Categoria: Opinioni

  • Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Università e politica, dopo 50 anni ancora paraventi e rivendicazioni?

    Caro Direttore, caro Franco,
    ho seguito la discussione sulle università calabresi che ha preso il via sul tuo giornale fin dall’intervista a Sandro Bianchi, e poi si è sviluppata con interventi che hanno arricchito il quadro con ulteriori elementi e da diverse angolazioni.

    Mi è parso di capire che se l’aspettativa era alta, sul ruolo e l’incidenza che il sistema universitario calabrese avrebbe potuto-dovuto avere rispetto alle condizioni sociali e culturali oltre che politiche, oserei aggiungere antropologiche, della nostra regione, tale aspettativa, da quel che leggo è rimasta in buona misura disattesa. Il rettore emerito Gianni Latorre è più cauto e sottolinea gli aspetti positivi e per talune considerazioni che svolge dirompenti: lui conosce bene l’Unical e la vischiosità dei tanti anfratti in cui si cela la nostra identità, il nostro essere cittadini calabresi, con tutte le ambasce, i condizionamenti, i retaggi.

    Se posso aggiungere la mia voce alle tante, e mi auguro anzi auspico si moltiplichino, inviterei a rimuovere le valutazioni che, sottotraccia o esplicitamente, attribuiscono o attribuivano virtù taumaturgiche alla nascita, al sorgere, allo stabilizzarsi del mondo accademico qui da noi. E non è una diminutio o una sottovalutazione, la mia posizione, quanto l’evidenziare che cinquant’anni di vita di una istituzione – che per lo stesso fatto di irrompere in un quadro preesistente fatto di relazioni, patti, accondiscendenti e mutui laisser vivre, ha comportato sconvolgimenti nel concepire la vita associativa – sono poca cosa. Poca cosa per mutare o curvare secoli di indolenza, autosufficienza, più presunta che reale, un predominio della politica o per dir meglio del politichese sovra ogni altro comparto.

    È questo mio dire una giustificazione o addirittura un’assoluzione delle università calabresi, in primis dell’Università della Calabria, che meglio conosco rispetto alle altre, e che nacque, appunto come università regionale, anticipatrice della riforma, a numero chiuso e residenziale, con la missione di servizio al territorio da assolvere-tutto scritto e sottolineato nel suo Statuto? Certamente no, e lo dico dalla prospettiva e a posteriori, di chi ha vissuto fra i cubi di Arcavacata per quasi cinquant’anni, sovente occupando posizioni dentro gli istituti di gestione e di governo. Non perché i suoi doveri istituzionali Unical li ha ottemperati egregiamente e doverosamente per quanto attiene ricerca e didattica (inutile dilungarsi qui: è sufficiente constatare le migliaia di laureati nostri cosa fanno e i report delle ricerche contenuti nei files accreditati). E nemmeno perché non abbia spinto, motivato e proposto tante e tante volte e nei modi più diversi tavoli e incontri, contatti e relazioni con il mondo della politica e delle professioni, della produzione e del commercio. Anche qui ha fatto, lo ha fatto a lungo.

    Il muro, le resistenze, l’opacità e la viscosità che ha incontrato, laddove il fondatore Beniamino Andreatta aveva immesso elementi di forte e dichiaratamente impattante stridore per provocare una shocking wave in grado di risvegliare un corpaccione dormiente, non erano facili scalfire. Non lo era nemmeno, però, introiettare per molti versi e in diversi ambiti un modo di fare, un ritrarsi, un ‘autogiustificarsi’ quasi omologatorio al sistema circostante.

    Non è questa, ovviamente, la sede per ricordare episodi, fatti, accadimenti, che si sarebbero potuto dipanare in altri modi, che forse avrebbero potuto condurre a soluzioni di interesse generale più ampie e profonde, ma forse si può, qui, iniziare a fornire un quadro di lettura, una traccia almeno, di come e perché altrove, un qualsiasi altro altrove, dove però ci sono città di dimensioni medio-grandi, ospedali funzionanti, servizi efficienti, infrastrutture adeguate, modelli organizzativi di condivisione, ritrovo, scambio, dove c’è un sistema imprenditoriale che dà e riceve secondo un patto non per forza di cose scritto, dove il weberiano ‘controllo sociale’ mostra ancora segni di vitalità in vece dell’ossequio dell’appartenenza, in questo altrove, dicevo, le università, l’università rappresenta e costituisce un elemento aggiuntivo e premiante, un valore supplementare al contesto. Senza reclamare o invocare predomini della politica su tutt’il resto, senza, per converso, trincerarsi dietro paraventi di autonomia.
    Si può lavorare per tutto questo?

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Università della Calabria, senza dialogo con istituzioni e territorio non si cresce

    Gentilissimo direttore,
    ho seguito con molto interesse il dibattito apertosi su I Calabresi inerente il ruolo che le università hanno nello sviluppo del nostro territorio e, dunque, sull’importanza di quella che viene definita “Terza Missione”: su come, cioè, gli atenei possono e devono svolgerla, interpretarla, interagendo con la società civile ed il mondo imprenditoriale, i cittadini.
    Mi permetta da cittadina calabrese che si è laureata presso l’Università della Calabria, ha lavorato e fatto impresa nella propria terra e che oggi ha l’onore di rappresentarla tra i banchi della Camera dei Deputati, di condividere con Lei ed i suoi lettori qualche appunto mentale sull’argomento e raccontarle anche alcune esperienze personali ad esso correlate.

    Serve più dialogo

    Il ruolo delle università, va da sé, – ma è comunque giusto ricordarlo – è assolutamente centrale per la crescita culturale, sociale ed economica dei territori. Per questa ragione le istituzioni – locali soprattutto ma anche centrali – dovrebbero a mio avviso potenziare maggiormente il dialogo con gli atenei e tessere un lavoro di contaminazione costante al fine non solo di tracciare le migliori e più aderenti politiche per la crescita del territorio in questione, quanto anche adoperarsi per consentire a tutte le fasce della popolazione, in particolar modo quelle più fragili, che oggi si sentono distanti e disamorate dalle aule universitarie, che addirittura considerano quasi controproducente l’accesso al sapere, di far propri quegli strumenti, pratici e cognitivi, che consentono una crescita personale e professionale tale da aggredire e non subire il mondo ed il mercato del lavoro.

    La cultura collegata alla comunità

    Da sottosegretario di Stato ai Beni Culturali nel Conte II, ho voluto fortemente coinvolgere l’Università della Calabria nella progettazione degli interventi per la riqualificazione del centro storico di Cosenza attraverso il Contratto istituzionale di sviluppo. Proprio per questo motivo ho chiesto all’Unical di sviluppare un progetto per la creazione di un incubatore per le imprese culturali e turistiche – che avrà sede all’interno dell’ex Convitto nazionale Telesio – con l’obiettivo di stimolare, attraverso la formazione e la diffusione della cultura di impresa, partendo dai bisogni del centro storico, nuove imprese di servizi proprio per la cultura e il turismo in grado di intercettare il mercato nazionale ed internazionale.

