,3%). È il riflesso soprattutto del ridimensionamento del settore industriale. Più di un terzo delle imprese calabresi (il 36,8%) è localizzata in provincia di Cosenza, più di un quarto in quella di Reggio Calabria, un quinto nella provincia di Catanzaro. Il peso delle province di Crotone e Vibo Valentia è simile, invece, con un totale del 17,1%.

    Come effetto di una maggiore presenza della media e grande impresa, il peso della provincia di Catanzaro in termini di addetti (quasi il 25% del totale regionale) è superiore a quello misurato in termini di imprese (19,6%). L’opposto vale nelle restanti province, dove la quota regionale di addetti oscilla fra il 7,6 % di Vibo Valentia e circa il 35 % di Cosenza.

    Tutto (o quasi) in famiglia

    Non diversamente dal resto del Paese, anche in Calabria la struttura produttiva del settore privato è caratterizzata dalla prevalenza di imprese a controllo individuale/familiare. Nel 2018 le imprese calabresi con 3 e più addetti controllate da una persona fisica o famiglia sono circa 16.488, ossia il 79,6 % del totale (un dato più elevato di quello nazionale, pari al 75,2%).

    Solo nella provincia di Crotone la quota di imprese a controllo familiare non raggiunge il 75%. La quota di unità produttive a controllo individuale e/o familiare diminuisce al crescere della fascia dimensionale; in Calabria è oltre l’80% nel segmento delle microimprese, ma risulta comunque relativamente elevata (quasi il 70%) anche per le imprese con 10 e più addetti.

    La natura prevalentemente familiare delle imprese calabresi ed italiane non riguarda solo la dimensione del controllo, ma investe anche le caratteristiche gestionali. Considerando le sole imprese controllate da persona fisica o famiglia nella fascia dimensionale da 10 addetti in su, in Calabria il soggetto responsabile della gestione è nel 75,9% dei casi l’imprenditore o socio principale/unico e nel 18,6% un membro della famiglia controllante.

    Le situazioni nelle quali la responsabilità gestionale è affidata ad un manager – selezionato all’interno o all’esterno dell’impresa – o altro soggetto riguardano soltanto il 5,5% delle imprese, un dato in linea con quello nazionale.

    Estero e collaborazioni interessano poco

    La larga maggioranza delle aziende calabresi vede nella difesa della propria posizione competitiva uno dei principali obiettivi strategici. In particolare, nel segmento delle imprese con 10 addetti e più, la quota delle aziende che indicano tale obiettivo gestionale fra quelli che intendono perseguire nel triennio 2019-2021 è pari in Calabria all’84%, in linea col dato nazionale uguale all’84,3% . Seguono per ordine di importanza l’obiettivo di ampliare la gamma di beni e servizi (62,9%) e quello di aumentare l’attività in Italia (50,1%).

    L’accesso a nuovi segmenti di mercato è un obiettivo strategico per più di un terzo delle imprese, mentre l’attivazione (o l’espansione) di collaborazioni interaziendali è rilevante per poco più del 24%. Infine, l’espansione dell’attività all’estero è un obiettivo perseguito da solo il 14,8 per cento delle imprese calabresi, meno di quanto rilevato complessivamente nel Paese (24,3%). Questa scarsa proiezione sui mercati internazionali costituisce certamente un fattore di debolezza strategica per le imprese calabresi, che finiscono per operare prevalentemente sul mercato nazionale, se non più limitatamente solo sul mercato locale.

    Di conseguenza, per la maggioranza delle aziende, la competizione assume un carattere essenzialmente locale. Solo il 41,5% di esse vendono oltre i confini regionali sul mercato nazionale e ancora meno, il 13,7%, sui mercati europei. In modo simile, più del 40% delle imprese indica le altre regioni italiane come area di localizzazione dei principali concorrenti, mentre la medesima percentuale è circa dell’8% quando riferita all’Unione Europea.

    Il crollo degli investimenti pubblici

    Infine, appare rilevante osservare il fenomeno di riduzione della intensità di capitale investito, nel corso dell’ultimo decennio. Tale valore misura gli investimenti fissi lordi in percentuale del Pil. In Calabria L’indicatore è pari al 14,8% nel 2018, in netto calo rispetto al 25,5% del 2008. Il valore nazionale di tale indice nel 2018 risulta pari al 18,3%, con il Nord Est che raggiunge il 20,5% ed il Mezzogiorno il 16,5%. Se anche in questi caso confrontiamo tali dati con l’andamento di dieci anni prima, il Mezzogiorno registrava il 21,4%, lo stesso valore medio italiano, mentre in Nord Est per questi indicatore raggiungeva il 23,9%.

    Sono in particolare gli investimenti pubblici ad essere crollati nelle regioni meridionali, contribuendo alla radicalizzazione della crisi industriale ed all’aumento della forbice nella formazione del reddito. Vedremo se il PNRR riuscirà ad invertire l’andamento registrato nell’ultimo decennio.

  • Borghi di Calabria, la bellezza oltre la retorica del marketing territoriale

    Borghi di Calabria, la bellezza oltre la retorica del marketing territoriale

    La Bellezza – intesa come ideale paesistico e artistico – è un asset strategico del Bel Paese. Non c’è bruttura, scempio o speculazione che riesca a sradicare questo stereotipo che viene esaltato e celebrato fino allo sfinimento da coloro che, non avendo altri argomenti, vivono in una eterna dimensione estetica, o forse cosmetica, dell’esistenza.

    Dietro la bellezza

    La bellezza per loro è una panacea. Purtroppo, non è così. Anzi dietro la bellezza di facciata si scopre spesso un mondo reale abbrutito dall’incuria. Prendiamo per esempio i borghi d’Italia. Non esiste un altro paese al mondo che possa vantare un patrimonio di piccoli centri pari a quello del nostro Paese. Le loro pietre custodiscono un’eredità culturale, storica e artistica che si è stratificata nei secoli, generazione dopo generazione. Possono essere appollaiati sulla sommità di un colle, oppure rannicchiati nell’ansa di un fiume. Possono accoglierti a braccia aperte fra i moli di un piccolo porto, oppure vivere in simbiosi con una città materna; in ogni caso, la loro storia può vantare con orgoglio il titolo dell’unicità e della fierezza identitaria.

    Borghi come miniera di saperi

    I borghi sono una vera e propria miniera di saperi, di mestieri, di architetture, di invenzioni urbane e di civiltà. Sono da tempo immemorabile le cellule vive del nostro modo di abitare e vivere in comunità. Ebbene, questi nuclei di vita che nel loro provvidenziale e laborioso rapporto con il territorio hanno contribuito a costruire la famosa bellezza del paesaggio italiano, rischiano (in numero crescente) di essere travolti dalle spietate leggi della domanda e dell’offerta. Abbandono, incuria, oblio sono i mali peggiori. Per decenni è sembrato anacronistico abitare in luoghi lontani dalla “modernità”. Per anni emigrare e non tornare mai più o ritornare solo per le ferie è stata la nota dominante dei flussi demografici. Le officine del “benessere economico” chiedevano mano d’opera e le difficoltà del vivere lontano dalle luci delle città fornivano un valido alibi all’esaltazione del Boom economico.

    Le virtù taumaturgiche del marketing territoriale

    Oggi le cose sono cambiate. Ananke, la Necessità, ci chiama ad affrontare con rinnovata intelligenza le sfide climatiche, economiche, tecnologiche che la transizione ecologica impone. Sfide che la pandemia (catastrofico catalizzatore del cambiamento) ha reso non dilazionabili. Le città, nei mesi del confinamento e nella quotidianità del distanziamento sociale, hanno mostrato un volto ostile, desolato, alienato. Ogni periferia è diventata un ghetto della solitudine. La vivibilità dei borghi che già serpeggiava nei discorsi per addetti ai lavori sulle riviste patinate e dei fondi d’investimento ha invaso la scena politica. Sindaci di tutta Italia, preoccupati per la sorte dei loro bilanci hanno scoperto le virtù taumaturgiche del marketing territoriale per attrarre compratori, ospiti paganti e investitori. Case in vendita a prezzi simbolici. Vacanze gratis. Promesse di mitiche emozioni agrosilvopastorali. Esperienze uniche e irripetibili.

