Categoria: Opinioni

  • Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Centrodestra uno e trino: che fine ha fatto il dio mercato?

    Vorrei iniziare con una domanda provocazione: che fine ha fatto “la mano invisibile del mercato” nelle scelte del centrodestra?
    Già solo a leggere i programmi economici, si intuisce un caos spaventoso. Si passa dalle grandi opere infrastrutturali, tipo Ponte sullo Stretto e Alta Velocità ferroviaria (quale volano keynesiano dello sviluppo e della creazione di ricchezza) alla flat-tax di Laffer, quale strategia fiscale a supporto della crescita e dei consumi ( e qui siamo in piena supply side economics) fino ad arrivare, nelle scelte degli enti locali territoriali, addirittura, alla gestione semi diretta (simil-IRI per intenderci) di impianti termali, di aeroporti e chissà di cos’altro ancora.

    Centrodestra: tanti voti e poche idee?

    La risposta più ovvia, ma da evitare, è sempre quella: attese le diversità delle anime politiche che lo abitano, il centrodestra resterebbe un efficacissimo cartello elettorale ma un debolissimo progetto politico ed economico.
    Tale caratteristica legittimerebbe le asimmetrie ideologiche e il coacervo, apparentemente irrazionale, di approcci alle questioni di politica economica. Troppo semplice, quasi banale.
    La mia impressione è che ciò sia dovuto a qualcosa di più problematico: si tratterebbe, al contrario, di una risposta politica alla complessità di una fase storica che non consente lussi, quali l’eleganza metodologica piuttosto che l’ortodossia ideologica, nella definizione delle policy.

    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il centrodestra ha abbandonato ormai da tempo la polverosa identità del sogno berlusconiano per sfociare in un pragmatismo deputato a fare sintesi tra liberismo-liberalismo, sovranismo e destra sociale.
    A ben vedere, le tre anime ideologiche del centrodestra stanno provando a cedere quote parte della propria sovranità culturale a vantaggio di un passaggio successivo capace di riallinearle sotto una comune veste strutturale.
    Sarà, forse, la formula istituzionale del (semi) presidenzialismo la nuova frontiera comune del centro destra? E quale DNA economico animerà il nuovo contenitore liberale dei conservatori italiani?

    Che si fa con la destra sociale?

    Deglobalizzazione ed emergenze ambientali, di sicuro, offriranno poco spazio a nostalgie di governance ispirate al liberismo puro.
    D’altra parte, considerando che, in termini elettorali, allo stato, Lega e Forza Italia, insieme, pesano meno di Fratelli d’Italia, appare ovvio immaginare una precisa riconfigurazione delle direttrici di politica economica, non propriamente ispirate al sovranismo e al liberismo della Lega e di alcuni settori di Forza Italia.

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    Le percentuali alle Politiche 2022

    Tuttavia, e qui sta la novità, molti politologici e troppi economisti tendono, inspiegabilmente, a sottovalutare la significativa matrice di destra sociale che caratterizza Fratelli d’Italia. Identificare la destra sociale nella destra liberista (o presunta tale) di Berlusconi e Salvini rappresenterebbe un grande errore e non restituirebbe la vera immagine della coalizione attualmente al governo. Le battaglie su periferie, ceti deboli, ruolo dello Stato, emarginati, famiglie, artigiani sono da sempre il terreno di coltura della destra sociale e di Fratelli d’Italia.

    Liberali all’italiana: il centrodestra e il mercato

    L’impressione è che si vada verso una nuova economia sociale di mercato capace di coniugare crescita e redistribuzione passando per il rafforzamento pubblico degli asset infrastrutturali (energia, autonomia alimentare, digitale, trasporti) senza arrossire dinanzi alla necessità della difesa degli interessi nazionali.
    Presidenzialismo, identità nazionale, nuove autonomie territoriali, Europa, mercato, politiche redistributive: il nuovo partito dei liberali italiani, forse, sta già muovendo i primi passi.

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    Attenzione tuttavia a non confondere, come spesso accade, tale possibile evoluzione con il modello renano (o neo corporativo) prevalente in Germania o Giappone, dove coesistono libertà di mercato, concertazione, dirigismo e, soprattutto, sindacati proattivi.
    La sfida italiana è più sottile e, nello stesso tempo, meno agevole.
    Dinanzi ad uno scenario inedito, fatto contemporaneamente di lotta al debito pubblico e di inflazione a doppia cifra, che politica economica e fiscale possiamo permetterci? E ancora, cosa significa essere liberali o attenti al sociale, con risorse pubbliche mai così rare e con imprese mai così insicure in termini di aspettative?

