Categoria: Opinioni

  • Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Cosenza, vedi Napoli e poi… risorgi

    Reduce da un recente viaggio di lavoro a Napoli, nel muovermi per la città tra le bellissime stazioni della più originale metropolitana d’Europa e alcuni eccezionali Musei, mi torna ogni volta in mente quanto dobbiamo alla cultura napoletana nel nostro territorio, soprattutto a Cosenza e nella sua estesa provincia.

    Tra le cose che ormai da tempo mi colpiscono, la profonda differenza tra lo stato di degrado e illegalità diffusa di Cosenza, con la totale mancanza di rispetto di ogni minima regola civica, dal parcheggio in doppia/tripla fila, fino alla occupazione selvaggia di strade, marciapiedi, spazi pubblici ad opera delle automobili. Mentre scorgo che a Napoli, ancora di più oggi sotto la guida di Gaetano Manfredi, si torna ad osservare una città vivibile e ordinata, in cui i vigili urbani e polizia non sono chiusi negli uffici, ma si muovono in strada per garantire legalità e rispetto delle regole, soprattutto non fanno finta di non vedere la diffusa illegalità, ma la perseguono.

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    La stazione Toledo della metropolitana di Napoli

    Se ce l’ha fatta Napoli, perché non Cosenza?

    Mi chiedo, se ci sono riusciti a Napoli, che pareva luogo indomabile, perché a Cosenza, di gran lunga più piccola e controllabile, tutto questo non è possibile? Di chi le responsabilità? Perché non si agisce in direzione di un ripristino del rispetto minimo delle regole di vita quotidiana che peraltro paralizzano il traffico, non già a causa di qualche strada pedonalizzata, ma proprio per l’intasamento degli assi viari principali e secondari a causa di soste selvagge e illimitate e la enorme quantità di auto circolanti?

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    Cosenza, auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Tanta Napoli a Cosenza

    La seconda riflessione, senza dubbio più di visione e prospettiva, mi sovviene per la lunga sequenza di storie, esperienze, collegamenti che la storia ci ha consegnato nel rapporto tra Napoli e Cosenza, a partire dal nostro dialetto e dalle evidenti influenze terminologiche napoletane, fino alla cucina e alle arti minori e maggiori, come i segni evidenti nell’architettura religiosa e civile in cui tracce di modelli e manodopera napoletana sono fin troppo palesi.

    Una collaborazione da ampliare

    Da qui sorge la mia domanda del perché con Napoli, nel recente passato, e da lungo tempo, nessuno mai abbia pensato, soprattutto in ambito pubblico, culturale, museale, economico, di costruire una solida collaborazione, che vada oltre il consolidato canale accademico tra le università, e si prefigga lo scopo di una sinergia di lunga durata, capace di garantire un sostegno a molte attività locali che pagano il prezzo di un isolamento geografico e strategico, anche per la mancanza di centri urbani competitivi in Calabria.

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    L’Università della Calabria

    Napoli è una delle più grandi città calabresi (come Roma del resto), a poche ore di treno, a poche distanze etniche, con una importante dotazione di attività a vario livello, dai centri di ricerca, al commercio, alle fiere ed eventi di richiamo nazionale. Napoli è la cruna dell’ago da cui passa, sta passando, passerà un riscatto del Sud, e senza un legame con questa realtà, locomotiva lenta ma robusta, il rischio, della parte alta del meridione in cui Cosenza ricade, è perdere di vigore e capacità dinamiche.

    Dai musei di Napoli a quelli di Cosenza e Rende

    Per queste, e ancora altre ragioni, penso, ad esempio, alla condivisione di importanti opere d’arte, con strutture museali di Cosenza, Rende, altrove possibile, non solo perché a Napoli i depositi dei musei traboccano di opere che non si possono esporre per carenza di spazio – e in questa direzione va una recente direttiva del Ministero della Cultura, che prevede il prestito a musei di provincia di opere chiuse in depositi – ma anche per stabilire circuiti espositivi e culturali dinamici e attrarre qui, grazie a opere di peso, un certo numero di turisti interessati a percorsi culturali e d’arte.

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    Il Teatro Rendano di Cosenza

    Penso inoltre alla ridotta estensione e qualità delle nostre stagioni teatrali, e a come si potrebbe collegare a quella di teatri napoletani, anche sperimentali, per avere opportunità di inserirsi in circuiti significativi, e rinnovare un rapporto speciale che ha interessato le due culture, quella napoletana e cosentina, calabrese in generale.

    C’è da preoccuparsi

    Per questo viene in mente che alla costante perdita di attrattività, a favore di altre realtà urbane, Cosenza potrebbe almeno tentare di opporre una robusta collaborazione con realtà che possano, anche solo in parte, sottrarla a questo progressivo impoverimento, tra cui senza dubbio Napoli, per evidenti ragioni storiche e culturali. Al contrario, la deludente sensazione di questa stagione di fallimenti, corroborata, purtroppo dalla quotidianità cosentina, è che in questa città, ora e in precedenza, non sembra emergere una preoccupazione, collettiva, pubblica e privata, nel fare leva sulle significative opportunità latenti e allontanare la realtà sempre più deludente.

    Vedi Napoli e poi risorgi

    Cosenza sembra essere passata da una presunta dimensione nazionale ad una paesana, ovvero dalla ricerca di consenso attraverso un effimero marketing urbano, alla soluzione di problemi spiccioli, ignorando e seguendo nell’abbandono del grande e prezioso centro storico, il quale, nella costruzione di una visione di cosa potrà essere la città di domani, dovrebbe avere un ruolo centrale. Restano solo gli eccessi trionfalistici di faraonici sogni urbanistici che si infrangono con la mancanza assoluta di uno sguardo progettuale concreto, tanto visionario, quanto fattivo.

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    La statua di Alarico ai piedi dei resti dell’Hotel Jolly, che avrebbe dovuto ospitare un museo dedicato al re barbaro (foto Alfonso Bombini)

    Se “vedere Napoli e poi risorgere”, quindi non morire, come recitava la famosa frase, nelle forme più significative auspicabili, potrebbe aiutare Cosenza a rinnovare il suo presente e futuro, i passaggi non sono poi così complessi e impossibili, ma ancora una volta la volontà potrebbe vincere sull’immobilismo e sulla minaccia, incombente, di fallimenti.

  • Cosenza e Rende: due poli, una città

    Cosenza e Rende: due poli, una città

    L’ipotesi di dare vita a un’altra Cosenza, una Cosenza diversa che comprendesse un’area vasta, una realtà urbana che tenesse in conto realtà urbanistiche contigue non solo da un punto di vista urbanistico-funzionale ma anche culturale e per alcuni versi antropologico oltre che sociologico non è materia originalissima.
    La riprendono su queste colonne nei giorni scorsi e con accenti e contenuti intrecciati fra loro Giacomantonio, Paletta, Spirito e il direttore Pellegrini, prendendo spunto, presumo, da taluni segnali, o forse è il caso di definirli vagiti, che sono trapelati dalle agenzie.

    Cosenza e lo sviluppo verso Rende: ostacoli o interessi da tutelare?