    Una promozione non si nega a nessuno

    “Promozione” è la parola magica pronunciata nei convegni e nei seminari come toccasana per arginare il declino dei piccoli comuni. Il pubblico applaude, partecipa, si esalta. Ma il problema della giusta direzione da prendere resta. I luoghi non possono vivere solo d’estate o durante il fine settimana, hanno bisogno di continuità, di perseveranza e di pazienza. Oggi che lo spirito del tempo ci suggerisce con sempre maggior forza di avvicinarci alla natura, di ascoltare il suo respiro, di domandarci quale sia il vero posto degli esseri umani nel mondo, un numero crescente di persone scopre che le pietre antiche custodiscono i segreti perduti dell’abitare. Probabilmente perché nei borghi dimora ancora quel genius loci che dona all’habitat un calore e un sapore particolari. Un tenore di vita che potremmo chiamare slow life.

    I borghi di per sé non sono la soluzione

    Bisogna però evitare le favole idilliache. I borghi di per sé non sono la soluzione. La vita è sempre stata dura anche lì. Non si può pensare che un trasloco e la volontà di cambiamento risolvano tutto. Che bastino pochi euro e un po’ di iniziativa per invertire la tendenza. Bisogna analizzare la dinamica messa in moto dalle trasformazioni epocali che stiamo vivendo e capire che non è più il tempo dei quartieri dormitorio delle grandi metropoli. Il tempo delle borgate è terminato e prima che sia troppo tardi la politica, l’impresa, il lavoro e la cultura devono guardare con occhi nuovi al territorio e all’ambiente. La forza attrattiva delle città deve trovare un nuovo punto di equilibrio in favore dei piccoli centri. Oggi i mezzi di comunicazione consentono di tessere efficaci relazioni lavorative anche da remoto. Modalità che solo qualche decennio fa erano impensabili oggi sono normali. I piccoli comuni posso rifiorire e tornare ad essere dei luoghi vivi e produttivi.

    Se tutto gira intorno ai b&b

    A patto però che si argini la stucchevole narrazione dei borghi più belli d’Italia. La bellezza non è una cartolina, non è una foto che gli occhi digitali del turista rubano al paesaggio come souvenir. Nel nostro caso essa è un bene che si conserva solo attraverso la cura costante della vitalità sociale ed economica degli abitanti e del decoro delle case, delle strade e dei monumenti. Se una località viene ridotta al rango di meta turistica e tutta l’economia del villaggio gira soltanto intorno ai B&B – con il corollario di speculazione edilizia che esso comporta – in poco tempo la bellezza sfiorisce usurata dai passi svelti e dagli sguardi distratti di un’umanità perennemente in gita. Turisti incapaci di abitare, che hanno perduto il senso della misura e divorano le mete una dopo l’altra, lasciando dietro di sé l’inquietante omologazione della “gentrificazione”.

    La gentrificazione rischia di fagocitare i borghi

    Il fenomeno è arcinoto e impatta soprattutto le grandi città d’arte, ma rischia di dilagare nei piccoli borghi che si devono difendere dall’invasione degli “extra-turisti” opponendo una decisa resistenza. Non al turismo sostenibile, ma alla monocoltura vorace del diporto, della ricreazione, del puro svago al limite dello svacco. Viaggiare è un bene di grande valore se genera conoscenza, cultura, confronto, divertimento. Ciò che rende nefasto il turismo di massa nelle località storiche sono le conseguenze che esso produce: abbandono, stagionalità, esproprio, monocultura dell’accoglienza, parassitismo. Venezia è un caso limite e preoccupante. Chi abita se ne va e chi arriva si ritrova a vivere tra estranei.

    Ma i borghi calabresi che c’entrano?

    A questo punto qualcuno potrà chiedersi, ma la Calabria che c’entra? C’entra, eccome! Sia perché i borghi della Calabria sono tantissimi e incantevoli, sia perché la tenacia con cui molti paesi calabresi lottano contro lo spopolamento va compresa, difesa e premiata. Prendiamo per esempio l’iniziativa con cui la Regione Calabria ha deciso di “aiutare” le persone che vogliono trasferirsi in uno dei nove borghi selezionati dal Progetto Reddito di residenza attiva. Si tratta di un’azione senz’altro lodevole. Eppure, eppure se i finanziamenti seguono solo un iter burocratico e la realtà del singolo Comune non viene analizzata e compresa caso per caso, borgo per borgo si corre il rischio come minimo di sprecare un’occasione.

    I finanziamenti per essere efficaci devono entrare in rapporto con i bisogni di una comunità vera, non astratta. Ogni paese lotta a suo modo contro lo spopolamento. Le ragioni dell’abbandono non sono tutte uguali. Con tutta probabilità ci sono fattori comuni, ma ciò non toglie che ogni realtà deve essere valutata singolarmente. Studiandone la storia, l’economia, gli andamenti demografici, i rapporti con i comuni vicini, e soprattutto ascoltando le parole degli abitanti. Se invece ci si limita a finanziare una tantum un albergo, un ristorante, un bar, una fattoria, un laboratorio artigiano o un negozio senza coinvolgere in prima persona gli abitanti nulla cambierà perché non è detto che manchino le attività. Forse mancano alcuni servizi essenziali, o forse quel senso di appartenenza in grado di invertire la tendenza.

    Premiate chi resta, non chi arriva

    Più che premiare chi arriva bisognerebbe incoraggiare chi ha deciso di restare. Persone che spesso dimostrano una resistenza eroica. Persone che vogliono ad ogni costo abitare la loro casa e tenacemente difendono la propria vita e la vita del proprio borgo. Nel 2019 è stata pubblicata una ricerca molto interessante su questo tema dal titolo Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste. Antonio De Rossi, che ne ha curato la pubblicazione, sostiene la necessità di: «Invertire lo sguardo. Guardare all’Italia intera muovendo dai margini, dalle periferie. Partendo dalla considerazione che l’Italia del margine non è una parte residuale; che anzi si tratta del terreno decisivo per vincere le sfide dei prossimi decenni.»
    Guardando con altri occhi ai borghi calabresi, ascoltando i racconti dei loro abitanti scopriremmo forse che molti di loro non sono solo belli, ma anche fortunati perché chi li abita li custodisce come un bene comune.

    Giuliano Corti

  • Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Vittimisti e “pagliettari”, quella Calabria che piange per autoassolversi

    Nel corso dei secoli politici e letterati calabresi hanno spiegato i mali della regione individuando dei colpevoli esterni. Il meccanismo dei loro ragionamenti è semplice ed efficace: la Calabria è una terra ricca, ma impoverita per colpa degli altri. La sua popolazione è stata sempre descritta dagli stranieri come arretrata, chiusa in secolari abitudini, non disponibile al confronto civile e, quindi, autocondannata a fame, ignoranza, miseria e isolamento. Calunniati e privati di tutto, i calabresi sono stati costretti a vivere in condizioni misere e, nonostante d’animo buono e ospitale, spinti ad assumere comportamenti rudi e aggressivi.

    I vittimisti

    Queste figure si presentano come coloro che svolgono un servizio per la comunità. Prendono la parola in nome degli altri, interpretano e rappresentano i valori della gente a cui appartengono. Non esprimono sentimenti autentici, non appartengono a una scuola di pensiero e spesso polemizzano tra loro. Ma immancabilmente descrivono i calabresi come vittime e, per questo motivo, si potrebbe chiamarli «vittimisti».

    Vittimista è chi si atteggia a vittima senza esserlo, chi si convince di essere in balia delle circostanze, chi finge di aver patito una prepotenza. Se la vittima è il soggetto passivo di un’azione ingiusta, il vittimista è un attore perché lamenta guai che non ha. Interpreta il ruolo del perseguitato: è un artista della simulazione, pretende la scena e le sue rappresentazioni della realtà sono artefatte.

    L’attendibilità non conta

    I calabresi teorici del vittimismo ancora oggi non si propongono di liberare il popolo dalle rappresentazioni mentali che offuscano le cause della condizione in cui vive, né di combattere pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Il fattore potente e unificante delle loro argomentazioni retoriche non è contenuto nelle cose che affermano. Sta nella pratica della lamentazione: indicare colpevoli che giustifichino l’essere vittima, elencare i mali della regione addossando le responsabilità ad «altri».

    Consapevoli della genericità di certe affermazioni, sanno bene che la loro efficacia emotiva è più importante dell’attendibilità. E per dare credibilità alle proprie opinioni, utilizzano in maniera disinvolta le fonti, modificano o inventano i fatti, affermano idee che, fatte circolare insistentemente, diventano in qualche modo plausibili ed accettate: il tempo avrebbe dato autorità e credibilità alle loro storie.

