Confesso: io la fiction La sposa non l’ho vista per intero. È grave? Dopo la prima puntata non ho resistito oltre. Ho cambiato canale senza rimpianti. Ora che la miniserie, molto vista in tv, che ha fatto scontenti sia tra calabresi che veneti, si è conclusa, restano i fatti che la fiction evoca.
Le calabresi vendute e comprate
Conviene soffermarsi sul dettaglio che da queste parti brucia di più. Sì, le calabresi negli anni ’50 e ’60 venivano comprate e vendute nelle campagne e nei paesi. E un sensale se le poteva portare in giro per piazzarle spose per procura dove più servivano. Dove mancavano braccia per il lavoro e donne per far figli. Nel Veneto zoticone e cattolicissimo, nella pingue bassa mantovana (ho tre cugine maritate così che hanno messo radici a Gazzuolo, Viadana e Pegognaga, e costruito con sacrifici e fatica il successo del loro melting pot padano tra forme di parmigiano, biolche di terra grassa e stalle con centinaia di vacche), nella nebbiosa conca pavese (quando andavano spose ai “pavesini”), nelle Langhe non ancora slowfooddizzate, nelle valli strette e assolate dell’alto imperiese, dove le ragazze di Calabria si sono industriate con ortaggi, limoneti e i fiori di Sanremo.
Orfane di guerra, zitelle, figlie di famiglie contadine povere e numerose erano nel Sud immiserito del secondo dopoguerra, bocche da sfamare. Una eccedenza demografica divenne così una “risorsa” utile. L’esogamia obbligata era una delle poche opzioni possibili.
Alla base dell’emigrazione forzosa di queste donne e di queste forme di “commercio” (fenomeno molto doloroso e ben noto agli studi antropologici), operava un principio antico quanto la cultura patriarcale. Quello che consentiva, fondandosi su un piano materiale e simbolico, di scambiare le donne, considerate elemento mobile delle organizzazioni parentali, e di destinarle a forme di circolazione economica primaria.
La povertà non fa sconti
Questi fatti, giocati sul corpo vivo delle donne, quasi mai con il loro consenso, hanno consentito il compimento di uno scambio circolare che da primario è diventato subito dopo culturale, consentendo la comunicazione e la sintesi tra gruppi umani diversi. Capitava nelle famiglie contadine del Sud e alle ragazze dei paesi più poveri. La povertà è brutale e non fa sconti. Ma questo “commercio rituale” delle donne si estendeva anche alle strategie di case regnanti, nobili e borghesia più ricca. Da quelle donne portate via dai sensali di paese in Calabria sono nati nuovi sistemi di parentela e relazioni più estese, una comunità più larga dei confini tradizionali delle regioni di appartenenza. Anche così è nata l’Italia contemporanea. Così è nato il boom dell’Italia degli anni ’60 e la società di cui tutti siamo figli e nipoti.
Senza scrupoli
Piaccia o no si tratta di una invarianza transculturale, l’esogamia obbligata, che pratichiamo ancora. Anche in forme più nuove, persino più strumentali e spietate nei confronti delle donne. Quelle degli altri però, e adesso a parti invertite. Noi oggi “compriamo” e “importiamo”, persino con minore scrupolo e con interessata disinvoltura, le nigeriane sulla strada o le ragazze dell’est che finiscono nei club, le operaie e le lavoratrici immigrate che alimentano l’economia a basso costo del nord-est industriale, le donne rumene, moldave, polacche a “servizio” di vedovi, anziani e malati a cui fanno “compagnia”. Quelle donne che ogni giorno, sole a casa nostra, si occupano di tenere in vita i nostri vecchi scaricati nella solitudine dei nostri paesi ora spopolati, affidati loro da famiglie, le nostre, indurite da crisi di valori e nuovi egoismi.
La Sposa delle polemiche
Nel frattempo attorno alle polemiche sulla fiction La sposa si sono infittite le solite proteste e le “provocazioni”. Nei giorni scorsi Antonio D’Orrico, autorevole firma calabrese del CorSera, mi ha chiesto da antropologo e da calabrese cosa pensassi delle polemiche sorte intorno alla fiction e di questo narcisismo etnicista e difensivo che si è scatenato su stampa e social. D’Orrico ha poi fatto da par suo sulle colonne del Corriere un’ottima sintesi del caso. Insieme ci siamo fatti pure due risate per il rituale, scontatissimo, dell’“interessante dibattito culturale”.