    Oltre le Regioni

    Occorre, forse, che questo centrodestra ripensi il paradigma dell’economia sociale di mercato. Un primo ordito metodologico potrebbe consistere nel rilancio (finalmente) del capitale civico, dell’economia civile e del protagonismo territoriale delle categorie. Costruire cioè unità geopolitiche diverse dalle attuali Regioni (troppo indistinte ed inefficienti) ed aggregare policy e territori sulla base di filiere produttive e sociali condivise.
    Il centrodestra potrebbe tentare di approcciare, ad esempio, la questione meridionale rivoluzionando la scala degli interventi e piuttosto che varare l’ennesimo piano decennale per il Sud (fatalmente destinato al flop, al pari dei suoi predecessori come la legge 64/1986) puntare finalmente su programmi di filiera capaci di aggregare territori omogenei e non “Regioni” ormai prive di senso identitario e politico.

    La sede della Giunta regionale della Calabria a Germaneto

    È ora di dire basta ai soliti POR e agli ormai ventennali partenariati regionali fantasma che nulla discutono, tutto approvano e poco spendono.
    Il dibattito è aperto. Servirebbe un po’ di coraggio. Politico. Anche europeo.

  • Fosse che fosse la volta buona… per l’asfalto?

    Fosse che fosse la volta buona… per l’asfalto?

    La volta buona, diceva Nino Manfredi. In realtà era “fusse”, ma a me serve la parola fosse e il meraviglioso di Missoni vestito mi capirà. Provate a pronunciarla, la parola fosse, e fatelo ad alta voce. È l’emblema della leggiadria calabra unità all’asprezza dei Bruzi. Fosse ovunque, crateri divenuti ormai patrimonio comunale, che è già assai che chi lo abita per qualche secondo con la propria ruota di macchina non debba pagarci l’Imu. Con il freddo e le piogge non si può fare niente, dobbiamo tenercele, così ci dicono. Ce lo dice Caruso, ce lo dicevano Occhiuto, Catizone e persino l’icona Mancini.

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    Tra le fosse e Cosenza è amore

    Poi ti capita per caso di andare ad Oslo, a Berlino, ad Amsterdam. Città più piovose e più fredde delle nostre, e vedi asfalto perfetto, senza un centimetro di crepa. E pensi: ma allora a noi dicono bugie? E a questa domanda dai la risposta: sì, ci dicono bugie. Perché il problema non è il maltempo ma la qualità del materiale utilizzato. Semplice no? Se usassero materiale idoneo avremmo Piazza Loreto come Piazza Dam. Ma noi di europeo vogliamo solo Piazza Europa, sia ben chiaro! E aspetteremo sempre che un giorno arrivi in Comune un Van De Carusen e chissà che… Fosse che fosse la volta buona. Tanto Nino non potrà correggerci. S’i’ fosse foco arderei lo mondo, si Fosse assai sarei Viale Parco.

    Sergio Crocco

  • Da Peppe mani di forbice ai cubani: tante ricette, nessuna cura

    Da Peppe mani di forbice ai cubani: tante ricette, nessuna cura

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    Peppe Scopelliti, allora trionfante presidente della Calabria, quel giorno di settembre del 2010 solcava la folla adorante per entrare nel cinema Morelli come Mosè aveva aperto il Mar Rosso. Era venuto a Cosenza per annunciare la sua cura per salvare la malatissima sanità regionale: chiudere gli ospedali. Appena sotto il palco, in prima fila, l’allora deputato dell’Udc Roberto Occhiuto plaudiva sorridendo alla decisione. Il nome dato all’evento politico era “Meno sprechi, più qualità” e sappiamo com’è andata a finire: i calabresi sono rimasti senza cure, Scopelliti è finito in carcere (ma scontata la pena è riuscito a portare a casa una discreta somma da baby pensionato) e Roberto Occhiuto è diventato presidente della Regione. Quel pomeriggio non poteva certamente immaginare che la patata bollentissima della sanità sarebbe finita proprio nelle sue mani.

    Sanità in Calabria, non si salva nessuno

    Quella scelta, di chiudere ben 18 ospedali, non era una decisione di stampo tatcheriano, ispirata dalla cieca fiducia nel mercato del liberismo lacrime e sangue. La Destra italiana, infatti, non ha mai avuto quella drammatica statura. Fu invece una ricetta fatta in casa: abbiamo debiti? Chiudiamo gli ospedali. Il prezzo l’hanno pagato quelli che non hanno trovato strutture di prossimità, né qualità in quelle lontane. Non solo: la spesa non è diminuita, così come il debito mostruoso accumulato in decenni di politica bipartisan. Perché in questa storia triste non c’è chi si salvi, da Chiaravalloti a Loiero, da Scopelliti a Oliverio, fino alla breve parentesi di Santelli, passando per l’interregno di Spirlì.

    Emergenza e normalità

    Nel mezzo la Calabria ha dovuto affrontare la più grande pandemia del dopoguerra con strutture sanitarie inadeguate, pochi medici, risorse insufficienti. Era una emergenza, ma anche la normalità non è che andasse bene. Mesi per effettuare una ecografia, o qualunque esame diagnostico, una crepa dentro cui si è con profitto infilata la sanità privata facendo di fatto la differenza tra chi può pagare e curarsi e chi no, alla faccia di quanto scritto sulla Costituzione circa il diritto alla salute.

