«Non gli somiglia per niente». Da ieri mattina Cosenza su Facebook sembra il remake di Johnny Stecchino. La statua in onore di Giacomo Mancini ha messo in pausa per qualche ora virologi ed esperti di geopolitica: largo alla critica d’arte. Impietosa, come spesso l’expertise di settore non riesce ad essere.
«Era più alto», «Ha un’espressione troppo severa», «Dà le spalle al Comune e al centro storico dove abitava»: «Guarda verso Rende»: sono solo alcune delle invettive all’indirizzo del monumento in onore del Vecchio Leone. Che comunque, già beatificato in vita, da ieri si è trasformato in feticcio di culto (laico, ma non troppo) con cosentini in fila per farsi un selfie “insieme” al metallico politico defunto, bello o brutto che sia. L’amore è cieco.
Il bue e l’asino
Degna di nota la stoccata dell’ex sindaco Mario Occhiuto al suo successore Franz Caruso. «In epoca contemporanea, tranne che nei regimi, si fa poco uso di busti e statue celebrative», ha malignato l’architetto tra una bordata alla nuova amministrazione e un ricordo – nell’attesa di eventuali sculture postume in suo onore – autocelebrativo.
Un po’ come vedere Filini contestare un congiuntivo fuori posto al proprio interlocutore: l’aver fatto pagare al Comune, quando a Palazzo dei Bruzi comandava Occhiuto medesimo, decine e decine di migliaia di euro per una statua celebrativa di Alarico – sulla cui figura quegli odiatori degli storici sono concordi: pare proprio aver fatto meno di Mancini per la città – diventa trascurabile dettaglio nel sempre fecondo dibattito politico nostrano.
Nuove e vecchie colonne
Le polemiche estetiche sulla statua, però, hanno ceduto presto il passo ad altre questioni. Già stamane il dibattito si è spostato sulla via del socialismo. Che con la politica c’entra poco, trattandosi dei 50 metri di strada riapertadavanti alle scuole “Pizzuti” e “Zumbini” dal sindaco fedele al garofano rosso. Non ci voleva Nostradamus per immaginare che con la riapertura dei due istituti dopo la pausa per la Fiera di San Giuseppe/Francesco sarebbero tornate le auto incolonnate. C’erano anche prima con la piazzetta demolita e prima ancora che quest’ultima venisse realizzata. Ma la rete si è ritrovata invasa da istantanee sul consueto traffico quasi fossimo di fronte a una sorpresa epocale.
Auto incolonnate alle 8.30 di stamattina nel tratto che ospitava piazza Rodotà prima della riapertura
Simboli di Cosenza
Un monumentino, a questo punto, lo meriterebbe forse anche il Genitore Ignoto, il primo ad essersi fermato in barba ai divieti nel rinnovato tratto per far scendere i pargoli evitando loro la fatica di un metro a piedi in più. Un simbolo di Cosenza anche lui, a suo modo. Quasi quanto Mancini e il gusto per la polemica.
Il tentativo di riprendere le fila di un discorso riguardante Cosenza e l’area urbana nel suo complesso, rivitalizzare il tessuto urbano e dare respiro e corpo alle realtà da sempre gravitanti sulla città bruzia, via via reso sempre più complesso ma per ciò stesso più intrigante e bisognoso di interventi strutturali e non effimeri, com’è testimoniato dagli interventi succedutisi su I Calabresi, va sostenuto e alimentato: sta lievitando con profondità di analisi e qualità di proposte.
È questo il pensiero maturato dopo aver attentamente studiato i testi, fra gli altri, di Scaglione, Pellegrini, Principe, Francini, a valle di miei contributi a più riprese pubblicati.
Cosenza vista da Portapiana (foto Alfonso Bombini)
Il ritorno dell’urbanistica
Se la parola chiave è ridare fiato all’urbanistica, e perciò alla pianificazione, il corollario immediatamente successivo è area vasta e subito dopo rete della sostenibilità, dei paradigmi della giustizia sociale, delle radici storiche e del patrimonio culturale, come leve da utilizzare e contemporaneamente orizzonti verso cui traguardare.
Interrogarsi sui perché lo strumento della pianificazione sia stato di fatto messo da parte potrebbe di per sé essere argomento di un corposo dibattito: qui è forse il caso di riprenderne uno, fra i più significativi a mio parere. L’aver, cioè, a più riprese esternato che la pianificazione rigida era da superare con visioni più elastichenonché interconnesse, ma di fatto solo esternato e non praticato, in considerazione anche del fatto che i mutamenti repentini quanto frequenti nei quali siamo immersi hanno vanificato la proiezione temporale quanto funzionale di insediamenti e installazioni.
L’area urbana della valle del Crati
Oggi può essere giunto il momento, però, di coniugare le crisi di vario genere che ci assediano con le opportunità a disposizione per andare al di là di una resilienza vissuta spesso come alibi e di un transeunte particulare da superare con traguardi di ampio respiro.
Un respiro ampio che si propone, appunto, come superamento di una visione intra moenia e rilancia sul versante dell’area urbana che vede la valle del Crati come sede geografica e sociale, storica e sociale, culturale e infrastrutturale, produttiva e moderna di un intervento a largo raggio. Sostenibilità, giustizia sociale, radici storiche, patrimonio culturale si ponevano prima come vertici di un quadrilatero entro il quale ragionare e operare, per superare angustie, provincialismi, sempiterne lotte da campanile, senza cenno alcuno – almeno finora – sugli importanti giacimenti di presenze industriali e gli altrettanto significativi esempi produttivi.
Contributi diversi per costruire la città unica
Se il ruolo politico amministrativo è naturalmente da ritenere centrale oltre che decisivo, il compito dei tecnici e di coloro che esercitano un ruolo di cittadinanza attiva propositiva non è da meno. Da questo punto di vista non è da sottacere una serie di posizioni ma anche di elaborazioni avanzate negli ultimi anni, oltre e insieme a quelli citati in premessa. Elaborazioni che facendo tesoro di quanto emerso in sede europea e della discussione maturata in sede antropologico-ingegneristica portano a rivedere per un verso l’angustia della bipolarità in cui si vorrebbe relegare la questione “area urbana”, per altro l’impianto lineare dell’armatura dell’area urbana stessa.
Sono infatti più di uno i centri che nella valle del Crati, in destra quanto in sinistra, che aspirano e hanno titolo sia a fornire contributi in termini di servizi e funzioni e attività che a richiedere prestazioni proprie di una città metropolitana, moderna, evoluta, sostenibile, giusta: una città polifunzionale, condivisa, prestazionale.
Il centro storico di Cosenza
La nuova città parte dal centro storico
Rivedere l’impianto lineare secondo il quale l’area cosentina si è sviluppata, per motivi che qui non è il caso riprendere, è una maniera alternativa di affrontare l’argomento: la visione circolare della Grande Cosenza, comunque la si voglia chiamare, è un progetto al quale da anni si è dedicata l’associazione Prima che Tutto Crolli che partendo dallo studio e dall’interesse per il centro storico cosentino ha realizzato in termini subitanei che occuparsi del cuore antico di Cosenza implica ed è propedeutico al lavoro per una nuova città, più grande, più vivibile, più aperta al sociale, più innervata nelle radici.
Una città circolare in cui il diametro va al di là a sud del Castello, e a nord fin oltre l’Università, a est e a ovest sulle Serre e in Presila: abbiamo pure individuato una dimensione lineare da assegnare alla circonferenza di questa nuova città circolare, con proposte funzionali e insediative coerenti.
Se la politica, come pure un tempo faceva, volesse aprirsi a un confronto nulla impedirebbe di tentare una via virtuosa fra decisori istituzionali e cittadini responsabili.
Massimo Veltri Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica
La rigenerazione urbana degli anni ’90, con Mancinisindaco a Cosenza, attraverso il metodo storico, riproponeva itinerari identitari di storia e cultura, arte e cultura, natura e cultura e l’incomparabilità del percorso di Cosenza consisteva proprio nella valorizzazione dei suoi itinerari identitari.
Giacomo Mancini durante la sua sindacatura
Mancini, il viale omonimo e il centro storico
Con Mancini sindaco a Cosenza era nata infatti l’idea di un progetto di storia e cultura come sistema dell’area urbana che aveva come obiettivo una riqualificazione non solo fisica ma anche funzionale più idonea alla identità territoriale del centro storico: un progetto culturale ampio che si intrecciava nella città vecchia con un progetto di storia e cultura lungo l’itinerario identitario, che si identificava con il corso Telesio in continuità con il viale Mancini dove venivano collocate le più importanti scuole cittadine; nella città moderna il progetto culturale s’intrecciava col progetto di arte e cultura lungo il corso cittadino e nel territorio col progetto di natura e cultura dei parchi.