    Come i pagliettari

    Essi si comportano come quei loquaci uomini di toga, dottori in legge o procuratori chiamati volgarmente dal popolo paglietti o pagliettari i quali, come scriveva Rampoldi nel 1832, con artifici, sottigliezze, cabale, raggiri, trappolerie, frodi e falsi giuramenti erano capaci di mutare il bianco in nero per proprio tornaconto e il meno infelice dei clienti non era chi alla lunga vinceva la causa ma chi più presto la perdeva.

    Il vittimista calabrese, come il pagliettaro, è abile nell’uso della parola, un chiacchierone ostinato, capace di dire tutto e il contrario di tutto, di sostenere cose che non corrispondono a ciò che pensa. È incapace di legare i suoi discorsi a un principio di verità. Le sue affermazioni si basano su feticismo verbale e su conoscenze superficiali che lo portano a esprimere concetti sommari con cui catalizzano l’attenzione della gente, favoriscono convinzioni e consolidano credenze.

    Consenso e deresponsabilizzazione

    Le sue argomentazioni sono vaghe ma non per questo opache e senza forza di suggestione. Anzi, è proprio la genericità di affermazioni non suscettibili di verifica a funzionare efficacemente come strumento di consenso. Ripetute ossessivamente, alcune idee si rivelano talmente efficaci da contagiare la popolazione fino a diventarne un aspetto fondamentale di identità e imporsi come modo di vivere.

    Il vittimista attacca chi muove critiche alla sua terra non perché si sente ferito, ma per riaffermare le sue lamentele. Non è interessato tanto alla riparazione del danno subito, quanto alla possibilità di impiegarlo utilmente per difendere i suoi privilegi. Smonta ogni accusa che mette al centro le responsabilità dei calabresi e sottolinea in ogni occasione la loro posizione di perseguitati in modo da perpetuarla.
    Egli sa che la litania dei torti sofferti deve essere recitata costantemente, che bisogna tenere sempre alta la tensione in modo che le vittime non dimentichino mai chi sono.

    Una scusa per ogni problema

    Se la miseria economica e sociale è responsabilità degli altri e se le ingiustizie sono state compiute da altri, spetta ad altri eliminarle. Il vittimista difende una realtà verso cui non vuole o non sa porre rimedio: basta dichiararsi vittime per avere ragione, perché le vittime, per definizione, sono innocenti e non possono essere ritenute responsabili di quel che subiscono.

    Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici utili a rafforzare la posizione degli oppressi, quando le responsabilità dei calabresi sono evidenti, il furbo vittimista giustifica i comportamenti e le azioni come conseguenza dei mali sofferti. Se la Calabria negli ultimi cinquant’anni è stata sommersa dal cemento che ha completamente distrutto il paesaggio, la responsabilità è dei calabresi. Ma tutto è frutto di necessità, voglia di riscattare l’ancestrale miseria e desiderio di vivere una vita più dignitosa.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ogni problema che attanagli la regione trova per il vittimista una giustificazione. Riconosce il clientelismo come una pratica disonesta in cui un personaggio influente instaura un sistema di potere. Ma nello stesso tempo lo legittima sostenendo che in fondo funge da argine contro l’ingiustizia dello Stato che da sempre ignora le classi deboli. I potenti che fanno clientele sono considerati uomini particolarmente sensibili ai problemi della gente e, sia pure in cambio di qualche voto, offrono aiuto anche al di fuori della rete parentale.

    Il pessimismo diffuso

    L’atteggiamento dei vittimisti ha favorito un diffuso pessimismo, la convinzione che gli eventi negativi si sarebbero succeduti senza soluzione di continuità, che la regione fosse perseguitata da forze negative, sfuggenti ed ignote, impossibili da combattere. Pasquale Rossi, agli inizi del Novecento, scriveva che l’indole del popolo calabrese era pessimista e il pessimismo favoriva apatia, sfiducia, egoismo, invidia, maldicenza e individualismo.

    Il sentimento d’ineluttabilità e d’impotenza tanto diffuso nella popolazione ha dato linfa all’idea dell’esistenza di un destino sempre avverso. Ha fatto sì che generazioni di uomini si sentissero perseguitate da potenze oscure colpevoli del fallimento di tutte le loro azioni: nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta.

    La convinzione che il corso della vita sia determinato a priori ha incoraggiato un atteggiamento fiacco e rassegnato, a dire e fare le stesse cose pensando che cambia qualcosa. Ha spinto all’autocommiserazione e alla mancata assunzione di responsabilità finendo per scoraggiare chi rivendicava la volontà di autodeterminarsi.

    La falsa coscienza

    Nelle loro asserzioni i vittimisti descrivono i mali che gravano da secoli sugli abitanti della Calabria ma, attribuendone agli altri la responsabilità, hanno finito per essere dei recriminatori, per dare importanza più ai problemi che alla loro soluzione.
    Non volendo o non riuscendo a comprendere il reale, si difendono producendo una falsa coscienza che, nel momento in cui acquista la forma di una coscienza completa trova una sistemazione teorica dei suoi contenuti in vere e proprie ideologie.

    La falsa coscienza elaborata nel corso dei secoli dai calabresi ha rappresentato un solido argine alla confusione della realtà, un mezzo più o meno consapevole per fornire una rappresentazione del mondo, un modo facile ed efficace per rimuovere i mali e proiettarli al di fuori dei propri confini.

    Considerare i calabresi come il bersaglio costante di ingiustizie terrene o ultraterrene è un modo per non ammettere i propri limiti e le proprie colpe e per giustificare tutto quello che di negativo esiste nella regione. Pur se mosso dall’amore verso la propria terra, il giustificazionismo dei vittimisti ha contribuito a radicare nella popolazione la concezione della propria debolezza e a rifuggire dalle responsabilità.

  • Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Musei, la Calabria cresce a dispetto delle istituzioni

    Qualche giorno fa ho letto un articolo dal titolo “Musei per tutte le tasche ma poco fruibili, il paradosso calabrese” a firma di Pietro Spirito. Tra i dati messi in risalto dalla puntuale presentazione delle statistiche ISTAT spiccavano la numerosità dei musei calabresi, la loro difficoltà di emergere (l’autore dichiarava che i visitatori stranieri «ne stanno alla larga»), la scarsa accessibilità al pubblico portatore di disabilità, il gap tecnologico, la ridotta presenza di attività didattiche e altro. Il che emergeva a prescindere dalla tipologia e gestione museale (statale, civica, diocesana o privata).

    I numeri non mentono. Eppure dietro i numeri risiede una complessa fenomenologia che vorrei brevemente raccontare al solo fine di denotare un cambio di marcia che negli ultimi tempi tenta di consolidarsi.
    L’attenzione ai musei della Calabria è fortemente aumentata – con conseguente avvio di un poderoso processo di allineamento degli stessi agli standard nazionali e internazionali– dopo l’emanazione del DM 113 del 2018 sulla “Adozione dei livelli minimi uniformi di qualità e i luoghi della cultura e attivazione del Sistema Museale Nazionale”.

    Tanto per le inaugurazioni, poco per la gestione

    In Calabria, come in molti altri contesti regionali “minori” o periferici, a determinare il proliferare dei musei dagli anni Ottanta in avanti è stata per un verso la volontà di conservare e (non sempre) di far fruire i numerosi beni presenti in ogni angolo di questa terra. Per un altro verso, evidentemente più pesante, fini di consenso politico.
    È vero infatti che in tante occasioni gli ingenti investimenti profusi per le inaugurazioni non venivano bilanciati, neppure in minima percentuale, da quelli per la gestione dei musei. Questi ultimi, anzi, molto spesso restavano chiusi, affidati a funzionari non adeguatamente formati e assolutamente distanti da qualsivoglia standard di qualità.

    Si contribuiva così non solo alla inibizione della conoscenza di quel patrimonio da parte delle comunità e forse anche alla sua denigrazione, ma anche alla fuga di centinaia di giovani studenti di svariate discipline (umanistiche, scienze della comunicazione, ingegneri ecc.) che continuavano a dire che in Calabria non c’è lavoro senza cogliere il portato economico che tali musei sottendono.

