Nel gran discutere di Dad in conseguenza del virus, ha fatto bene Giacomantonio, su queste colonne, a riaprire il dossier Cud,Consorzio Università a Distanza, iniziativa degli anni Ottanta del secolo scorso varata in Calabria ad opera di Sergio De Julio.
Un Consorzio fra vari soggetti, nazionali e internazionali, a carattere culturale e imprenditoriale, che si calava – così sembrava, così era progettato – nella realtà di quegli anni, carichi di tensione verso l’innovazione, la formazione, la modernità condivisa, in un contesto qual è quello calabrese bisognoso di interventi radicali.
Il Cud e gli orticelli
Ci fu fin da subito chi non fece salti di gioia nell’apprendere del progetto, così come fece storcere il muso la precedente nascita del Cisam, Centro interdipertimentale studi aree montane, anche questo grazie a Sergio De Julio.
Che cos’è che disturbava in questi consorzi e centri interdipartimentali, se non l’idea stessa del consorzio e dell’inter fra i dipartimenti, l’azione fra più attori, cioè, il coordinamento tra più istanze, il superamento dell’atomismo e dell’orticello da recintare e difendere. Una prassi, cioè, consolidata e che proprio nell’università, che era nata anche per scardinare questo retaggio, vedeva il centro propulsore perché ciò si inverasse.
Solo che, per porsi su un altro versante, certe azioni abbisognano di tempi e di modi altrimenti si ricade nel cosiddetto “teorema Andreatta” secondo cui la shocking wave di importare sulle colline di Arcavacata cervelli culturalmente “eversivi” (non solo culturalmente e anche senza virgolette) poteva essere l’arma giusta per svegliare i calabresi. E invece la melassa calabrese assorbì e in buona misura depotenziò il teorema, così come il passo in avanti del Cud fu visto come troppo divaricante, indipendente e libero da padrinaggi politici di vario genere e colore.
Erano quelli, in aggiunta, tempi in cui per davvero si poteva prescindere dal rapporto diretto, in presenza, fra docente e discente, si poteva d’emblée, superare il gap della riottosità e della scarsa empatia calabrese ponendo giovani e meno giovani davanti un computer, oppure aveva ragione Negroponte individuando proprio nelle caratteristiche geografiche e orografiche, di collegamento, quelle che Placanica individua come ostacoli strutturali nella comunicazione e nella stessa indole calabrese, i migliori e più potenti atout per fare uscire i calabresi dall’isolamento?
Padri padroni e padrini
Fatto sta che fu gioco facile da parte di chi voleva continuare ad esercitare il suo ruolo di padre padrone incontrastato liquidare baracca e burattini avvalendosi di fatto di uno strumento forte qual era il nascente Piano Telematico, un “contenitore” ampio e ricco che ebbe nei padrinaggi politici un partner attento quanto dominante.
E il depotenziamento del Cud risultò, ahimè, vincente grazie a un argomento sottile e insidioso che fu palesemente esposto: quello che addebitava al Cud stesso l’incapacità di attrarre e di vivere di investimenti e commesse che non fossero solo quelle statali o comunque pubblici: un’accusa, come si vede, di assistenzialismo, quell’assistenzialismo che il Cud era nato per combattere.
Ciò che avvenne all’interno delle politiche del Piano telematico, delle sue azioni, costituisce una sorta di banco di prova per le classi dirigenti calabresi, non solo politiche, un vero e proprio spartiacque fra il prima e il dopo: lì, sarebbe quanto mai opportuno accendere i riflettori.
Massimo Veltri Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica
Gentile direttrice Rossana Baccari, gentile sindaco Franz Caruso, mi perdonerete per questa lamentela aperta, pubblica, ma sia sabato che domenica scorsa, ho tentato di fare visita alla Galleria Nazionale di Palazzo Arnone. Senza successo, perché ho poi scoperto, non senza rammarico e delusione, addirittura dalla pagina Facebook della Galleria, che sabato e domenica la Galleria è chiusa!
A prescindere dallo stato di degrado e abbandono in cui versa l’esterno (non mi è stato possibile verificare l’interno), dai cartelli sbiaditi delle mostre, dalla (ex) segnaletica completamente illeggibile, sfido chiunque a rintracciare una qualsiasi minima informazione sul museo, sugli orari, sulle possibilità di accesso, su un telefono. Insomma, sull’attività di una istituzione pubblica regionale, di interesse nazionale. Ed è paradossale, ripeto, che si debba cercare, non senza difficoltà, tali notizie su un social, per l’unico museo pubblico importante di Cosenza.
Pali divelti all’ingresso della Galleria Nazionale di Cosenza
Le informazioni su una mostra su un totem sbiadito all’esterno di Palazzo Arnone
Tutti aperti, non la Galleria Nazionale
Pertanto, sarebbe davvero un gesto civico, che apprezzerei non poco, se mi fosse spiegato perché mai i giorni di sabato e domenica, in cui ognuno di noi dispone di maggiore tempo libero (e in cui solitamente i Musei fanno il pienone), a Cosenza il Museo Nazionale invece è chiuso, contro la larga tendenza nazionale che prevede la chiusura il lunedì e l’afflusso maggiore nei weekend!
Forse capisco da questo che i numeri risibili, circa 17.000 visitatori all’anno, per un Museo che contiene opere d’arte importantissime sono dovuti ad una scelta del tutto fuori dalla prassi consolidata. E per questo signor Sindaco, mi rivolgo a lei, per confermare il triste bilancio realistico che la cultura, l’arte, la bellezza, a Cosenza, sono Cenerentole di quella che lei si ostina ancora, con nostalgia, a chiamare l’“Atene delle Calabrie”!
Opere esposte alle pareti di una delle sale di Palazzo Arnone
Un problema che va oltre i fondi
Un Museo come questo, in una terra difficile e povera di spinte alla meraviglia come la Calabria, merita ben altra dinamicità. Merita di fare sistema, di essere guida di un modello diffuso di conoscenza su tutto il territorio. Merita di ospitare mostre ed eventi di livello nazionale, stimolare la conoscenza sulle Arti, ospitare con regolarità scolaresche, turisti, comitive di calabresi. E la sfida è proprio qui, ovvero sapere attrarre i visitatori in un’epoca in cui la competizione è sempre più tra reale e virtuale!