Malara e Vittorini: le periferie al centro delle città
Ritornando indietro di ancora venti anni nella storia urbanistica locale, la cittadinanza onoraria a Rende data recentemente all’architetto Empio Malara dall’amministrazione è un giusto riconoscimento per avere svolto insieme a Marcello Vittorini certamente un ruolo determinante contribuendo a scrivere un capitolo importante della storia delle due città, Cosenza e Rende, con una pianificazione omogenea e una visione di insieme.
In quell’epoca, eravamo agli inizi degli anni 70, si sognavano territori più giusti e con gli assi attrezzati si immaginava di portare sviluppo nei territori emarginati dalla povertà e dal disagio sociale e se Vittorini a Cosenza con l’asse attrezzato immaginava di superare il degrado economico e sociale unendo i due quartieri emarginati di via Popilia e del centro storico, a Rende l’architetto Empio Malara, con sindaco Francesco Principe, progettava il quartiere Europa che oggi è una piacevole centralità urbana innovativa di edilizia economica e popolare con elevate qualità ambientali. Avevano l’obiettivo comune di portare al centro le periferie e lo facevano con ricette diverse per la costruzione di un mondo migliore nei differenti periodi storici quando hanno governato.
L’architetto Empio Malara
La cultura scomparsa dalla pianificazione delle città
Ogni città ha una storia unica e irripetibile e questo vale anche per Cosenza e Rende e l’esperienza diretta ci insegna la molteplicità delle storie, l’incomparabilità dei percorsi ma è a partire dalle diversità che si possono cogliere similitudini e magari comprendere meglio i territori futuri.
Oggi per avere città più giuste e felici avvertiamo la necessità che occorrerebbe con urgenza adottare una metodologia complessa che deve indagare gli insediamenti esistenti e riconoscere le possibilità di sviluppo dei territori con uno sguardo retrospettivo che ci aiuti a riconoscere i territori per progettare il futuro affinché la cultura torni ad essere antidoto alla crisi, cibo per la mente e non solo e la conoscenza volano di risorse economiche e di integrazione.
Purtroppo è avvenuto che la cultura non è più antidoto alla crisi, le città si sono impoverite, i giovani soffrono la mancanza di lavoro e aumenta il disagio sociale e la città moderna si è allontanata dalla natura e dalla storia.
La storia dell’urbanistica contemporanea forse ci dice che è scomparsa la cultura della pianificazione intesa come quel complesso di conoscenze, competenze credenze proprie di una classe o di una categoria sociale di un ambiente legato al bene comune di un territorio anche perché purtroppo la storia dell’urbanistica locale è stata la non pianificazione: si è progettato per singoli interventi senza nessuna visione d’insieme nella quale la nuova opera andava a collocarsi. Oggi occorre ricucire l’area urbana ricominciando dall’identità storica di Cosenza e Rende, ritrovando l’armonia che i territori avevano con la natura e la storia.
Il centro storico di Cosenza
Malara non conosce il Psc di Rende
Empio Malara dice: «Sarebbe fantastico avere l’Università in continuità diretta con la città e la parte storica facilmente accessibile». Ed esprime alcune idee visionarie per migliorare l’accessibilità soffermandosi sulla via degli Orefici, l’attuale corso Telesio. L’architetto Empio Malara non conosce i contenuti del Psc di Rende ma abbiamo ascoltato con attenzione i suoi suggerimenti che accettiamo volentieri in quanto in linea con gli indirizzi dell’amministrazione.
Infatti nel Psc che stiamo proponendo a Rende innanzi tutto il viale Francesco e Carolina Principenon si ferma a piazza Rossini come previsto nella variante generale al Prg di Gianfranco Malara e Federico Parise ma arriva all’Unical ricucendo l’area urbana e unendo il centro storico di Cosenza con l’Unical completando così l’itinerario di cultura e storia della prima rigenerazione di Giacomo Mancini a Cosenza.
Con il sistema delle infrastrutture abbiamo previsto il collegamento dei luoghi centrali dei quartieri identitari di Roges, Commenda, Quattromiglia sulla base di percorsi privi di incompatibili interferenze determinate dal traffico veicolare privato; la pedonalizzazione e la riqualificazione funzionale faranno incontrare la gente e l’attività di relazione e di incontro prenderà il sopravvento su ogni altra come avviene a Cosenza nel corso principale; dai luoghi centrali dei quartieri di Rende la mobilità pubblica si ricollega al viale Giacomo Macini: si ricuce così il tracciato della continuità storica identitaria del legame tra storia e cultura dell’ Unical e del centro storico di Cosenza.
Non solo parchi fluviali
Con il sistema dei parchi fluviali e dei cinque parchi naturali previsti, con il sistema della tutela ambientale e la riduzione del rischio idrogeologico, con il consumo di suolo 0, il Psc ripristina il reticolo idrografico nella sua interezza nel rispetto dei vincoli tutori e inibitori e del Piano generale rischio alluvioni, sottrae all’utilizzazione edilizia, rispetto alle previsioni della variante gnerale al Prg, aree con estensione complessiva di circa 295 ettari (2.959.143 mq) e rispettivi volumi perché aree classificate nella classe 4 di fattibilità di massimo rischio, prevede cinque parchi naturali e infine ma non in ordine di importanza prevede la rigenerazione e la bonifica dei siti degradati.
Rende è senza dubbio, insieme a Cosenza, la città che può indirizzare il processo di creazione di un sistema policentrico in grado di definire un sistema di attrezzature e servizi di supporto all’ampio bacino provinciale, adeguato alla presenza importante del più avanzato centro di ricerca e studi dell’Università della Calabria.
L’Università della Calabria
Norme e standard
Il sistema dei servizi, delle infrastrutture, degli impianti e del verde viene suddiviso nel Psc in servizi e attrezzature pubbliche di livello generale e locale in conformità al D.M. 2 aprile 1968 n.1444 distinti dalle aree per attrezzature pubbliche o private di uso pubblico. In conformità all’art. 20 della Lur, nel Psc viene assicurata la rigorosa applicazione del Dm 02/04/1968 n. 1444 con la previsione degli standard da rispettare inderogabilmente e senza alcuna possibilità di modifica. Sono individuati gli Ambiti territoriali unitari che costituiscono le stanze urbane della città di Rende e in ognuna viene garantita la dotazione minima di servizi e attrezzature pubbliche in conformità al D.M. 02/04/1968 n. 1444.
L’architetto Daniela Francini
In ogni ambito è garantita una dotazione di standard superiore di molto rispetto ai precedenti piani. La dotazione di aree per standard urbanistici del Psc raggiunge i 58,00 mq/ab più del doppio dei minimi fissati dal QTRP e supera di molto i minimi fissati dalle norme nazionali; a questi vanno aggiunte le aree destinate a servizi di livello territoriale che comprendono la vasta area del campus Unical e le aree da rigenerare a parchi naturali e/o oasi urbane e cinque nuovi parchi naturali. Pertanto la dotazione di standard urbanistici previsti risulta di gran lunga superiore alla dotazione minima richiesta per legge e confermano il ruolo di Rende città parco centro culturale dell’area urbana.
Fare fronte alla sfida della competizione globale salvaguardando equilibri e risorse locali, valutando compatibilità e effetti di interdipendenza tra progetti di infrastrutture, sistemi insediativi, patrimonio paesistico, corridoi ambientali, assetti sociali e occupazionali per lo sviluppo storico di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e ben venga il protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura.
Egregio Direttore, mi riferisco a vari articoli apparsi sul suo giornale che hanno avuto ad oggetto l’urbanistica della città di Rende e, in particolare, ad un suo editoriale, dove Lei riconosce che Sandro Principe, unitamente ai suoi collaboratori, a partire dal 1980, ha «cambiato il gioco» nel governo del territorio. Pur evitando di giudicare se il nuovo gioco fosse «giusto o sbagliato», riconosce però che esso è risultato «redditizio per Rende».
Un gioco redditizio
Mi soffermo sul termine «redditizio», perché esso va ben oltre l’allocuzione «nell’interesse», che già mi avrebbe molto gratificato, poiché se un sindaco riesce a fare cose redditizie per la comunità che rappresenta vuol dire che ha fatto ampiamente il suo dovere. Dispiace constatare che l’architetto Empio Malara non riesca a farsi una ragione che l’attuale assetto urbano di Rende è tutt’altra cosa rispetto a quello disegnato con il suo piano regolatore redatto circa sessant’anni fa.