C’è il riflesso pavloviano delle opposte fazioni e le indignazioni pelose degli estremismi “autenticisti” di su e di giù. Gli alti lai corrono dai balconi di Giulietta ai proclami rivendicativi dei soliti, remoti, fasti magnogreci. Reprimende indignate ed esaltazioni acritiche riempiono i social anche dopo l’ultima puntata di ieri. Tutto uno spreco di enfasi partorita da un nutrito corteo di intellettualoidi che farebbero molto meglio ad adontarsi per fenomeni sociali e realtà ben più concrete e vicine, per punti di degrado civili e culturali dei rispettivi fronti ben più attuali e sconfortanti dell’attendibilità di un prodotto di puro intrattenimento televisivo.
Insomma, ancora una volta, “molto rumore per nulla” – che pure se shakespeariano è sempre roba che succedeva a Messina e giù di qui. In nessun angolo dell’Occidente civilizzato si pretende dagli intenti di un regista di televisione o di cinema impegnato in una produzione spettacolo, di difendere la conformità ad astrusità ideologiche come il riscatto, la verità, l’identità di una regione. Un compito degno di un’azione umanitaria che si svolga sotto l’alto patrocinio dell’Unesco o delle Nazioni Unite. Sono decenni che le variopinte e ripetute operazioni di riverginatura mediatica della regione galleggiano tra lo sproposito e il ridicolo, azzoppate da una cronica mancanza di misura che spesso aggrava la già appannata esposizione mediatica di una regione che resta avvolta (ma per colpa di chi?) da una reputazione che non va oltre i soliti cliché folkloristici e le cartoline di un catalogo di ovvietà e travestimenti d’avanspettacolo.
La Calabria dei cliché
Ci si aspetta che ogni prodotto tv, ogni iniziativa artistica, di spettacolo o di intrattenimento popolare si debba trasformare obbligatoriamente in una campagna mirata alla creazione di un percorso di simpatia e di superamento di pregiudizi e luoghi comuni che preoccupano la regione e i suoi abitanti. Come se la Calabria fosse solo un prodotto da vendere nel mercato della fiction, nelle immagini della comunicazione o alla borsa del turismo. È una regione. Un insieme di comunità e di culture differenti e stratificate da millenni. Tutte tessere di un mosaico che compone il profilo di una società e di una storia. Il rischio è che per uscire quindi dai più vetusti cliché sulla Calabria infelice e irredenta si ricorra ad altri cliché. Solo più nuovi, più patinati e alla moda.
Questa volta è Campiotti, ma la mano non cambia la musica. Altre manipolazioni al posto delle vecchie icone della Calabria statica e protomoderna (le ragazze tastate in piazza, le facce dei pastori e dei contadini inebetiti dalla fatica del latifondo, le donne con lo scialle nero, gli emigranti con la valigia di cartone, la ‘ndrangheta, il folklore abborracciato). Ci sarebbe bisogno di aggiornare il catalogo. E invece no. Queste de La sposa sono immagini di un mondo certamente trascorso, e perciò più facilmente «de-realizzato» da una finzione televisiva. La moda degli ultimi decenni ha imposto le parole «evento», «comunicazione», «immagine», «marketing territoriale»: idoli di un progressismo di maniera intriso di una retorica dello sviluppo che ha stufato. Si susseguono perciò con indifferibile noiosità fiction e spot commerciali degni di un’enfasi senza passione che rende ormai ogni discorso sull’autenticità e i valori di questa terra pomposamente vuoto e buono per tutti gli usi e per tutte le occasioni.
Non credo a tutte le statistiche che ci fanno sempre ultimi. Non occorrono guru della pubblicità e serie televisive da candidare a “culto” per annunciare l’autenticità di un’altra Calabria civile che pure esiste e resiste a dispetto di tutto. Altrimenti nel caso della Calabria si aggiunge al perdurare del pregiudizio, la riduzione dello spazio per le idee, per la memoria, per la cultura e per l’immaginazione. Si assolve solo il compito di liquidare tutti i contenuti, tutti i problemi. I problemi veri della Calabria e della sua cattiva reputazione mediatica non si possono risolvere con un colpo d’immagine. Ce li risolviamo noi o non ce li risolve nessuno.