    La Calabria in prima fila

    È altresì vero che la Regione Calabria, istituzione cui è demandata la normativa in materia, fu una delle prime a dotarsi di Legge regionale sui musei (1995) emanando, a distanza di qualche anno dalla pubblicazione dell’Atto di indirizzo Ministeriale del 2001 sui criteri tecnico- scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, la deliberazione del Consiglio regionale n. 63 del 13 dicembre 2010 recante l’Atto preliminare di indirizzo del Sistema Museale Regionale.

    Del 2016 era la DGR 248 sul “Sistema Museale Regionale. Disciplina delle procedure di riconoscimento dei musei della Calabria”. E, a poco più di un anno dal già citato DM 113/2018, la Regione pubblicava la DGR n. 11/2020 con la quale recepiva i livelli di qualità proposti dal Sistema Museale Nazionale assumendo la piattaforma di valutazione nazionale come sistema di accreditamento regionale.

    Che questa non sembri una mera elencazione di norme quanto piuttosto una disamina del percorso di presa di coscienza del ruolo dei musei che si è fortemente accelerato negli ultimi 3-4 anni.
    Il Sistema Museale Nazionale – episodio chiave a livello mondiale, che ha posizionato tutti i Musei italiani nella condizione di elevare i propri standard ed entrare in un cielo digitale di risonanza planetaria – ha lanciato una piattaforma nella quale tutti i Musei accreditati ai sistemi regionali (o in fase di accreditamento ad essi) confluiranno da qui a qualche mese.

    L’esperimento con la piattaforma

    Sono stati proprio i musei della Calabria (nella fattispecie il Museo del Codex di Rossano, il Museo Diocesano di Reggio Calabria, il Museo dei Brettii e degli Enotri e il Museo multimediale Consentia Itinera) a sperimentare la piattaforma AGID insieme alle regioni Toscana, Umbria e Lombardia. Ciò al fine di evidenziare la funzionalità del sistema, le criticità, l’agevolezza dei processi di compilazione oltre che nella direzione di fornire supporto agli altri musei della Calabria che avrebbero da lì in poi fatto istanza di accreditamento.

    Per ovviare alla sconfortante situazione dei musei calabresi ben fotografata dai dati Istat, il Settore Cultura della Regione Calabria, ha avviato una capillare azione di sensibilizzazione sul territorio. Ha istituito la Giornata Regionale dei Musei nel novembre 2018 (che ricorre ogni ultima domenica di novembre). Ha proposto momenti di aggiornamento grazie anche al Coordinamento regionale ICOM Basilicata-Calabria e per mio tramite, che rivesto il ruolo di consigliere regionale ICOM e componente della Commissione nazionale per il SMN.

    Se nei musei (non solo calabresi) permangono purtroppo ancora numerose difficoltà gestionali e professionali, è pur vero che si va verso il miglioramento dei livelli di qualità e l’allineamento dei musei del nostro territorio con gli standard nazionali. Nel Piano Cultura 2021 della Calabria sono tra l’altro previste già fonti di finanziamento per consentire ai musei riconosciuti dal Sistema museale regionale (attualmente 36) di conseguire alcuni requisiti minimi previsti da quello nazionale e accreditarsi ad esso.

    La solitudine dei direttori

    Se proprio dobbiamo continuare a evidenziare un problema, questo è la avvilente solitudine dei direttori dei musei calabresi, perlomeno quelli non statali rispondenti a norme, riconoscimento professionale e procedure nazionali. Sono le loro stesse istituzioni a lasciarli da soli nel quotidiano impegno per il miglioramento e la promozione dei rispettivi istituti. Quasi fosse solo “cosa loro”!

    Se in Calabria la parola “museo” fa ancora paura (più agli adulti che a bambini e ragazzi) è perché non tutti  conoscono le profonde trasformazioni che i musei hanno vissuto e maturato negli ultimi 20 anni, da quando furono ritenuti “invisibili”. Se ancora la opportuna dotazione organica dei Musei non viene considerata negli organigrammi di Comuni, Diocesi e istituzioni private è perché troppo spesso il museo è considerato “cosa facile”. Ma lasciarlo senza professionalità è un po’ come lasciare l’ospedale senza medici.

    Lo sviluppo delle comunità

    Eppure è noto che i Musei sono organismi complessi e in costante trasformazione. Oggi affrontano temi diversificati quali la difesa dei diritti umani, la sostenibilità, la legalità, l’innovazione tecnologica. E non è un caso se la Convenzione di Faro (2005) le dichiarazioni del Parlamento che li ritiene “servizio pubblico essenziale” e, ultima in termini cronologici, la Dichiarazione dei Ministri della Cultura del G20, hanno veicolato un messaggio forte e chiaro: i musei sono luoghi strategici per lo sviluppo delle comunità – specie quelle più complessa come quella calabrese – e parlano il linguaggio della contemporaneità e dei giovani attraverso il digital humanism e i percorsi di educazione al patrimonio.

    I musei combattono l’isolamento delle persone, sia sociale che quello determinato dalla malattia. Favoriscono l’abbattimento delle barriere fisiche, sensoriali e cognitive (se messi dalle rispettive istituzioni nelle condizioni di farlo con dotazioni organiche e strumentali permanenti e non solo in occasione di sporadici progetti e bandi). Promuovono il dialogo interculturale.

    Pensiamo a cosa sono stati in grado di fare durante i vari lockdown reinventandosi e partecipando attivamente alla crisi delle comunità durante la pandemia al solo fine di intercettare – pur se chiusi, pur senza aiuti – il cittadino in difficoltà. Hanno cercato, con numerose attività, di diffondere un sentimento ed uno sguardo positivo verso il futuro evidenziando il loro impatto e ruolo sociale.

    Più attenzione verso i musei

    Grandi passi in avanti sono stati fatti per adeguare le strutture in termini di accessibilità. Evidente e in costante aumento è l’inserimento delle tecnologie nei percorsi espositivi e nella comunicazione. Costante è l’aggiornamento dei professionisti. E caratterizzanti delle attività dei musei sono la formazione, l’internazionalizzazione e la cooperazione strategica con il comparto produttivo e industriale. I numeri sono importanti, eppure dietro i numeri ci sono persone e soprattutto sforzi che spesso non emergono all’onore della cronaca.

    Parlare di musei significa in prima istanza visitarli, porre loro dei quesiti, mettersi in ascolto delle necessità dei professionisti che se ne prendono cura. In Calabria questo, purtroppo, accade ancora poco. La cultura non è un privilegio bensì un diritto. Pertanto gli amministratori pubblici e i privati in possesso di siti culturali sono chiamati ad anteporre i musei in agenda, poiché essi costituiscono la cabina di regia nei progetti strategici per lo sviluppo del nostro territorio (PNRR docet), per il welfare e la qualità della vita.

    Anna Cipparrone
    Commissione Nazionale per il SMN

  • Cosenza, l’Atene delle Calabrie matrigna con i suoi Telesio

    Cosenza, l’Atene delle Calabrie matrigna con i suoi Telesio

    Cosenza è stata indicata come l’Atene delle Calabrie per via dell’Accademia ma essa in realtà era una sorta di confraternita in cui i potentati della città, di tanto in tanto, si riunivano per dare sfoggio d’erudizione. Uno storico del passato scriveva che i soci dell’Accademia Cosentina, per lungo tempo si dedicarono al poetare scompigliato, recitando nelle rare sessioni «rancide poesie» e qualche verso «Dio sa come raffazzonato».

     

    I tronfi ciarlatani dell’Accademia Cosentina

    Nel 1750, Spiriti precisava che il fine dell’Accademia non era quello di rischiarare aspetti sconosciuti del mondo greco o romano, approfondire controversie di storia sacra o profana, speculare sulle scienze fisiche, matematiche o filosofiche. Gli accademici, infatti, recitavano i loro componimenti poetici accompagnati «dal suono di dabbudà o colascione, insipidi poetastri accozzavano sillabe affacenti alle loro orecchie». Credendo di aver già meritato, così, l’ambito titolo di poeta andavano in giro per la città tronfi e pettoruti: tali ciarlatani ambiziosi e senza alcun merito pensavano di coprire la loro ignoranza con lo specioso titolo di accademico!