Sono stanco e stufo, io come molti altri calabresi e meridionali, però di sentirmi rispondere che non ci sono fondi, perché non è questa la ragione. Temo invece non ci sia passione, entusiasmo, voglia di guardare oltre e cambiare un modello scontatamente perdente. Non c’è nemmeno cura, perché cambiare una sbiadita segnaletica, mettere su i paracarri, aprire i fine settimana costa pochissimo!
Una proposta per la Galleria Nazionale
Una proposta semplice: di recente, proprio il Ministero della Cultura ha stabilito che molte opere che giacciono nei magazzini dei grandi Musei, che non hanno spazio per esporli al pubblico, possano trovare luogo nei piccoli musei di provincia. Che possa essere questa la volta buona per un rilancio della Galleria Nazionale e l’apertura di altri spazi per l’arte? Per aprire un dialogo tra le città conurbate, tra enti pubblici e quel privato disponibile a investire e che gestisce spazi idonei, come il Castello di Cosenza, tra tutti, per offrire ai cittadini una scelta di selezione di luoghi da visitare, che contemplino secoli di storia dell’arte e non qualche brandello di mostre tra degrado e incuria?
La sede del Ministero della Cultura a Roma
Sindaco, si faccia portavoce di una richiesta collettiva al ministro, e con la direttrice Baccari, arricchite le collezioni cosentine. Fate di questo Museo un luogo di eccellenze, attrattivo. Questo sì che sarebbe un bel segno di vitalità culturale, tanto semplice, immediato, ma di grande efficacia e lungimiranza, apprezzato dai calabresi e da chi ama l’arte e la bellezza!
Con i più cordiali saluti e l’auspicio di stimolare una seria riflessione su temi dirimenti,
Sta per cominciare sui tavoli europei, quelli che contano sul serio, la discussione politica sulle regole di bilancio dell’Unione Europea: il famoso fiscal compact del quale, nel decennio appena trascorso, ogni angolo dell’opinione pubblica ha decantato le presunte virtù salvifiche. Presunte, appunto.
Regole Ue, una sintesi da raggiungere
Due i punti focali della disputa, che sono poi quelli sui quali i governi degli stati nazionali che animano il governo dell’Ue dovranno trovare una sintesi, necessariamente politica.
Servirebbe un nuovo modello di crescita che preveda la possibilità di fare maggiori investimenti pubblici per innovare la struttura economica. Si parla tanto, anche meritoriamente, di “transizione ecologica”. Ebbene, servirebbe una quantità poderosa di risorse pubbliche per “innovare” da una parte, e per compensare gli effetti negativi dall’altra. In caso contrario, la “distruzione creativa” sarà solo distruzione economica. E produrrà macerie sociali, come sempre accade quando si lascia a sé il mercato senza alcuna regolazione da parte dell’autorità pubblica/politica;
Bisognerebbe, per dar corso al punto 1, mandare in soffitta una volta per tutte il paradigma dell’austerità espansiva, che in questi anni ha prodotto macerie sociali (oltre che tanto conformismo, dentro e fuori l’Accademia). Si è rivelato del tutto inadeguato dinnanzi ad uno shock economico dirompente ed inatteso, un vero e proprio “cigno nero”, come quello prodotto dalla pandemia. La controprova dell’affermazione circa la dannosità sta nella sospensione delle regole “austerity” di bilancio che hanno guidato le scelte di politica economica. Fossero state adeguate a superare lo shock economico causato dalla pandemia non le avrebbero sospese.
Mediterranei vs Frugali
Il presidente del Consiglio pro tempore, capo del governo italiano, ha – ed è del tutto evidente – l’autorevolezza politica per guidare un consorzio di paesi (i cosiddetti “mediterranei“) finalizzato a rimettere in discussione il paradigma dell’austerità espansiva, che i paesi cosiddetti “frugali” vorrebbero ripristinare attraverso la riattivazione di quelle regole di bilancio tanto insensate sul piano scientifico quanto deleterie su quello economico: le decisioni “contabili” prese a Bruxelles si riverberano sulla vita reale delle persone, in special modo su quelle che vivono nelle aree territoriali più svantaggiate, proprio come la Calabria. Per questo è quanto mai opportuno affermare che i destini della Calabria si disputeranno, ancora una volta, a Bruxelles. E questa volta in modo dirimente.
Ma le nostre università stanno a guardare?
In conclusione, credo sia lecito chiedersi: l’Accademia calabrese, nella quale fiorisce una tradizione di studi economici originale e per certi aspetti assai brillante, riesce a sviluppare un pensiero politico, magari innovativo, sulla questione del debito pubblico europeo o si limita a recepire i voli pindarici di chi (nelle università, specie del Nord, dove si orienta il dibattito pubblico) è passato dal “guai a fare debito pubblico: sarebbe un disastro” al “fare debito pubblico non è più un problema”?
Speriamo di capirlo al più presto, magari in un futuro che non sia troppo anteriore.
Ringrazio l’architetto Guido per la replica che condivido nelle parti in cui segnala le responsabilità legate alla mancanza di manutenzione dell’area archeologica scavata nel cuore di Cosenza nel corso degli anni ‘90. Lo stato di abbandono di piazzetta Toscano, a ridosso della Cattedrale, è palesemente il sintomo di un disinteresse e di una mancanza di cura che mi addolorano per il semplice fatto che, da “forestiero”, amo questa città.
Le opinioni da me espresse nell’articolo, che il giornale I Calabresi ha avuto la bontà di ospitare, sono maturate a seguito di una esperienza vissuta sul campo qualche mese fa e riflettono il mio stato d’animo allorquando mi sono trovato di fronte al degrado in cui versano non solo le antiche rovine, ma anche l’opera di architettura che avrebbe dovuto valorizzarle. Evidentemente qualcosa non ha funzionato.