Per riabilitare la Calabria servono cose più serie
Se ci affidiamo alla comunicazione, alla tv e al marketing restiamo fuori dalla misura della realtà. E se ci consegniamo all’immagine ci rassegniamo a un’autenticità al ribasso. «Con l’immagine», scrive Jean Baudrillard, «quando si parla di autenticità, è il falso che virtualmente ha già avuto la meglio». Per riabilitare la Calabria ci vogliono cose più serie di un bel gadget di immagini turistiche (il turismo, un altro totem della monocultura del sottosviluppo digitale) e di fiction seriali piene di ragazze e ragazzi buoni per fare da testimonial alla prossima Bit.
Il successo popolare delle immagini di Campiotti e della sua sposa calabrese in prima serata ha finito per convincere gli altri, che convinti di ciò che siamo come tribù eterologa al progredire dei tempi lo sono già, che le cose in Calabria non cambiano mai. E a noi che al massimo stiamo alla pari con le apparenze, senza mai superarci: retrogradi, patriarcali, mafiosi sì, ma anche bravi ragazzi e belle ragazze con le facce presentabili da seriali tv o da spot commerciale da marketing globale.
La Sposa è un format già visto
Non va discussa l’intenzione della fiction, ma piuttosto la sua forza di persuasione, la capacità di suscitare davvero una riflessione o una “reazione positiva”. Non credo che Campiotti insieme alla sua factory di autori e creativi, abbia perso più di cinque minuti per realizzare suo prodotto di intrattenimento televisivo. Il problema non è il linguaggio (non la presunta veridicità del dialetto), o la fedeltà geografica delle cosiddette location in cui la fiction è ambientata (la Puglia invece della Calabria, ma il cinema e la televisione funzionano così, creano falsi verosimili), ma invece l’intonazione di quel format. Vecchio e già visto, un riciclo di cortometraggi neorealisti e di immagini da parodia etnologica, con pretese di verità rifatte a orecchio, senza spessore e originalità.
Quelle icone così discusse nei giorni scorsi su media, giornali e social, saranno presto dimenticate senza neanche passare per i memorabilia dell’archeologia del contemporaneo che la televisione riscrive ogni giorno. Quelle facce che a qualcuno sono sembrate tanto significative sono così esteticamente scialbe e prive di forza (a parte il candore-finto povero da sposalizio griffato) da non assumere su di sé alcuno dei significati catartici o piuttosto offensivi di identità e cultura, di ingiuria ai sacri crismi identitari, di cui sono state artificiosamente caricate dalle reazioni scomposte dei fieri difensori del volkgeist calabro.
Perpetuare poi gli stereotipi negativi sentenziati in calce a immagini così fragili con slogan da autogol, inoltre, non ci fa affatto bene. Si autorizzano i pregiudizi già radicati a cui siamo costretti a dare riparo proprio con simili «campagna d’immagine». Nel rivolgersi direttamente al pubblico (ma quale?), con la pretesa di saltare qualsiasi mediazione culturale, quelle immagini e le storie riassunte che dovrebbero avere un’apparenza democratica e un effetto massmediologico correttivo, rappresentano in realtà soltanto una forzatura omologratrice di differenze, aspettative e bisogni. Insomma, altro sale sparso sulle ferite aperte dei calabresi, sempre più vittime e complici allo stesso tempo dell’idolatria dell’immagine e delle sue deformazioni più corrive.
Un po’ di sano orgoglio calabrese
Un poco di orgoglio intellettuale non guasterebbe (ricordo il richiamo diderottiano «ai fieri calabresi» di cui parlava già il vecchio Augusto Placanica, storico e ispiratore del volume sulla Calabria di Einaudi che dal 1985 ormai nessuno più legge quando si ragiona della Calabria moderna). Siano noi a enfatizzare un senso di colpa che ci trascina all’indietro. Il principio di un’antropologia della contemporaneità è che oggi stiamo dentro al mondo esattamente come gli altri e non siamo antropologicamente diversi, perché non lo siamo mai stati in un modo così reificato e assoluto come quello che la sintesi televisiva della miniserie La sposa vorrebbe ristabilire, nel bene e nel male, in modo così retorico.
Non credo che esistano più da un bel pezzo calabresi inveterati nelle chiusure ataviche, macchiati da colpe insanabili e indolenti rispetto alle urgenze dei tempi (non più che altrove). Che poi la politica in Calabria, tutto il ceto politico di governo e non, che nella decadenza di questa regione ha avuto e ha responsabilità enormi, creda di potersi lavare la coscienza con un candeggio virtuale così facile e a buon mercato, dice già tutto sulla loro onestà.