Il Malara milanese aveva concepito una periferia, un dormitorio di lusso, un “non luogo”, senza punti di riferimento. Noi, come Lei acutamente ha osservato, abbiamo cambiato il gioco e abbiamo disegnato e costruito una città ricca di infrastrutture civili, sociali, religiose, scolastiche, culturali, commerciali, economiche e del tempo libero, centinaia di opere non previste dal Piano di Empio Malara. Mentre Malara si dedicava all’esercizio della sua professione a Milano, noi osservavamo e studiavamo la realtà ed i tempi che cambiavano. Ed abbiamo così realizzato una città di sosta, costitutiva dell’area urbana, che senza la “nostra” Rende” non esisterebbe.
Malara su Rende? Un conservatore
Malara cerca di nascondere dietro la grande figura di Cecchino Principe il suo conservatorismo, che lo ha reso incapace di comprendere che non si erano verificati i presupposti (l’industrializzazione a nord e l’esercizio del ruolo guida della città di Cosenza) su cui si basava la programmazione degli anni ’60 del ventesimo secolo. Si aggiungano, inoltre, gli effetti sul territorio della imprevista (dal Malara) presenza dell’Unical, che incominciarono a farsi sentire nei primi anni Ottanta. Mio padre, che era una persona intelligente ed un riformista, non si impiccò sul vecchio schema e seguì con interesse e soddisfazione il nostro lavoro. Mai ha pronunciato una parola di dissenso, ma sempre giudizi ricchi di apprezzamento.
Il Malara, forse su suggerimento di qualche ex politico di passaggio, oppure perché ormai estraneo al nostro territorio cosentino che non vive da decenni, afferma con leggerezza che Sandro Principe ha fatto di Rende «un’isola di 35.000 studenti e 35.000 abitanti». Intanto, si osserva che il Malara ci fa, senza rendersene conto, un complimento, perché non è certamente poca cosa amministrare una città con 70.000 utenti da servire con i trasferimenti governativi rapportati a 35.000 abitanti.
Il territorio circostante
Inoltre, con il suo dire evidenza di vivere in un’altra epoca, giacché dimostra di ignorare tutte le grandi infrastrutture che integrano Rende con il territorio circostante, dal ponte De Luca, che unisce Roges a via Cosmai, dallo svincolo dell’Unical che la collega alla SS 107, dal viale Francesco e Carolina Principe alla 19 ter, con i ponti sull’ Emoli e sul Surdo, che delimitano la camera urbana, dalla strada Santa Chiara-Settimo, che ha permesso di unire le zone industriali di Rende e Montalto, al prossimo svincolo di Settimo dell’autostrada del Mediterraneo, tutte opere non previste dall’architetto meneghino; a voler tacere della metro CS/UNICAL fatta fallire dal duo Occhiuto-Manna.
Rende, Malara e l’isola che non c’è
Altro che «isola»! Abbiamo costruito un pezzo di città degna di questo nome al centro dell’area urbana di Cosenza, collegandola con il contesto territoriale, ponendo così le basi per la città unica Cosenza-Rende, di cui diffusamente parleremo in un prossimo scritto.
L’Empio oggi si sofferma sulla città unica basata sulle eccellenze rappresentate dal centro storico di Cosenza e dall’Unical, copiando il piano di sviluppo del PIT n. 8 “Serre Cosentine”, titolato “CORE”, elaborato durante la presidenza di Sandro Principe, con il sostegno di Giacomo Mancini e, successivamente, di Eva Catizone.
E, a scanso di equivoci, è utile ricordare che l’immenso patrimonio di verde di cui gode Rende, città parco, è stato impiantato quasi per intero dal Comune a partire dagli anni ‘80, quando il Malara si era allontanato dalla nostra città, avendo egli privilegiato il giardinetto di condominio, peraltro ostativo delle attività commerciali, con le recinzioni nemiche della socialità.
Cosenza e il ruolo di Manna
Debbo per ultimo, stigmatizzare i curiosi consigli dati dal Malara al sindaco di Rende. Passi per il suggerimento di spostare nel centro storico di Cosenza pezzi di Unical, operazione non fattibile funzionalmente e statutariamente, perché un Ateneo residenziale con organizzazione dipartimentale non è smontabile per far piacere ad interessate visioni; ma arrivare a suggerire all’avvocato Manna cosa egli dovrebbe fare per recuperare Cosenza storica mi sembra istituzionalmente irrispettoso per gli attuali reggitori del Comune di Cosenza.
Non una parola di critica, invece, al piano Manna-Francini, che se approvato ed attuato sconvolgerà l’assetto urbano della nostra città; anzi, durante la discussione in consiglio comunale per il conferimento al Malara della cittadinanza onoraria, abbiamo ascoltato, con grande meraviglia, parole di incoraggiamento.
Una serie di articoli pubblicati da I Calabresi affronta il tema, che mi sta tanto a cuore, di uniformare la città Cosenza Rende.
L’amico Massimo Veltri mi ha sollecitato di intervenire per contribuire a promuovere azioni politiche e amministrative dirette a rivitalizzare il centro storico di Cosenza e sostenere l’Università della Calabria, condizioni necessarie per unire Cosenza e Rende.
Il centro storico di Cosenza
Da pochi giorni, grazie all’amministrazione del sindaco Marcello Manna, anch’io sono diventato cittadino di Rende, la città che ho disegnato per più di vent’anni, a partire dai primi anni 60’ fino alla metà degli anni 80’ del secolo scorso.
Un disegno, quello originario di Rende, contenente una normativa diretta a realizzare una città parco coniugata con il capoluogo in modo omogeneo e unitario incentrata sull’interscambio gomma ferro.
Cecchino Principe e Giacomo Mancini
Un risultato ottenuto sul piano tecnico per merito del sindaco Francesco Principe, che dopo il disegno del piano di Rende mi autorizzò a partecipare al piano di Cosenza coordinato da Marcello Vittorini. Nasceva così l’impianto omogeneo e unitario della città Cosenza Rende facilitato nella realizzazione delle super strade e autostrade propiziate da Giacomo Mancini.
La visione urbana di Marcello Vittorini estendeva linearmente l’impianto del primo piano di Rende e il suo autorevole parere convinse Giacomo Mancini ad accettare il sito di Rende, il luogo suggerito da me e proposto da Francesco Principe dove realizzare l’Università della Calabria.
I due magneti e il contraccolpo
Collocare l’Università residenziale assegnata a Cosenza nella parte terminale del territorio di Rende garantiva la continuità dell’asse attrezzato, il campo urbano tra le due strade statali 19, parallelo alla ferrovia. Ma determinava un contraccolpo negativo per il centro storico di Cosenza, indirettamente ne favoriva l’abbandono.
Ad oggi, come è stato più volte rilevato dai precedenti interventi, la situazione nel campo urbano di Cosenza Rende è la seguente: vi sono due rilevanti magneti urbani, uno è il centro storico di Cosenza praticamente spento, l’altro è il magnete urbano ancora attivo composto dall’Università. Un disegno intelligente di pianificazione urbana dovrebbe puntare a riattivare il magnete urbano del centro storico di Cosenza e nel contempo sostenere l’attività del magnete urbano dell’Università.
Manna deve fare l’opposto di Sandro Principe
Ora che sono cittadino di Rende posso dare dei suggerimenti al sindaco Marcello Manna affinché promuova il restauro del centro storico di Cosenza, ponga rimedio alla decrescita di Cosenza, rilanci il disegno omogeneo e unitario della città Cosenza Rende, restituisca parte dei vantaggi derivati a Rende dalla presenza dell’Università, assegnata a Cosenza.
Principe e Manna nel loro più celebre duello televisivo
Riattivare il centro storico di Cosenza è essenziale per Rende e per sostenere l’attività dell’Università. È essenziale potenziare l’Accademia Cosentina, le Biblioteche, il Duomo e tutte le altre attività culturali presenti nel centro storico di Cosenza come prima azione di rigenerazione urbana di interesse nazionale.
Per riattivare il centro storico di Cosenza occorre connetterlo con l’Università in modo da rendere accessibili i due magneti urbani più significativi della Calabria. Significa in breve adottare un comportamento urbano opposto di quello praticato dal sindaco Sandro Principe quando mirava a fare di Rende un’isola, una città universitaria “con un numero di abitanti uguale al numero degli studenti”.
Cosenza Rende, la capitale culturale della Calabria
Se Rende cambia strategia e si coniuga con Cosenza e Cosenza, a sua volta, promuove seriamente il restauro del centro storico e realizza il riuso della ferrovia da Cosenza Casali alla stazione di Quattromiglia, basterà attrezzare con navette l’accesso alle dette stazioni dai due magneti urbani per connettere centro storico e università con il trasporto pubblico.
L’interno della Biblioteca civica di Cosenza
Se il disegno omogeneo e unitario tra Cosenza e Rende si ripropone, si riattiva il magnete urbano del centro storico, si potrà garantire il riassetto dell’asse attrezzato, il sostegno del magnete urbano dell’Università, e si potrà ambire, grazie anche alla posizione geograficamente baricentrica della città Cosenza Rende all’interno del territorio regionale, a conquistare il ruolo di capitale culturale della Calabria.