     

    Versi per la nobildnona d’Althann

    Un volume del 1724, edito a cura dell’Accademia Cosentina, ci offre un quadro del clima politico e culturale che si respirava al suo interno. Nella pubblicazione sono raccolti diversi componimenti recitati durante una pubblica adunanza in memoria della contessa Anna Maria d’Althann. Lionardo Jacuccio scriveva che gli accademici cosentini avevano l’antica e nobile costumanza di celebrare con «funebri pompe di prose e di rime» la memoria delle persone «grandi e valorose» e, considerato che nelle principali città del regno si faceva risuonare «fra tanto strepito» la fama della contessa, essi non potevano certo «starsene oziosi tacendo».

    Egli, quindi, invitava i virtuosi accademici a piangerla e lodarla in rime poetiche da dare alle stampe e divulgare. Ben quarantadue accademici, che non conoscevano la nobildonna, risposero all’appello componendo odi, egogle ed epigrammi in cui si esaltano le doti eccezionali della defunta.

     

    Telesio fu isolato dai cosentini

    Gli intellettuali della provincia di Cosenza che coraggiosamente si sono battuti per affermare le loro verità hanno pagato un caro prezzo. Tra il Cinquecento e il Seicento, nella provincia cosentina molti pensatori e scienziati sono stati emarginati, esiliati, perseguitati e considerati traditori. Bernardino Telesio, uno dei primi filosofi europei ad abbandonare ogni considerazione metafisica della natura e a sostenere che la conoscenza deve basarsi sullo studio dei principi naturali, trascorse gli ultimi anni della vita isolato dai concittadini e, scomunicato per le speculazioni filosofiche, le sue messe all’Indice.

    Giovan Battista Amico, autore di un trattato scientifico in cui discute e sviluppa la teoria delle sfere omocentriche così com’era accolta nella filosofia aristotelica, unanimemente giudicato uno scienziato pieno d’ingegno, fu aggredito e ucciso a Padova, probabilmente da sicari al servizio di qualcuno interessato ad un suo manoscritto mai ritrovato.

    Il trattamento riservato a Campanella

    Il celebre Campanella che soggiornò in città, autore di scritti in cui sosteneva che la natura va conosciuta nei suoi principi e che tutti gli esseri sono dotati di sensibilità e di conoscenza, fu perseguitato dal Tribunale dell’Inquisizione. Accusato di avere organizzato una congiura che mirava alla liberazione della Calabria dal dominio spagnolo, subì terribili torture, fu condannato a morte e riuscì a salvarsi solo fingendosi pazzo, rimanendo in galera per ventisette anni.

     

    Il religioso perseguitato

    Paolo Antonio Foscarini, vicario provinciale dell’Ordine dei Carmelitani, fu perseguitato per aver pubblicato scritti in cui sosteneva che le scienze e le arti portano ad una migliore conoscenza di Dio e che le teorie di Copernico non contraddicevano le Sacre Scritture. Fu accusato di avere esposto i testi sacri diversamente da come erano stati interpretati dai padri e le sue opere messe all’Indice.

     

    L’economista politico

    Antonio Serra, autore di un geniale trattato di economia politica in cui analizza le cause della scarsità di risorse monetarie nel Regno di Napoli e indica i modi per invertire il povero sistema produttivo, si trovava nelle carceri napoletane della Vicaria, secondo alcuni per un reato di falsa moneta, secondo altri perché aveva partecipato ad un tentativo insurrezionale.

     

    Il chirurgo Severino

    Marco Aurelio Severino, ritenuto uno dei fondatori della moderna chirurgia, famoso in tutta Europa per le lezioni e gli interventi chirurgici, fu processato dal Tribunale dell’Inquisizione, imprigionato e spogliato di tutte le cariche. Morì durante la peste del 1656 mentre assisteva gli ammalati e fu seppellito in una tomba senza nome nella chiesa di San Biagio de’ Librari.

     

    Il filosofo e lo scacchista

    Tommaso Cornelio, filosofo e medico di gran valore, considerato uno dei protagonisti della rivoluzione scientifica italiana del Seicento, vagò per l’Italia e subì dure persecuzioni da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Gioacchino Greco, conosciuto anche come il Calabrese, scacchista famoso in tutte le corti europee e autore di un codice sul gioco pubblicato in diverse lingue, nel 1634 si recò nelle Indie Occidentali dalle quali non fece mai ritorno.
    L’elenco degli studiosi cosentini perseguitati o costretti ad abbandonare la loro terra è lungo.

     

    Il fondamento mitico della città

    L’atteggiamento dei cosentini dopo secoli non è cambiato. La rielaborazione storica di Alarico, Federico II e Carlo V degli studiosi locali, fa parte di quel processo che Hobsbawn e Ranger hanno definito «invenzione della tradizione»: manipolare e appropriarsi di personaggi e avvenimenti che diano lustro a una comunità. A questa esigenza rispondono le manifestazioni volte a celebrare i protagonisti di avvenimenti famosi. Riprodurre e ricostruire il passato con mezzi e linguaggi immediatamente fruibili, ricreare situazioni emotive in cui ognuno si riconosce spontaneamente all’interno della comunità. L’obiettivo è quello di dare fondamento mitico alla storia della propria città, processo ideologico in cui storia e mito si confondono.

     

    Le verità manipolate

    Gli eventi celebrativi dedicati a re e imperatori contengono verità deliberatamente manipolate, come scrive Debord, il falso forma il gusto e si rifà il vero per farlo assomigliare al falso. Molti studiosi e amministratori, convinti che i cittadini non hanno alcuna competenza, sono portati a falsificare la storia o a fornire racconti inverosimili. Alarico, ad esempio, il cui nome incuteva nelle popolazioni italiche un fremito di terrore, viene familiarizzato al punto da diventare una icona cittadina. Egli non è più l’odiato e temuto barbaro ma un antenato-eroe da celebrare, un re dalla folta chioma e dagli occhi azzurri, amante della tolleranza e della pace!

     

    L’invenzione della storia

    Le manifestazioni dedicate a personaggi storici fanno parte di una industria del consenso che, come scrivevano Horkheimer e Adorno, liquida la funzione critica della cultura e favorisce l’inerzia intellettuale, una fabbrica di feticizzazione del sapere che a volte appare originale ma che, in realtà, elegge lo stereotipo a norma.

    L’obiettivo di questa strategia culturale caratterizzata da effimere iniziative, è offrire una fruizione dell’evento senza alcuno sforzo da parte del consumatore, distrarre momentaneamente gli individui proponendo semplificazioni e illusioni, mettere in scena sogni collettivi e forme archetipe dell’immaginario su cui gli uomini ordinano da sempre i propri sogni. L’invenzione della storia per celebrare il primato culturale della città, tuttavia, spesso si rivela inconsistente.

     

    Alarico superstar

    Le celebrazioni dedicate a grandi personalità come Alarico in cui prevale l’aspetto ludico e di consumo sono prive di valore sentimentale. I cittadini vi partecipano come a una grande fiera, non sono attratti dai contenuti che il più delle volte appaiono loro incomprensibili. Gli organizzatori, volendo appagare i gusti e gli interessi di tutti, alla fine riescono a soddisfare solo quelli di pochi; pur se animati da nobili intenti, non riescono a rendere tali iniziative «tradizione».

    Una memoria ricostruita o inventata, per conquistare legittimità e consenso sociale, ha bisogno di contenuti condivisi; per essere vitale occorre che i suoi sistemi rappresentativi convergano con l’universo culturale dei gruppi coinvolti. Feste, cerimonie e ritualità, sebbene a volte caratterizzate da grande successo di pubblico, per affermarsi devono attivare un meccanismo spontaneo di identificazione da consentire alla collettività di riconoscersi in una storia comune.

  • PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    PNRR, per ogni miliardo speso al Sud quasi la metà rimbalzerà al Nord

    L’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), non solo per quanto riguarda gli aspetti territoriali, dipenderà moltissimo dalla sua attuazione. Questo percorso di implementazione sarà condizionato dalle regole di semplificazione e dalla capacità amministrativa. Nella esecuzione degli interventi saranno compiute scelte politiche rilevanti, attraverso i criteri di riparto e allocazione e i bandi, che ne determineranno gli effetti. Sarà certamente indispensabile battersi per meccanismi di trasparenza di tutti i passaggi decisionali, e di monitoraggio di tutti gli interventi, che consentano di conoscere e per quanto possibile influenzare queste scelte.