Cercare colpe e colpevoli è un esercizio sterile a cui mi sottraggo. Dico solo, e propongo come tema di dibattito (non di polemica), che forse fra le cause del degrado -oltre all’incuria, e ripeto, alla evidente mancanza di manutenzione – vi è anche il riflesso di una visione assoluta dell’opera d’architettura come “oggetto autoreferenziale”. Un punto di vista che mette in secondo piano il contesto per affermare l’urgenza di un gesto di rottura in nome di una “Creatività Contemporanea” che, a mio avviso, ha fatto il suo tempo. Il concetto di manutenzione possibile e di accessibilità per tutti dovrebbe essere parte integrante del progetto di un’opera pubblica.
La domus romana
Quanto poi alla affermazione che «nessuna domus romana» è presente in loco, ma soltanto eterogenei lacerti di epoche diverse, rimando al saggio Le indagini archeologiche a piazzetta Toscano di S. Luppino e A. Tosti, contenuto nel Catalogo del Museo dei Brettii e degli Enotri, p.503 e seguenti. Confortato dalla letteratura specialistica segnalo quindi che l’architetto quando indossa il camice del chirurgo dovrebbe premurarsi di avere una conoscenza approfondita del corpo su cui interviene e dei suoi resti. Egli è stato chiamato allo scopo di proteggerli, valorizzarli e custodirli, perché quelle pietre ci parlano di Cosenza e della sua storia.
Spero con tutto il cuore che questo scambio di opinioni possa servire a sensibilizzare la cittadinanza e i suoi rappresentanti sull’urgenza di riprendere le fila di un’azione di rilancio del centro storico che purtroppo è caduta nell’oblio.
Fin dalla prima uscita de I Calabresi su queste pagine si è parlato del degrado del centro storico di Cosenza, l’ultima volta ospitando una riflessione di Giuliano Corti sullo stato in cui versa piazza Toscano. A quell’articolo diamo seguito ospitando le considerazioni del progettista della malridotta copertura che riveste l’area archeologica, l’architetto Marcello Guido. Una replica, quella di Guido, che pubblichiamo nella speranza che un dibattito allargato sia da stimolo per il recupero reale di un tesoro che appartiene a tutti.
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Gentile Direttore,
premetto che seguo la sua rivista e ne condivido le finalità culturali e di inchiesta volte ad una Calabria che tutti noi amiamo e vorremmo diversa rispetto alle criticità, purtroppo tante, che attanagliano la nostra regione.
Le scrivo dopo aver letto l’articolo dedicato a Piazza Toscano a firma di Giuliano Corti pubblicato sulla rivista che lei dirige e vorrei, in qualità di progettista dell’opera, fare alcune considerazioni su quanto scritto.
Puntuali, ogni due o tre anni, arrivano critiche e polemiche riguardanti Piazza Antonio Toscano, un’area del centro storico di Cosenza che, come architetto, ho avuto il compito di riprogettare alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso. Sono abituato alla furia distruttiva di qualcuno che di volta in volta si scaglia contro questa opera. Alcuni anni fa, apparve finanche un cartello che invitava ad impiccarmi.
Il recente articolo intitolato “L’anima del centro storico contro l’orrore di vetro a piazza Toscano” solleva un’interpretazione nuova a cui risulta doveroso rispondere. L’articolo lascia intendere che sia stato il mio progetto di architettura a generare il degrado del luogo: opera demoniaca, poiché caratterizzata da un “furore compositivo che ha generato un mostro” si può leggere tra le numerose frasi di condanna. Chi conosce le cronache cosentine, sa bene che l’area retrostante il Duomo, nei decenni che hanno preceduto il mio intervento di ristrutturazione urbana, era caratterizzata da povertà, randagismo, spaccio e prostituzione, nonostante l’attivismo di associazioni e residenti che si sono mossi per denunciarne i problemi.
Bellezza e paure
Tra gli addetti ai lavori, sono molti quelli che ritengono Piazza Toscano un significativo esempio di architettura contemporanea. Le opere contemporanee suscitano sempre dibattito, soprattutto quando mettono in crisi dei valori precostituiti, sollevano dubbi, interrogano le coscienze. Tuttavia pensavo fossero finiti i tempi in cui si additassero le colpe del disagio sociale -e dell’inefficienza politica- ad opere d’arte o d’architettura giudicate degenerate.
L’autore del sopracitato articolo, riferendosi al mio progetto, ne riconosce lo status di “opera di ingegno” e lo descrive come una “macchinosa copertura in vetro [in] calcestruzzo e/o ferrame”, sentenziando che “laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione, l’orrore”. Ma le opinioni riflettono spesso paure subconsce, tanto che il brutto è solo ciò che non si uniforma ad astratti quanto personali standard estetici e morali. Per questo motivo, l’articolo non si limita ad una critica circostanziata al mio progetto, ma probabilmente esprime timori più profondi e radicati nei confronti di una società che non è in grado di offrire un’opera d’arte astrattamente bella e stabilizzante.
Nessuna manutenzione
In realtà, uno dei principali problemi che attanaglia Piazza Toscano e con essa anche gli altri beni storico-architettonici del centro storico di Cosenza, riguarda la manutenzione ordinaria e straordinaria. Purtroppo gli interventi sono stati troppo rari nel corso degli ultimi due decenni. L’erba è cresciuta indisturbata per anni nell’area archeologica e si sono accumulate buste di spazzatura e montagne di rifiuti in ogni angolo. Bande di teppisti hanno agito indisturbate, frantumando i vetri delle coperture e delle pavimentazioni, mentre altri malfattori hanno trafugato scossaline e pluviali indispensabili per la raccolta e il deflusso delle acque piovane. Inoltre diverse persone hanno utilizzato porzioni dell’area archeologica come spazio ricreativo dei propri animali domestici, preparandola a diventare un ricovero di randagi.
Erbacce sotto la struttura che sormonta piazzetta Toscano
Adesso con furia iconoclasta ci si scaglia contro l’opera architettonica e non contro il degrado che pervade quest’area al pari delle tante periferie urbane delle nostre città. Chiunque si sia mai dedicato ad un orto o un giardino, sa che la pulizia e l’estirpazione delle erbe infestanti richiedono un impegno continuo. In fondo, se si lasciasse la propria casa nell’incuria generale, senza pulire, buttare l’immondizia, scaricare l’acqua del bagno, senza raccogliere le deiezioni dei propri animali domestici, senza aggiustare un qualche vetro che si rompe, insomma senza fare le azioni quotidiane necessarie, la casa collasserebbe nel giro di pochi mesi. Perché ci si stupisce che Piazza Toscano, dopo anni di abbandono, abbia bisogno di interventi di manutenzione?