Antonio Lombardi se n’è andato l’11 aprile 2017, pochi mesi prima di compiere ottant’anni. Con lui è venuto meno un pezzo di storia di Cosenza, le inquietudini, l’acume critico, il desiderio di cambiamento di tanti giovani della sua generazione.
L’avevo conosciuto in una giornata di primavera del 2002 quando mi sono affacciato per la prima volta nel suo negozio di tappezziere, nel centro di Cosenza, in via Trento al numero 59.
Via Trento è una parallela di corso Mazzini, risale all’impianto urbano di epoca fascista, ospita un negozio di dolciumi caro ai cosentini, Monaco e Scervino. Pochi metri lo separano dalla vetrina della tappezzeria Lombardi.
Due luoghi agli antipodi, con mio grande dispiacere, dato che visitando l’uno mi sembrava doveroso astenermi dall’altro. Moralismo piccolo borghese, avrebbe detto Lombardi.
Antonio Lombardi, il tappezziere agit prop e letterato di Cosenza
A sessantacinque anni Antonio era ancora un uomo vigoroso, diretto, quasi brusco nei modi. L’avevo cercato incuriosito da un articolo apparso su Teatro Rendano, anno VI (numero 50), marzo 2002, pp. 12-18: Michele Cozza: “Mondo nuovo reprise. Ricostruiamo una vicenda singolare degli anni Sessanta a Cosenza”.
Nella minuscola stanza semibuia e ingombra di materiale, rotoli di carta da parati, corde, soprattutto piena di libri, ritagli di giornali e stampe alle pareti ho avuto subito l’impressione di entrare in un altro mondo, la sensazione che si prova quando ci si inoltra in un edificio antico, oppure incontriamo una persona capace di restituirci un’epoca, un modo di sentire le cose, un approccio alla realtà fatto di nomi, di pensiero, di idee.
Il Mondo nuovo di Antonio Lombardi
Mi ha indicato una sedia piuttosto precaria e mi ha squadrato; aveva un piglio quasi da maestro di altri tempi, mentre parlava si accertava che fossi in grado di seguirlo sul racconto che stava articolando, anche per valutare se fosse il caso di sprecare il fiato.
Ho capito con il tempo che quell’atteggiamento nasceva proprio dalla sua storia personale, dal ruolo e dalla missione che si era assunto, sia personalmente sia come animatore del circoloMondo nuovo.
Lui che era un appassionato lettore dei saggi di Lukács amava richiamarne un concetto in particolare. Quello secondo cui un testo saggistico deve risultare comprensibile per un operaio, per una persona dotata di una cultura di base.
Dopo i fatti di Ungheria
I testi sacri per Lombardi andavano studiati pagina per pagina, e questo impegno l’aveva attuato negli incontri serali, nel circolo, leggendo insieme agli amici e spiegandosi uno con l’altro innumerevoli libri su ogni genere di argomento. Tra il 1960 e il 1980, insieme a rassegne di cinema, dibattiti, interventi sull’attualità politica e artistica.
Così ho iniziato ad ascoltarlo e ad addentrarmi nella storia del circolo Mondo nuovo, prendendo in mano libri, volantini, foto e ritagli di giornali, ma soprattutto rivivendo quegli anni grazie al suo vivo racconto. La svolta nella sua vita avviene nel 1956, con i fatti di Ungheria e la decisione di aderire al socialismo libertario; lui e i suoi amici sono studenti all’istituto per geometri, hanno un rapporto privilegiato con il professore di italiano, Umile Peluso, sindaco di Luzzi e senatore del P.C.I.
Dagli anni ’60 agli anni ’80 giovani e meno giovani hanno frequentato Antonio Lombardi e il circolo Mondo nuovo a Cosenza
Diversi dalle solite conventicole culturali
Non mi era mai capitato, fino a quel momento, di percepire un approccio così diretto, immediato, ai libri e al lavoro culturale. Nella città dell’Accademia cosentina, delle tante conventicole e consorterie, un atteggiamento simile era del tutto inusuale e dirompente, infatti aveva dato vita a un gruppo di giovani, quasi tutti provenienti dalle scuole tecniche, estranei ai riti e alle cerimonie, alle liturgie della politica e della vita culturale di una città di provincia. Dopo quel primo incontro ne sono seguiti molti altri, durante i quali ho avuto in consegna una serie di documenti, un piccolo ma significativo archivio relativo all’attività di Mondo nuovo, che ho inventariato e studiato.
Consigli di lettura
Alla fine di ogni visita mi assegnava qualche libro da leggere. Alcuni me li vendeva, dato che era rimasta qualche copia della libreria del circolo, a un prezzo stabilito da lui senza possibilità di trattativa. Altri me li prestava, quando si trattava di copie uniche, come “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” di Ruggero Zangrandi. Mi dava i compiti perché, diceva, avevo dei vuoti da colmare sulla storia dei movimenti e del socialismo.
Così pur essendo all’epoca già un quarantenne con laurea ho accettato, in amicizia e per la forza dei suoi racconti, questo ruolo di discepolo che non è proprio in linea con il mio carattere. Penso che entrambi fossimo consapevoli che la mia estraneità al suo mondo facilitasse molto la comunicazione, non c’erano diffidenze ideologiche tra noi.
Anche Giampiero Mughini ha scritto per i Quaderni di cinema (a cura del circolo Mondo nuovo di Cosenza)
Mondo nuovo e la vecchia Olivetti di Antonio Lombardi
Non mi proponeva solo letture impegnate. Mi aveva dato da leggere anche i romanzi di Stefano Terra, storie romantiche ambientate tra l’Italia e la penisola balcanica, le Porte di Ferro, Rodi e Atene. Insieme ai libri di Terra mi aveva consegnato un carteggio con amici e conoscenti di questo giornalista torinese, a cui avrebbe voluto dedicare un convegno. Così ho capito come si muoveva quando decideva di approfondire una questione. Non so come riuscisse, dal suo negozio, a rintracciare inviati all’estero, editori francesi, direttori di istituti culturali oltrecortina. Senza internet e con una vecchia Olivetti. Era meticoloso e ostinato, in queste ricerche.
Il Foglio volante e Umberto Eco
Abbiamo discusso per ore, con Antonio, della storia del circolo, delle rassegne di cinema, dei dibattiti, dei verbali dattiloscritti delle assemblee dei soci, in cui tutto veniva registrato e messo agli atti. Come è noto alle centinaia di persone che hanno partecipato alla vita del circolo, Mondo nuovo ha costituito un luogo di formazione culturale e politica il cui peso non è stato, ancora, adeguatamente riconosciuto.
Antonio non era divorato dalla nostalgia, anzi, dopo un lungo silenzio successivo alla chiusura del circolo, nel 1980, aveva ripreso a intervenire a modo suo, nella vita cittadina, con il suo Foglio volante, confezionato artigianalmente, fotocopiato e diffuso come un samizdat clandestino, per vie misteriose che solo lui conosceva. Lo riceveva pure Umberto Eco.
Umberto Eco tra i suoi amati libri
Poeti a Santa Chiara
Sul Foglio volante riprendeva articoli significativi del dibattito in corso, ma da un certo momento in poi aveva iniziato a pubblicare anche testi suoi, brevi componimenti in versi, in dialetto, i muttetti di Santachiara, perché così aveva deciso di firmarli, dal nome della zona del centro storico, Santa Chiara, a cui si sentiva più legato per storia familiare.
Spesso incollava sui Fogli le foto delle attrici della sua giovinezza, specie quelle dove le forme dei fianchi e del seno erano più evidenziate. Alle dive più procaci dedicava versi allegri e scurrili, che amava leggere agli amici di passaggio e alle signore, purché fossero anche loro ben dotate, giunoniche. Sulle misure femminili era intransigente come nell’avversione allo stalinismo.
Oltre i confini cittadini
Radicato nella sua città, di cui conosceva aneddoti e personaggi, Antonio aveva però sempre guardato oltre i ristretti confini cittadini, dialogando con i protagonisti della cultura italiana e non solo. Scherzava raccontando di come fosse abituato a presentarsi, senza preavviso, a casa di Franco Fortini, per fare lunghe chiacchierate sulle novità in libreria e sulle vicende politiche.
Molti progetti di Mondo nuovo e Antonio Lombardi sono rimasti incompiuti, e sono testimoniati dalle carte d’archivio, corrispondenze per organizzare pubblicazioni, per sollecitare attenzione verso un autore ingiustamente dimenticato.