    Mancano quasi 70 miliardi

    Insomma, chi pensa che il Governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al Sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. Sarà il percorso di attuazione che determinerà il montante delle risorse effettivamente indirizzate verso il Mezzogiorno.
    E molto dipenderà dalla capacità delle amministrazioni meridionali di progettare e realizzare coerentemente gli interventi che sono nella agenda del PNRR. Va poi valutato il meccanismo delle ricadute delle risorse destinate al Mezzogiorno sugli operatori economici. Per ogni miliardo speso al Sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al Nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

    Il differenziale che abbiamo sin qui misurato tra le risorse teoricamente destinate al Mezzogiorno e quello che poi effettivamente finiranno nella contabilità degli investimenti, apre un altro ragionamento differenziale, che pure è opportuno tenere presente.
    Mancano infatti, calcolatrice alla mano, circa 70 miliardi per il Sud, anche rispetto agli 80 miliardi teoricamente assegnati dal Governo nel PNRR.

    Stessa formula, risultati differenti

    Il metodo applicato dal Governo italiano è lo stesso che utilizza l’Unione Europea, ossia una formula matematica che compara Pil, popolazione, reddito nazionale, regionale e tasso di disoccupazione di ogni Paese, per determinare l’ammontare delle risorse da assegnare a ogni Paese Ue. Proprio con questa formula sono state calcolate le distribuzioni delle risorse spettanti all’Italia.

    Applicando la stessa formula alla suddivisione territoriale delle risorse destinate all’Italia e sostituendo i parametri europei con quelli su base regionale, si otterrebbe che al Sud spetterebbero circa 150 miliardi, 68 miliardi di euro in più rispetto a quelli attualmente stanziati in teoria dal PNRR.
    Insomma, ci troviamo di fronte ad un duplice differenziale: da un lato quello che si genera tra l’applicazione della formula comunitaria di ripartizione delle risorse e l’ammontare dei finanziamenti teoricamente assegnati dal Governo al Mezzogiorno, e dall’altro quello che si determina se andiamo a misurare le teoriche assegnazioni con le effettive titolarità territoriali formulate nel PNRR.

    Più lenti a spendere e realizzare

    Ma la questione non si ferma qui. I dubbi, forse anche più radicali, si generano se andiamo a valutare l’effettiva capacità di spesa delle istituzioni territoriali del Mezzogiorno.
    A fronte di questa mole di risorse, comunque la si voglia misurare o determinare, la domanda chiave da farsi è se vi sarà la capacità di spendere e di realizzare le opere.

    Secondo un’analisi della Banca d’Italia, basata sui dati dell’Agenzia di Coesione, la realizzazione delle opere richiede in media quasi un anno in più rispetto al Centro-Nord. Le regioni meridionali presentano inoltre i tassi più elevati di inutilizzo dei fondi europei assegnati e di opere incompiute. Ci troviamo di fronte ad un programma estremamente articolato, che richiede elevata capacità di programmazione e controllo, con un governo ferreo delle scadenze temporali.

    Servirebbe una Cassa del Mezzogiorno

    Il nostro PNRR comprende infatti 135 “investimenti” e 51 “riforme”, un totale di 186 interventi. Ed al Sud manca una piattaforma di attuazione, come è stata la Cassa del Mezzogiorno, capace di gestire un complesso ed articolato programma di interventi.
    L’esperienza dei passati decenni in tema di spesa da parte delle amministrazioni meridionali delle risorse comunitarie derivanti dai fondi europei di coesione sta a dimostrare che non si sono generati effetti particolarmente virtuosi. Né dal punto di vista della qualità degli interventi, né dal punto di vista della tempestività nella attuazione.

    Esiste infine un’altra questione decisiva, che riguarda il tessuto economico e sociale del Mezzogiorno, inserito nel sistema produttivo nazionale ed internazionale. Nessun investimento nelle infrastrutture e nelle tecnologie digitali è destinato a generare effetto duraturo se non si determina una trasformazione dell’ambiente economico.

    Il gap con l’Europa si allarga

    L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, viene da due decenni di crescita sterile: dopo gli anni ‘90, dai primi anni Duemila l’andamento della produttività totale dei fattori ha iniziato prima a piegarsi verso il basso per poi mostrare una sostanziale stagnazione. Nelle altre principali economie avanzate (come Germania, Francia e Stati Uniti) – crisi 2009 a parte – ha seguito, invece, un percorso di crescita. La perdita di competitività del nostro Paese su un orizzonte temporale di lungo periodo evidenzia l’esistenza di una serie di nodi strutturali che non hanno permesso al tessuto produttivo di cogliere a pieno le opportunità legate alla rivoluzione digitale.

    Tra i fattori che fino ad oggi hanno contribuito ad allargare il gap di competitività con gli altri Paesi va sottolineata in particolare la ridotta dimensione aziendale (addetti nelle micro-imprese: Italia 42,6% vs UE 29,1%; anno 2018); il rallentamento degli investimenti (variazione % media annua 2010-19 in termini reali: Italia -0,8% vs UE +2,5%), compresi quelli ICT (Italia +1,9% vs Germania +2,5% e Francia +7,8%); la bassa spesa in ricerca e sviluppo (% su Pil: Italia 1,5% vs UE 2,2%, anno 2019); la carenza di competenze digitali (imprese che fanno formazione su ICT skills: Italia 15% vs UE 20%; anno 2020)4; l’elevata percentuale di imprese con governance familiare.

    Affari di famiglia

    In merito a quest’ultimo punto, mentre in termini di proprietà familiare l’Italia è in linea con gli altri Paesi europei con l’85,6% di imprese di proprietà familiare, vicino all’80,0% della Francia, all’83,0% della Spagna e al 90% della Germania, è in termini di management familiare che l’Italia si differenzia notevolmente per una bassa propensione a ricorrere a manager esterni alla famiglia. Infatti, le imprese familiari in cui il management è nelle mani della stessa famiglia proprietaria sono ben due terzi in Italia (66,3%), a fronte di un terzo in Spagna (35,5%) e circa un quarto in Francia (25,8%) e in Germania (28,0%).

    Le caratteristiche del nostro sistema produttivo unite alle recenti esperienze di incentivazione agli investimenti in digitalizzazione mettono in luce una serie di rischi rispetto all’obiettivo della piena transizione digitale.

    Le disparità tra Nord e Sud

    Il primo rischio riguarda le disparità territoriali: l’esperienza dell’iper-ammortamento ha mostrato uno sbilanciamento delle risorse assorbite, rispetto alla consistenza imprenditoriale dei territori, al Nord (con particolare riferimento a Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna). E non sembra che le cose vadano meglio neanche nell’ultimo anno. Un’indagine 2020 Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere sulle imprese manifatturiere 5-499 addetti evidenzia come la quota di imprese che al 2020 hanno adottato o stanno pianificando di adottare Industria 4.0 è superiore proprio al Nord rispetto al Mezzogiorno (19% vs 14%).

    Questo potrebbe seriamente contribuire ad ampliare i divari di crescita territoriali alla luce di una certa relazione positiva tra ripresa delle attività post-lockdown e decisione dell’impresa di accelerare verso la transizione digitale.
    Forse sarebbero proprie le determinanti del divario in termini di produttività dei fattori e di competitività industriale gli elementi sui quali fare leva maggiormente nel PNRR per imprimere un recupero di efficienza manifatturiera del territorio meridionale, inserendolo finalmente nel tessuto delle catene globali del valore dalle quali deriva lo sviluppo industriale dei nostri tempi.

  • SPORTELLATE | Conte, Bergomi, derby, Dazn e nichilismo

    SPORTELLATE | Conte, Bergomi, derby, Dazn e nichilismo

    Eccomi di nuovo qui a dare le pagelle allo sport di casa nostra. Lo dico subito, questa settimana ho dedicato ogni pensiero soltanto al pallone. Certo, avrei potuto occuparmi anche della maratona elettorale in Calabria dell’ex premier Giuseppe Conte che, sfoggiando un fisico bestiale da atleta d’altri tempi, ha illegalmente assembrato come un Cristiano Ronaldo le piazze di ogni dove, scatenando violente reazioni ormonali di sostenitrici Under/Over e polemiche compatte di famosi artisti di musica e teatro.

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    Beppe Bergomi assiste al derby Cosenza-Crotone in tribuna al San Vito-Marulla

    Avrei potuto dare un voto a questa cosa qui, ma ho preferito lasciar perdere. Anche perché, poi, ci ha pensato il derby Cosenza-Crotone (1 a 0) a riportate la folla (8 mila anime vaccinate e greenpassate) alla sobrietà. Un giudizio lo do piuttosto a Beppe Bergomi, coraggioso a preferire il San Vito-Marulla a San Siro, dove la sua Inter affrontava l’Atalanta. Follia? Può darsi. Ma si sa, per i figli si fa questo e altro (per chi non lo sapesse, lo “zio” è il suocero del bomber dei silani Gabriele Gori).