    La motivazione è semplice: l’università con il suo background nel campo della ricerca e dello sviluppo, non solo di spin-off, ma anche di startup innovative, è il soggetto più indicato per realizzare un percorso che colleghi i luoghi della cultura di Cosenza innanzitutto alla comunità cittadina, e del centro storico in particolare, e di tutti i cittadini dell’area urbana.

    Serve volontà politica

    La volontà politica, dunque, all’interno delle istituzioni, ad ogni livello, è fondamentale per innescare una collaborazione concreta e proficua con le università rafforzandone la capacità di connettersi al territorio e trasferire saperi, strumenti ed opportunità. In tal senso, con l’ultima Legge di bilancio varata dal Conte II, quella per il 2021, si è dato vita agli ecosistemi dell’innovazione per le regioni del meridione d’Italia, con l’obiettivo di stimolare la creazione di veri e propri hub dell’innovazione tra soggetti pubblici, le università e i privati, ovvero aziende nel campo dell’ICT, startup e imprese tradizionali.

    Guardare oltre le mura delle proprie aule

    È fondamentale, infatti, incentivare il dialogo tra pubblico e privato, soprattutto in una regione come la nostra che soffre ancora oggi di insani campanilismi, spinte individualiste e divisive. Se, dunque, la “politica” ambisce ad essere definita tale, quella cioè con la “P” maiuscola (io per prima finché vorrò portarla avanti attivamente), deve altresì impegnarsi per trovare la strada giusta e stimolare gli atenei calabresi a guardare oltre le mura delle proprie aule.

    Così come è responsabilità delle università accelerare sui percorsi della Terza Missione non solo lavorando in sinergia tra di loro, ma pensando alla Calabria come un territorio “unico” dove, potenzialmente, ogni giorno, potrebbero nascere progetti ed idee che, magari, hanno solo bisogno di trovare riferimenti seri per crescere e far crescere il contesto intorno a loro. Solo così, ritengo, avremo una Calabria fertile di saperi condivisi e solo così le nostre università potranno continuare a crescere e raggiungere traguardi sempre più alti nel campo dell’offerta formativa, della ricerca e del sapere umano.

    Anna Laura Orrico
    Deputato M5S – ex sottosegretario ai Beni Culturali

     

  • Donne e diritti, una panchina rossa non può bastare

    Donne e diritti, una panchina rossa non può bastare

    Sono numerose le iniziative che in questi giorni hanno animato i centri cittadini della Calabria in occasione del 25 novembre. La panchina rossa è diventata anche nella nostra regione simbolo del contrasto alle violenze esercitate dagli uomini sulle donne. L’uso del plurale si rende necessario per evidenziare le molteplici forme di violenza che subiscono le donne. Non è infatti solo la violenza fisica ciò che caratterizza molte relazioni che degenerano in prevaricazione. Si esercita violenza verbale, psicologica, economica. Si isola la donna socialmente per ridurre i rischi che possa confidarsi, per continuare a esercitare potere su di lei, preda di una cultura patriarcale di cui è pervasa la nostra società e che ha radici antiche.

    Le ricorrenze sono importanti ma non bastano

    La pandemia e le misure di contenimento dei contagi adottate, che hanno portato a una maggiore permanenza della famiglia in casa, e il precipitare delle condizioni socio-economiche nella crisi accentuata dall’emergenza sanitaria, sono ulteriori elementi di possibile aggravamento dei comportamenti violenti.
    Occorre dunque interrogarsi su cosa e come agire per ridurre il rischio che le donne si trovino in condizioni di violenza domestica, perché non può bastare l’attenzione al fenomeno in un breve intervallo temporale attorno al 25 novembre e all’8 marzo, benché entrambe le ricorrenze siano importanti occasioni di sensibilizzazione e informazione.

    L’Italia bacchettata dalla Corte europea

    Il nostro paese ha ratificato nel 2013 la convenzione di Istanbul, che declina una serie di misure da adottare, ma che non è mai stata applicata realmente. Lo dimostra la condanna della Cedu, risalente al 2017, per aver infranto, nell’ormai noto caso di Elisaveta Talpis, ben quattro articoli della Convenzione europea sui diritti umani: l’art. 2 sul diritto alla vita, l’art. 3 sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, l’art. 4 e l’art. 14 sul divieto di discriminazione. La Corte raccomanda al governo italiano di rispettare gli impegni presi emanando nuove leggi, colmando le lacune normative, istituendo una struttura ad hoc, lavorando sull’educazione e sull’empowerment femminile. L’Italia nel 2020 presenta quindi un piano, ritenuto lacunoso e incompleto dalla Cedu negli elementi già da tempo evidenziati dalle avvocate del circuito D.I.R.E.

    La Corte europea dei Diritti dell'uomo
    La Corte europea dei Diritti dell’uomo – I Calabresi
    Il reddito di libertà

    Ulteriori informazioni per fare il punto sulla situazione italiana sono contenute nel rapporto Grevio, che pone l’attenzione anche ai fenomeni sempre più diffusi di revenge porn e vittimizzazione secondaria. Importante recente novità sul contrasto alle violenze contro le donne è il Dpcm del 17 dicembre 2020, che introduce il “reddito di libertà” da attribuire alle donne che scelgono di uscire da condizioni di violenza domestica. La misura è anche compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito previsti dalle leggi italiane. Pur riconoscendone l’importanza come contributo utile per donne che hanno subito violenze, occorre comprendere che non aiuta a prevenire il fenomeno. Ciò di cui abbiamo bisogno è soprattutto attivare opportune strategie di prevenzione di violenza domestica.

    Lavoro e gap salariale

    Innanzitutto bisogna ridurre il gap salariale tra uomini e donne, che determina asimmetria economica, quindi asimmetria di potere, alla base delle violenze esercitate. Molte donne, soprattutto nel Sud Italia, non hanno un lavoro retribuito e nell’anno della pandemia, secondo gli aggiornamenti di Eurostat, il tasso di occupazione femminile, che in Europa è stato in media del 62,4% per le donne tra i 15 e 64 anni, in Calabria è solo del 29%. Ma già prima della pandemia tale divario era superiore alla media italiana: al primo gennaio 2019 l’occupazione femminile in Calabria risultava addirittura ridotta del 2,3 %.

    Tassi di occupazione in Italia per sesso (2018-2020)
    Tassi di occupazione in Italia per sesso (2018-2020) – I Calabresi

    Per contribuire a prevenire la creazione delle condizioni che favoriscono violenza domestica, sarebbe opportuno valutare un reddito di autodeterminazione per tutte le giovani donne, con il vincolo dell’obbligo di studio e/o di ricerca di lavoro, costruendo le condizioni perché sviluppino competenze specifiche e abbiano facile accesso a un mondo del lavoro che richiede livelli sempre più elevati di conoscenze, di abilità anche tecniche e di competenze specifiche e trasversali.

    Non basta il fondo di inclusione rosa

    Bisogna garantire canali privilegiati di accesso ai luoghi di lavoro per le donne che subiscono comprovata violenza domestica, anche perché è noto quanto sia faticoso e impegnativo ottenere contributi economici da parte del partner o dell’ex partner che le ha maltrattate. L’importanza di garantire un reddito alle donne, di riconoscere anche economicamente e con adeguata retribuzione il gran lavoro di cura che compiono quotidianamente in famiglia, è supportata dalla constatazione che recenti sentenze di separazione di diversi tribunali, in assenza di reddito della madre o in presenza di reddito molto basso, assegnano la residenza a figli e figlie minorenni presso il domicilio paterno, anche in caso di padre maltrattante.