La funzione sociale
Sarebbe intelligente chiedere che venga svolto l’ordinario servizio di pulizia ed attivare dei tavoli di discussione tra i vari enti coinvolti nella gestione dell’area, promuovere delle campagne di educazione nelle scuole, sensibilizzare i cittadini organizzando visite guidate, dibattiti e attivando gli assistenti sociali quando necessario. Gridare allo sfascio, senza individuare responsabili e senza fare proposte concrete, invocando un’astratta quanto mitica “bella” architettura, rischia invece di assecondare il degrado.
Per comprendere la situazione attuale è necessario conoscere la storia dell’intervento. Il progetto di quella che veniva chiamata Piazzetta Toscano, dopo cinquant’anni di disinteresse e controversie, fu definito all’interno di un programma di rigenerazione urbana attuato da Giacomo Mancini alla fine degli anni ’90. È con l’amministrazione di allora che concordammo di realizzare uno spazio che svolgesse una funzione sociale, all’interno di un progetto molto più ampio di sistemazione complessiva della spina dorsale del centro storico della città, rappresentata dal Corso Telesio.
Duemila anni di storia
Si trattava di uno dei primi interventi intesi a rivitalizzare la città storica, e si scelse appositamente una delle aree più problematiche del centro storico di Cosenza. La necessità di una campagna di scavi archeologici intervenne in seguito al ritrovamento di reperti antichi, di cui si era ipotizzata la presenza sin dal progetto preliminare. Dopo un anno di lavori, si portò alla luce un’area archeologica molto complessa e di difficile lettura, fatta di stratificazioni diversissime che si incrociano tra loro, con giacenze su diversi piani e con presenza di murature che impediscono il deflusso naturale delle acque.
Tuttavia, quando si conosce poco la storia dei luoghi, si finisce per evocarla continuamente. Nessuna “domus romana” come è stato scritto, ma lacerti in cui sono visibili i traumi subiti da più di duemila anni di storia: tra i tanti reperti vi sono un enigmatico cilindro in muratura costruito in epoca rinascimentale, frammenti di epoca Bruzia, porzioni di mosaici e cocciopesti romani, un pozzo utilizzato nei secoli più recenti per conservare la neve, tronconi di murature di epoca medievale e contemporanea. Tracce di tumultuosi terremoti, distruzioni, assedi, incendi, sono presenti nell’articolata stratigrafia in cui si sono riscontrate sepolture frettolose fatte a seguito dei medesimi eventi.
Chirurgia e puzzle
Piazza Toscano rappresenta concettualmente una ferita causata da un’incisione chirurgica. Non a caso l’intervento di ristrutturazione urbana nasceva dalla suggestione di un corpo umano disteso sul tavolo operatorio. Il chirurgo e il suo team di collaboratori hanno la straordinaria possibilità di osservare gli organi interni prima di passare all’azione. Si voleva offrire ai cittadini l’opportunità rara di penetrare virtualmente nelle viscere della città, per offrire uno spettacolo unico ed educativo.
Addetti ai lavori impegnati a piazza Toscano
Si può osservare così un tessuto urbano frastagliato e stratificato, fatto di piccoli episodi e frammenti architettonici, spesso non correlati tra loro. Un puzzle scomposto, di difficile interpretazione anche per gli addetti ai lavori. Da qui l’esigenza della Soprintendenza di realizzare delle coperture di protezione dell’area archeologica. Sarebbe bello e utile che Comune e Soprintendenza si mettessero d’accordo sulla manutenzione ordinaria dell’area archeologica e affidassero a qualcuno la predisposizione di alcuni pannelli illustrativi per spiegare ai visitatori la complessità e la ricchezza rappresentata da quelle tracce storiche.
Il tema è dunque quello del difficile rapporto tra antico e nuovo, un rapporto da sempre conflittuale che vede contrapposte diverse linee di pensiero, sulle quali non mi soffermo per non ricadere in discorsi di natura accademica. Voglio solo sottolineare che la genesi del progetto nasce dal sottostante tessuto edilizio, scomposto e frastagliato, e ne ha assecondato lo schema. Il progetto fin dalla nascita ha suscitato in egual misura scandalo e consensi. Il fatto che sia stato approvato, a seguito di un articolato iter burocratico, con parere positivo del Comitato tecnico-scientifico del Ministero dei beni culturali, fa capire la complessità della questione.
Un riconoscimento per pochi
Recentemente il Ministero della Cultura, attraverso la Direzione Generale per la Creatività Contemporanea, ha incluso il progetto di sistemazione archeologica di Piazza Toscano in una lista di opere ritenute tra le più significative realizzazioni italiane del secondo Novecento. Piazza Toscano è uno dei pochi interventi realizzati da architetti ancora in vita, in quanto la maggior parte delle opere selezionate riguardano i maestri dell’architettura italiana del dopoguerra. Tra i progetti di architettura e di ingegneria calabresi realizzati negli ultimi vent’anni ce ne sono ben pochi che possono contare su questo riconoscimento. Un riconoscimento che a ben guardare non va a me, ma alla città di Cosenza, ai cittadini che dispongono di questo bene pubblico e alle maestranze calabresi che l’hanno costruito.
Gli interventi su piazza Toscano hanno riguardato anche gli edifici intorno ai ruderi romani
Ho avuto il piacere di illustrare il progetto in diverse università, di vederlo in mostra in Italia e all’estero, di vederlo pubblicato in riviste nazionali e internazionali, ma a volte mi chiedo che reazioni avrebbe suscitato una copertura in tubi innocenti, come se ne vedono tante nelle aree archeologiche. Oppure cosa sarebbe successo se avessi proposto delle semplici coperture a forma di capanna, magari con coppi di cotto (una sorta di presepe)?