    Voto 10 al partitone meraviglioso di Milano che Bergomi si è perso.
    Derby/1

    Eugenio Guarascio in tribuna, senza giacca, quasi a non crederci; Gianni Vrenna in panchina, ingiacchettato, a reggersi il broncio a fatica con la mano destra.
    È questa una delle tante immagini del derby. Emblematica, simbolica, rappresentativa di due uomini che fanno gli imprenditori ambientali nella stessa regione e non sono amici neanche un po’. A inizio torneo tutti pronosticavano per entrambi un destino opposto: il patron dei Lupi in fondo alla classifica e quello degli Squali nelle zone di vertice. Ma non c’è niente da fare, il calcio è traditore. Capace, quando vuole, di sorprendere persino se stesso, la retorica, la coerenza e quei tifosi, non pochi, che dicevano che allo stadio, con Guarascio presidente, non ci sarebbero tornati più.

    E invece niente, allo stadio ci sono tornati. In tanti, tantissimi, e va bene così. Sì, perché il Cosenza, costruito in cinque minuti, nella narrazione popolare delle sue imprese, ha già attratto a sé tutti gli aggettivi della favola, ovviamente di provincia. Si sacrifica, picchia, soffre e vince con la classe e con la fortuna che, dopo un anno di letargo, è tornata a farsi strada di prepotenza. Certo, ancora è presto, prestissimo per allontanare i cattivi pensieri. Ma il gol di Carraro alla Maradona – o per rimanere di provincia, alla Buonocore – sembra dire che, forse, almeno per quest’anno, le delusioni in riva al Crati saranno minori. Le tre vittorie conquistate in sei partite e nelle ultime quattro (contro le due dello scorso torneo dopo 19 giornate) raccontano una storia che nessuno si aspettava.

    In poche settimane, sorprendendo tutto e tutti, i ragazzi di Zaffaroni hanno offuscato il tragicomico recente passato. Tutto questo mentre l’imprenditore lametino, con appena dieci anni di ritardo, pare si sia finalmente convinto a mettere in piedi uno staff dirigenziale accettabile, con l’ingresso in società di un direttore organizzativo al quale, come da comunicato stampa, manca solo qualche titolo nobiliare per raggiungere la perfezione assoluta.

    Nei prossimi giorni, compatibilmente con i tempi del presidente, dovrebbe essere ufficializzato anche un responsabile scouting ex Milan. Insomma, tutto grasso che cola. L’augurio è che tanta grazia non sia un fuoco di paglia e che, dopo una lunga fase di medioevo, porti realmente la società rossoblù nel 2021.

    Voto 8 alle favole di provincia.
    Derby/2

    Dicevamo di Vrenna, apparso nervosissimo e tormentato come poche volte si era visto prima. Ha seguito quella che doveva essere la partita della svolta del suo Crotone seduto in panchina a confabulare nervosamente con Maurizio Perrelli, ex mediano del Cosenza e collaboratore tecnico di Modesto, altro ex dei Lupi. La sensazione è che se avesse potuto (e non è escluso che in futuro non decida di farlo), avrebbe preso il controllo delle operazioni, mettendo nello sgabuzzino il suo giovane allenatore, bravo a far giocare a pallone la squadra, meno a fargli fare gol.

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    La delusione di Vrenna in panchina nei minuti finali del derby calabrese disputato sabato

    D’altronde non è un caso se Mulattieri ha messo dentro cinque delle sette reti realizzate finora dai rossoblù. Ed è proprio questo che preoccupa maggiormente. Non per ripetere sempre la solita solfa, ma le assenze di Simy e Messias fanno malinconia. E non si può affidare tutto il peso di un reparto fondamentale a un ventenne, seppure talentuoso. Sia chiaro, il tempo per riprendersi c’è tutto, forse, però, da domani in avanti, quando si andrà in campo, servirà essere meno presuntuosi e più concreti. E non solo a parole. Bisognerà indossare nuovamente l’abito sporco dei provinciali, che poi è quello che chiedeva proprio Modesto alla vigilia della sfida col “piccolo” Cosenza. In fondo è così che il Crotone nelle ultime stagioni si è ritrovato in serie A più di una volta.

    Voto 4 alla provincia perduta
    Reggina a passo lento

    Non me ne voglia nessuno ma, forse, il momento più emozionante di Reggina-Frosinone è stato l’ultimo saluto del “Granillo” a Massimo Bandiera, segretario della società di 48 anni scomparso una settimana fa per una brutta malattia. L’abbraccio del presidente Luca Gallo a Cecilia (la compagna di Bandiera) e lo striscione in curva Nord“Reggino d’adozione… Professionista esemplare” – hanno fatto scendere ai presenti qualche lacrima di commozione.

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    Lo striscione dei tifosi della Reggina per Massimo Bandiera

    La partita è stata piuttosto noiosa. Un po’ come quei film al cinema pompati all’inverosimile dai media che invece finiscono quasi per addormentarti. E, bisogna dirlo, a parte un paio di guizzi, da Aglietti e Grosso ci si aspettava qualcosa di più. Resta l’imbattibilità di entrambe e l’amarezza dei tecnici per ciò che poteva essere e non è stato. L’ospite, campione del mondo nel 2006, ha detto che per quanto visto nel primo tempo, i suoi ragazzi meritavano la vittoria. Il padrone di casa ha ribattuto con un quasi identico «per quanto visto nel secondo tempo meritavamo i tre punti». Insomma, punti (appunto) di vista che restano tali e danno un giusto senso al risultato finale.

    Voto 10 al ricordo toccante al dirigente buono.
    Disastro Vibonese

    Pippo Caffo, dopo aver iscritto la squadra al campionato di Lega Pro, aveva promesso ai suoi tifosi una stagione esaltante. Era stato seguito a ruota dal direttore sportivo Gigi Condò: «Ci toglieremo grandi soddisfazioni». Da allora, se si escludono i sentimenti degli avversari di turno, di esaltante e soddisfacente dalle parti di Vibo Valentia non si è visto nulla. La classifica parla chiaro: ventesimo posto su venti con due pareggi e tre sconfitte. L’ultima, disastrosa, proprio oggi al “Luigi Razza” (1 a 4) contro una Turris che già dopo il calcio d’inizio sembrava il Barcellona e invece era soltanto la Turris. In 20 minuti gli uomini di D’Agostino erano sotto di tre reti. Più chiaro di così, si muore. O, al massimo, si retrocede.

    Voto 2 come i punti in classifica dei rossoblù (nessun voto al Catanzaro che domani sera ospiterà al “Ceravolo” il Catania).
    Berardi

    Dopo la vittoria dell’Europeo con la nazionale italiana, se n’era andato in vacanza, convinto che, nel frattempo, uno dei tanti top club a lui interessati (Milan, Tottenham, Real Madrid, Inter, Roma, Lazio, Atalanta e non mi ricordo più chi altro), gli facesse pervenire l’offerta giusta. Insomma, sembrava l’anno perfetto per l’addio al solito Sassuolo. Persino la sua compagna di vita Francesca, sassolese doc, si era spinta a dichiarare pubblicamente che Mimmo meritava molto di più. Invece niente.

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    Domenico Berardi festeggia sul campo la vittoria contro l’Inghilterra in finale agli Europei

    Giorno dopo giorno il talento di Bocchigliero ha visto sfumare il suo obiettivo, cercato, forse, fuori tempo massimo. E così, nell’estate dei trasferimenti eccellenti (vedi Messi, Ronaldo e Lukaku a Psg, Manchester United e Chelsea) e della sfiancante trattativa Juventus-Locatelli, Berardi è rimasto imprigionato nel suo castello emiliano che più volte in passato lo ha protetto dalle sue insicurezze.
    Negli ultimissimi giorni di mercato, forse più per disperazione che per altro, pur di cambiare aria, aveva sperato in un guizzo della Fiorentina del corregionale Rocco Commisso. Ambiziosa, per carità, ma non certo in grado di fargli fare quel salto di qualità che desiderava. Anche in quel caso, però, niente da fare.