    La contiguità topografica dei territori cis e ultra il Campagnano è evidenza inconfutabile sottolineata da fenomeni di conurbazione moltiplicatisi negli anni che rendono non distinguibili i contorni separati delle due città che si sono sviluppate lungo l’asse sud-nord in sinistra Crati. Un asse che tipizza lo sviluppo longitudinale sacrificando le aree meridionali in virtù di presunte insormontabili osticità di tipo morfologico e ortografico mentre, più in aderenza alla realtà, sarebbe il caso di parlare di rendite fondiarie e grandi proprietà.

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    L’Università della Calabria

    Perché, è da chiedersi, un’ipotesi di area urbana vasta, che mettesse insieme Cosenza, Rende e oltre, non è mai andata al di là di puntuali e singole enunciazioni? È mancata la volontà degli amministratori, l’adesione dei cittadini, l’autorevolezza dei proponenti, sufficiente chiarezza di intenti? È possibile, e il coacervo di tante cause insieme potrebbe dar conto del perché si è fermi al palo, ma parimenti induce a una verifica attenta e aggiornata, oggi, della sua percorribilità oltre che opportunità.

    Due poli, una città

    Anni fa, con Empio Malara ci mettemmo a tavolino, guardammo carte, studiammo, scrivemmo articoli, proponemmo di far nascere un’altra Cosenza, un’altra Rende, insieme a Mendicino, Castrolibero… Parallelamente l’Associazione Prima che Tutto Crolli aveva finalizzato la sua copiosa attività nella redazione e pubblicazione di un Libro Bianco, che aveva il suo fuoco, sì, sul Centro Storico cosentino ma ponendolo ed esplicitandolo come polo binario nei confronti di un altro polo, quello di Unical in territorio rendese. C’è un background, voglio dire, di lavoro, elaborazione, anche coinvolgimento che conserva attualità e, meglio ancora, lucida prospezione verso il futuro.

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    Il centro storico di Cosenza

    La storia e il futuro insieme

    È una sfida che occorre rilanciare, una sfida alta, che riprenda concetti basilari quali pianificazione e programmazione, che introduca anche da noi l’idea di città circolare, che metta al centro la cultura della storia, il Centro Storico cosentino, e quella del futuro, l’università.
    Un’attenta lettura del PNNR varato dal governo assegna un ruolo centrale ai sindaci e alle municipalità in generale, vero nodo nevralgico dell’impalcatura chiamata a gestire risorse finanziarie di portata più che considerevole, che richiamano una strutturale riqualificazione, una ridefinizione delle città, specialmente al Sud. Isaia Sales ne ha denunciato debolezze e limiti accresciuti progressivamente.
    A Villa Rendano, anni fa, la Fondazione Giuliani molto si impegnò in tal senso: forse i tempi non erano maturi, è probabile fosse necessario lasciar decantare ancora alcuni processi, oggi val la pena riprovarci.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario dell’Università della Calabria ed ex senatore della Repubblica

  • Il Grande Occhio che ci vede solo  brutti e cattivi

    Il Grande Occhio che ci vede solo brutti e cattivi

    Quella sera al Circolo Arci Metrò di via Zecca c’era aria di festa e batticuore, aspettavano la Bbc. C’era la band Cuori Selvaggi che arrivava da Messina, un pubblico curioso. La celebre emittente inglese, la nave scuola del giornalismo mondiale, aveva fatto una promessa: un servizio sulle realtà alternative di una Reggio appena uscita da una sanguinosa guerra di ‘ndrangheta, a quei tempi guidata da un sindaco che si era presentato dicendo «Noi siamo scalzi», Italo Falcomatà.

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    L’ex sindaco di Reggio Calabria – e padre di quello attuale (sospeso) – Italo Falcomatà

    Era la prima estate del ’95, Roberto Calabrò, avvertito da un dirigente Arci di Catanzaro, aveva raccolto un po’ di ragazzi impegnati, una meglio gioventù mai raccontata, che facessero da cornice al servizio televisivo.

    La Bbc in Calabria e quella figuraccia mondiale

    Ma quella sera la Bbc non arrivò mai: i Cuori Selvaggi – nome sicuramente ispirato a quello splendido film di Lynch in cui Nicolas Cage canta “Love me Tender” a Laura Dern nella scena finale – a un certo punto attaccarono a suonare, e la serata andò nel solito modo, a fare tardi in via Marina, con la delusione che arriva dopo le occasioni perdute. La troupe inglese, a poche centinaia di metri dal Circolo, era stata invece fermata dai carabinieri. Secondo molti testimoni oculari, fra i quali il fotografo Silvio Mavilla, i producer avevano cercato di piazzare in bella mostra siringhe usate, rifiuti e preservativi, per rendere più credibile il servizio sulla “Beirut d’Europa”.

    Non molto furbi, avevano scelto il salotto buono della città: erano stati scoperti subito, fermati, e quasi picchiati, da comuni cittadini. Ne seguì una polemica internazionale, e fu una delle poche volte in cui Falcomatà andò su un tg nazionale senza il suo sorriso. Ne parlarono anche in Perù. Per la Bbc fu una figuraccia mondiale, e io ci penso ogni volta che quel giornalismo viene portato ad esempio.

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    La sede della Bbc

    Stanotte ho sognato uno svolgimento diverso: la troupe arriva, scopre che i Cuori Selvaggi fanno buon rock, il servizio va in onda, un impresario londinese si incuriosisce, li chiama e cambia il loro futuro. Giuseppe, il leader del gruppo è invece rimasto a Messina, fa il giornalista ed è spesso disoccupato. Roberto Calabrò si è trasferito a Colonia per lavorare, dopo un lungo girovagare in Europa, e ha messo su famiglia. Il circolo “Metrò” ha chiuso: dopo alterne vicende, i locali sono finiti a una prestigiosa pizzeria, una delle cinquanta (contate male) della città. Chissà, in quel servizio mancato della Bbc sarebbe entrato anche quell’angolo di via Marina che guarda all’Etna, l’inviata sarebbe stata inquadrata sotto un monumentale Fico Mediterraneo. Sarebbero magari arrivati dei turisti dal Galles, avrebbero incontrato il Bronzo A fiero e il Bronzo B ombroso, questa piccola storia sarebbe andata in un altro modo. Allora non c’era internet, la tv aveva un altro peso.

    L’Etna innevato visto da Reggio Calabria

    Il Grande Occhio ti cambia la vita

    Il Grande Occhio dei media può cambiarti la vita. Ci penso tutte le volte che una testata nazionale e internazionale si avvicina o viene paracadutata da queste parti. E non c’è servizio che non abbia una coda di risentimento e polemica. Una fiction, una Piazza Pulita dedicata alla sanità, l’inviato di Le Monde che va a caccia di latitanti sull’Aspromonte (foto a tre colonne in prima pagina, due settimane fa): sono prodotti che vanno giudicati caso per caso. In generale, il Grande Occhio è piuttosto pigro. Per esempio, i cartelli dei paesi sforacchiati ci sono ancora? Magari bisognerebbe controllare prima di ripubblicare una foto. L’Aspromonte è un covo di latitanti o anche un meraviglioso percorso che si chiama Il sentiero dell’Inglese?