Credo che avrei commesso una violenza inaudita nei confronti del tessuto storico e temo che sarebbe passato tutto nell’indifferenza generale, poiché avrei offerto una soluzione consolatoria o effimera, a seconda dei casi.
Il degrado del centro storico
Personalmente, nel mio fare professionale, affido particolare rilevanza alla qualità del progetto di architettura ed affido ad esso un ruolo “sociale”, nella consapevolezza che questo si debba configurare come una componente fondamentale del benessere e della qualità della vita. Ciò che fa discutere è il segno moderno nel contesto storico, ma qui si aprirebbe una discussione che va bel oltre queste poche righe.
Su una cosa sono d’accordo con l’articolo che mi ha sollecitato a scrivere: oggi l’area è completamente vandalizzata e ruderizzata, sia il giacimento archeologico che le strutture architettoniche, ma lo è anche l’intero centro storico che cade a pezzi. Gli abitanti e le attività economiche sono sempre meno e tutti insieme lanciano un grido di aiuto, ma anche un monito per l’intera comunità.
La società calabrese contemporanea ha ormai consolidato una negativa abitudine a convivere con qualsiasi forma di degrado possa manifestarsi, sotto ogni diversa e sempre più grave forma. Si tratta di una pericolosa assuefazione alla sciatteria, precarietà, marginalità e abbandono che interessa, per diversi ed eclatanti effetti, ogni luogo, pubblico soprattutto, ma al contempo privato.
L’ultimo episodio che racconto qui di seguito, e che è l’apice di una catena di infelici incontri con il brutto e negativo calabrese, risale al 15 dicembre scorso, in piena atmosfera natalizia, che, a queste nostre traballanti latitudini, è la peggiore ed effimera illusione che ubriaca tutti, per il tempo necessario a dimenticare il peggio che viviamo e, forse, vivremo.
Vaccinati in una palestra lercia e polverosa
Il pomeriggio, mi reco fiduciosamente, per la mia civica terza dose “anti-Covid”, al cosiddetto “hub” vaccinale di Via degli Stadi s.n.c. -che sta per senza numero civico, e già questo doveva preoccuparmi- e con sorpresa noto che mi trovo all’esterno di un anonimo edificio, privo di qualsiasi minimo requisito ambientale, con una insegna appena visibile e pure storta, facciate malamente scrostate e con uno sbarramento da manifestazione di massa, posto al controllo degli accessi.
L’interno ha i requisiti – molto sbiaditi – di ciò che era una palestra, oggi lercia e polverosa, con un paio di box di controllo e personale medico all’addiaccio, muniti di camici con sotto i cappotti, il fiore della rinascita dell’Italia (ma quando mai!) è malamente incollato su uno dei box della sala e sta per staccarsi, sintomo di quanto sia poco importante, alle nostre latitudini, comunicare bene messaggi collettivi di fiducia!
Ogni protesta è vana
Sul pavimento ci sono almeno due dita di polvere, qua e là, sparse nella grande sala, una ventina di sedie male assortite, assemblate tra attesa pre-vaccino e post, al soffitto un paio di lampadine fioche e mortacine da magazzino merci in disarmo. Poche persone infreddolite siedono in attesa fiduciosa della dose salvifica, e l’operatore sanitario, che mi inietta il farmaco, al quale faccio notare la situazione disastrosa, allarga le braccia e mi dice che ogni protesta (loro e nostra suppongo) è vana, perché l’azienda sanitaria non ha, da tempo, orecchie per sentire alcuna lamentela.
La rassegnazione che colgo tra tutti gli astanti è imbarazzante, sono l’unico che prova a far notare l’evidente stato di degrado e conseguente disagio, e ancora una volta mi sovviene che su questa rassegnazione una intera generazione di politici ha costruito le proprie fortune elettorali e che il tempo di qualsiasi vera, efficace protesta è stato sostituito da qualche, inutile, invettiva sui social media.
Lamezia airport 2021
Mi attraversano, come in un film, i fotogrammi di una infinita serie di recenti situazioni di degrado calabrese, abbandono, precarietà e ordinarietà: le baraccone di plastica, posticce, dell’aeroporto di Lamezia, altro presunto “hub internazionale”, nate provvisorie e divenute permanenti, e nelle quali si stipano, ormai da anni come sardine i passeggeri; le sale di attesa delle stazioni ferroviarie, spoglie, disadorne, male arredate; i pronto soccorso dei diversi ospedali; gli atri di gran parte degli uffici pubblici, con segnaletica posticcia, arredi rabberciati, personale svogliato e poco educato a ricevere e accogliere…
Calpestare la bellezza
E poi ancora, ovunque, auto in terza fila, buche per le strade, autobus che non passano mai, intonaci cadenti, facciate dai colori sbiaditi. Persino i “salotti buoni” di Cosenza, lungo il Corso, e dei lungomare di Reggio, di Catanzaro, appaiono posticci, sbrecciati, mal rifiniti e senza alcuna costante manutenzione. Persino i resti “nobili” di un glorioso passato, come la colonna superstite di Crotone, circondata dal cemento insieme a tutta l’area archeologica, il sito dell’antica Sibari tagliato in due dalla statale 106 (statale, si noti!), con le sale del museo che sembrano il residuo di un vecchio e decrepito deposito ottocentesco di reperti.
Rifiuti a Lungocrati, sullo sfondo la chiesa di San Domenico a Cosenza
Un modello turistico perdente
E per completare il tour basta andare nelle “ridenti” località silane, Camigliatello su tutte, e trovarsi nel mezzo di un bazar confuso e sconclusionato di oggetti caotici, che occupano lo spazio pubblico del “corso”, senza dignità estetica, regole e buon senso, e che lasciano immaginare la qualità di un modello turistico che altamente competitivo non è mai stato e mai lo diventerà.