    Non può essere sufficiente come misura per l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro il cosiddetto fondo d’inclusione “rosa” per le casalinghe, di recente approvazione e che non prevede la garanzia di autonomia economica ma è un credito per l’accesso gratuito a corsi di formazione, ai quali non avrebbero comunque accesso molte donne prive di reddito, in condizioni di subalternità economica, prive di mezzo autonomo di trasporto in una regione in cui è negato il diritto alla mobilità non essendoci servizi di trasporto pubblico per il pendolarismo intraregionale.

    Demolire gli stereotipi di genere

    Ma soprattutto è indispensabile prevedere, nelle scuole di ogni ordine e grado, percorsi specifici e mirati all’educazione alla pari dignità di uomini e donne, alla demolizione degli stereotipi di genere, all’educazione sessuale. Percorsi pressoché assenti nelle scuole calabresi. Infine, non è più tollerabile l’assenza delle donne dai luoghi decisionali della politica. In Italia solo l’Umbria ha come presidente di regione una donna e alle recenti elezioni regionali calabresi una sola donna era candidata mentre le sindache elette in Calabria sono poco più del 7% dei sindaci.
    Una società paritaria è una società in cui uomini e donne hanno le stesse opportunità di crescita professionale e di accesso ai luoghi decisionali delle istituzioni, dove portare il prezioso contributo della visione femminile del mondo e il fare politica al femminile, per rendere più equa la nostra società.

    Antonia Romano

  • Se cresce l’università ma non la società che vittoria è?

    Se cresce l’università ma non la società che vittoria è?

    Il dibattito sul rapporto tra le università calabresi – in particolare la principale: l’Unical – e il territorio circostante continua. Due giorni fa era stato l’ex rettore Latorre a inviarci una lettera in cui spiegava come, a suo avviso, l’ateneo di Arcavacata avesse vinto la sua scommessa. Oggi – potete leggerla sotto – arriva la replica del suo collega Alessandro Bianchi, che il dibattito l’aveva avviato in prima persona rispondendo alle domande del nostro Pietro Spirito pochi giorni or sono. Bianchi non fa un passo indietro, il problema del mancato dialogo tra il mondo accademico e la realtà politica, sociale, economica e culturale resta: la prova tangibile è una Calabria che, pur ospitando un’università che continua a crescere, di tanta crescita beneficia e ha beneficiato ben poco.

    Questo giornale vorrebbe che quel dialogo partisse per davvero, convinto che il ruolo della stampa debba essere quello di stimolare il confronto pubblico affinché una comunità si sviluppi. Non si tratta di attaccare questa o quella istituzione per il gusto di farlo, ma di contribuire tutti insieme alla crescita, culturale e materiale, della Calabria.
    Anche per questo ci saremmo aspettati che al dibattito partecipassero non solo due protagonisti del recente passato come Bianchi e Latorre, ma anche chi oggi fa vivere e governa le nostre università e le nostre istituzioni. Niente di tutto ciò finora, solo silenzio e qualche sparuto post su Facebook. Restiamo fiduciosi però, convinti che per risorgere la Calabria abbia bisogno di tutti: di un giornale rompiscatole ma aperto ai contributi di tutti, di accademici un po’ meno isolati nel loro fortino, della società civile e della politica.

    *****

    Caro Rettore Latorre, carissimo Gianni,
    ho letto con attenzione le tue considerazioni sull’Università della Calabria e non posso che condividerle avendo già detto – ma lo ripeto volentieri – che l’UNICAL, muovendo da una favorevole condizione di partenza, «ha saputo costruire una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale». E sono d’accordo anche su quanto dici a proposito dei successi che ha conseguito nel settore della cosiddetta Terza Missione.

    Detto questo devo osservare che il nodo su cui ho argomentato nelle mie risposte alle questioni sollevate da Pietro Spirito è del tutto diverso e non ha a che vedere con la qualità dell’UNICAL, bensì con il ruolo svolto dalle tre Università calabresi in rapporto alla realtà economica, sociale e culturale della Calabria.
    Allora se mi viene chiesto in che misura le Università calabresi hanno interagito con la politica, l’industria, la società civile e le associazioni che il territorio esprime, non posso che rispondere che questa interazione è stata del tutto marginale perché questa circostanza mi sembra di una evidenza palmare.

    C’è una qualche dimostrazione del fatto che uno di questi stakeholders abbia avuto dei benefici grazie al rapporto con le Università? O che la Calabria nel suo complesso se ne sia giovata se non per l’ovvia circostanza che molti giovani calabresi non sono stati costretti ad emigrare per studiare?
    Se qualcuno conosce questa dimostrazione sarei lieto di sentirgliela enunciare.
    È colpa delle Università? Direi molto più della Regione che, come ho già detto, «non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale». Che di fronte ad un simile atteggiamento le tre Università – non solo l’UNICAL – abbiano «teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari» è comprensibile, ma di fatto è quello che è avvenuto cosicché è venuto meno un apporto fondamentale di idee, di proposte, di progetti di cui la Calabria aveva – ed ha ancora – un disperato bisogno.

    Peraltro sottolineo di aver detto che questo atteggiamento è stato delle Università calabresi e non solo dell’UNICAL, mentre non ho detto che l’UNICAL non è riuscita a «generare una ricaduta positiva sul territorio». Questa è un’affermazione che sta nell’apertura dell’intervista – che comunque condivido – ed è riferita a tutte e tre le Università, così come non ho detto che l’UNICAL “fatica a guardare oltre se stessa”, che è il titolo editoriale, perché – anche in questo caso – ritengo che questa fatica appartenga a tutte e tre le Università.

    Quello che sicuramente ho detto è che l’UNICAL ha avuto un atteggiamento di distacco nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo si andavano formando, quasi che questo rappresentasse «un delitto di lesa maestà» e che questa «è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale». Non ho da esibire fatti a conforto di questa affermazione, ma posso dire che è la netta sensazione che ho percepito nelle occasioni di incontro e confronto che, da docente e da rettore, ho avuto per molti anni con l’UNICAL. Purtroppo sono convinto che questo atteggiamento abbia impedito la formazione di un sistema universitario regionale, questo sì utile a costruire una forte interazione con le altre componenti del territorio calabrese.

    È la sfida che richiami a conclusione della tua nota, ma se torniamo al nodo della questione sollevata da Spirito è una sfida che va giocata non solo guardando al proprio interno ma alla comunità economica, sociale e culturale della Calabria. In altre parole quello che oggi interessa più che mai non è se le Università calabresi hanno avuto successo e continueranno ad averlo – i fatti dicono che in una certa misura è così – ma se con il loro agire sono in grado di fornire un contributo fattivo al successo della Calabria, vale a dire a farla uscire dalla condizione di marginalità economica, sociale e culturale nella quale ancora versa.
    Con la stima di sempre

    Alessandro Bianchi
    ex rettore Università Mediterranea

  • «La strada è in salita, ma l’Unical ha vinto la sua scommessa»

    «La strada è in salita, ma l’Unical ha vinto la sua scommessa»

    Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un’intervista all’ex ministro, già rettore dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, Alessandro Bianchi sul ruolo degli atenei locali nello sviluppo della Calabria. Bianchi attribuiva all’Unical una tendenza all’isolamento rispetto al territorio e le altre istituzioni, accademiche e non, calabresi. Una tesi, questa, che ha ripreso a distanza di poche ore anche il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi, con una lettera ospitata sulle nostre pagine. Di parere opposto, invece, è Giovanni Latorre. Professore Emerito di statistica e già rettore per 14 anni – dal 1999 al 2013 – dell’Ateneo di Arcavacata, Latorre offre ai lettori un punto di vista differente, quello dell’osservatore interno, che siamo lieti di pubblicare per ampliare il dibattito sul tema.