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    Uno scorcio del Sentiero dell’Inglese

    Il Grande Occhio arriva da queste parti quando sente l’odore, o il rumore, della tragedia. Una migliore copertura dei mass media sui disastri degli ospedali calabresi pre-pandemia, per esempio, avrebbe impedito la morte per covid di quella bambina di due anni di Mesoraca? No, forse il giornalismo non ha più questa forza. Eppure un Commissario è saltato proprio per un servizio di una tv. Prima del Covid, la sanità non era un argomento sexy, almeno non quanto la ‘ndrangheta (che ha messo sempre le mani sulla sanità, peraltro). Poi a Piazza Pulita i telespettatori hanno dovuto sentire Corrado Formigli che paragonava la Calabria al Burundi, Selvaggia Lucarelli ha invece tirato fuori la foto dell’indio dell’Amazzonia che portava a spalle il padre a fare il vaccino.

    Gli eterni pregiudizi sulla Calabria

    Evitare giudizi sommari, essere meno sbrigativi nei giudizi: questa sarebbe la strada più semplice. E cercare di conoscere meglio una delle aree più povere d’Europa. Questo descrivere sempre la Calabria come legno storto del paese, isola nella penisola, “la Regione più odiata”, come da ormai vecchio ma non dimenticato sondaggio dell’Espresso, può fare molti danni. Affidereste voi i soldi del Pnrr a una Regione che nella migliore delle ipotesi, non ha saputo spendere i fondi Ue? È il leitmotiv che passa sotto traccia dalle parti di Roma.

    Capisco il pregiudizio, del resto gli stereotipi hanno una base di esperienza e vita vissuta. La mia risposta è sì, a patto che ci sia un monitoraggio serio del governo, della politica locale, dei mezzi di comunicazione. Ma abbassare la quota di finanziamento pubblico, proprio servendosi dei parametri che la fanno povera come popolazione, natalità, prospettiva, significa condannarla al declino, all’abbandono. Vale per tutto il Sud, vale soprattutto per la Calabria. Servono progetti contro la solitudine.

    La voce dei cittadini

    Direte voi, ma che c’entra il Grande Occhio? C’entra tanto, perché orienta l’opinione pubblica e condiziona le scelte. Il Grande Occhio è (o dovrebbe essere) la voce dei cittadini. Prendiamo la storia (e l’immagine) del porto di Gioia Tauro. Nel 90% dei reportage, è descritto come il porto dei sequestri di cocaina. Per il 10% (per lo più sui quotidiani economici), come il primo porto d’Italia per movimento container. Non credo che per Rotterdam o Tangeri (dove i sequestri di droga sono frequenti) le percentuali siano le stesse.

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    Container nel porto di Gioia Tauro

    Il Grande Occhio mette ovunque la famosa “mano della ‘ndrangheta” (formula e titolo abusatissimo) pure dove non c’entra nulla. E spesso in Calabria si confrontano i due estremi: siamo schiavi, il territorio è tutto controllato delle cosche (ma a questo punto, questa presenza così imponente della magistratura e di qualità, quali effetti ha?). E la corrente “garantista”, quella che dice che certe inchieste finiscono sempre con assoluzioni e proscioglimenti. I due estremi si fronteggiano sui social, in un dialogo spesso indecifrabile, la stessa antimafia è divisa. Anche qui, vedo tanta pigrizia. Io mi sento rassicurato dai magistrati che lavorano in Calabria, ma so che possono sbagliare, come sbagliamo tutti nel nostro mestiere. E allo Stato e al governo ne chiederei di più.

    La Calabria dai mille volti

    Di Calabria non ce n’è una sola: Gerhard Rohlfs, che era studioso dei dialetti, riusciva perfino, lui tedesco, a fare l’interprete fra due che arrivavano da versanti diversi della stessa montagna. Ci sono medici mafiosi e medici eroi, in ospedale troverete un reparto modello e accanto uno da cui scappare. Un paese a portata d’occhio sta a un’ora di auto. Nell’Università di Cosenza aprono start-up giapponesi, ma da quelle parti non c’è una strada decente Jonio-Tirreno e la 106 rimane la strada della morte.

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    L’ingresso dell’università dell’antimafia a Limbadi, intitolata alla studentessa Rossella Casini

    Tropea accoglie migliaia di turisti tedeschi, che mai investirebbero mezz’ora per arrivare a Limbadi, che oltre ad essere la terra del clan Mancuso, è un paesino di buona agricoltura e di larghi panorami, e sede di una meravigliosa Università intitolata a Rossella Casini, una ragazza fiorentina vittima di ‘ndrangheta, a cui sono intitolate scuole in tutta Italia. Nessuno ha mai suggerito loro questa estensione del viaggio. Studiare, distinguere, non affidarsi ai giudizi in bianco o nero: se la grande informazione lo fa, i cittadini ringraziano.

     

  • Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Stampa e Calabria: la libertà va difesa ogni giorno

    Si sono aggiunti tanti sostenitori alla denuncia contro l’attacco alla stampa libera che ieri I Calabresi e numerose altre testate della nostra regione hanno pubblicato. Ma non può bastare. Le adesioni delle associazioni di categoria e di numerosi politici al nostro appello contro l’abuso di querele temerarie non erano scontate come potrebbe sembrare. Neanche quelle dei lettori comuni, in un mondo che dei giornali ha un’opinione sempre più in declino. Fanno piacere, spingono ad andare avanti con ancora più impegno, ma non cancellano il retrogusto amaro del silenzio prolungato su un tema così importante che opprime la Calabria.

    Già, la Calabria, non solo i giornalisti. Perché la posta in gioco non è la tranquillità soggettiva del giornalista sotto la perenne spada di Damocle delle querele temerarie. Quella si può ottenere senza troppi problemi, volendo. Basta non scrivere cose scomode, annacquarle fino a renderle irrilevanti agli occhi del lettore. Qualcuno lo ha già fatto o ha preferito cambiare mestiere. Tanti altri, in tutti i giornali calabresi, continuano a rifiutarsi. Perché? Perché un’informazione irrilevante, prona agli interessi di poteri più o meno occulti, poco diffusa sarebbe il colpo di grazia per la Calabria. Per la sua società civile. Per la voglia dei suoi abitanti di essere parte attiva e pensante di una crescita improcrastinabile che passi dal raddrizzare le tante storture e valorizzare l’immenso patrimonio, umano e non, di questa terra.

    Ed è un problema enorme per tutti quando a vacillare è un diritto costituzionale come la libertà di stampa. Anche di quelli per cui la stampa libera è buona solo quando parla bene di loro o di chi e cosa gli piace, paladini pronti a trasformarsi in persecutori al primo articolo sgradito. Sgradito, si badi, non diffamatorio. Chiunque – i giornalisti sono i primi a saperlo e assumersene le responsabilità – può chiedere giustizia per un articolo sul suo conto se ritiene lo abbia offeso. Ma spetta ai magistrati valutare la fondatezza, la proporzione di certe richieste e lamentele. Se esse siano degne di sfociare in un processo o meno. Se, peggio, risultino invece malcelati tentativi di intimidazione. Spesso certi aspetti, niente affatto marginali, non godono della necessaria attenzione da parte della magistratura.

    È necessario dirlo, qui a sbagliare possono essere in tanti: i giornalisti quando non lavorano come dovrebbero; gli editori quando non tutelano i loro dipendenti; i politici, le associazioni e gli imprenditori quando difendono la libertà di stampa a seconda del momento; i magistrati quando costringono per leggerezza qualcuno a difendersi solo per aver fatto correttamente il proprio lavoro. A perderci, però, sono ancora di più: tutti i cittadini, privati di un fondamento della democrazia come l’informazione libera.
    E una situazione simile, diffusa in tutto il Paese, in Calabria crea ancora più danni. Non possiamo permettere che diventino irreversibili.

  • Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    Città unica, la farsa dei sindaci che non dà voce ai cittadini

    La discussione sulla città unica ha assunto negli ultimi tempi toni farseschi, legata a questioni che attengono più alla forma che alla sostanza. Un ragionamento su un’area così detta vasta richiede un approfondimento sulle strategie che si vogliono adottare e sui fini che si vogliono raggiungere. Non stiamo parlando di un mero atto amministrativo. Pertanto, non può essere appannaggio delle decisioni di chi governa demandando la partecipazione al semplice referendum. Le decisioni che comportano sostanziali modificazioni dell’assetto del territorio anche in termini di governance hanno una ricaduta importante sulle popolazioni che vi abitano. E richiedono atti di condivisione e partecipazione concreta attraverso momenti assembleari e pratiche di comunicazione trasparente.

    Studiare cosa comporterebbe la città unica

    In quest’ottica occorre sapere cosa comunicare e cosa far condividere. Perciò occorre una fase di studio e approfondimento di tutte le implicazioni che comporta un atto che, anche se indirettamente, modifica un sistema territoriale.
    Importante intanto è l’approccio ad un tema che rischia di privilegiare l’aspetto strutturale e renderlo prevalente rispetto a quello che definiamo ecosistema. Ricordo che l’alta valle del Crati, in cui ricadono i comuni oggetto dell’eventuale fusione, è un’area che presenta delle complessità per la presenza di un fiume che per sua natura rappresenta un segno caratteristico di un territorio più vasto fino alla foce.

    Inoltre siamo in presenza di una popolazione notevole con una rete complessa di relazioni che trovano poi il loro fulcro nella città. Ciò richiede una certa attenzione proprio per il miglioramento di tali relazioni in presenza anche di dinamiche centripete che causano lo spopolamento delle aree marginali e dei borghi con l’aggressione delle aree periurbane. Inoltre, non dobbiamo scordarci che siamo in una fase di ristrutturazione di alcuni servizi essenziali quali i presidi sanitari, la gestione dei rifiuti, oltre al contrasto al dissesto idrogeologico.

    Il nome? L’ultimo dei problemi

    Sono questi i temi che bisogna affrontare con serietà in un’ottica di integrazione nel rispetto del patrimonio territoriale coinvolto e non ridursi a promuovere forme di dialogo tra gli amministratori o preoccuparsi di quale nome dare alla futura città. Su quest’ultimo problema speriamo che prevalga il buon senso e che si attinga ai processi storici sedimentati e non si lasci spazio a fantasie e sigle che hanno il solo scopo di non scontentare nessuno. Rimane il fatto che il nome sarà solo la bandiera da piantare su una costruzione che dovrà essere solida e reggere nel tempo.

    Una città vive di tempi storici e non della caducità di una esperienza amministrativa. Voglio ricordare che il sindaco non è chiamato a caso “primo cittadino”, ma bisogna finirla con il continuare a porre l’enfasi sul termine “primo” mentre rimane a casa il “cittadino”. Noi intendiamo questo ruolo come primus inter pares. E, in quanto tale, ogni sua decisione che coinvolge la vita della cittadinanza deve essere da questa condivisa.

    Pietro Tarasi
    Presidente Coordinamento “Progetto Meridiano”

  • Intanto c’erano ancora i partiti

    Intanto c’erano ancora i partiti

    “Le pagelle dei calabresi in Parlamento” è il titolo di un arguto articolo apparso di recente su queste colonne in cui l’autore passa in rassegna le attività degli eletti alla Camera e al Senato della nostra regione.
    Il tono stesso dell’articolo è leggero, i contenuti sono da divertissement in agrodolce e forniscono al lettore un quadro di cosa può comportare essere un rappresentante del popolo nelle massime assemblee elettive.

    Quando c’erano i partiti

    Mi ha riportato alla memoria vecchi ricordi, suggestioni di qualche lustro fa quando la Repubblica era un’altra Repubblica, la legge elettorale un’altra, pure l’Italia, forse, un’altra. Intanto c’erano i partiti, gli ultimi fuochi parafrasando F.S. Fitzgerald, delle centrali intermedie fra elettori e istituzioni; poi le pattuglie degli eletti (ricordiamolo, ogni tanto: da eligo) periodicamente riferivano all’opinione pubblica della loro attività, e c’era pure chi invitava stampa e tv locali a recarsi nei palazzi e monitorare la giornata tipo romana di deputati e senatori. Giornata che non era – testimonianza diretta – fatta di glamour e sfaccendatezze, tanto per sfiorare gli aspetti esteriori, ma di lavoro, lavoro nelle Commissioni e in Aula, di documentarsi, elaborare, essere presenti e non solo, e comunque, fisicamente, con un occhio al “territorio”, un altro al paese e un altro ancora ci sarebbe voluto per…

    Autopropaganda

    Quell’invito non fu raccolto ed è – possiamo dirlo anche oggi – un peccato: forse si dovrebbe riproporre, perché aiuterebbe forse a comprendere. Comprendere che le interrogazioni parlamentari sono sì una prerogativa dei membri del Parlamento ma che gli atti di sindacato ispettivo – così si chiamano, aulicamente – servono, come pure le mozioni e in genere gli atti di indirizzo, ma servono più che altro, direi servivano un tempo, come mezzo più che altro di propaganda.

    Il collegio elettorale e il Paese

    Invece uno strumento utile era, ed è ancora quello che conduce a mixare efficacemente rappresentanza con responsabilità, rendersi conto e diffondere cioè la cultura di farsi carico dei problemi dei collegi in cui si è, o meglio era, eletti con quelli del partito in cui si eletti e con quelli del Paese.

    Quali sono i momenti lungo i quali si invera, e si verifica validandolo, questo mix fino a considerarne efficacia e prima ancora praticabilità? È un processo lungo, non lineare, non definito né definibile se non dentro le coordinate che fanno capo alla cultura politica, al rispetto istituzionale, alla “comprensione” reciproca fra eletto e elettore nelle sedi in cui tale comprensione s’ha da effettuare. Quindi proposte di legge, coordinamento fra parlamentari in ambito geografico e partitico, relazioni non formali con i ministeri, mettendo da parte e non alimentando falsi miti o non praticabili suggestioni di inesistenti deus ex machina.

    Se in talune circoscrizioni e per alcune parti politiche questo si realizzava – ricordo – con ricadute positive, per altre imperava il solipsismo tipico delle nostre latitudini, con gli effetti facilmente prevedibili. Ma questo, tutto questo apparteneva a un altro mondo, a un’altra Repubblica.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Gioia Tauro, come distruggere competitività e investimenti a colpi di retorica

    Gioia Tauro, come distruggere competitività e investimenti a colpi di retorica

    Nel decreto Sostegni ter il Governo ha disposto, tra l’altro, la soppressione della riduzione (al 30%) dell’accisa sui prodotti energetici utilizzati “nei trasporti ferroviari di passeggeri e merci”. Come spesso accade, la mano destra non sa cosa fa la mano sinistra. Mentre ci si continua a sciacquare la bocca di intermodalità e misure per favorire il riequilibrio modale, in nome della transizione ecologica, puntualmente, per calmierare gli effetti degli incrementi dei costi energetici sulle bollette, si spezzano le gambe al trasporto ferroviario nel suo segmento più delicato e vulnerabile, vale a dire le manovre nei porti, negli interporti e nei raccordi industriali.