    Sanità, un anno dopo

    Oggi il deputato che sorrideva all’idea di mutilare la sanità calabrese ha ereditato, anche da se stesso, un fardello gravosissimo e in soccorso ha chiamato circa 500 medici cubani dei quali, annunci a parte, si è saputo poco o nulla. A Repubblica, nel febbraio 2022 dichiarava «Sono commissario alla Sanità da due mesi e ho trovato un disastro» e ottimisticamente aggiungeva: «ma datemi un anno». Febbraio 2023 è vicino, un anno passa in fretta.

  • Prima che tutto frani: previsione e prevenzione

    Prima che tutto frani: previsione e prevenzione

    Non sorprende constatare che dopo gli ultimi fatti disastrosi delle Marche e della Sicilia la maggior parte delle considerazioni abbia riguardato l’abusivismo. Che c’entra, certo, ma prima, a monte, c’entra altro. Né il rosario senza fine che si sta sgranando sotto i nostri occhi da decenni – e riguarda la Calabria come ogni parte d’Italia, nessuna esclusa, con frane, alluvioni, devastazioni, lutti, risorse ingentissime spese posteventi e quasi altrettanti soldi disponibili e non utilizzati – basta ad accendere la scintilla della messa in sicurezza prima di ogni altra cosa. Che non significa inseguire un improponibile rischio zero ma nemmeno adagiarsi su una non ammissibile deregulation, ma previsione e prevenzione sì, però. Così come pianificazione e utilizzo del territorio secondo criteri basati sulle conoscenze, l’equilibrio fra i diversi comparti territoriali, urbani ed extraurbani e il controllo da parte di ha ruolo e responsabilità.

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    Difesa del suolo? Si fa poco e poi succede “Casamicciola”

    Dagli Usa all’Italia

    Un tempo non lontano solo a parlare di “piano” si richiamavano echi di modernità, di razionalità, di proiezione in avanti. Di certo le misure messe in essere dalla Tennessee Valley Authority varata da Roosevelt dopo il giovedì nero del ‘29 diedero una spinta poderosa alla “progettazione” e alla gestione del territorio in accordo alla multidisciplinarietà e all’utilizzo plurimo delle risorse.

    Il presidente Franklin Delano Roosevelt firma uno dei provvedimenti economici del New Deal

    La diffusione in Italia di quanto si stava facendo Oltreoceano sul Politecnico di Elio Vittorini funzionò da spinta ai primi governi di centrosinistra in Italia con Giolitti ministro per varare una stagione virtuosa e carica di promesse in tal senso: quelle della pianificazione, della previsione, della prevenzione.
    Solo che i piani si moltiplicarono in misura esponenziale, invalse una loro concezione fin troppo rigida e poco modulabile. Le risorse cominciarono a scarseggiare. Così – anche per la sovrapposizione fra essi che di fatto creò una situazione fra l’eccessivamente vincolistico da una parte, la contraddittorietà dall’altra – quella stagione tramontò, in corrispondenza, e non è secondario, con un edonismo diffuso che piano piano prendeva piede.

    Interviene l’Europa. E sono guai

    Nel settore acqua-suolo lo strumento principe è stato il Piano di bacino che, a partire dal 1989 quando il Parlamento approvò il Programma Decennale per la Difesa del Suolo, individua comparti territoriali, strumenti, istituti, risorse, best practices per una ottimale politica di utilizzo del territorio. Ha dato frutti estremamente significativi, se pure molto osteggiato da chi lo giudicò un mezzo per limitare e vincolare e sottrarre poteri ai tanti cacicchi locali, avvalendosi degli straordinari risultati via via ottenuti in discipline quali l’idraulica, la geologia, la geotecnica.

    La difesa del suolo deve tornare al centro dell’agenda politica

    Le università e il Cnr costituirono magna pars di quel poderoso processo messo in moto, che nei fatti si arrestò nel 2000 con le Direttive Europee che mutarono volto e corpo al nostro apparato normativo e alle sue diverse articolazioni. Lo mutarono senza che ne conseguissero risultati positivi, fino a giungere a tutto il primo ventennio del terzo millennio con un territorio in balia di se stesso, confuso in termini di centri di competenze, responsabilità spalmate e irrintracciabili, controlli, cambiamento climatici e tutto quanto stiamo vivendo.