    Caro Professor Bianchi, caro Sandro, quando presi servizio all’UniCal, precisamente il 15 dicembre 1972, ero certo che la nascita di una Università in Calabria, con la gestazione progettuale che aveva avuto la sua legge istitutiva e con la leadership di una personalità del calibro di Beniamino Andreatta, avrebbe avuto per la regione un effetto palingenetico. A 50 anni (quasi) dalla sua nascita, senza eccedere nell’autocompiacimento, anzi tenendo ben presente quali sono i suoi punti di debolezza, a mio modo di vedere quella scommessa di costruire una Istituzione ben più che dignitosa in quasi un cinquantennio è da considerarsi vinta. E appare evidente il positivo impatto culturale e socio-economico che l’UniCal ha avuto sul territorio, ovviamente nei limiti che un ateneo può offrire.

    La sola presenza di una buona università, senza adeguati investimenti di Stato e Regione sulle infrastrutture e politiche per lo sviluppo, non può certo bastare a colmare il deficit territoriale. Ad esempio, Sicilia, Puglia e Campania annoverano università pluricentenarie, ma ciò non è certo bastato a colmare il loro deficit di sviluppo. Esse restano affette da problematiche economiche e sociali non dissimili da quelle della Calabria: Pil pro-capite 2020: Campania e Puglia 18.900€, Sicilia 17.900€, Calabria 17.300€, Lombardia 39.700€; Tasso di Occupazione 2020: Campania 45.3%, Puglia 49.4%, Sicilia 44.1%, Calabria 45.6%, Lombardia 72.6%). Ecco perché sono rimasto a dir poco perplesso da alcune tue affermazioni in una recente intervista che articolava un ragionamento sui rapporti degli Atenei calabresi con il territorio: affermazioni secondo le quali l’UniCal non sarebbe riuscita a «generare una ricaduta positiva sul territorio» o che essa «… fatica a guardare oltre se stessa…» ovvero che sia stata «… tesa a rinchiudersi nei suoi confini culturali e disciplinari…».

    Lasciamo parlare i fatti, partendo dalle missioni istituzionali, cioè didattica e ricerca. Ad oggi circa 100.000 giovani calabresi, molti dei quali non avrebbero avuto la possibilità di accedere all’istruzione universitaria, si sono laureati in UniCal. La loro performance nel mercato del lavoro è apprezzabile, specie se rapportata alla fragilità dell’economia regionale (vedi, ad esempio, i dati del sito Alma Laurea). Il sogno di Andreatta era che l’UniCal formasse la futura classe dirigente calabrese; segnalo, a riguardo, due eventi “bandiera”: oggi due tra le massime istituzioni della Calabria, la Regione e la stessa Università della Calabria, sono presiedute da due brillanti ex laureati UniCal, l’onorevole Roberto Occhiuto ed il professor Nicola Leone.

    Inoltre, al di là dell’indagine CENSIS/La Repubblica, che colloca la nostra istituzione ai vertici della graduatoria dei “Grandi Atenei” italiani (quelli con una popolazione studentesca tra 20.00 e 40.000 studenti) sulla base della valutazione della qualità dei servizi offerti agli studenti, c’è da considerare la ben più importante valutazione dell’ANVUR. La commissione di esperti di valutazione, dopo una visita all’Ateneo durata 5 mesi, ha valutato l’attività didattica e la ricerca scientifica dell’UniCal ed ha attribuito il giudizio “pienamente soddisfacente – B”, collocandola nella fascia delle migliori università del Paese (a livello nazionale, nella categoria dei “Grandi Atenei” in cui si colloca l’UniCal, solo Parma ha ottenuto un giudizio superiore al livello B).

    Ma l’Unical non è solo didattica e ricerca. Notevoli sono anche i risultati della cosiddetta terza missione, ovvero della trasformazione dei risultati della ricerca in innovazione e in sviluppo economico. Nel Technest, l’incubatore di imprese innovative dell’Ateneo, dalla sua nascita sono stati prodotti 120 brevetti, in parte ceduti, attualmente ne restano circa 60 in portafoglio. L’incubatore UniCal oggi ospita 48 aziende SpinOff (create da nostri ricercatori o studenti, con un fatturato annuo di 6 milioni di Euro). A queste ne vanno aggiunte altre dieci che, conclusa l’incubazione, sono ormai fuori dal nostro Ateneo e affrontano la sfida del mercato con le proprie forze.

    La presenza dell’Università della Calabria è stata decisiva anche per l’affermazione di poli per l’innovazione e distretti tecnologici in Calabria. Diverse aziende, nazionali e internazionali, hanno nel tempo deciso di impiantarsi nei dintorni dell’Università per meglio interagire con i gruppi di ricerca UniCal, costruendo un ecosistema con una significativa visibilità nazionale specie in alcuni settori, quali l’ICT e il terziario innovativo. L’UniCal ha inoltre saputo catalizzare l’attenzione di numerosi investitori, il più recente dei quali è Mito Technology, che ha messo a disposizione delle start-up nate nell’orbita dell’Ateneo un fondo di investimenti di 40 milioni di euro.

    A valorizzare ulteriormente i risultati, sin qui sinteticamente elencati, contribuirebbe, anche, un’illustrazione del quadro delle risorse finanziarie, nazionali e locali, di cui è destinataria l’UniCal. Ma la discussione ci porterebbe molto lontano. Basti solo dire che per il finanziamento statale non viene tenuto in considerazione il costo notevole che l’Ateneo sopporta per le provvidenze del Diritto allo Studio, tra cui la principale è riconducibile alla bassa tassazione media dei nostri studenti legata alla fragilità economica delle loro famiglie. Mentre per quanto riguarda le fonti finanziarie (pubbliche e private) locali è facile osservare che la loro esiguità è legata al ritardo economico complessivo della società calabrese. Ciò nonostante, forse unica istituzione nella nostra regione, l’UniCal ha saputo raccogliere la sfida della competizione ed in molti settori primeggia sia a livello nazionale che internazionale.

    In conclusione, sono sicuro che molta strada dovrà essere ancora percorsa, e, certamente, sarà in salita. La sfida che le Università calabresi dovranno raccogliere è quella della creazione di un Sistema Universitario Regionale che possa, con lo sviluppo delle tante potenziali sinergie, raggiungere quei traguardi di efficienza imprescindibili in una prospettiva futura di risorse sempre scarse rispetto alle necessità. In questo quadro la lungimirante partnership tra l’UniCal e l’Università Magna Graecia di Catanzaro per la realizzazione di un corso di laurea altamente innovativo come quello in Medicina e Tecnologie Digitali, recentemente inaugurato, lascia ben sperare per il futuro.