    Sembra quasi una congiura giocata nel silenzio. Le manovra costituiscono uno degli elementi più delicati tra le operazioni ferroviarie, perché sono costose ed avvengono proprio nei luoghi che possono alimentare maggiormente i traffici. A cosa serve che nel PNRR siano previsti investimenti per migliorare la qualità dei raccordi ferroviari nei porti se poi si determina un appesantimento dei costi industriali che spiazza la competitività della soluzione ferroviaria?

    Gioia Tauro e la retorica della politica

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    Accade troppo spesso, e sempre più spesso, nel nostro Paese che la distanza tra retorica della politica ed interventi di politica economica si allarghi a dismisura, fino a diventare insostenibile. Pensiamo al porto di Gioia Tauro, che per decenni ha inseguito la propria competitività anche sulla capacità di giocare la carta intermodale.
    Ora che finalmente, dopo ritardi davvero inenarrabili, si comincia a disporre di una architettura infrastrutturale sostanzialmente adeguata, questa misura allontana la possibilità di mettere in campo una soluzione di connessioni ferroviarie capace di allargare la catchment area del mercato potenzialmente servito.

    Viene davvero da chiedersi se sia mai possibile continuare con un meccanismo di interventi pubblici così scoordinati e pasticcioni. Per ottenere incassi davvero ridicoli da questa manovra, si buttano all’aria investimenti da decine e decine di milioni di euro.
    Al prossimo convegno, il politico di turno si alzerà a parlare e declamerà l’auspicio di un futuro intermodale per il porto di Gioia Tauro. Sarebbe finalmente il caso di cercare di imitare il quasi inimitabile Antonio De Curtis, in arte Totò, intonando senza tema di smentita una sonora pernacchia.

  • Nessuno tocchi il mio Telesio

    Nessuno tocchi il mio Telesio

    Chi ha “vissuto” il Liceo classico Bernardino Telesio nei miei stessi anni sa benissimo che tra me e la dirigenza c’è stato un rapporto quinquennale di odi et amo, non sempre idilliaco insomma, con fasi molto positive, ma anche con aspetti negativi. Non è facile avere a che fare con il carattere del dirigente Antonio Iaconianni. Nonostante ciò ho sempre cercato di essere il più obiettivo possibile.

    In un momento delicato come quello che sta attraversando il mio liceo, sento il dovere morale di esprimere la mia opinione in qualità di “prodotto” del modello formativo del Liceo cosentino e come testimone diretto del Convitto Nazionale “B. Telesio” (eh sì, hanno lo stesso nome) essendone stato ospite per quasi quattro anni. Nelle ultime settimane attraverso articoli di giornale e social media sono stato informato sui fatti che coinvolgono la mia ex scuola e sulle numerose critiche indirizzate soprattutto al suo dirigente, oggetto di numerose polemiche da parte di studenti, di famiglie e anche di commentatori di ogni tipo. A dar inizio a tutto è stata l’occupazione da parte degli studenti della sede distaccata del liceo, “Le Canossiane”, da poco inaugurata.

    L’ira della “comunità cosentina” si è indirizzata, in particolare, nei confronti di Iaconianni, accusato di guidare il liceo Telesio in modo “manageriale”, cioè di aver “privatizzato” la scuola pubblica. A molti, inoltre, non è piaciuto l’ampliamento della offerta formativa, che ha aggiunto negli anni nuovi indirizzi al tradizionale liceo di ordinamento, quali il “Cambridge”, il “Biomedico” e il “Quadriennale”. Ciò ha permesso, tuttavia, che le domande di iscrizione aumentassero sensibilmente negli ultimi anni, al punto di far diventare il Telesio il liceo classico italiano con il più alto tasso di studenti iscritti per nuovo anno scolastico.

    La scintilla che ha fatto scoppiare le polveri, insomma la colpa più grave di Iaconianni – questa l’accusa -, è stata quella di ospitare nella struttura liceale il Convitto Nazionale. Il Convitto – la cui sede originaria è a pochi metri dal Liceo – aveva visto scendere praticamente a zero gli studenti convittori e semiconvittori a causa della fatiscenza dell’edificio e della lunga ristrutturazione ancora in corso. Nominato reggente anche di questa antica istituzione, l’ingegnere Iaconianni tre anni fa ha pensato che per poterla rilanciare bisognava ottenere prima il consenso della Provincia, proprietaria degli immobili scolastici, e poi delle famiglie dei futuri studenti delle elementari e medie.

    Il primo passaggio è stata la costruzione di una mensa moderna, e poi di una offerta formativa che abbinasse ai tradizionali studi elementari e medi i corsi di inglese del Cambridge e, perfino, l’accompagnamento a scuola con specifici bus per i piccoli studenti del Convitto. Non esistendo più l’edificio del Convitto nazionale il dirigente ha ricavato le aule dentro quello del Liceo.

    Il problema: con l’aumento del numero dei bambini delle elementari e dei ragazzi delle medie (tutti studenti del Convitto) gli spazi hanno iniziato a scarseggiare, e questo ha portato alla decisione di spostare parte dei “telesiani” nell’antico edificio delle Canossiane, ristrutturato con qualche ritardo dalla Provincia. Visto da un’altra prospettiva, quella delle famiglie dei convittori e dei lavoratori del Convitto, il risultato è stato invece straordinario: mezzi e strutture di alto livello e crescita dei posti di lavoro. Credo si possa dire che se ci sono responsabilità del dirigente, forse ben più gravi sono quelle della politica locale che, da una parte, non ha provveduto a ristrutturare il Convitto (la Provincia), e dall’altra, non ha più istituito le “borse di studio” per aiutare le famiglie a pagare la retta convittuale (Comune di Cosenza).

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    Il preside del liceo classico di Cosenza, Antonio Iaconianni (foto A. Bombini) – I Calabresi

    In una situazione del genere, soprattutto se non ben spiegata, è quasi normale reagire d’impulso come hanno fatto i liceali del Telesio, che hanno inneggiato al mantenimento dell’unità studentesca pretendendo di rimanere tutti insieme nell’edificio di piazza XV Marzo. Con l’occupazione delle “Canossiane” è partita anche una bufera mediatica che mi ha lasciato perplesso e con l’amaro in bocca. All’improvviso il mio Telesio sembrava divenire il male assoluto.

    Vorrei proporre una riflessione più obiettiva possibile, cercando di tenere da parte la mia esperienza personale a favore di una visione collettiva. Dal mio punto di vista la dirigenza ha sbagliato in molte cose nel corso di questi anni. Alcuni errori li ho vissuti sulla mia pelle, altri li ho visti ricadere direttamente sulla vita quotidiana della comunità telesiana. Ho imparato però che nella vita non bisogna giudicare solo in base agli errori. Errare è umano e tante volte non è altro che segno di attivismo. Il “non facere” è semplice: non si rischia mai di sbagliare. Per non cadere nel tranello di fidarsi delle apparenze bisogna avere una visione d’insieme.