Cittadini insensibili ai beni comuni
Il degrado, l’abbandono, l’incuria, la sciatteria dei luoghi, in Calabria, hanno tuttavia, almeno una triplice matrice: cittadini insensibili ad ogni minimo impegno civico che comporti una pur minima assunzione di responsabilità verso “ciò che non è mio”, ma è di tutti, amministrazioni pubbliche totalmente distratte da ben altre emergenze quotidiane per le quali questo genere di attività educative, e anche repressive quando necessario, sono del tutto secondarie. Le scuole che non formano più cittadini, ma più o meno scolari-studenti indirizzati alla nozione, a qualche superficiale conoscenza di programmi antiquati, nei quali e attraverso i quali è difficile far comprendere che essere buoni cittadini, colti e sensibili, preparati, farà buone città, buone comunità, buoni luoghi di vita, buone, sane nuove economie circolari.
I nuovi barbari
E’ un degrado fisico e sociale, dunque, ma è soprattutto culturale per aver smarrito la guida di una civiltà e bellezza millenarie, dai Greci in poi, aver rimosso la cultura contadina e la sua sobria eleganza e semplicità ed essersi tuffati a capofitto nelle pieghe di questa modernità malata e scomposta, finta, che genera ondate di nuovi barbari, insensibili, maleducati, assuefatti al brutto e all’indifferenza.
È un pregiudizio che ogni opera dell’ingegno sia intoccabile e debba godere di un rispetto aprioristico e incondizionato. A Cosenza basta imboccare l’angusta postierla che conduce da Lungo Crati Miceli a piazza Toscano per trovarsi, una volta giunti all’aperto, al cospetto di una singolare architettura caduta dall’empireo dei concetti astratti nel corpo vivo di una città ferita. Guardando con sorpresa la macchinosa copertura in vetro, calcestruzzo eo ferrame che sormonta l’area archeologica si viene colti da una sensazione di orrore che lascia senza parole. Un effetto straniante, di stupore e disagio, costringe a interrogarsi sul senso di tanta sciatteria.
Una rovina contemporanea su quelle antiche
L’opera avrebbe dovuto nobilitare la piazza e valorizzare i resti di una grande domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti dell’ultima guerra. Sorprendentemente però, in breve tempo, il manufatto è divenuto esso stesso una rovina. Con tutta evidenza, a partire dal giorno della sua inaugurazione, l’opera è stata abbandonata a se stessa e all’incuria, nel chiasso delle polemiche fra addetti ai lavori e nel disinteresse della città intera.
I resti romani di piazza Toscano prima di essere coperti dall’attuale struttura
Le brutture urbane sono spesso un sintomo preoccupante della decadenza delle città. Laddove il brutto si afferma, lì si annida quasi sempre il disagio, l’emarginazione., l’orrore. Alcuni si chiederanno: – chi stabilisce cosa sia il bello e cosa il brutto? Non è questo il punto. Non si tratta di ridurre il problema ad una questione estetica che aprirebbe all’istante una tediosa, quanto inconcludente, polemica fra innovatori e conservatori. E non si tratta neppure di giudicare la bontà delle congetture progettuali, né di sindacare il valore delle costruzioni che deludono rispetto alle pur nobili aspettative degli autori. Lasciamo perdere le questioni teoriche e stilistiche. Lasciamo riposare in pace i maestri futuristi e gli accademici dell’architettura.
Le domande sono altre
Sigilli a piazza Toscano
Chiediamoci invece: – cosa ne facciamo delle impraticabili passerelle in calcestruzzo e dei pilastri arrugginiti che sorreggono una pletora di costosissime vetrate per lo più rotte o ammalorate? Perché un’area archeologica a ridosso della Cattedrale è di fatto sequestrata e negata? Perché significativi resti d’epoca romana e medievale sono tagliati fuori da un tessuto urbano di grande interesse? Quale senso ha che le rovine siano abitate stabilmente dalle erbacce, dai ratti e dai rifiuti? Le polemiche datano ormai da quasi un ventennio e nel frattempo la situazione è totalmente degenerata. Si ha la sensazione d’essere arrivati sulla scena di un film apocalittico. I resti archeologici sono soffocati dalle rovine di una modernità enfatica e sbilenca che celebra se stessa come “rottura dei codici linguistici” e non si confronta minimamente con il contesto se non per negarlo.
La via d’uscita
Il celebre slogan «Fuck the contest» coniato dalla archistar Rem Kolhaas (che potremmo garbatamente tradurre con «chi se ne frega del contesto») raggiunge qui la sua apoteosi. Siamo al cospetto di un gesto virtuosistico di composizione architettonica voluto, teorizzato e rivendicato dal suo autore, ma evidentemente non amato dalla città, rifiutato e degradato fino all’inverosimile. L’unica via d’uscita dall’orrore della situazione di fatto sarebbe la presa d’atto che è stata commessa una serie di errori. Senza cercare capri espiatori si dovrebbe avere il coraggio di mettere mano all’opera e decidere se restaurarla, adattarla, rigenerarla oppure smantellarla.
Un nuovo inizio
Non si tratta di sostituire un pregiudizio modernista con una fissazione vernacolare. Non si tratta di allestire un presepe di antichi ruderi, si tratta di prendere coscienza del fatto che i resti archeologici sono “sacri” perché parlano della città e della nostra storia. Prendersi cura del loro decoro è quindi un dovere civico per il bene di tutta la collettività. In quel luogo pulsava il cuore antico di Cosenza e dimenticarlo sarebbe un vulnus fatale alla sua identità. In definitiva il recupero di piazza Toscano potrebbe essere la prima pietra di un nuovo inizio. Un gesto simbolico e lungimirante.
Ci sono notizie che nel frastuono mediatico colpiscono (e feriscono) per la loro insensata enormità. Udite! Udite! A Cosenza, i promotori di una passeggiata organizzata per sensibilizzare l’opinione pubblica sui crolli che minacciano palazzi antichi e interi isolati del centro storico dovranno rispondere davanti alla legge di “adunata non autorizzata”. Hanno violato le disposizioni ministeriali! Non hanno comunicato per iscritto alle autorità competenti le loro “subdole” intenzioni! Pertanto, il codice li minaccia; e arriva la salatissima sanzione pecuniaria.