    Basta scaricabarile

    Recuperare la tensione e l’attenzione dei decenni passati, sulla scorta delle esperienze nel frattempo maturate e dei risultati conseguiti è così un imperativo etico oltre che politico per rispondere alla domanda di intervento e di responsabilità che sorge dai cittadini. Per onorare le vittime, senza ricorrere a una indecorosa caccia al colpevole. O al gioco preferito degli italiani: lo scaricabarile.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

     

  • Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

    Economia senza lavoro: il futuro bussa al reddito di cittadinanza

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    «Entro il prossimo secolo il lavoro di massa sarà cancellato da quasi tutte le nazioni industrializzate» (La fine del lavoro, J. Rifkin, ed. Baldini & Castodi). Era il 1995 e Rifkin spiegava che il lavoro, almeno per come siamo stati educati a pensarlo, è finito. Non era una profezia, era uno sguardo proiettato verso un futuro che già allora non era lontano e che oggi è diventato il tempo che stiamo vivendo. Quell’annuncio trova riscontro in quanto accaduto in questi decenni: oggi per produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri sono necessarie meno ore di lavoro e meno lavoratori.

    Vuol dire che un numero sempre maggiore di persone è stato e sarà espulso dal sistema produttivo, restando così senza reddito. A muovere questa rivoluzione è la capillare diffusione dell’alta tecnologia, che invece di promettere meno ore di lavoro e una migliore qualità della vita, ha generato disoccupazione globale e immiserimento delle esistenze. L’economia non si è fermata, semplicemente ha cominciato a fare a meno delle persone.

    L’economia fa a meno delle persone

    E se l’economia non genera più lavoro, ha ragione De Rose a domandarsi nella sua riflessione sul nostro giornale «che senso ha ancorare il destino di tante persone alla formula odiosa dell’occupabile?».
    È per questo che praticamente ovunque nei paesi ricchi si è provveduto a pensare a forme di reddito separato dal lavoro. Questi provvedimenti hanno molte facce: solidarietà sociale, rivendicazione del diritto all’esistenza, ma più di ogni altra motivazione quella più aderente alla realtà è garantire l’accesso al consumo.

    In Calabria in realtà questa è una vecchia storia: qui, dove abbiamo saltato ogni forma di sviluppo industriale e dove l’assenza di lavoro è endemica, il sostegno al consumo ha avuto le sembianze del clientelismo e delle pensioni di invalidità erogate à gogo. Nella nostra regione, secondo i dati Istat aggiornati al 2021, il 18,4 per cento della popolazione è senza lavoro, con la provincia di Crotone a guidare la classifica, seguita da Vibo, Cosenza, Catanzaro e Reggio.

    Reddito di cittadinanza: Calabria e numeri

    Nella regione con una storia antica di emigrati – quelli la cui vita era legata “alla catena di montaggio degli dei”, come scriveva Franco Costabile – e con livelli altissimi di disoccupati, sono ben 62.548 i nuclei familiari che vivono grazie al reddito di cittadinanza, che il governo ha annunciato di cancellare. Per maggiore precisione, secondo i dati forniti dal report “Monitoraggio sul reddito di cittadinanza” aggiornato al 2019, sono 149.626 le persone in Calabria che affidano la propria dignità a quella forma di sostegno economico.

    Nella terra dei “prenditori”

    Considerata la fragilità dell’economia calabrese, quante possibilità hanno di trovare un lavoro? Togliere loro il Reddito di cittadinanza si traduce nel costringerli ad emigrare, oppure ad accettare condizioni di lavoro lontanissime dai livelli accettabili di dignità.
    Questa terra è piena di “prenditori” che piomberanno famelici su questo esercito di persone senza tutele di alcun genere, esattamente quelli che fin qui si sono lamentati di non trovare lavoratori perché “sdraiati sul divano”.

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    Un meme pubblicato sulla pagina Fb “Sostituire frasi di Fisher a quelle di Coelho sulle foto degli influencer”

    E qui giungiamo all’aspetto più attuale e tragico: l’etica del lavoro, con la quale ci hanno sempre ingannato spiegandoci che solo il lavoro rende autenticamente liberi, è finita. Al suo posto è rimasto il moralismo che condanna l’ozio del divano, il reddito senza la fatica, in un mondo in cui il lavoro non c’è più. Aumenteranno i poveri e la disperazione sociale, che la destra si è mostrata storicamente più brava a trasformare in consenso.

  • Mezzogiorno di vuoto: tra dire e fare ancora 0-0

    Mezzogiorno di vuoto: tra dire e fare ancora 0-0

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    Quanto una prevalente impostazione culturale a carattere umanista ha contribuito a insediare e consolidare l’impianto individuale e collettivo del Mezzogiorno? Non è soltanto l’appartenenza a un insieme di radici che affondano e si intrecciano fra loro a partire dal mondo ellenico e ebraico e quindi cristiano attraverso inestricabili sentieri sincretici via via tracciati e ritracciati a marcare la differenza con gli imprinting dell’illuminismo e del protestantesimo.

    La cultura del fare, il riconoscere nella dimensione imprenditoriale e industriale una galassia comportamentale che impregna di sé i vari ambiti della vita dell’uomo è non solo una visione del mondo ma interessa dalle fondamenta, conseguentemente, architetture istituzionali e modi di stare in esse.