    Nonostante qualsivoglia errore, il liceo Telesio negli ultimi anni (e proprio grazie alla dirigenza Iaconianni) ha raggiunto dei risultati eccezionali per una scuola del Meridione (è scomodo da dire, ma al Sud è tutto più difficile) e soprattutto per essere un liceo classico (indirizzo in crisi da anni in Italia). L’eccezionalità del “Telesio” l’ho notata subito. Mi sembrava diverso da tutte le altre scuole calabresi. E questo fu il motivo principale per il quale decisi di cambiare scuola al secondo anno delle superiori. Da un istituto tecnico di Lamezia Terme, dove risiedevo, mi trasferii al “Telesio” per frequentare il suo Liceo Classico Europeo, uno dei pochi in Italia. Per farlo chiesi di essere convittore, cioè studente residente, nel contiguo Convitto Nazionale. Ho avuto modo, quindi, di vivere a 360 gradi l’esperienza delle due istituzioni.

    I due “Telesio” sono stati un’ottima palestra di vita. Negli anni hanno subìto numerosi cambiamenti, sempre peggiorando il Convitto, e non per colpa degli educatori, ma per il disinteresse dei politici, e migliorando il Liceo per la cura che dirigente e docenti mettevano nel lavoro. Comunque sia, grazie a loro ho avuto l’opportunità di vivere un’esperienza unica. Come dimenticare le nuove modalità didattiche che ci hanno portato all’esterno delle aule in mille attività extra scolastiche, come la Robotica (in un liceo Classico!), la Tv Radio web, il teatro, il gruppo di lettura, la partecipazione ai festival culturali da protagonisti e i gemellaggi con scuole italiane e straniere? Sono soltanto alcuni esempi delle numerose “offerte” che puntualmente venivano pubblicizzate dal sito web del Telesio.

    “Controllate quotidianamente il sito per non perdervi nessuna opportunità”, ci diceva Iaconianni quando passava per le classi nella sua “ronda mattutina”. Ed era vero. Bastava distrarsi al momento sbagliato, e si riempivano tutti i posti disponibili per quell’attività a cui avresti voluto tanto partecipare. Ogni anno la scuola si impegnava direttamente ad organizzare scambi internazionali, cercando e selezionando scuole partner in tutto il mondo. Questi erano sicuramente il fiore all’occhiello della mia scuola, una delle esperienze più formative in assoluto nella vita di un adolescente.

    Quello che più mi è piaciuto, però, fu l’inaugurazione della biblioteca del nostro liceo, intitolata al giurista calabrese Stefano Rodotà. Nel seminterrato della scuola giacevano da molti anni in disordine e nella polvere migliaia di libri. Non ne veniva valorizzato il potenziale. Per opera della dirigenza, degli insegnanti e degli studenti è stata riqualificata inserendola in spazi nuovi e gradevoli. Oggi la Biblioteca “ Rodotà” è divenuta la più grande biblioteca scolastica del Mezzogiorno ed è a disposizione di tutta la comunità cittadina con volumi dal valore storico inestimabile.

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    La biblioteca del liceo classico Bernardino Telesio di Cosenza (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Non si possono condannare con superficialità anni di lavoro per colpa di qualche decisione dirigenziale che può apparire sbagliata. Non ho nessun interesse da difendere, ma – viste da lontano – mi infastidiscono alcune polemiche che, invece di puntare al bene comune, mi appaiono strumentalizzazioni di parte o “vendette” personali. Il “Telesio” è un grande liceo classico. Ne ho avuto conferme ripetute volte dopo il diploma. Confrontandomi con i miei colleghi universitari a Milano ho notato come un buon liceo sia cruciale per la formazione e di come io sia stato fortunato ad aver frequentato il liceo Telesio.

    Mi sono reso conto che non era eccezionale solo al Sud, ma era un esempio di ottima scuola conosciuta in tutto il territorio italiano. In ragione di tutto questo, vorrei esprimere vicinanza e solidarietà ai miei ex professori e al mio ex preside per tutte le “brutte parole” che stanno subendo in queste ultime settimane. Andate avanti. La scuola italiana è al collasso e non è per niente al passo con l’innovazione che stiamo vivendo. In questa decadenza i casi come quello del liceo “Telesio” fungono da modello virtuoso per tutte le comunità scolastiche.

    Saad Tarybqy
    Ex convittore e studente del Liceo classico “B. Telesio”

     

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    Siamo lieti di pubblicare la lettera di un giovane che ha vissuto l’esperienza di studente del liceo Telesio e dell’omonimo convitto.
    Di quei quattro anni trascorsi a Cosenza Saad conserva orgogliosamente un positivo e persistente ricordo al punto da qualificarsi «per sempre telesiano».
    L’orgoglio e la gratitudine per il liceo classico cosentino sono comuni a decine di migliaia di giovani e di ex giovani che lo hanno frequentato nella antica e nuova sede.
    Se una scuola merita il ricordo grato dei suoi alunni e delle loro famiglie, se – addirittura – come nel caso del Telesio, si colloca in una virtuale classifica nazionale tra le più prestigiose, questo va a merito dei dirigenti, dei professori, del personale e degli stessi studenti .
    Noi abbiamo scritto che dalle critiche e dal dissenso, in sé legittimi, non è immune neppure una scuola di eccellenza oggi guidata da un dirigente stimato e apprezzato, ma anche criticato per iniziative da lui assunte ma non generalmente condivise.
    Per questo avevamo chiesto al dirigente Iaconianni di spiegare e motivare le sue scelte per non lasciare che le voci legittimamente critiche fossero prevalenti. Ma ha preferito declinare il nostro invito.

    Ora la lettera del giovane «europerista, convittore e telesiano sempre» offre una testimonianza sui frutti che la sua formazione ha tratto dal Telesio, soprattutto dal suo attuale dirigente e dai docenti, pur non rinunciando ad un atteggiamento critico quando necessario, che è il complemento della cultura e della passione civile. (F. P.)

  • Checco Zalone, Sanremo e la Calabria degli stereotipi

    Checco Zalone, Sanremo e la Calabria degli stereotipi

    Checco Zalone lo sa bene: se si parla di Calabria al grande pubblico – tanto più a Sanremo – meglio evitare la solita solfa a base di ‘nduja/soppressata, accenti un po’ sbilenchi, luoghi comuni e optare per le lodi sperticate. Per quella c’è già (e pagato pure meglio di lui) Muccino. E poi chi non lo fa dovrà scontrarsi con l’ira funesta di quella parte di regione che sistematicamente si inviperisce – non a tutti torti molto spesso – per la narrazione a tinte cupe, quando non grottesca, di una terra che alle tante ombre alterna anche luci di accecante splendore. Pure stavolta infatti, dopo l’apparizione del comico pugliese con Amadeus sul palco dell’Ariston, è scattato l’immancabile coro d’indignazione sui social. Meno unanime del solito, ma pur sempre ben nutrito.

    La Calabria di Checco Zalone

    La caricaturale Calabria di Checco Zalone, tuttavia, sembra né più né meno lo scenario perfetto per un breve show in forma di Cenerentola piccante che mira proprio a demolire gli stereotipi. Sketch non epocale, per carità, ma fondato su un meccanismo che è un grande classico della comicità, che dagli stereotipi ha sempre tirato fuori materiale a bizzeffe: si prendono, si gonfiano all’inverosimile e poi si fanno scoppiare. Zalone a Sanremo lo ha riproposto usando quelli sulla regione stereotipata per eccellenza, la Calabria, per demolirne altri, quelli sulla sessualità, e i pregiudizi a riguardo. Quale ambientazione migliore per provare a farlo?