    Giovanni Latorre
    Professore Emerito di Statistica, già Rettore dell’Università della Calabria 1999 – 2013

  • Regionalismo differenziato, il colpo di grazia alla nostra Sanità

    Regionalismo differenziato, il colpo di grazia alla nostra Sanità

    L’articolo 116, terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario.
    L’attribuzione di queste forme rafforzate di autonomia deve essere stabilita con legge formulata sulla base di un’intesa fra Stato e Regione, acquisito il parere degli enti locali interessati, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119 della Costituzione in tema di autonomia finanziaria ed approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

    Queste disposizioni sono state introdotte in Costituzione con la riforma del Titolo V prevista dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 e finora mai attuate, almeno fino alla nota di accompagnamento al DEF 2021, dove si ritrova il disegno di legge su Autonomia Differenziata Regionale.
    Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato infatti, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

    Ricchi contro poveri

    Poiché il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni sottoscrisse con Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, gli “Accordi preliminari“ per acquisire maggiore autonomia in alcuni ambiti strategici: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Vale la pena andare a rileggere tali accordi per comprendere qual è la direzione verso la quale si sta spingendo: un sistema federale di regioni, che contraddice l’unità del nostro paese, amplificando, cosa ancor più grave, le disparità esistenti tra nord e sud Italia, tra regioni ricche e regioni più povere.

    Contro questo rischio, che farebbe sprofondare la nostra regione, che presenta tutti gli indicatori economici con il segno negativo, in uno stato di gravissima povertà, consegnandola definitivamente nelle braccia della malavita organizzata, si sta muovendo Progetto Sud che, accogliendo le istanze di Anaao Assomed, organizza incontri di sensibilizzazione e informazione, coinvolgendo associazioni e comitati che hanno un riferimento in Comunità Competente.

    Progetto Sud ha recentemente organizzato un incontro con i consiglieri e le consigliere regionali della coalizione che aveva Amalia Bruni candidata presidente alle recenti elezioni regionali e si propone di fare altrettanto con i consiglieri e le consigliere delle altre coalizioni, con i sindacati, con la conferenza dei sindaci, con tutte le organizzazioni che possono contribuire a costruire una partecipazione dal basso, che eserciti pressione verso gli organi istituzionali deputati a prendere decisioni in merito, soprattutto alla salvaguardia del diritto alla salute.

    Diritti negati

    La Calabria non garantisce i LEA. Basta fare un giro negli ospedali pubblici calabresi per comprendere quali sono le reali condizioni di lavoro per chi esercita la propria professione in ambito sanitario, ma, soprattutto, per comprendere le condizioni spesso gravissime di mancanza delle cure fondamentali, di negazione del diritto alla dignità della persone che subisce chi si trova in condizioni di avere bisogno di cure ospedaliere.

    Il “turismo sanitario” dalla Calabria verso regioni del nord, ormai anche per la cura di patologie leggere e facilmente risolvibili in regione, raggiunge quote da diaspora, facendo lievitare oltre misura i costi regionali per la sanità, in una situazione di gravissimo indebitamento, nonostante gli oltre dieci anni di commissariamento governativo, soluzione che aveva l’obiettivo di risanare il debito e che invece ha contribuito ad amplificarlo.

    Ventuno Regioni, altrettante Sanità

    La pandemia da Covid 19 ha dimostrato, nella sua drammaticità, che è fondamentale una governance unitaria del Servizio sanitario nazionale. Né possiamo illuderci che la pandemia sia un evento eccezionale: la devastazione del Pianeta dalle scellerate attività antropiche ci porrà di fronte a frequenti zoonosi e rischi di pandemia.
    L’appello lanciato da Comunità competente alla società civile organizzata per mobilitarsi contro l’istituzione nel nostro paese di 21 sistemi sanitari regionali, contro una scelta politica che potrebbe portare alla distruzione del sistema sanitario pubblico italiano, già fortemente minato dai troppi aiuti economici erogati a favore di strutture private, è stato sottoscritto finora da oltre 150 associazioni, ma l’elenco è destinato ad allungarsi.

    Basta commissari

    E se l’attribuzione del commissariamento a Roberto Occhiuto potrebbe avere il sapore di una restituzione alla politica locale della gestione della sanità, rimane l’istituto del commissariamento che non è stato risolutivo, ma è stato parte del problema, oltre a richiedere, data la gravità della situazione, un impegno totale a tempo pieno che difficilmente potrà essere garantito da chi ha l’onore e l’onere di essere presidente di Regione.
    La fine del commissariamento è conditio sine qua non per una ripartenza dignitosa e collettiva, rovesciando il paradigma che finora ha visto nell’arcipelago di monadi dei commissari e dei direttori generali il fallimento della gestione della sanità pubblica calabrese.

    I bisogni della Calabria

    Abbiamo bisogno di quantificare il debito della sanità calabrese, che si aggira su cifre a nove zeri, per capire come gestire la situazione. Abbiamo bisogno di costruire la medicina territoriale e ripristinare il diritto alla salute e alla dignità della persone. Di assunzioni a tempo indeterminato, con garanzia di condizioni di lavoro accettabili e dignitose, di personale medico, infermieristico, Oss in ogni ospedale pubblico calabrese.

    Occorre uscire dalla visione economicistica della gestione della sanità pubblica. Serve costruire competenze specifiche nella gestione di fondi messi a disposizione della regione e rimasti finora inutilizzati.
    Abbiamo bisogno di aprire consultori, importanti presidi di medicina territoriale aperti e gratuiti per tutte le persone che vi si rivolgono, e applicare la Convenzione di Istanbul ratificata dal nostro paese nel lontano 2013 e mai applicata.

    Una questione politica

    Una concezione partecipata della sanità pubblica è imprescindibile da ogni proposta di risanamento e ricostruzione di quanto è stato finora demolito da una classe politica incompetente, ingabbiata in un sistema clientelare che garantisce potere a discapito delle competenze professionali, a discapito di diritti inalienabili.
    L’impegno della società civile nella mobilitazione è fondamentale, ma non può bastare senza un preciso impegno di chi ha responsabilità politiche. Perché la questione è una questione politica.

    L’autonomia differenziata regionale, come si può evincere dagli accordi preliminari delle tre regioni italiane, è uno stravolgimento dell’assetto politico del nostro paese, rischia di essere un ritorno a una condizione preunitaria, con indebolimento importante dei poteri del Parlamento in materie fondamentali per la nostra società.
    A essere penalizzate saranno le regioni più povere a maggior tasso di emigrazione e a più basso reddito pro capite. Noi non possiamo permettercelo!

    Antonia Romano

  • Sacal, se la Regione privatizza a sua insaputa

    Sacal, se la Regione privatizza a sua insaputa

    Ci sono molti modi per privatizzare una società pubblica. Ne abbiamo viste di ogni colore e risma nel nostro Paese: dal nocciolino duro (Telecom) ai capitani coraggiosi (Alitalia). Per non parlare delle privatizzazioni ripubblicizzate con plusvalenza per i privati, sul modello autostradale. Eppure, mai prima era accaduto di veder portare a compimento una privatizzazione inconsapevole, una sorta di cessione della maggioranza della proprietà pubblica a propria insaputa.
    È accaduto così con la Sacal, la società regionale che gestisce gli aeroporti del territorio calabrese.