La bellezza oltraggiata di Cosenza vecchia
Il cuore di Cosenza, il suo bellissimo centro storico, edificato nel corso di oltre 25 secoli, versa in condizioni disastrose, nel totale disinteresse dei più, e se un drappello di volenterosi si permette di passeggiare tra le macerie, senza aver chiesto il nulla osta alle autorità costituite, viene sanzionato. Stupore, sdegno, amarezza!
Qualsiasi visitatore che, anche occasionalmente, abbia risalito Corso Telesio verso il teatro Rendano sfiorando la cattedrale; o abbia contemplato, dalla sommità del Castello svevo, il panorama della città; o ancora da Palazzo Arnone abbia ammirato le case e i palazzi che dalla riva del Crati scalano, in molteplici filari, la china del colle fino alla Rocca, ebbene, questo “forestiero” sa che Cosenza è uno straordinario deposito di storia e di cultura da salvaguardare a tutti i costi. Eppure, eppure c’è chi pensa che sarebbe meglio non parlarne. Nascondere il disastro e rimuovere le macerie nascondendole nell’inconscio e nella frenesia della cosiddetta “modernità”. Chiunque voglia parlarne può farlo “liberamente” ci mancherebbe, ma solo dopo aver chiesto il permesso in carta bollata.
Il centro storico di Cosenza
L’oblio delle radici culturali di Cosenza
Questo increscioso episodio meriterebbe di essere seppellito da una sonora risata se non fosse il sintomo di un preoccupante oblio delle radici culturali della città che si fa bella alle luci di Corso Mazzini, mentre trascura e abbandona a se stesso il suo cuore antico. La modernità ormai fa rima solo con comodità e stupidità. Tutto ciò che non è a portata di mano, che non è disponibile all’istante viene giudicato scomodo e quindi condannato a morire di stenti in nome del progresso.
Si straparla di sostenibilità e di transizione ecologica e si lascia la città antica al chiasso e ai veleni dei tubi di scappamento, ai crolli annunciati, ai topi e al degrado. Un traffico sconclusionato e caotico cavalca il lastricato delle antiche strade del borgo mentre la collettività, anziché insorgere e chiedere a voce alta che si faccia qualcosa, si gira dall’altra parte e guarda a valle dove il Crati si perde in una periferia anonima e senza qualità; in attesa che il progresso si faccia vivo. Ma invano.
Il ridicolo ci mette lo zampino
C’è da chiedersi cosa direbbe Bernardino Telesio vedendo la sua città a tal punto trascurata. Anzi snaturata. O il suo coetaneo Giovanni Battista Amici il primo a mettere in discussione il sistema tolemaico e i cui studi sui moti e i corpi celesti influenzarono Copernico prima e Galileo Galilei poi. O ancora Alfonso Rendano pianista celebre in tutta Europa nell’età d’oro delle Società dei concerti. Tutto questo glorioso passato potrebbe tacitamente affondare nelle acque del Crati – divenuto ormai il fiume dell’oblio – se il ridicolo non ci avesse messo lo zampino con il clamore di una notizia strepitosa. I facinorosi passeggiano nel centro storico.
La casa crolla ma serve il permesso per salvarla
È proprio vero! La tragedia si ripresenta sempre come farsa, per il semplice motivo che il torto si appoggia sempre sulle stesse fissazioni formali che nascondono la solita sete di potere. Secondo questa fissazione burocraticala legge scritta e comandata viene prima della legge di natura e del comune sentire. La casa crolla, ma per salvarla bisogna chiedere il permesso.
Questa è la legge di Creonte, l’usurpatore. Coloro che si preoccupano della propria città, che si impegnano e denunciano lo “stato delle cose”, per cercare almeno di salvare il salvabile, hanno nel loro cuore lo stesso sentimento di Antigone per il fratello morto in battaglia e condannato da un potere cieco e insensibile a restare insepolto. Tutti devono vedere il cadavere di una città che si oppone alla legge di Bengodi. L’agire di Antigone è mosso da un sentimento di pietas che non ha argomenti da offrire alla violenza del diritto. Le sue parole rimandano alla legge non scritta della cura e della pietà.
Crolli nel centro storico di Cosenza
Cittadini schiavi dell’insensibilità
Perché una terra nobilissima che quotidianamente sperimenta sulla propria pelle la violenza dell’illegalità non alza la voce per chiedere che le amministrazioni si prendano cura dei beni comuni? Beni archeologici, storici, paesistici! Perché il solipsismo consumistico ha trasformato così tanti cittadini in schiavi dell’insensibilità e dell’egoismo maligno. Perché se un manipolo di anime buone e buoni cittadini cerca di interpretare il disagio urbano risalendo i vicoli da Piazza dei Valdesi verso Piazza Piccola, viene multata? Così, nel totale disordine simbolico del potere, si fa strada la voce muta della legge cieca.
Nel regno di Creonte Antigone, la disobbediente viene condannata a morire di fame e di stenti in una caverna. È colpevole di aver provato pietà per il corpo senza vita del fratello. Creonte decide che nessuno debba vedere la sua fine. Quando però il tiranno, messo alle strette dalle parole di Tiresia e dalle proteste del coro della sua gente cerca, in extremis, di riparare al delitto contro la sua stessa casa, troverà la casa vuota e Antigone senza più vita.
Di indigestione di parole rimangiate non risulta mai morto nessun politico e siamo certi possa sopravvivere anche l’assessore regionale Gianluca Gallo. Mentre la maggioranza si appresta a votare per la nascita di Azienda Zero, non risultano in merito dichiarazioni del recordman di preferenze delle ultime elezioni. Niente di straordinario, si dirà: Gallo fa parte della maggioranza che vuole affidare tutta la sanità al presidente Occhiuto, perché opporsi? Il problema è che lo stesso Gallo, da consigliere d’opposizione, ne diceva di tutti i colori su un’idea a dir poco simile quando a proporla era stato Oliverio.