    Non solo Pensiero meridiano

    Nel Mezzogiorno, complici concause di non marginale importanza quali la forte impronta impressa da dominazioni particolarmente grevi e strutture fisico morfometriche non incoraggianti la socializzazione, il richiamo di Franco Cassano al Pensiero Meridiano hanno rappresentato pleonasticamente, anni fa, l’apertura a un insieme di paradigmi che in verità era iscritto nel suo DNA fin dalle origini. E la stessa forse ormai superata (forse) polemica sull’osso e la polpa, fra (presunta) vocazione agraria e opzione industriale che Manlio Rossi Doria agitò decenni fa altro non è che l’altra faccia della medaglia, la rappresentazione di quanto di recente ha riproposto Giuseppe Lupo del gruppo che fa capo alle posizioni di Adriano Olivetti e del suo stretto collaboratore Leonardo Sinisgalli.

    Cosa può fare la letteratura?

    Echi tutt’altro che silenti di questo dualismo, di un dibattito che a volte affiora ma nel complesso non decolla, si avvertono in parte della letteratura meridionale di oggi dove produzioni riconducibili a Rea, Ottieri, Volponi, non sono rinvenibili né forse mai esistite. E la letteratura, la forma romanzo, è, lo sappiamo, non soltanto fiction né semplice evasione: contiene in sé potenti capacità di coinvolgimento, sintesi, rappresentazione del detto così come del non detto. Senza disturbare mostri sacri e intoccabili, senza chiamare in causa Benedetto Croce e i numerosi epigoni, come qualcuno forse spericolatamente ha fatto, è facile in ogni caso individuare nelle stesse organizzazioni politiche e nei loro impianti statutari oltre che nelle piattaforme programmatiche una sorta di consecutio del magistero in cui domina il pensare sul fare, la teoria sul pragmatismo.

    Se pure sono plausibili queste riflessioni, per forza di cosa schematiche fino all’apparire brutali (mi rendo conto), nel frattempo il fare è diventato sempre più difficile, meno praticabile, il pensare s’è arrestato alla fine della storia o al “www” senza frontiere. Ripensare a Croce con la lente dei giorni nostri potrebbe essere la chiave.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

    «Occupabile sarà lei!»: la povertà diventa status

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    Un nuovo soggetto rivoluzionario si aggira per l’Italia: l’occupabile.
    Si tratta, secondo la previsione normativa, di “soggetti sani, dall’età anagrafica compresa tra i 18 anni e i 59 anni che non abbiano nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni di età, che non svolgano un’attività lavorativa (sia autonomamente che come subordinati) e che non frequentino un corso di studi o di formazione”.

    L’occupabile e il reddito di cittadinanza

    A leggere la lista dei requisiti, sembrerebbe tutto sommato una categoria di fragilità minore.
    E invece no perché, nel frattempo, sono diventati oggetto di una contesa che sta a metà tra la logica economica tout court e il peggiore paraculismo burocratico Italian style. Si tratta infatti di un esercito di ben 660mila unità destinate, nella migliore delle ipotesi, a ricevere il sussidio del Reddito di Cittadinanza, condizionato e non oltre gli 8 mesi, in attesa dello stop definitivo previsto, per gli occupabili, nel 2024.

    E se il lavoro non c’è?

    Ora la domanda è: ma l’occupabile, comunque disoccupato perché non trova lavoro, perché dovrebbe perdere il sussidio? Solo perché non ha malattie, figli disabili o genitori a carico?
    La sensazione, triste, è che solo lo scivolamento verso la povertà assoluta possa rendere, di fatto, gli occupabili destinatari del reddito di cittadinanza.
    Se l’economia non genera lavoro, che senso ha ancorare il destino di tante persone a questa formula odiosa dell’occupabile?

    Un futuro paradossale

    La beffa delle moderne politiche attive del lavoro è tutta qui: dato il rallentamento della crescita e la pre-recessione, considerato che è difficile trasformare gli occupabili in occupati, solo chi certificherà e documenterà la propria povertà potrà accedere ai sussidi.
    Paradossalmente, quindi, la povertà deve diventare status per trasformarsi in diritto al sussidio.
    Occupabili di tutta Italia unitevi: la povertà è il vostro futuro.
    Con buona pace di Keynes, moltiplicatori, acceleratori e pieno impiego.

  • Marcia su Roma e cifre tonde: un imbarazzante spauracchio

    Marcia su Roma e cifre tonde: un imbarazzante spauracchio

    Gli addetti ai lavori l’avevano ovviamente previsto (anzi, direi, “messo in conto”, un po’ nel bene e un po’ più in mala fede). Gli osservatori attenti se ne saranno accorti in tempo. La restante fetta di fruitori percepisce, assorbe acriticamente e poco elabora, in ossequio alla distinzione già aristotelica fra chi possiede logos e chi solo doxa, opinioni: in vista del centenario della marcia su Roma, gran parte dell’editoria italiana (non soltanto scientifica) si è prodigata in pubblicazioni a tema mussoliniano e/o fascista, declinate ora sul romanzesco, ora sull’equilibrismo tra il censorio e il garbato coccodrillismo.