Durante gli anni della nostra frequentazione avevo pubblicato qualche articolo e alcuni documenti inediti del suo archivio, strappandogli qualche bonario e ironico apprezzamento: «Bravo, ti sei impegnato». Aggiungeva poi che, senza rendersene conto, stava scivolandoverso posizioni socialdemocratiche, dato che si intratteneva in conversazioni con una persona come me, estranea ai gruppi eternamente litigiosi della sua area politica.
Il carteggio con Lelio Basso
L’archivio è parziale, perché alcune parti sono forse andate disperse, o si trovano in mano a persone che non sono riuscito a rintracciare, o che non intendono metterle a disposizione. Materiale vario credo sia ancora nel negozio. Dietro sue indicazioni ho cercato le tracce delle centinaia di lettere scambiate, in venti anni, con registi, pittori, artisti e intellettuali italiani e stranieri. A Mondo nuovo avevano progettato di pubblicarle, per documentare l’attività del circolo. Forse in parte si potrebbero ancora recuperare, tra i fondi documentari privati disponibili negli archivi. Servirebbe un progetto di ricerca.
Anche nella sua parzialità la documentazione è impressionante rispetto agli striminziti resoconti e annuari di altre associazioni coeve. Di recente, dando seguito a una sua volontà e dopo aver considerato la situazione degli istituti culturali cittadini, ho deciso di consegnare tutte le carte in mio possesso alla Fondazione Basso a Roma, dove già custodivano le lettere scambiate con Lelio Basso, verso cui Lombardi nutriva un affetto filiale.
Un articolo dedicato a Mondo Nuovo e Antonio Lombardi
Il dovere di ricordare
Sapevo e so bene, ora che non c’è più, che ben altro andrebbe ricostruito e portato all’attenzione in un dibattito dominato, come sempre, da logiche di mercato e diviso in riserve indiane, in cui non ci si può azzardare a mettere piede. Antonio Lombardi non si rammaricava dell’isolamento e delle ristrettezze economiche dei suoi ultimi anni. L’aveva messo in conto molti anni fa, quando il suo attivismo e la sua irruenza avevano scavato il vuoto intorno a lui.
Ora però la sua città e i suoi amici e anche i suoi avversari dovrebbero rendergli omaggio e saldare il debito nei suoi confronti.
Il 26 marzo scorso ho visitato per la prima volta la chiesa di San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, in provincia di Cosenza. Si tratta di un sito immerso nel verde di un fitto bosco, raggiungibile anche in macchina, seguendo una strada stretta ma asfaltata. La maggior parte delle persone presenti quel giorno, però, ha raggiunto questo luogo bellissimo a piedi, seguendo probabilmente gli stessi sentieri percorsi dai monaci compagni e discepoli di Gioacchino da Fiore, che morì qui, il 30 marzo del 1202.
San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta
La moda dei cammini
Marciare per antichi sentieri ormai va di moda. Migliaia di pellegrini si muovono ogni anno lungo la via che attraverso i Pirenei porta a Santiago de Compostela, in Spagna, oppure lungo la via Francigena, che dal Nord Europa, attraverso le Alpi e i passi appenninici, conduceva i penitenti a Roma, per pregare nelle grandi basiliche della cristianità e lucrare l’indulgenza.
Il fatto che si stampino libri intitolati Come sedurre la cattolica sul cammino di Compostela (Castelvecchi) lascia intuire che le motivazioni di questi marciatori incalliti possono essere le più varie, non tutte riconducibili a un’esigenza religiosa.
Dobbiamo ammettere che qualcosa del genere accadeva anche ai tempi di Dante Alighieri, quando personaggi di ogni genere si mettevano in cammino per desiderio di avventura, per sfuggire alla giustizia, per cercare un luogo migliore in cui vivere.
Molti testi ispirati raccontano, invece, il valore del pellegrinaggio, il senso di questi viaggi che potevano durare anni, attraverso selve oscure e pericoli di ogni sorta, e trasformavano la sensibilità del pellegrino, gli spalancavano la conoscenza di altri mondi, altri stili di vita e culture materiali.
E oggi? Prendiamo ad esempio la giornata dedicata a uno dei luoghi di Gioacchino da Fiore, un personaggio noto in tutto il mondo agli studiosi di Medioevo, citato a proposito e a sproposito da politici, rivoluzionari, agitatori e scrittori di ogni epoca, per la sua forza visionaria, per la prefigurazione di un’età della Spirito, in cui tanti hanno voluto vedere un sogno messianico e utopistico.
Più Gioacchino da Fiore, meno peperoncino e calabriselle
Gioacchino da Fiore è quasi certamente il calabrese più famoso di tutti i tempi. Ma nella sua terra i luoghi in cui ha vissuto e operato sono fuori dalle strade principali. Non fanno parte dell’immaginario collettivo, che può spingere gli stessi calabresi e i visitatori di questa regione sulle sue tracce. La Calabria ama presentarsi con il logo dei Bronzi di Riace, ma più prosaicamente e banalmente si racconta con le calabriselle, le cipolle, i peperoncini festivalieri e altri prodotti enogastronomici su cui si fa affidamento, per invogliare i viaggiatori a percorrere le sue strade dissestate.
Antica iconografia che raffigura Gioacchino da Fiore
A me i prodotti sott’olio non sembrano una motivazione sufficiente per mettersi in viaggio. Si parte per un’esigenza interiore, per cercare qualcosa, per capire una parte di sé che nascondiamo a noi stessi, a volte, per timore che ci scombussoli la vita ordinata e noiosa che conduciamo. Possiamo anche ammettere che, durante il cammino verso Santiago de Compostela o qualsiasi altra meta, i falò serali, le chitarre e il vino per ristorarsi dalle fatiche della giornata favoriscano la reciproca attrazione e seduzione, ma si tratta sempre di un’alta e nobile necessità (questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine, un rapimento mistico e sensuale… cantava il vecchio Battiato).
Contro le direzioni ovvie e banali
A me la strada verso San Martino di Giove, a Canale di Pietrafitta, ha fatto pensare che di solito, nella nostra vita, imbocchiamo quotidianamente le direzioni più ovvie e banali, che ci appaiono le più semplici e rassicuranti. Perché sono quelle più affollate, c’è sempre tanta gente e ci pare naturale ficcarci pure noi nella confusione.
Invece gli antichi sentieri sono solitari, incutono un po’ di timore, facciamo bene ad avventurarci da soli?cNon sarebbe più normale andare a spasso sul corso oppure al centro commerciale?
Alla fine, il 26 a Canale, ci siamo ritrovati in cinquanta persone, che non è proprio una situazione eremitica, di quelle che piacevano tanto all’abate Gioacchino. Forse vorrà dire che nel manicomio inconcludente che è la nostra vita, non siamo gli unici a pensare che bisognerebbe fermarsi, rallentare il passo, guardarsi intorno e recuperare questi luoghi incantati che, per miracolo, ancora sopravvivono in Calabria.
La chiesa di Gioacchino diventò una stalla
San Martino di Giove, come tanti altri monasteri, era diventato una stalla di proprietà privata. In periodo napoleonico prima e poi con l’Unità d’Italia, le leggi sul patrimonio ecclesiastico hanno espropriato molti beni della Chiesa, venduti all’asta o trasformati in edifici pubblici, caserme, uffici, scuole.
Solo di recente questo piccolo edificio è stato recuperato e liberato dalle murature più arbitrarie, e ci appare in tutta la sua bellezza. Quest’anno Demetrio Guzzardi, editore di Editoriale Progetto 2000 e irrefrenabile animatore culturale, ha in programma di guidare le pattuglie di intrepidi camminatori a riscoprire, dopo San Martino di Giove, anche altri luoghi gioachimiti nascosti lungo quelle strade secondarie, che sembrano tagliate fuori dai circuiti più consueti.
I luoghi di Gioacchino da Fiore in Calabria
La Sambucina a Luzzi, che non si trova in paese, ovviamente, ma lungo la strada poco frequentata che porta in Sila. Santa Maria della Matina a San Marco Argentano, lungo la vecchia statale. Sono due luoghi uniti da una lunga storia e il 26 giugno prossimo Guzzardi propone un preoccupante tour automobilistico-pedonale, tra questi due centri della Calabria medievale. Preoccupante per me, che mi perderò di sicuro.
Il complesso di Santa Maria della Matina a San Marco Argentano
E che dire della giornata del 23 luglio? Da Fontelaurato, nel comune di Fiumefreddo Bruzio, alla Badìa e a Sotterra a Paola, tre luoghi incredibili, che meriterebbero pagine e pagine di racconto, e invece hanno rischiato la distruzione totale e la cancellazione dalla memoria. La Badìa ci riporta alla storia delle Crociate, in particolare a un piccolo ordine monastico-cavalleresco, quello di Santa Maria di Valle Josaphat.