Basta andare a ritroso sulla sua bacheca Facebook per trovarne ancora le prove. Siamo a dicembre del 2017 e il Nostro pubblica un post inequivocabile. «Vogliono che la politica controlli la sanità. Vogliono che il loro governo orienti scelte, decisioni e probabilmente nomine. Invece di occuparsi dei problemi della gente, che non ha più ospedali in cui curarsi né servizi efficienti sui quali poter contare, con un emendamento infilato nella Legge di Stabilità la giunta Oliverio punta a sopprimere le aziende sanitarie provinciali ed a creare un’unica azienda sanitaria regionale, con sede a Catanzaro. Alla faccia del decentramento e delle esigenze dei cittadini, e di negative esperienze passate, con un blitz vogliono accentrare tutto per poter avere maggior potere decisionale. Una vergogna. Ci opporremo con tutte le forze».
L’azienda unica rimase sulla carta, magari per merito anche dell’opposizione dell’attuale assessore all’Agricoltura. Che si deve essere tanto sforzato all’epoca da non avere nemmeno più un briciolo d’energia per rilanciare la vecchia, sentitissima battaglia quattro anni dopo.
Il mio punto di osservazione è sicuramente diverso da quello di Bianchi, perché più circoscritto. Non mi avventurerò, qui, in campi che non sono i miei, e dunque limiterò il mio intervento alle ricadute sociali e culturali dell’Università della Calabria sul suo territorio di riferimento, e cioè prevalentemente Cosenza e Rende. Pertanto, non entrerò nel merito del dissesto idrogeologico, dell’erosione del mare, della depurazione insufficiente nel Tirreno cosentino, dei servizi turistici pessimi, della viabilità al collasso, della difficoltà di effettuare una raccolta differenziata efficace ed efficiente, del degrado in cui è ridotta Cosenza (con sporcizia, cumuli di rifiuti ovunque), con l’ospedale dell’Annunziata che non raggiunge i Lea (Livelli essenziali di assistenza) ed è perennemente al collasso.
Si tratta di cronicità sulle quali ovviamente l’Università della Calabria non ha responsabilità dirette, ma sulle quali credo che l’Unical dovrebbe far sentire la propria voce, anche eventualmente denunciando pubblicamente l’assenza di ascolto da parte della regione, qualora vi sia. Poiché la cultura è il motore della società, e l’assenza di cultura ne è il freno, l’imbarbarimento della società è chiaramente legato all’analfabetismo e all’analfabetismo di ritorno. E quindi, come si può da anni continuare a girare lo sguardo altrove quando leggiamo che uno studente calabrese delle scuole superiori su tre non ha le cognizioni minime per superare la licenza media.
I test Ocse-Pisa, allineati alle prove invalsi, collocano la Calabria agli ultimi posti per competenze alfabetiche. Cosenza è la peggiore. I test nazionali invalsi confermano i dati Ocse-pisa. Le liste annuali di Eduscopio della Fondazione Agnelli, da anni, non vedono un liceo di Cosenza e di Rende tra le migliori scuole della Calabria. Di fronte a questo collasso sociale, le istituzioni sono mute mentre di anno in anno la situazione calabrese peggiora.
L’Università della Calabria
Parecchi anni fa ero al Politecnico di Vienna: mi aveva colpito un manifesto affisso ovunque che riguardava un convegno dedicato ai risultati delle indagini Ocse-Pisa. Il politecnico di Vienna si interrogava, invitando numerosi esperti, su come migliorare la performance (già alta) delle scuole. Nulla di ciò ho mai visto all’Università della Calabria. Le iniziative che vedono una collaborazione tra Unical e scuole, moltiplicatesi negli ultimi anni, con tutta evidenza hanno fallito l’obiettivo di sollecitare una didattica di maggiore qualità. Hanno solo avuto il merito di aumentare gli iscritti. Ma non è la quantità cui l’università dovrebbe guardare, ma la qualità dei suoi studenti. le istituzioni, dunque anche l’Università, sono silenziose.
E la qualità degli studenti in ingresso è davvero bassa. Lo sappiamo tutti noi che insegniamo all’Unical, ma tutti si guardano bene dal parlarne. Inutilmente, in ogni contesto, puntualmente sollevo il problema della selezione degli studenti, per troppo tempo legata al voto di maturità che, a Cosenza e a Rende, troppo spesso non ha alcuna correlazione con la preparazione degli studenti. Puntualmente mi ritrovo intorno un silenzio assordante, quando non addirittura reazioni che volutamente fraintendono il mio pensiero attribuendomi la volontà di respingere certi studenti, limitandone l’accesso. Ma invece è proprio il contrario, perché di studenti intelligenti e con voglia di fare l’Unical è piena, ma bisogna avere il coraggio di certificarne l’impreparazione per consentire loro di avere un “colpo di reni” e recuperare. Invece si preferisce far credere loro di avere una adeguata preparazione di base, abbassando la soglia dei test di ingresso rispetto alle altre università in modo da non “spaventarli”, non assegnando loro il debito che meritano. E così, l’Unical rinuncia a recuperare troppi studenti che avrebbero tutte le capacità per emergere, ma che invece si perdono perché privi di obblighi.
Il dibattito interno all’Unical è da tempo sopito, e non certo a causa della pandemia. Prova ne è l’assenza di interventi su questo dibattito così importante aperto da Bianchi. Negli anni ho cercato di stimolare qualche discussione sulla piattaforma d’ateneo ponendo l’accento su diversi problemi: da ultimi il disastro sanitario e gli scandali a sfondo sessuale che hanno interessato anche l’Unical, oltre che il livello degli studenti in ingresso. Non è servito a nulla, se non a scatenare reazioni scomposte che mai avrei voluto leggere su una piattaforma universitaria. Si potrebbe affermare che l’università è specchio della società. Ma l’Università forma la classe dirigente, e deve sempre dare l’esempio. O, almeno, dovrebbe.
Ingrid Carbone
ricercatrice Università della Calabria
* * *
Abbiamo pubblicato volentieri il contributo di Ingrid Carbone, ricercatrice dell’Unical e anche valente pianista. L’autrice evoca criticità anche gravi e diffuse in Calabria ma non tutte sono riconducibili al ruolo dell’università ed alle sue responsabilità. Tuttavia quanto denunciato dalla professoressa Carbone merita un approfondimento che, come è nostro costume, si fonderà attraverso una ricerca scrupolosa sul campo e ascoltando i diversi interlocutori che quelle criticità conoscono per esperienza diretta.
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