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    La vetrina di una libreria

    In coda, istituzioni culturali, società storiche, archivi di Stato, deputazioni di Storia patria, obbligati a fare i conti con due numeri di 8 cifre assai simili (28101922 e 28102022), in virtù del mai sopito potere seduttivo del sistema decimale. I due numeri non sono utenze telefoniche e tuttavia hanno chiamato la suddetta compagine all’appello. Qual è il risultato? È un altro dato prevedibile, per alcuni: ovvero che del fascismo non si sa ancora parlare.

    Del fascismo non si sa ancora parlare

    Questo profluvio di pubblicazioni e di convegni, ha indici e programmi la cui eloquenza lascia quasi sempre abbastanza a desiderare, al netto del prestigio di taluni contributori. Si tratta perlopiù di retrospettive su questo o quello specifico personaggio, su questo o quell’evento relativo agli albori del fascismo o – fuori luogo – su qualche parentesi resistenziale che poco c’entra col centenario.

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    Saluti romani a Predappio, città natale di Benito Mussolini, in occasione del centenario della marcia su Roma

    Sia chiaro sin d’ora: ovviamente solo forzanovisti, casapoundisti e compagnia marciando potrebbero auspicare una vera e propria “celebrazione” della ricorrenza anziché un mero riferimento asettico e di riflessione. E ci mancherebbe altro: non è questo il punto. Il punto è che cent’anni – diciamo pure un’ottantina – sono serviti assai poco a formare una seria coscienza critica rispetto alla salita al potere del regime fascista.

    Duelli e imbarazzi

    Qualcuno lo temeva e prevedeva già negli anni ’50: l’Italia non farà mai i conti col Ventennio, senza riuscire mai ad elaborare e metabolizzare tutto l’accaduto e soprattutto le ragioni dello stesso, e resterà stretta nella morsa del manicheismo fra buoni e cattivi, fra belli e brutti, rossi e neri (con prevedibile gioia dei bianchi, poiché tertium datur eccome!). La qual cosa riesce, oltre che ingiusta, anche un po’ ridicola e finanche imbarazzante per i protagonisti di tanta parte della storia politica – e culturale – dell’Italia repubblicana, tenuto conto del camaleontismo italico, dell’epurazione all’acqua di rose, dell’amnistia firmata Togliatti eccetera.

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    Il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (FdI) posa in occasione del giuramento

    Il caso vuole – e questo è proprio un caso – che l’anniversario cada all’alba di un governo di destra, e ciò rende a molti ancora più imbarazzante un riposizionamento visibile (e allora, pensano gli stessi molti: meglio non farsi vedere affatto, almeno per un po’). Questo è il guaio: che di talune cose o si parla con una certa colorazione o non se ne può parlare affatto, con tutta la pavida ottusità di ritenere che parlare di un fascista significhi per forza vestirsi da fascista, neofascista o nostalgico che dir si voglia, senza distinguere la biografia dall’agiografia: ma che candore!

    Una scelta di comodo

    Di certi argomenti, insomma, non si riesce ancora a parlare con la dovuta e auspicabile serenità, sopraffatti da decenni di vulgata monocorde, comprensibile per via di una sedimentazione ideologica e pertanto culturale decennale: una stratificazione in cui abbiamo “imparato” a dare per scontati alcuni dati di fatto (o non-fatto) e meno altri; alcune certezze assai più apparenti che reali. Perché? Perché è comodo, perché è facile e rasserenante scegliere la via più breve. La quale, però, a ben vedere è la stessa identica via breve che – mutatis mutandis – può sempre portare a scorciatoie molto accidentate e pericolose.

    La marcia su Roma e la prova generale a Napoli

    Sto uscendo forse dal mio stesso seminato e certamente sto rimanendo sul vago. Ma, per essere più specifico, il tema meriterebbe un trattato che non ho il tempo di scrivere (né, francamente, tutta questa gran voglia). La marcia su Roma, si sa, ha radici più vecchie e anche poco mussoliniane: fu D’Annunzio a concepirla già un anno prima, e a programmarla per il 4 novembre ’22 prevedendovi anzitutto l’adesione di reduci e combattenti. E proprio a D’Annunzio i vari De Ambris, Balbo, Michele Bianchi e Dino Grandi avrebbero conferito per l’occasione la direzione degli squadristi.