    Morale della storia triste: oggi l’ex ragazzo prodigio di Calabria, che qualche anno fa rifiutò la Juventus perché non si sentiva alla sua altezza, per il decimo anno di fila si ritrova a fare il leader di una fiaba antica che non somiglia né al Cagliari di Gigi Riva (che alla Juve disse di no perché a Cagliari voleva restarci per sempre), né al Vicenza di Paolo Rossi. Anzi, a guardarlo bene oggi il Sassuolo, smembrato dei suoi pezzi migliori tranne il più pregiato, sembra uno sbiadito ricordo di un calcio romantico che da tempo si è perso chissà dove.

    Voto 3 a Berardi per essersi accorto troppo tardi (rima casuale) di quanto gli stia stretto il ruolo di bandiera di provincia.
    Dazn e nichilismo

    Sulle ormai tradizionali interruzioni del segnale durante le partite trasmesse da Dazn sono state già spese un mucchio di parole, a volte di rabbia, altre di sfottò. Insieme a sportivi neutrali e tifosi accaniti costretti ad abbonarsi alla piattaforma britannica perché serie A e B quest’anno sono lì, persino un intellettuale del calibro di Michele Serra ha sprecato un suo pensiero di “Satira preventiva” sull’Espresso. Io, sinceramente, in tutta questa storia non ci vedo nulla di sorprendente.

    Michele-Serra
    Il giornalista e scrittore Michele Serra

    Si sapeva, dai, che sarebbe andata a finire così. In fondo questa vicenda è lo specchio dei tempi che viviamo, parliamo e facciamo di tutto senza potercelo permettere.
    E allora, dopo aver visto un po’ di partite al pc nell’ultimo weekend, ho deciso di aggregarmi umilmente alla categoria dei polemisti nichilisti, adottando questo slogan: abbonarmi a Dazn è come votare alle regionali calabresi. Non avendo alternative, mi affido a un partito qualunque sapendo già in partenza che la connessione prima o poi mi abbandonerà.

    Voto 9 a tutti quei tiri in porta che non si sa che fine hanno fatto.
  • Sindaci a Cosenza: ieri, oggi, domani

    Sindaci a Cosenza: ieri, oggi, domani

    Una campagna elettorale popolata di tanti candidati a sindaco è ormai consuetudine, al Sud, più che al Nord, malgrado si dica che fare questo lavoro è diventato molto rischioso!
    Il mio sguardo di viaggiatore frequente tra terre meridiane e alpine, mi costringe a salti di geografie sociali e politiche che stimolano vedute aperte, scevri da localismi, così che guardo, da studioso, a Cosenza “città interrotta” come altre al meridione. Ovvero quelle città in cui la bellezza, il decoro, la manutenzione, la cura urbana sono ormai progressivamente scomparse.

    Passato, presente e futuro

    È nostalgia pura la stagione di Falcomatà padre, Giacomo Mancini, Enzo Bianco, Vincenzo De Luca, che hanno impresso una spinta radicale e significativa al cambiamento delle città negli anni cruciali di governi attivi, propositivi, dinamici. Nostalgia, soprattutto perché sono stati sindaci capaci tanto di avere una visione che fosse in grado, con intelligenza, di tenere insieme lo sguardo sul futuro, che la risoluzione di problemi quotidiani per andare incontro alle esigenze dei cittadini.

    Ho sfogliato i programmi dei candidati di Cosenza, sindaci di domani, ovvero dei prossimi cinque anni, analizzando alcune delle proposte roboanti, ambiziose, lungimiranti (anche troppo!), ma al contempo di una imbarazzante genericità. Ne ho dedotto che rischiano di essere, a seconda della vittoria, altri cinque anni di sogni vanagloriosi, di inutili fughe verso una impossibile smart city, perché non ci sono gli smart citizens, ma non solo, di ambizioni per progetti irraggiungibili e costosissimi per la collettività, dunque irrealizzabili e fallimentari, di finte, ipocrite posizioni ecologiste, ché la vera ecologia è occuparsi della “casa dell’uomo” e del suo benessere reale, nonché della rincorsa ad un turismo impossibile perché Cosenza, la Calabria, non sono né la Sicilia, né la Puglia, tantomeno la Basilicata con Matera città d’arte.

    Le città del dopo Covid

    Ma la cosa che più preoccupa – escludendo una qualche intuizione dovuta ad una sensibilità femminile – è che nessuno, purtroppo, ha colto due questioni fondamentali: la prima è che le città del dopo Covid prevedono un crollo – già in atto – delle presenze nelle grandi aree urbane e nelle metropoli, con un ritorno di molti “transfughi” nei luoghi d’origine, al Sud in particolare, e dunque un ruolo determinante delle città medie, come Cosenza (con Rende) è a tutti gli effetti.

    Ma questo ritorno non è senza impegno alcuno e non è automatico. Chi decide di rientrare sceglierà la qualità sotto molto punti di vista, così che la seconda questione è che sarebbe stato, per i candidati di Cosenza, mettere da parte i sogni, le ambizioni, i proclami, le inutili sparate elettorali e per esempio adottare nelle proprie proposte, anche solo una parte della griglia di parametri che usa, ogni anno, il Sole24ore quando stila la classifica della qualità delle città, in cui svettano (non a caso), Trento, Bolzano, Belluno e via di seguito verso il nord.

    Come sfruttare il potenziale

    Cosenza (e Rende, non si dimentichi) ha già un potenziale di qualità della vita molto alto, che però è vanificato da alcuni drammatici parametri che non intravedo in nessun progetto di futuro proposto in questa tornata, eppure semplici, elementari, quali, un Piano Urbanistico del Traffico e della Mobilità Ecologica (non un banale piano della viabilità i cui risultati sono evidenti), possibilmente redatto con intelligenza progettuale, per liberare la città dalle migliaia di ingressi automobilistici quotidiani.

    Purtroppo, non basta fregiarsi di pochi circuiti ciclabili come alternative al caos delle auto in doppia, tripla fila. Le auto vanno tolte dalla città con coraggio e vigore amministrativo e scelte anche impopolari, ma fondamentali, e con trasporti pubblici puntuali, puliti, in sedi dedicate non invase dalle auto, mezzi nuovi, non inquinanti né traballanti, unica alternativa valida al disordine odierno.

    Stop al degrado

    Occorre anche la creativa fattibilità di un piano virtuoso per lo stoccaggio e rapida trasformazione delle tonnellate di rifiuti in eccesso, con un consorzio di comuni e cooperative di giovani, che le lacunose attività regionali non riescono e riusciranno a sostenere. La “monnezza” è oro, altrove, qui diventa nausea e degrado, l’ambiente e i servizi ad esso collegati sono la priorità dei governi nazionali e non possono essere disattesi in sede locale, dove si gioca la partita quotidiana. Ancora un importante impegno progettuale per la cultura e il tempo libero: un cittadino colto e rilassato è un cittadino felice e attivo.

    Tutto ciò è però vano senza una pubblica amministrazione efficace, incisiva, attiva, al servizio dei cittadini, e nel rigenerare tutte le aree e gli spazi urbani ad alto degrado – dalla parte storica fino alla periferia – per sottrarli alla delinquenza che ormai è padrona incontrastata e che prospera nel brutto, nel marginale, nell’indecoroso!

    Europei nei fatti, non negli slogan

    Non ho letto nemmeno l’ambizione sana, necessaria a diventare una città europea, nei fatti, non con slogan, soprattutto con la quantità di denari che il PNRR controllerà passo dopo passo e che si giocherà su pochi, determinanti parametri, basati sui programmi della UE. Così, non si scorge un cenno al New Green Deal, al New European Bauhaus, al Green Wawe, ovvero ad un concreto impegno pubblico e collettivo per la riduzione dell’inquinamento dell’80% entro il 2050, all’essere cittadini europei di serie A, non destinati dunque alla perenne periferia dell’Impero!

    Infine, mi manca l’elemento essenziale in tutto questo: sarà vano ogni sforzo senza educare i cittadini alle scelte di cambiamento della città, ad una cultura urbana condivisa per ogni necessario passaggio, a nuove forme di necessaria civiltà. Tanto è vero che persino la qualità della grafica e della comunicazione dei candidati sindaco, appare purtroppo scontata, uguale, stucchevole, vecchia e per cittadini vecchi d’altri tempi. Figuriamoci nel tentare di avvicinare alla politica i tanti, nauseati giovani!