    De Andrè a Sanremo

    Quello che ha raccontato Checco Zalone col consueto stile prosaico riecheggia a suo modo La Città vecchia di De Andrè. A Sanremo ieri, come nei più poetici ma altrettanto beffardi versi della canzone di Faber, c’era il professore che cerca disperatamente quella che disprezza di giorno, ma che di notte stabilisce il prezzo alle sue voglie. Con un dettaglio anatomico in più, per allargare il discorso all’intera comunità LBGTQ+. Una presa per i fondelli in piena regola dell’omofobia, col più stereotipato – melius abundare quam deficere – dei luoghi comuni: l’ipocrita che schifa in pubblico chi desidera di nascosto.

    Nessuno è perfetto

    La Calabria, insomma, più che il bersaglio di Checco Zalone sembra solo l’olio per provare a far girare al meglio gli ingranaggi del meccanismo del comico. Tentativo riuscito, fallito, felice o meno, forse poco importa. In fondo basterebbe ricordare tutti – anche (se non specie) da queste parti – che coi loro pregi e difetti i calabresi non sono a priori diavoli o santi, tantomeno perfetti. Più semplicemente (come chiunque), per restare a De Andrè, «se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo». Magari un po’ più permalosi della media, però ogni tanto ci possono ridere su anche loro. Chissà che non serva a demolire qualche altro stereotipo anche quello.

  • Andate in pace, La Sposa è finita

    Andate in pace, La Sposa è finita

    Confesso: io la fiction La sposa non l’ho vista per intero. È grave? Dopo la prima puntata non ho resistito oltre. Ho cambiato canale senza rimpianti. Ora che la miniserie, molto vista in tv, che ha fatto scontenti sia tra calabresi che veneti, si è conclusa, restano i fatti che la fiction evoca.

    Le calabresi vendute e comprate

    Conviene soffermarsi sul dettaglio che da queste parti brucia di più. Sì, le calabresi negli anni ’50 e ’60 venivano comprate e vendute nelle campagne e nei paesi. E un sensale se le poteva portare in giro per piazzarle spose per procura dove più servivano. Dove mancavano braccia per il lavoro e donne per far figli. Nel Veneto zoticone e cattolicissimo, nella pingue bassa mantovana (ho tre cugine maritate così che hanno messo radici a Gazzuolo, Viadana e Pegognaga, e costruito con sacrifici e fatica il successo del loro melting pot padano tra forme di parmigiano, biolche di terra grassa e stalle con centinaia di vacche), nella nebbiosa conca pavese (quando andavano spose ai “pavesini”), nelle Langhe non ancora slowfooddizzate, nelle valli strette e assolate dell’alto imperiese, dove le ragazze di Calabria si sono industriate con ortaggi, limoneti e i fiori di Sanremo.

    Orfane di guerra, zitelle, figlie di famiglie contadine povere e numerose erano nel Sud immiserito del secondo dopoguerra, bocche da sfamare. Una eccedenza demografica divenne così una “risorsa” utile. L’esogamia obbligata era una delle poche opzioni possibili.
    Alla base dell’emigrazione forzosa di queste donne e di queste forme di “commercio” (fenomeno molto doloroso e ben noto agli studi antropologici), operava un principio antico quanto la cultura patriarcale. Quello che consentiva, fondandosi su un piano materiale e simbolico, di scambiare le donne, considerate elemento mobile delle organizzazioni parentali, e di destinarle a forme di circolazione economica primaria.

    La povertà non fa sconti

    Questi fatti, giocati sul corpo vivo delle donne, quasi mai con il loro consenso, hanno consentito il compimento di uno scambio circolare che da primario è diventato subito dopo culturale, consentendo la comunicazione e la sintesi tra gruppi umani diversi. Capitava nelle famiglie contadine del Sud e alle ragazze dei paesi più poveri. La povertà è brutale e non fa sconti. Ma questo “commercio rituale” delle donne si estendeva anche alle strategie di case regnanti, nobili e borghesia più ricca. Da quelle donne portate via dai sensali di paese in Calabria sono nati nuovi sistemi di parentela e relazioni più estese, una comunità più larga dei confini tradizionali delle regioni di appartenenza. Anche così è nata l’Italia contemporanea. Così è nato il boom dell’Italia degli anni ’60 e la società di cui tutti siamo figli e nipoti.

    Senza scrupoli

    Piaccia o no si tratta di una invarianza transculturale, l’esogamia obbligata, che pratichiamo ancora. Anche in forme più nuove, persino più strumentali e spietate nei confronti delle donne. Quelle degli altri però, e adesso a parti invertite. Noi oggi “compriamo” e “importiamo”, persino con minore scrupolo e con interessata disinvoltura, le nigeriane sulla strada o le ragazze dell’est che finiscono nei club, le operaie e le lavoratrici immigrate che alimentano l’economia a basso costo del nord-est industriale, le donne rumene, moldave, polacche a “servizio” di vedovi, anziani e malati a cui fanno “compagnia”. Quelle donne che ogni giorno, sole a casa nostra, si occupano di tenere in vita i nostri vecchi scaricati nella solitudine dei nostri paesi ora spopolati, affidati loro da famiglie, le nostre, indurite da crisi di valori e nuovi egoismi.

    La Sposa delle polemiche

    Nel frattempo attorno alle polemiche sulla fiction La sposa si sono infittite le solite proteste e le “provocazioni”. Nei giorni scorsi Antonio D’Orrico, autorevole firma calabrese del CorSera, mi ha chiesto da antropologo e da calabrese cosa pensassi delle polemiche sorte intorno alla fiction e di questo narcisismo etnicista e difensivo che si è scatenato su stampa e social. D’Orrico ha poi fatto da par suo sulle colonne del Corriere un’ottima sintesi del caso. Insieme ci siamo fatti pure due risate per il rituale, scontatissimo, dell’“interessante dibattito culturale”.

    C’è il riflesso pavloviano delle opposte fazioni e le indignazioni pelose degli estremismi “autenticisti” di su e di giù. Gli alti lai corrono dai balconi di Giulietta ai proclami rivendicativi dei soliti, remoti, fasti magnogreci. Reprimende indignate ed esaltazioni acritiche riempiono i social anche dopo l’ultima puntata di ieri. Tutto uno spreco di enfasi partorita da un nutrito corteo di intellettualoidi che farebbero molto meglio ad adontarsi per fenomeni sociali e realtà ben più concrete e vicine, per punti di degrado civili e culturali dei rispettivi fronti ben più attuali e sconfortanti dell’attendibilità di un prodotto di puro intrattenimento televisivo.

    Insomma, ancora una volta, “molto rumore per nulla” – che pure se shakespeariano è sempre roba che succedeva a Messina e giù di qui. In nessun angolo dell’Occidente civilizzato si pretende dagli intenti di un regista di televisione o di cinema impegnato in una produzione spettacolo, di difendere la conformità ad astrusità ideologiche come il riscatto, la verità, l’identità di una regione. Un compito degno di un’azione umanitaria che si svolga sotto l’alto patrocinio dell’Unesco o delle Nazioni Unite. Sono decenni che le variopinte e ripetute operazioni di riverginatura mediatica della regione galleggiano tra lo sproposito e il ridicolo, azzoppate da una cronica mancanza di misura che spesso aggrava la già appannata esposizione mediatica di una regione che resta avvolta (ma per colpa di chi?) da una reputazione che non va oltre i soliti cliché folkloristici e le cartoline di un catalogo di ovvietà e travestimenti d’avanspettacolo.