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    Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi ne “La marcia su Roma” (Dino Risi, 1962)

    Curiosamente o, anzi, assai comprensibilmente, sopravvivono più fotografie della “prova generale” della marcia che della marcia stessa: intendo quel Congresso tenuto a Napoli, in piazza del Plebiscito, pochi giorni prima. E mica c’era solo la spina nel fianco del reducismo che chiedeva conto del suo sacrificio: ragionevole era pure l’appoggio offerto al fascismo da parte degli industriali o dell’aristocrazia e della borghesia, per non dire della monarchia e del Vaticano. Chi meglio di un movimento nuovo, progressista, anticlericale e antisocialista – come appunto il fascismo degli albori, sottolineo degli albori – avrebbe potuto ispirare fiducia?

    Fascisti insospettabili (o quasi)

    Si pensi che tra i maggiori oblatori in favore della causa fascista ritroviamo aziende e privati oggi insospettabili (o quasi), ad esempio Voiello, Cirio, Citterio, Peroni, Cinzano, Wührer, Pedavena, Piaggio, FIAT, Isotta Fraschini, Paravia, Lips Vago, Manetti & Roberts, Rueping, e ancora il comm. Luigi Bertarelli, fondatore del Touring Club, nonché esponenti dell’aristocrazia fiorentina e marchigiana come i Ricasoli, gli Strozzi, i Ginori, i Della Gherardesca, i tre conti Gentiloni Silverj e i tre conti Tomassini. Perché mai i vari gruppi di potere o comunque ‘diffusi’ e con interessi da tutelare non avrebbero dovuto assicurarsi la propria fetta di appoggio, una propria garanzia? Era più che lecito cercare altri interlocutori politici, oltre a quelli già presenti e non ostili.

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    Cosenza, piazza XXV luglio, già piazza XXVIII ottobre (rione Michele Bianchi)

    Fin troppo semplice istruire un processo alle intenzioni e giudicare i fatti a un secolo di distanza, con la cognizione maturata, a posteriori, di ciò che il fascismo divenne nel corso del Ventennio, di quali furono le sue pecche e quali i danni che procurò al Paese. Bisogna invece calarsi in quel preciso frangente storico e guardare i fatti con gli occhi di chi li vedeva accadere sul momento. Nessuno aveva la sfera di cristallo né nel 1919, al momento della fondazione del movimento, né quando si preparava e si attuava la marcia, né quando i fascisti entrarono in parlamento e nemmeno con le varie violenze perpetrate prima d’allora. No, nemmeno con quelle, ché non erano le uniche.

    Il delitto Matteotti come spartiacque

    La percezione del vero – o del nuovo – volto del fascismo fu indiscutibilmente chiara al grande pubblico soltanto nel 1924 con l’omicidio Matteotti. Pochi, prima del 28 ottobre, avrebbero previsto la longevità che un regime, dalle fattezze oggi note, avrebbe riservato. Tanti vi credettero in buona fede. In ogni caso, di marcia si parlò e poco più che di una marcia si trattò, a dispetto di qualche narrazione fin troppo gloriosa e apologetica rispetto al reale evento. Un film non notissimo ma esemplare, riesce a restituire perfettamente la natura della partecipazione alla marcia, attraverso le maschere di Vittorio Gassman e di Ugo Tognazzi nella pellicola tragicomica di Dino Risi intitolata, appunto, La marcia su Roma (1962).

  • Autonomia ed energia, una rima (anche) per la Calabria

    Autonomia ed energia, una rima (anche) per la Calabria

    La buona notizia è che la Calabria, fra fonti rinnovabili, idroelettrico e altre fonti non fossili, produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Addirittura siamo al 42% sulle rinnovabili, dato che ha entusiasmato Younous Omarijee, presidente della Commissione Europea per lo Sviluppo Regionale, di recente in visita in Calabria. Evviva, verrebbe voglia dire. E invece no. Anzi quasi.
    Tutto bello, certo, se non fosse che, per il tramite di alcune datate convenzioni con scadenze non proprio dietro l’angolo, la Regione Calabria ha affidato ad una società per azioni lombarda, la A2A, quotata in borsa e con 7 miliardi di fatturato, la gestione dei propri bacini idroelettrici.

    L’acqua verso Nord e la Calabria a secco

    Primo risultato? In forza di tali convenzioni, l’A2A, legittimamente sia chiaro, destina il grosso della produzione di energia elettrica verso il Nord utilizzando l’acqua dei nostri invasi. Secondo risultato? Accade che a causa dei mutamenti climatici e quindi in piena siccità e parallela crisi idrica, ci si ritrovi con i laghi quasi completamente svuotati. E con città come Crotone che, ad esempio, rischiano la paralisi degli approvvigionamenti idrici per uso domestico e agricolo. A penalizzarci è una convenzione che orienta l’utilizzo delle risorse idriche (nostre) verso priorità diverse da quelle espresse dalle esigenze sociali e produttive del territorio.
    Le domande che ora vorremmo porre sono quasi banali. Per esempio: attesa l’eccezionalità della situazione meteo, i termini di queste convenzioni non possono essere rivisitati per intervenuta eccessiva onerosità o, magari, per distorsione della relazione sinallagmatica fra le parti contraenti?