    Sacal, il socio privato conquista terreno senza sforzi

    Era stato deciso un aumento di capitale che ha visto i soci pubblici lasciare inoptate le quote, che sono state a quel punto acquisite da un socio privato. L’azionista privato a quel punto ha conquistato senza colpo ferire la maggioranza della società. E senza nemmeno pagare il sovrapprezzo che è normale venga valutato, e corrisposto, quando un soggetto acquisisce il potere di controllo su una impresa.

    Privatizzazione a propria insaputa

    Quali sono le conseguenze di questa privatizzazione a propria insaputa? Si tratta innanzitutto di una procedura per così dire insolita, che ha escluso il mercato da qualsiasi contendibilità. Solo gli azionisti presenti al momento dell’aumento di capitale potevano difatti optare le azioni dell’aumento di capitale. È stata evitata in questo modo ogni forma di pubblicità e di trasparenza. Si è creato il cerchio magico della possibile cessione della proprietà ai privati.

    Sacal, una privatizzazione da oligarchia postsovietica

    Procedere ad una privatizzazione chiusa al mercato è stata la prima anomalia. Nessuna forma di partecipazione di terzi alla operazione era possibile. E dunque è come se si fosse operato entro un recinto chiuso di interessi. Già questo fatto delinea gli elementi di una privatizzazione oligarchica, sul modello di quelle che sono state realizzate nella confusione post-sovietica degli anni Novanta del secolo passato.

    Un capitalismo amorale e familistico

    La seconda incredibile modalità, coerente con un capitalismo amorale e familistico, è stata quella di cedere la maggioranza delle azioni, non sottoscrivendo i soci pubblici l’aumento di capitale, senza riscuotere in questo modo il valore del premio per la maggioranza stessa.
    In questo caso siamo in presenza di un regalo vero e proprio, costruito nella forma di mancata sottoscrizione delle azioni da parte delle istituzioni pubbliche che fanno parte della compagine societaria. Una smemoratezza degna di approfondimento politico e legale.
    Infine, e non è questione irrilevante, la Sacal è una società concessionaria dello Stato che gestisce aeroporti. In quanto tale, è soggetta ad obblighi di trasparenza verso il concedente. Per questa ragione Enac ha sporto denuncia.

    Il precedente che mancava

    Il panorama italiano delle privatizzazioni, che già non presentava un pedigree particolarmente felice, si arricchisce ora di una perla di cui non si sentiva francamente il bisogno.
    Gli aeroporti sono un tassello strategico per la mobilità e la competitività di un territorio. Ancora una volta la Calabria rischia di fare l’ennesimo autogol. A segnare stavolta è un azionista privato che si frega le mani per l’affare che ha realizzato.
    Una stupidità così palese non si era mai vista da parte di un azionista pubblico. Al punto tale che è legittimo avanzare sospetti di interessi inconfessabili. Lo vedremo nelle prossime puntate di questa brutta storia.

  • Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Dieci giorni con Virginia nella terapia intensiva dei neonati

    Il limbo dei bimbi esiste ed è al terzo piano di un edificio enorme che domina Catanzaro. Mi ci ha portato mia figlia, Virginia Sara, quando aveva appena 7 ore di vita, facendomi scoprire un microcosmo che non avevo idea esistesse fino a quel momento. Le ansie, i dolori e le gioie di un evento primitivo e sublime come il parto sono stati spazzati via in un attimo. Una puericultrice esperta, con sguardo e nome da madre, si è accorta che qualcosa non andava, che la piccola non respirava bene. Quindi i primi controlli, gli esami approfonditi, la diagnosi di una brutta infezione e il ricovero in Terapia intensiva neonatale. Colpo tremendo: dalla meraviglia di scoprirsi genitori all’angoscia più buia in poche ore.

    L’ingresso del reparto di Patologia Neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Dieci giorni in terapia intensiva

    Quello che ho conosciuto in quei giorni, dieci interminabili giorni, è un luogo sospeso, in cui la vita e la morte quasi si toccano mentre galleggiano nell’indeterminatezza. All’ingresso della Tin dell’ospedale “Pugliese” c’è un bottone rosso che fa aprire, silenziosa e lenta, una porta blu. Al di là c’è uno stanzone pieno di luci e di suoni che non sono quelli che dovrebbero accompagnare un bambino nelle prime ore in cui si affaccia sul mondo. Dentro ci sono, affiancate una all’altra, tante incubatrici. In ognuna c’è un neonato che piange e scalcia e lotta aggrappandosi istintivamente alla vita. A fianco o in sala d’attesa o a casa ci sono dei padri e delle madri che si sentono genitori a metà, catapultati dentro un tunnel di cui forse avranno piena contezza solo se e quando ne usciranno. E poi c’è il personale sanitario che in quel limbo ci lavora, quasi tutte donne, la cui sensibilità umana e professionale è tanto grande quanto la corazza che deve indossare ogni giorno chi si muove tra la vita e la morte di un neonato.

    Un messaggio di speranza e bellezza nel reparto di Patologia neonatale all’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Sono pochi ma tutti preparatissimi

    Sono preparatissimi ma numericamente non abbastanza, non per quello che fanno lì dentro, loro comunque non si fermano un attimo. Macinano km curando e coccolando i bimbi, provando a contenere le preoccupazioni e l’impazienza dei genitori, non nascondendo né edulcorando né ingigantendo nulla, ma proprio nulla di quello che succede ai loro piccoli. Sanno che hanno di fronte gente che telefona alle 2 di notte in reparto o che rimane in sala d’attesa per delle ore, magari passando in rassegna cento volte le card con i personaggi del dr. House che qualcuno ha appiccicato sull’attaccapanni, o interrogandosi sull’umanissima Madonna di Benois di Leonardo raffigurata nel quadro all’ingresso.

    L’ospedale “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro
    Mia figlia promossa in sub intensiva

    Quando ogni giorno devi percorrere le strade calabresi per andare a vedere tua figlia attaccata a un tubicino e con degli aghi infilati dappertutto tutto il resto perde dimensione e colore, tutto diventa grigio e piatto. Quando ogni giorno fai andata e ritorno su quelle statali, magari singhiozzando mentre Jannacci dalla pennetta usb sghignazza «…se me lo dicevi prima…», l’intera esistenza si comprime in quelle ore in cui hai lei davanti, anche se è dentro una scatola trasparente in mezzo a tanti altri bimbi lontani dal calore che a tutti loro e a tutti i bimbi del mondo non dovrebbe mai mancare. Quando esulti perché un medico ti dice che «Virginia è stata promossa» in sub intensiva e quando, dopo qualche giorno, ti ritrovi a casa con lei a fianco che ti respira addosso e ride mentre dorme, allora capisci quanto sei fortunato, mentre tanti altri passano ancora più giorni e settimane e mesi in quella sofferenza rituale che intorpidisce l’anima. E hai la pelle d’oca, e non ci credi ancora.