Questi monaci e cavalieri, dopo la perdita dei luoghi santi, si riorganizzano tra la Sicilia e la Calabria, che rappresentavano una prima linea contro il mondo musulmano. All’epoca il dialogo interconfessionale non andava di moda. Cristiani e musulmani si combattevano ferocemente. Quanti libri sono stati scritti sui Templari e sulla loro tragica fine? Sicuramente conosciamo meglio le loro vicende rispetto a quelle che si sono intrecciate intorno alla Badìa. Luoghi che non hanno trovato ancora un narratore, che riesca a farli rivivere per un pubblico più vasto di quello degli storici di professione.
I resti dell’abbazia di Corazzo a Carlopoli
Guzzardi da molti anni affianca al suo lavoro di editore questa missione di animatore e organizzatore, a cui si dedica con un accanimento che gli invidio (ne avrei bisogno per certe faccende mie).
A spasso tra le rovine
La riscoperta dei luoghi gioachimiti proseguirà, dal 20 al 27 agosto, intorno alle suggestive rovine di Corazzo, nel comune di Carlopoli (CZ). In Sila, tra i boschi più alti, dove Gioacchino amava ritirarsi per meditare e pregare. E dove ognuno di noi potrebbe avere l’occasione di passeggiare e riflettere sulla propria situazione. Lontano dai lidi affollati, dalla musica sparata al massimo, dalla spazzatura che si accumula, come ogni estate, nelle nostre marine. E non mancheranno, non mancano mai, gli articoli giornalistici sugli sversamenti di liquami a mare, ricorrenti ogni anno per la serenità e la gioia delle famiglie che ci portano i bambini.
L’abbazia florense di San Giovanni in Fiore
Il bed and breakfast del pellegrino
Un’altra vita è possibile? Non riesco a immaginarmi nei dintorni di Corazzo ad occuparmi di mucche al pascolo. I bovini mi sembrano grossi e pericolosi per i dilettanti allo sbaraglio. Non mi azzarderei ad avviare una produzione di vini dell’abate, né ad impiantare un Bed and Breakfast del pellegrino lungo uno di questi percorsi. Io mi accontento di visitarli, certi posti, e di conoscerne o immaginarne le storie.
Ognuno dovrebbe concedersi la libertà di cercare quello di cui sente il bisogno, in un determinato momento della sua vita. Forma fisica e fidanzate, silenzio e preghiera, lontananza e anche, se capita, l’idea di candidarsi come apprendista pastore, boscaiolo, guida turistica, eremita a tempo indeterminato.
Non possiamo portarci tutto appresso
La Calabria medievale è lontana. Possiamo vagamente intuire come fosse, ma la nostra vita è un’altra faccenda. Il mondo in cui siamo immersi è complesso e inquietante. Per affrontarlo con cautela e sensibilità abbiamo bisogno di sapere da dove veniamo. Abbiamo bisogno di aggrapparci alle nostre radici, di capire cosa custodire e cosa abbandonare, se non ci interessa più. Non possiamo avere tutto e nemmeno portarci tutto appresso; i pellegrini di una volta lo sapevano, e pure i viaggiatori di oggi sono consapevoli che il bagaglio deve essere leggero.
Gli spazi culturali e, più in particolare, i teatri pubblici dell’area urbana di Cosenza e provincia sono in massima parte disabitati. Non sono vissuti e utilizzati dagli artisti e operatori culturali del territorio, se non per sporadiche rappresentazioni o periodi molto limitati. Una stranezza che bisognerebbe correggere. Nonostante negli ultimi dieci anni ci siano stati dei tentativi di modificare questa situazione – un esempio è rappresentato dalle residenze teatrali – la gran parte di questi percorsi ha avuto durata breve, perché legati a episodici bandi regionali, agli avvicendamenti di sindaci e amministratori locali, agli umori di dirigenti della cosa pubblica.
I teatri disabitati di Cosenza
Come dare un’abitazione agli artisti e gli operatori culturali del territorio nei teatri pubblici disabitati? Come possono questi artisti allestire gli spettacoli? Organizzare e gestire laboratori, corsi di formazione? Organizzare e gestire rassegne e festival? Programmare stagioni? Come entrano nei teatri gli artisti e gli operatori culturali per fare ciò che si solitamente si fa nei teatri? Qualcuno potrebbe rispondere: pagando! Ma chi potrebbe permettersi di sostenere le spese di gestione di un teatro come il Rendano per dar vita ad un organismo di produzione e programmazione?
Il teatro Rendano vuoto
La questione dei “teatri disabitati” che devono essere “abitati” è fondamentale, il ritornello continuo di ogni possibile discorso sui luoghi della cultura, comprendendo ovviamente la musica, la danza e le arti della performance in senso ampio. Per “artisti del teatro” chiaramente ci si riferisce a quanti, professionalmente e con continuità, si occupano di prosa, lirica, musica sinfonica, danza e arti performative.
La grande crisi
Ma veniamo agli spazi teatrali pubblici cosentini: l’ultracentenario Rendano, per lungo tempo unico “teatro di tradizione” in Calabria, ha avuto negli ultimi 20 anni una dotazione economica via via sempre più piccola, fino a diventare di fatto inesistente. Nonostante il conclamato stato di crisi delle casse comunali è questa una condizione che la nuova amministrazione dovrebbe affrontare con risolutezza, con un impegno forte. Dove reperire i fondi per il suo corretto funzionamento? Come intercettare i finanziamenti del Ministero della Cultura e della Regione Calabria?*
L’ingresso del Cinema-Teatro Tieri è da tempo rifugio per chi non ha un tetto
Poi c’è il Teatro Italia-Tieri, edificio che nel tempo è stato utilizzato nei modi più disparati. Non c’è mai stato su questo luogo un progetto preciso per l’utilizzo. Da qualche parte ho letto che la passata giunta comunale avrebbe emanato un bando per affidare il Tieri ad una gestione esterna. Non sono a conoscenza dell’eventuale esito di questa iniziativa. Di sicuro c’è che sulle sue scale esterne hanno trovato alloggio due clochards. Almeno è casa per qualcuno.
Area urbana e spazi culturali
Il teatro Morelli, già sede del defunto Consorzio Teatrale Calabrese la cui dipartita per fallimento risale ormai a oltre 30 anni fa, giace anch’esso chiuso, tornato di proprietà privata. Ci sono poi altri spazi, ma forse è meglio non allargare troppo il discorso. Giusto come promemoria cito il piccolo teatro all’interno del Cubo Giallo della Città dei Ragazzi, le sale della Casa delle Culture, i BocsArt…
È accettabile questa situazione? Che senso hanno queste porte chiuse? Come restituire questo patrimonio alla vita della comunità?
Saracinesche abbassate al Morelli: il Comune ha disdetto il contratto per risparmiare dopo la dichiarazione di dissesto
Non è più eludibile la progettazione di nuove forme di gestione per i teatri ed eventualmente per gli altri spazi culturali. E girando lo sguardo verso nord ci sarebbe pure da affrontare la condizione nella quale giacciono i due teatri dell’Università della Calabria. Il discorso, però, si farebbe davvero troppo complesso. Eppure sempre di area urbana Cosenza-Rende si parlerebbe.
Una fondazione per il Rendano
Ma restando a Cosenza e focalizzando l’attenzione sul meraviglioso Teatro Rendano, cosa si potrebbe fare? Da tempo ormai, varie voci si sono levate parlando dell’opportunità di dar vita ad una fondazione pubblico-privata per la sua gestione. È vero, potrebbe essere opportuna una configurazione giuridica autonoma dal Comune. Intendiamoci: il Rendano deve restare “pubblico”.
Ma una Fondazione di emanazione comunale adeguatamente sostenuta dalla Regione Calabria e da soggetti privati (con percentuali tutte da studiare), potrebbe essere una strada percorribile per dar vita ad un’ente con un Consiglio d’Amministrazione snello, capace di dotarsi di una direzione artistica che possa operare con il supporto di un adeguato staff organizzativo e gestionale. Un organismo siffatto avrebbe la necessaria autonomia per procedere all’istituzione di una orchestra e/o di una compagnia di prosa stabile.
Una scatola vuota da rilanciare
La stabilità teatrale, quando è ben amministrata, è un modo per calcolare i costi di gestione con oculatezza e per garantire la qualità artistica media. È del tutto evidente la necessità di far camminare insieme progettazione culturale, gestione organizzativa e visione artistica. Un teatro altrimenti resta una scatola vuota, più o meno bella e ben tenuta, da aprire saltuariamente per ospitare eventi che il più delle volte non lasciano niente al territorio, episodi effimeri di mero intrattenimento che non incidono sulla trasformazione culturale.