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    Sila, il lago Ampollino svuotato

    L’autonomia passa dall’energia: la Calabria e l’esempio del Veneto

    In attesa che qualche giurista risponda al quesito, vorremmo lanciare una proposta chiara e forte. Visto che produciamo più energia di quella a noi oggettivamente necessaria, perché non pensiamo ad una autonomia differenziata che ci veda protagonisti e non spaventati da quello che il Nord e/o il Ministro Calderoli potrebbero architettare ai nostri danni? Sapete che il Veneto ha già approvato una legge che dispone il trasferimento della proprietà delle centrali idroelettriche alla Regione? Sapete che il presidente Zaia impazza già sui social rivendicando l’evento come primo passaggio verso l’autonomia della Regione Veneto?

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    Luca Zaia posa con un militante durante una manifestazione in favore dell’autonomia del Veneto

    Un gestore pubblico tutto calabrese

    E perché la Calabria non dovrebbe riscoprirsi coraggiosamente autonoma e, addirittura, visto il surplus energetico, regione fornitrice dell’intero mercato nazionale, nel settore delle rinnovabili, atteso che sole, vento e correnti marine non sembrano proprio mancarci? E chiaro o no che la tendenza di scenario, tra Agenda Onu 2030 e PNRR, muove inarrestabile verso la transizione ecologica e la sostenibilità?
    Perché non costituire, da subito, un soggetto pubblico calabrese per la captazione, trasformazione, stoccaggio e distribuzione di energia derivante da fonti rinnovabili visto che le risorse naturali sono nostre e soprattutto non rare?

    Indipendenti, non col cappello in mano

    Attenzione a non giocare la solita partita vittimistica dell’autonomia differenziata e del Sud depredato. Cambiamo modulo di gioco: per la prima volta, nella nostra storia, proviamo a riscoprirci autonomi ed intraprendenti anziché genufletterci all’A2A di turno per pietire, con il solito cappello in mano ormai sgualcito, volumi aggiuntivi di acqua o di energia visto che, soprattutto, parliamo di risorse nostre.
    E poi magari, nel frattempo, stiamo attenti a non dimenticare che lo stesso soggetto pubblico potrebbe, anzi dovrebbe, avviare la pianificazione degli investimenti necessari a giocare la partita energetica del futuro: quella sull’idrogeno.
    La Calabria regione leader, in Italia, nelle energie rinnovabili. Dai, proviamo a regalare una prospettiva, un lavoro e un sogno alle nuove generazioni calabresi. I calabresi siamo noi.

  • Staine assessore, per la Lega festa o funerale?

    Staine assessore, per la Lega festa o funerale?

    «Saccomanno: Lega Calabria si stringe attorno al suo assessore Emma Staine». A leggere una cosa del genere, vien difficile pensare a festeggiamenti. Qualcuno potrebbe addirittura pensare a un lutto. L’amena frase è il titolo, invece, del comunicato inviato alle redazioni dai vertici regionali del Carroccio per celebrare l’ingresso ai piani alti della Cittadella della suddetta Staine. Sarà lei a prendere il posto della leghista reggina Tilde Minasi nella Giunta di Roberto Occhiuto. E chissà se, per sicurezza, leggendo la nota del suo partito non abbia provveduto a telefonare ai suoi cari per sincerarsi della loro salute.

    Da Minasi a Staine: le parole della Lega

    Il comunicato prosegue con toni meno funerei, ma non troppo. «In occasione del “passaggio delle consegne” tra Tilde Minasi e il nuovo assessore Emma Staine, tutta la dirigenza della Lega ha voluto essere presente per manifestare la vicinanza e la costruzione di una squadra forte che possa sostenerla nel migliore dei modi. Una manifestazione (commemorazione?, nda) sobria, ma molto importante e significativa in quanto si è, finalmente, valorizzata la militanza, l’appartenenza e il merito».

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    L’email della Lega

    Spazio quindi ai presenti alla cerimonia, «dal commissario regionale Giacomo Francesco Saccomanno alla senatrice Tilde Minasi, al deputato Domenico Furgiuele, al consigliere regionale Pietro Raso». Amici che per l’occasione «hanno manifestato il gradimento della scelta operata direttamente dal segretario federale Matteo Salvini ed hanno ringraziato il precedente assessore Tilde Minasi per quanto fatto ed hanno augurato un forte buon lavoro alla Staine, garantendo sostegno e partecipazione. Tanto entusiasmo (sic) per la nuova avventura che, certamente, porterà buoni risultati alla Calabria e che vedrà la Lega anche interessata della difficile materia del nuovo settore dei trasporti».
    Non fiori, ma opere (pubbliche) di bene. Si dispensa dalle visite istituzionali?