    E ti risuona in mente quella canzone di Enzo Iannacci: E allora è bello. Quando tace il water. Quando ride un figlio. Quando parla Gaber (…) E sarà ancora bello. Quando guardi il tunnel. Che è ancora lì vicino e non ci credi ancora. E sei venuto fuori. E non ci credi ancora. E c’hai la pelle d’oca. E non ci credi ancora”.

    Sergio Pelaia

     

  • Cosenza, la doppia vita tra ribelli e cortigiani

    Cosenza, la doppia vita tra ribelli e cortigiani

    La teoria critica dell’inclusione sociale ha a lungo contrapposto il modello assimilazionista francese a quello multiculturale di matrice canadese. Del fallimento del paradigma transalpino è noto: lo dimostrarono al mondo le rivolte della banlieue nel 2005. Cittadini francesi da almeno due generazioni, ormai fondamentalmente slegati dalla terra d’origine dei loro avi, formalmente appartenenti all’ordinamento statale, denunciarono a gran voce il loro sentimento di radicale esclusione dalle sfere della decisione politica e della redistribuzione economica.

    Il multiculturalismo canadese, però, funziona con numeri addomesticabili, con buone risorse dello Stato e ancora maggiore propensione dei soggetti privati, con gruppi (etnici, religiosi, politici, sociali, razziali, linguistici) o di molto tenue consistenza o portatori di una “diversità sostenibile” per il potere costituito. Se il multiculturalismo reagiva perciò all’indifferenza dell’assimilazionismo separatista, oggi è tempo di reagire al fallimento di una pratica di governo che ha giustapposto l’una sull’altra le culture per darsi l’impressione di governare un conflitto che non sapeva leggere. Non solo: ritenere tutti indistintamente sovrapponibili a tutti genera dei mostri (pensiamo, in proposito, alla risoluzione europea della memoria: una acritica e interscambiabile rilettura del nazifascismo e del comunismo).

    L’approccio interculturale

    Proprio per reagire al deficit di legittimazione e rappresentatività nell’organizzazione dei poteri, ha iniziato a prender piede la metodologia del diritto interculturale, che consiste nel tradurre la differenza insita nelle posizioni di ogni relazione intersoggettiva al fine di valorizzare contestualmente l’autonomia e l’eguaglianza di ciascuna e tra tutte. Appena una generazione addietro vedevamo con entusiasmo, dinnanzi alle prime migrazioni di massa del nuovo millennio, raffinati studiosi e attivisti del nostro passato parlare di “esodi” e “moltitudini”. Senonché, molti di quegli “esodati” li ha affogati il mare tra le terre, il mare nostrum di ogni retorica propagandistica balneare, e i diritti di quelle moltitudini non hanno trovato, forse nemmanco nelle lotte, la loro voce e la loro consistenza.

    Cosenza riottosa

    Ha un senso ricostruire la storia di Cosenza, allora, da un punto di vista interculturale, senza che ciò sia algebra e finzione? Sarebbe un’operazione scientificamente avveduta?
    Esiste, ad esempio, ormai un’ampia bibliografia che tratta del fulgore cosentino nel periodo del popolo bruzio e quelle stesse letture pure trattano della caratteristica riottosità con la quale i locali accolsero i romani, venendone solo ad esito di un rabbioso conflitto conquistati. Se ne è fatta la base di una narrazione contropotere dell’indole cosentina. Non si vuole certo scontentare i campanilismi; effettivamente la storia della città è ricca di episodi di insorgenza spontanea allo stato di cose e ancor più di tentativi di mettere a valore una stabile autonomia collettiva e territoriale, quale che fosse l’effettiva entità politica unitaria al tempo dominante.

    Il lato cortigiano di Cosenza

    Proprio però perché questi episodi non sono storicamente pochi non è conveniente lasciarli all’oblio di una indistinta etichetta generale, senza prendersi il gusto di andarli a riguardare per come sono avvenuti. In primis perché la vocazione socio-culturale di Cosenza è forse più resistente delle stesse forme di opposizione politica che ha nei secoli ospitato. Tanto nel periodo federiciano quanto in quello angioino, Cosenza in fondo mostra anche un lato cortigiano, un profilo di desistenza profittevole più che di resistenza testimoniale. Una piccola sublimazione dell’attitudine di Cosenza a generare un dibattito pubblico più avanzato dei suoi tempi, anche in periodi di compiacenza governativa, può forse vedersi al tempo degli Aragonesi e alla nascita dell’Accademia.

    Schierarsi contro

    E, in senso opposto, non finirono certo coi tumulti dei Bretti i momenti di insurrezione e aperta contestazione. Saraceni e longobardi, alcuni secoli dopo, litigarono aspramente il primato cittadino, nonostante la transizione economica e politica avesse di fatto abbattuto molte delle antiche ricchezze. E non sempre le rivolte locali ebbero fortuna o alimentarono una letteratura apologetica: il tentativo di resistere ai normanni fu illusorio quanto fugace ed è una pagina di lotta di cui poco si parla.

    La storia di Cosenza come archetipo interculturale della resistenza, per essere teoreticamente fondata, non può pensarsi scevra da un’analisi di vittorie e sconfitte, in quanto questa concatenazione di rivolgimenti positivi e negativi si conserva fino al vissuto storico degli ultimi tre secoli, dimostrando il forse dimenticato o non rivissuto coraggio degli intellettuali cittadini a saper anche schierarsi “contro”. Al fine di produrre un risultato “a favore” (del beneficio collettivo).

    Il valore di fare cultura

    Nel periodo borbonico, non mancavano voci apertamente antimonarchiche, come negli anni in cui soffiò il vento della restaurazione per tutta Europa in città rimase una vocazione libertaria e anticlericale (che poi si ritrova su fogli periodici clandestini e regolari fino alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX). Persino sotto il fascismo, che aveva facilmente imposto alle borghesie meridionali cittadine e alla miopia del latifondo rurale un rientro nei ranghi e un protettorato di comodo, a Cosenza ci sono circoli e iniziative di impronta liberale, repubblicana, socialista.

    Ci sembra allora di potere concludere queste riflessioni invocando un dato storico forte. La città ha prosperato davvero solo facendo cultura, non quando si è limitata a difender la propria o, peggio, quando ha subito l’attacco altrui. L’animus foriero di incontri, di scoperta, di intersezione proficua tra i popoli e gli spazi, è vissuto attraverso i tempi anche e soprattutto contro la malversazione, la sconfitta militare, l’invasione, la dominazione, il senso comune ridotto a senso unico. E questo è forse quanto ci tocca adesso recuperare dal fango e dall’oblio… e pazienza se le camicie si inzaccherano di polvere e mota fino ai gomiti.

    Domenico Bilotti
    Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia

  • Stasi: «Unical e territorio? Così non va bene per niente»

    Stasi: «Unical e territorio? Così non va bene per niente»

    Il dibattito sul rapporto tra le nostre università e il territorio, aperto da I Calabresi nei giorni scorsi con l’intervista all’ex rettore Bianchi e il video editoriale del nostro direttore Francesco Pellegrini, si arricchisce di un nuovo protagonista: Flavio Stasi. Il sindaco della terza città per abitanti della Calabria, ex studente Unical, ci ha inviato una nota che pubblichiamo integralmente, nella quale evidenzia la difficoltà dell’ateneo di Arcavacata a ricercare un dialogo fuori dalle sue mura.