Il Teatro Rendano di Cosenza
La creazione di una Fondazione per la gestione e la nascita di un organismo artistico stabile all’interno non deve apparire come un’utopia, ma una concreta possibilità di rilancio, è un’idea di futuro. D’altra parte cos’altro si potrebbe fare? Quali le altre strade percorribili per uscire da questa condizione di eterno stallo?
Questa sarebbe la vera rivoluzione di cui il teatro calabrese ha bisogno per diventare finalmente adulto, proprio ora, proprio adesso, quando ancora la pandemia non è finita e nel cuore dell’Europa arde una guerra, proprio adesso c’è bisogno di agorà, di centri culturali che abbiano la giusta dimensione per farsi carico della complessità del presente.
Dai teatri a Cosenza hub creativo
Bisognerebbe lavorare quindi per la costruzione di un’ente, inizialmente sperimentale, che possa ambire nel giro di qualche anno (3/4?) ad accedere ai finanziamenti ministeriali. Non dico di puntare a far diventare il Rendano un Teatro Nazionale**, perché servirebbero economie da far tremare i polsi, ma con un giusto investimento da parte degli enti territoriali sarebbe plausibile, nel medio periodo, puntare ad ottenere il riconoscimento come TRIC** (Teatro di Rilevante Interesse Culturale).
L’obiettivo di lungo termine di un organismo istituzionale del genere sarebbe di perseguire un equilibrio tra la valorizzazione delle risorse culturali del luogo (sì, il genius loci è importante!) e il continuo confronto con la produzione artistica nazionale e internazionale. E accanto a questo si dovrebbe delineare un sistema integrato che sia di luoghi, ma soprattutto di progetti socio-culturali innovativi per incidere sullo sviluppo di un’area vasta: la città di Cosenza come naturale baricentro culturale di tutta la provincia. Un “hub creativo” che possa sperimentare in più direzioni nuove modalità produttive, di programmazione, di relazione, di promozione, di formazione del pubblico e degli operatori del settore.
Istituzioni e operatori allo stesso tavolo
Come perseguire questo obiettivo? Non ci sono ricette preconfezionate, bisogna essere pieni di dubbi e domande, consapevoli della complessità che un progetto del genere prevede. Ma l’apertura di un tavolo di lavoro, con la partecipazione degli amministratori comunali e degli operatori culturali del territorio, potrebbe essere il viatico per l’inizio di una stagione nuova.
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Attraverso un confronto certamente lungo e difficile, si potrebbero individuare i passi da compiere per dotare il nostro territorio di uno strumento che manca da troppo tempo.
Diversamente ci si limiterà a continuare con la pratica degli eventi saltuari e si andrà avanti vivacchiando, tirando a campare, lasciando i nostri teatri e luoghi culturali pubblici vuoti e disabitati per la maggior parte del tempo.
Ernesto Orrico
* La nuova amministrazione ha annunciato, nelle scorse settimane, una collaborazione con il Conservatorio di Cosenza per partecipare ad un bando ministeriale che prevede la costituzione di un’orchestra.
** Teatro Nazionale e TRIC sono categorie ministeriali, così come i Centri di Produzione e i Circuiti Teatrali. In Calabria, allo stato attuale, nessun organismo o ente è riconosciuto, attraverso queste categorie, dal Ministero della Cultura.
C’è una vicenda che riguarda l’effimera idea di città unica (sempre più impropriamente definita “area urbana”) intorno a Cosenza, che ad oggi trova coerenza solo nella realtà che sancisce una lunga teoria di edificazione senza soluzione di continuitàlungo tutta la valle del Crati passando da Rende, fin, oltre Montalto. Una vicenda che rischia di assumere i contorni della barzelletta che fa il giro degli amici e ogni volta cambia versione!
Cosenza, Rende e la presunta area urbana
Ancora una volta parliamo della cosiddetta, (solo) presunta “area urbana”, tra Cosenza e gli altri centri conurbati, che sta assumendo il carattere solito delle cose meridionali: ciascuno dice la sua, approfittando, in questi mesi, di un effimero, temporaneo ritorno di attenzione per l’elezione del nuovo sindaco di Cosenza. Ma, diciamoci la verità, e senza ascoltare le voci dissonanti della politica locale: in questa vicenda si gioca da sempre all’improvvisazione, su tavoli nei quali non si sono mai visti uno straccio di strategia, in cui non sono mai comparsi nemmeno possibili confronti tra i piani urbanistici di questi diversi centri urbani, piani che non hanno mai dialogato tra loro e che in alcuni comuni sono fermi a 15 anni fa.
Ospedale e agenda: ognuno per sé
Non si è mai parlato di scelte localizzative di attrezzature di rango urbano, vedasi, ad esempio, la vicenda dell’Ospedale, una coperta corta che ognuno tira verso di sé. E che nemmeno in questo caso fa venire in mente ai governi locali e regionali che gli ospedali, come accade nei luoghi emancipati ed avanzati, si scelgono secondo una logica di coerenze molto complesse, che richiedono una serie considerevole di verifiche preliminari, piuttosto che – anche in questo caso – generiche rivendicazioni di “opportunità” in questo o quel luogo. Tantomeno si intravede uno straccio di agenda collettiva dei comuni di potenziale interesse alla fusione, con tanto di scadenze e appuntamenti per un possibile percorso comune.
Fusione a freddo
Non esiste, a memoria di chi si occupa di tale questione, anche solo una perimetrazione ad opera di uno dei comuni dell’area. Esistono invece seri studi nel Piano Urbanistico Territoriale Regionale, nel Piano Territoriale Provinciale, in alcune ricerche universitarie. Anche se datati, sono strumenti di pianificazione che hanno alle spalle quadri conoscitivi sufficienti anche solo a capire il numero di abitanti, i flussi automobilistici, la dimensione urbanistica-edilizia della “possibile” città della valle del Crati, ovvero una prima carta d’identità necessaria a non partire sempre da zero. Ma mai nessun sindaco, sono certo, si è preso la briga di consultare anche solo uno di questi documenti. Pertanto, la deludente sensazione è che, ammesso si proceda nel tentativo di dialogo, la fusione Cosenza-Rende e dintorni, si profilerebbe come ancora più fredda di quella avvenuta a Corigliano-Rossano.
Cosenza, Rende e l’area urbana da ri-costruire
Ciò che stupisce è il fatto che a nessuno dei presunti protagonisti del confronto (si fa per dire!) viene in mente che le città, i centri urbani, e i diversi elementi che le compongono, sono parte di complessi organismi dinamici. Richiedono una intelligente organizzazione di reti, servizi, infrastrutture. Necessitano di una coerenza di sistema. La sfida di una nuova città, seppure frutto di fusioni diverse, come in questo caso, è un progetto per ri-costruire, far meglio funzionare i servizi, i trasporti, gli spazi collettivi, i musei, l’offerta di intrattenimento, del commercio, dell’abitare.
Insomma, uno sforzo significativo per far vivere meglio i cittadini soprattutto, piuttosto che seguire nella lenta crisi ed emorragia di risorse, persone, economie, sperando, fatalisticamente, che la fusione possa cambiare il trend negativo.
Il nodo degli uffici
Qualcuno dei nostri politici locali, per esempio, si è chiesto e ha pensato al fatto che senza decentrare le diverse funzioni degli uffici provinciali e statali (oggi tutti ancora a Cosenza centro), le automobili in entrata, già con un numero preoccupante, potrebbero ulteriormente crescere? O al contrario, a Cosenza sarebbero disposti a perdere questa centralità, forse l’ultimo scampolo di capoluogo che rimane, mentre tutto il resto si è dissolto a favore di altri centri vicini? Penso, per esempio, alla consolidata routine degli impiegati dei vari uffici pubblici cosentini, difficilmente disposti a spostarsi di sede, abituati come sono al binomio sedile auto-poltrona ufficio senza alcuno sforzo, nemmeno in tempi di smart working.
La città dei 15 minuti
E per dire quanto, tristemente siamo indietro rispetto al dibattito in Europa e in Italia, questa vicenda della presunta fusione è fuori da quel sano e necessario confronto e dibattito che si è aperto sulle città post-pandemia. Tagliati fuori dal flusso delle migliori, necessarie esperienze urbanistiche che dovranno cambiare, per necessità, le nostre città e i modelli di vita: altrove si parla di ripensare i centri urbani e attuare “la città dei 15 minuti”, qui al massimo si parla di consorziare i rifiuti, e già sarebbe un grande risultato!
“La città dei 15 minuti”, è un modello, che arriva dall’esperienza di Parigi, un modello di città sostenibile, proposto dall’urbanista franco-colombiano della Sorbona, Carlos Moreno, che prevede di riorganizzare gli spazi urbani in modo che il cittadino possa trovare entro 15 minuti a piedi da casa tutto quello di cui ha bisogno: lavoro (anche in co-working), negozi, strutture sanitarie, scuole, impianti sportivi, spazi culturali, bar e ristoranti, luoghi di aggregazione e via dicendo.