    La Calabria dei cliché

    Ci si aspetta che ogni prodotto tv, ogni iniziativa artistica, di spettacolo o di intrattenimento popolare si debba trasformare obbligatoriamente in una campagna mirata alla creazione di un percorso di simpatia e di superamento di pregiudizi e luoghi comuni che preoccupano la regione e i suoi abitanti. Come se la Calabria fosse solo un prodotto da vendere nel mercato della fiction, nelle immagini della comunicazione o alla borsa del turismo. È una regione. Un insieme di comunità e di culture differenti e stratificate da millenni. Tutte tessere di un mosaico che compone il profilo di una società e di una storia. Il rischio è che per uscire quindi dai più vetusti cliché sulla Calabria infelice e irredenta si ricorra ad altri cliché. Solo più nuovi, più patinati e alla moda.

    Questa volta è Campiotti, ma la mano non cambia la musica. Altre manipolazioni al posto delle vecchie icone della Calabria statica e protomoderna (le ragazze tastate in piazza, le facce dei pastori e dei contadini inebetiti dalla fatica del latifondo, le donne con lo scialle nero, gli emigranti con la valigia di cartone, la ‘ndrangheta, il folklore abborracciato). Ci sarebbe bisogno di aggiornare il catalogo. E invece no. Queste de La sposa sono immagini di un mondo certamente trascorso, e perciò più facilmente «de-realizzato» da una finzione televisiva. La moda degli ultimi decenni ha imposto le parole «evento», «comunicazione», «immagine», «marketing territoriale»: idoli di un progressismo di maniera intriso di una retorica dello sviluppo che ha stufato. Si susseguono perciò con indifferibile noiosità fiction e spot commerciali degni di un’enfasi senza passione che rende ormai ogni discorso sull’autenticità e i valori di questa terra pomposamente vuoto e buono per tutti gli usi e per tutte le occasioni.

    Non credo a tutte le statistiche che ci fanno sempre ultimi. Non occorrono guru della pubblicità e serie televisive da candidare a “culto” per annunciare l’autenticità di un’altra Calabria civile che pure esiste e resiste a dispetto di tutto. Altrimenti nel caso della Calabria si aggiunge al perdurare del pregiudizio, la riduzione dello spazio per le idee, per la memoria, per la cultura e per l’immaginazione. Si assolve solo il compito di liquidare tutti i contenuti, tutti i problemi. I problemi veri della Calabria e della sua cattiva reputazione mediatica non si possono risolvere con un colpo d’immagine. Ce li risolviamo noi o non ce li risolve nessuno.

    Per riabilitare la Calabria servono cose più serie

    Se ci affidiamo alla comunicazione, alla tv e al marketing restiamo fuori dalla misura della realtà. E se ci consegniamo all’immagine ci rassegniamo a un’autenticità al ribasso. «Con l’immagine», scrive Jean Baudrillard, «quando si parla di autenticità, è il falso che virtualmente ha già avuto la meglio». Per riabilitare la Calabria ci vogliono cose più serie di un bel gadget di immagini turistiche (il turismo, un altro totem della monocultura del sottosviluppo digitale) e di fiction seriali piene di ragazze e ragazzi buoni per fare da testimonial alla prossima Bit.

    Il successo popolare delle immagini di Campiotti e della sua sposa calabrese in prima serata ha finito per convincere gli altri, che convinti di ciò che siamo come tribù eterologa al progredire dei tempi lo sono già, che le cose in Calabria non cambiano mai. E a noi che al massimo stiamo alla pari con le apparenze, senza mai superarci: retrogradi, patriarcali, mafiosi sì, ma anche bravi ragazzi e belle ragazze con le facce presentabili da seriali tv o da spot commerciale da marketing globale.

    La Sposa è un format già visto

    Non va discussa l’intenzione della fiction, ma piuttosto la sua forza di persuasione, la capacità di suscitare davvero una riflessione o una “reazione positiva”. Non credo che Campiotti insieme alla sua factory di autori e creativi, abbia perso più di cinque minuti per realizzare suo prodotto di intrattenimento televisivo. Il problema non è il linguaggio (non la presunta veridicità del dialetto), o la fedeltà geografica delle cosiddette location in cui la fiction è ambientata (la Puglia invece della Calabria, ma il cinema e la televisione funzionano così, creano falsi verosimili), ma invece l’intonazione di quel format. Vecchio e già visto, un riciclo di cortometraggi neorealisti e di immagini da parodia etnologica, con pretese di verità rifatte a orecchio, senza spessore e originalità.

    Quelle icone così discusse nei giorni scorsi su media, giornali e social, saranno presto dimenticate senza neanche passare per i memorabilia dell’archeologia del contemporaneo che la televisione riscrive ogni giorno. Quelle facce che a qualcuno sono sembrate tanto significative sono così esteticamente scialbe e prive di forza (a parte il candore-finto povero da sposalizio griffato) da non assumere su di sé alcuno dei significati catartici o piuttosto offensivi di identità e cultura, di ingiuria ai sacri crismi identitari, di cui sono state artificiosamente caricate dalle reazioni scomposte dei fieri difensori del volkgeist calabro.

    Perpetuare poi gli stereotipi negativi sentenziati in calce a immagini così fragili con slogan da autogol, inoltre, non ci fa affatto bene. Si autorizzano i pregiudizi già radicati a cui siamo costretti a dare riparo proprio con simili «campagna d’immagine». Nel rivolgersi direttamente al pubblico (ma quale?), con la pretesa di saltare qualsiasi mediazione culturale, quelle immagini e le storie riassunte che dovrebbero avere un’apparenza democratica e un effetto massmediologico correttivo, rappresentano in realtà soltanto una forzatura omologratrice di differenze, aspettative e bisogni. Insomma, altro sale sparso sulle ferite aperte dei calabresi, sempre più vittime e complici allo stesso tempo dell’idolatria dell’immagine e delle sue deformazioni più corrive.

    Un po’ di sano orgoglio calabrese

    Un poco di orgoglio intellettuale non guasterebbe (ricordo il richiamo diderottiano «ai fieri calabresi» di cui parlava già il vecchio Augusto Placanica, storico e ispiratore del volume sulla Calabria di Einaudi che dal 1985 ormai nessuno più legge quando si ragiona della Calabria moderna). Siano noi a enfatizzare un senso di colpa che ci trascina all’indietro. Il principio di un’antropologia della contemporaneità è che oggi stiamo dentro al mondo esattamente come gli altri e non siamo antropologicamente diversi, perché non lo siamo mai stati in un modo così reificato e assoluto come quello che la sintesi televisiva della miniserie La sposa vorrebbe ristabilire, nel bene e nel male, in modo così retorico.

    Non credo che esistano più da un bel pezzo calabresi inveterati nelle chiusure ataviche, macchiati da colpe insanabili e indolenti rispetto alle urgenze dei tempi (non più che altrove). Che poi la politica in Calabria, tutto il ceto politico di governo e non, che nella decadenza di questa regione ha avuto e ha responsabilità enormi, creda di potersi lavare la coscienza con un candeggio virtuale così facile e a buon mercato, dice già tutto sulla loro onestà.