                                                               ***

    Il 12 novembre scadono i termini per uno degli avvisi più interessanti degli ultimi mesi, promosso dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, sul tema degli Ecosistemi dell’Innovazione nel Mezzogiorno. Il bando finanzia progetti che uniscono la ricerca innovativa alla riqualificazione e rifunzionalizzazione di siti degradati o inutilizzati, per un ammontare da 10 a 90 milioni di euro a progetto: si tratta di cifre importanti finalizzate a coprire un periodo di 36 mesi.

    I soggetti a dover candidare i progetti all’Agenzia per la Coesione Territoriale, i cosiddetti “proponenti”, sono gli organismi di ricerca, ma in partenariato obbligatorio (almeno tre soggetti) con enti locali e altri soggetti pubblici o privati. È evidente come tale forma di partenariato spinga gli organismi di ricerca, a partire dalle Università, a relazionarsi con il territorio per proporre idee progettuali integrate, utili, lungimiranti, che generino uno sviluppo reale.

    Immagino che, per un bando del genere, molti siano stati gli stimoli e le proposte giunte sui tavoli di ogni ateneo, quindi anche della nostra università, l’Università della Calabria, da più soggetti ed in più ambiti.

    Il sito Enel di Sant’Irene

    Tra questi riteniamo debba essere tenuta in assoluta considerazione l’idea progettuale proposta anche dal nostro Comune sulla rifunzionalizzazione del sito Enel di Sant’Irene, e in particolare dell’area e della struttura occupata un tempo dai vecchi gruppi termoelettrici, attualmente in fase di coibentazione e smantellamento. Anche di questo si è discusso con Enel in queste settimane, e si è giunti alla condivisione di un’idea concreta sullo sviluppo di tecnologie per la filiera dell’idrogeno che non solo aprirebbe uno scenario innovativo, sostenibile e perfettamente integrato di riutilizzo del sito, ma valorizzerebbe anche alcuni tra i più avanzati segmenti di ricerca dell’Unical.

    La scissione degli atomi a Corigliano-Rossano

    Un’idea progettuale che prevede, dunque, investimenti per allestire nella centrale un importante centro di ricerca che si occupa di produzione energetica ad alto rendimento tramite l’utilizzo di nanomateriali bidimensionali, scissione degli atomi di idrogeno mediante l’utilizzo di grafene, efficientamento dei sistemi di immagazzinamento energetico mediante nanotubi di carbonio eccetera, e con un partenariato importante: la terza città della Calabria, Enel Produzione, Unical e Cnr.

    L’Ateneo dei soliti noti

    Il problema è che all’appello manca il soggetto principale: l’Università della Calabria. Sono stato uno studente Unical, ne sono sempre stato orgoglioso e sento che l’Ateneo può fare tanto per il territorio, ma solo se si apre, se non si avvita sul Ponte Bucci e le solite suole che lo calpestano (e non parlo degli studenti). La ratio di questa selezione credo sia proprio quella di individuare idee integrate col territorio nella sua complessità ed ampiezza, attraversandolo geograficamente ma anche socialmente, aprendosi quindi, come specificato nel bando, agli enti locali che più di altri enti conoscono luoghi (da riqualificare) e prospettive (da sviluppare).

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    L’Università della Calabria
    La governance dell’Unical ha già deciso

    Ed invece – ad un certo punto – ho appreso attraverso voci di corridoio universitarie che la governance di Ateneo aveva già deciso, praticamente fin dall’inizio, di partecipare al bando con una sola proposta avendo già stabilito anche con quale proposta, scoraggiando di fatto dipartimenti ed altri istituti legati all’Università nel perseguire altre strade. Peraltro, il bando non impone all’Università la partecipazione a una sola proposta progettuale. In altri termini, si possono presentare più proposte per dare la possibilità alla Commissione ministeriale di valutare quelle più rispondenti ai requisiti del bando e quelle più promettenti per lo sviluppo del territorio. Sempre le solite voci di corridoio rivelano che il timore sia proprio quello di mettere in competizione più proposte provenienti dallo stesso Ateneo, con il rischio di affossare quella su cui è già stata presa, di fatto, una decisione.

    Unical, così non va bene per niente

    Conoscendo chi governa l’Unical oggi, non ho dubbi sul fatto che, se effettivamente tali scelte sono state effettuate, queste siano le migliori possibili per l’Unical, ma lo dico con grande chiarezza da sindaco di una città importante, da cittadino e da ex studente: così non va bene per niente.

    L’Unical deve dialogare con il territorio

    L’era post-pandemica, nella sua drammaticità, sta aprendo possibilità di sviluppo inedite negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno, e sta imponendo a tutte le istituzioni (comprese quelle universitarie) approcci e modalità di pianificazione e progettazione inedite: questa è una delle sfide principali del Perr nel Mezzogiorno, e la nostra università non può sentirsi esentata dal dover rispondere a queste nuove esigenze, anche e soprattutto di relazione, integrazione e supporto del territorio.

    L’approccio dell’Unical preclude la competizione tra idee

    Un ecosistema dell’innovazione è un luogo di contaminazione tra Università, centri di ricerca, istituzioni e settore privato. Nel massimo rispetto dell’autonomia di ogni ente, relativamente ad una selezione del genere trovo francamente inadeguato e fuori dal tempo l’approccio della nostra università, che sembra abbia scelto – senza alcun confronto e senza neanche un minimo di selezione interna o esterna – una confezione, e non un’idea di ecosistema dell’innovazione. Una scelta del genere sta precludendo, di fatto, la competizione positiva tra idee progettuali e percorsi di sviluppo, una preclusione che se è ormai inaccettabile nei luoghi “tradizionali” delle istituzioni, figuriamoci nei luoghi della cultura, della ricerca e dell’alta formazione.

    Bisogna aprire una riflessione sull’Unical

    Sia chiaro, il mio non è un attacco: dopo la mia città, credo che la “mia” università sia il soggetto che più di tutti difenderei a spada tratta ad ogni latitudine, ma credo sia ormai improcrastinabile, anche alla luce della fase di “ripresa e resilienza” che il Mezzogiorno si appresta ad affrontare aprire una riflessione sul rapporto tra l’Ateneo ed il territorio complessivamente, partendo proprio dal rapporto con gli enti locali.

    Ci appelliamo all’agenzia per la coesione territoriale

    Per quanto riguarda il bando, credo che l’Agenzia per la Coesione Territoriale debba prendere atto della difficoltà da parte di potenziali proponenti di idee progettuali ad acquisire la disponibilità delle università, facendo venir meno – lo ribadisco – la sana concorrenza tra progetti utile ad individuare e finanziare i migliori, col rischio che anche questo percorso rappresenti un’occasione persa per il Mezzogiorno e la Calabria.

    Così come l’assenza di risorse umane e del know-how necessari, per gli enti locali del Mezzogiorno, alla redazione di progettualità in grado di interpretare correttamente ed intercettare i fondi ed il principio di sviluppo del Pnrr, anche questa è una condizione di partenza nota che richiede, quindi, interventi tempestivi.

    Flavio Stasi
    Sindaco di Corigliano-Rossano