Il ritardo aumenta
Un modello assolutamente a portata di mano in questa nostra realtà, che però non è affatto centro di interesse e confronto, laddove le agende urbanistiche comunali sono chiuse, infilate in qualche polveroso cassetto e li restano languendo inutilmente, così che il ritardo, rispetto al resto d’Italia e d’Europa, aumenta a dismisura.
Non è troppo, dunque, chiedere serietà, maturità, umiltà, alla politica, proporre di affidarsi a chi conosce i problemi e può aiutare a risolverli. Soprattutto in situazioni quali il ripensare totalmente un diverso modello urbano, a misura d’uomo e non di automobile, in cui è in ballo un possibile, diverso futuro. Sarebbe serio smetterla con lapropaganda e dire che vorremmo più serietà e credibilità. Perché il futuro dell’area urbana, di Cosenza e Rende, non si può giocare sulla pelle dei cittadini!
Promulgato il 16 marzo 1942, con la previsione che sarebbe entrato in vigore nel giorno del Natale di Roma, il successivo 21 aprile, il Codice civile italiano veniva preannunciato nel 1939 da Vittorio Emanuele III – nel discorso di apertura della XXX legislatura davanti alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni – come il coronamento dell’opera di codificazione mussoliniana, già avviata con i codici penale e di procedura penale, che nel nuovo testo, secondo il regale avviso, avrebbe assunto “particolarissima importanza” soprattutto nella disciplina “del diritto familiare e di tutti i problemi afferenti alla difesa della nostra razza, alla quale il regime ha dato sin dall’inizio le sue più costanti energie”. Basti ricordare che nell’anno precedente il monarca non ebbe alcuna difficoltà a promulgare le leggi razziali, per comprendere come il passaggio del discorso appena ricordato dimostri, se ve ne fosse bisogno, che quelle ignominiose leggi erano pienamente condivise e non subite dal promulgante.
Il Codice civile del 1942
Codice civile, un testo fascista
Esaltato come tale, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, il quale lo definiva “superba conquista della civiltà fascista”, narrandone le innovazioni e gli aggiornamenti determinati, rispetto alla “vecchia legislazione”, dall’influsso delle idee della “nuova civiltà nazionale e fascista”. Insieme al codice di procedura civile, a quello della navigazione e alla legge fallimentare – si diceva certo l’alto magistrato – “entrando in attuazione nel mentre la guerra infuria, queste leggi costituiscono un potente strumento di compattezza e di resistenza morale e politica e danno una base salda e duratura alle realizzazioni dell’immancabile vittoria, che schiuderà all’Italia nuovi spazi vitali nel mondo”.
Una profezia fallace
La firma dello Statuto Albertino
Nel luglio 1943 cade il fascismo, il monarca prima plaudente fa arrestare Mussolini, la guerra è persa e viene firmato l’armistizio. Viene soppresso l’ordinamento corporativo, indicato fra le fonti del diritto nella prima disposizione preliminare al codice civile, ma il codice sopravvive intonso fino al 1° gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione della neonata Repubblica Italiana, che sostituisce alla posizione centrale dell’ordinamento giuridico, in precedenza (i.e. Statuto albertino) assunta dall’autorità statuale (che poteva, ad esempio, permettersi anche di varare leggi razziali), i diritti naturali della persona umana, inviolabili da chiunque, anche dallo Stato.
La rivoluzione copernicana del nuovo Codice civile
Una vera e propria rivoluzione copernicana che, ponendo al centro la persona, afferma le libertà del cittadino, come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, contemperandole con i doveri di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2); dichiara la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro eguaglianza, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, assegnando alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).
Tale rivoluzione mette in discussione l’impianto stesso del codice civile, che tuttavia non viene rimosso dal legislatore ordinario e continua a regolare la vita dei cittadini ed i loro rapporti, quasi che l’impatto costituzionale dovesse riguardare prevalentemente il diritto pubblico (quod ad statum rei romanae spectat), ma meno incisivamente il diritto privato (quod ad singulorem utilitatem). Si teorizza che le norme costituzionali hanno soprattutto carattere programmatico, riservando al legislatore il compito di attuarle con nuove leggi. Inizia in tal modo il percorso, oggi giunto al compimento degli ottanta anni, attraverso il quale il codice, navicella costruita per navigare nel mare del sistema corporativo e del regime autoritario, affronta la sfida della navigazione in tutt’altro mare e con punti cardinali mutati.
Ottant’anni di cambiamenti
In questi ottanta anni sono intervenute sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità di singole norme, ma non sono mancate riforme legislative parziali, che però hanno mutato l’assetto di specifiche materie senza incidere sull’impianto generale. La materia del lavoro, ad esempio, rimasta orfana dell’ordinamento corporativo, non ha conosciuto una riforma del codice ed è stata affidata alla legislazione speciale e alla contrattazione collettiva, con la mutevolezza che ne è derivata nelle diverse stagioni politiche. Viceversa la materia commerciale, che aveva trovato dimora nel codice civile per “scelta fascista” (nella codificazione ottocentesca esistevano due distinti codici: quello civile e quello di commercio), è stata mantenuta a dimora e tuttavia riformata più volte soprattutto con riferimento al diritto societario.
Il Codice civile e le famiglie
Laddove l’azione riformatrice è stata più incisiva, nel diritto di famiglia, il progresso è stato molto lento. Ci sono voluti ventisette anni, nel 1975, evidentemente sull’onda del referendum popolare del 1974 che ha respinto le istanze di abrogazione della legge sul divorzio, perché il legislatore si decidesse a porre mano all’art. 144 (Potestà maritale) che, in contrasto con il principio di uguaglianza fra i sessi, sancito dall’art. 3 Cost., recitava: “il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.
Cittadini in piazza contro l’abrogazione del divorzio
Le ragioni di tanto ritardo sono tutte culturali e non hanno mancato di influenzare persino i lavori dell’Assemblea Costituente, se nel testo dell’art. 29 della Costituzione è dato leggere, con chiaro riferimento alla norma del codice allora vigente, che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come dire: una sorta di autorizzazione al legislatore ordinario a perpetrare discriminazioni della donna che infarcivano il codice sopravvissuto al fascismo, facendo prevalere il bene dell’unità familiare, costi quel che costi alla felicità delle persone, sulla parità di diritti e doveri dei coniugi.
Per non parlare poi del discrimine tra famiglia fondata sul matrimonio e convivenze di fatto (che ha trovato un accomodamento con la legge sulle unioni civili nel 2016), tra figli legittimi e naturali (equiparati solo nel 2012), ed ancora tra matrimonio e unioni civili (per le quali il legislatore che le ha istituite nel 2016 si è preoccupato di marcare la differenza con il matrimonio escludendole dal dovere di fedeltà).
Tante norme immutate
A fronte delle riforme alle quali si è fatto cenno, che sono intervenute in questi ottanta anni, la maggior parte delle norme del codice sono rimaste immutate. Ciò riguarda interamente il diritto delle successioni, quasi integralmente il diritto di proprietà e gli altri diritti reali, l’impianto del diritto delle obbligazioni e del contratto in generale. Tante innovazioni sono state apportate, senza modificare le norme del codice, attraverso la legislazione speciale, per cui si è formata una normativa parallela che ha disciplinato settori come, ad esempio, il diritto delle assicurazioni ed i contratti dei consumatori, introducendo principi e regole divergenti da quelle codicistiche.
Il Codice Civile compie 80 anni e li dimostra tutti
Un settore che soffre in particolar modo del mancato adeguamento del testo normativo al mutamento della realtà economica e sociale è quello della responsabilità civile. In esso, ma non è il solo, al legislatore si è sostituita la magistratura che, assolvendo ad una funzione di supplenza, non sempre virtuosa, ha iniziato persino a ”creare” norme non scritte nella legge.
La cosiddetta giurisprudenza creativa è oramai una realtà ineludibile, frutto di carenze imputabili ad un legislatore sempre più distratto e sempre meno tempestivo nel cogliere i mutamenti della società e le esigenze di regolazione di fenomeni nuovi (si pensi all’impatto che stanno determinato nella vita di tutti noi le nuove tecnologie e le intelligenze artificiali). Fenomeni che non possono trovare adeguata disciplina in un codice civile che, al netto delle riforme parziali intervenute, è in gran parte rimasto immutato in questi ottanta anni. Un codice prodotto dal fascismo, costituzionalizzato alla meno peggio, sempre meno pronto a garantire la certezza del diritto, vecchio di ottanta anni. E li dimostra tutti.
Vincenzo Ferrari Avvocato e Professore di Diritto Privato nell’Università della Calabria
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.